Capitolo IV
Come lo sviluppo del capitalismo conduca alla rivoluzione comunista

26. Il capitale finanziario - 27. Il capitalismo - 28. Il militarismo - 29. La guerra imperialista degli anni 1914-1918 - 30. Il capitalismo di Stato e le classi - 31. Lo sfacelo del capitalismo e la classe operaia - 32. La guerra civile - 33. Le forme della guerra civile e le sue spese - 34. Dissolvimento generale o comunismo?

26. Il capitale finanziario

Come già vedemmo, fra i singoli capitalisti vi furono sempre continue lotte per il compratore, nelle quali lotte vincevano sempre i grandi capitali­sti. I piccoli capitalisti andavano in rovina mentre il capitale e tutta la pro­duzione si concentravano nelle mani dei capitalisti maggiori. (Concentrazione e centralizzazione del capitale). Verso gli ultimi decenni del secolo scorso il capitale era già abbastanza centralizzato. Al posto delle imprese individuali apparvero in grande numero le società anonime, cioè "cooperative per azioni", le quali erano naturalmente società di capitalisti. Quale è il loro significato? E dove vanno ricercate le loro origini? La rispo­sta non è difficile. Ogni nuova impresa doveva disporre subito di un capitale relativamente grande. Una impresa che si costituiva con scarsi capitali aveva poche probabilità di poter resistere alla concorrenza dei grandi capitalisti che la stringevano da tutte le parti. Perciò ogni nuova impresa, che volesse vivere e prosperare, doveva essere fin dal principio organizzata su vasta scala. Ma ciò non era possibile se essa non disponeva di un forte capitale. Da questa necessità nacque la società per azioni, la cui essenza sta nel fatto che in essa alcuni grandi capitalisti mettono in valore i capitali dei piccoli capi­talisti, e perfino i risparmi dei gruppi non capitalistici (piccoli borghesi, con­tadini, impiegati ecc.). Ciò avviene nel modo seguente. Ognuno versa una o più quote e riceve in cambio un titolo, chiamato "azione", che gli dà il diritto di usufruire di una parte dei guadagni. In questo modo si ottiene, per l'ac­cumulazione di tante piccole somme, un grande "capitale sociale".

All'apparire di queste società, molti scienziati borghesi ed in seguito an­che i socialisti riformisti dichiararono che era incominciata una nuova epoca: il capitale non avrebbe più condotto al dominio di un piccolo gruppo di capitalisti, ma ogni salariato o stipendiato avrebbe potuto acquistare con i suoi risparmi azioni e sarebbe così diventato capitalista. Il capitale divente­rebbe sempre più "democratico" ed in ultimo scomparirebbe senza rivolu­zione la differenza fra capitalista ed operaio.

Lo sviluppo delle cose dimostrò invece che tutte queste profezie erano assurde. Avvenne proprio il contrario. I grandi capitalisti sfruttarono sem­plicemente i piccoli per i loro scopi, e la concentrazione del capitale pro­gredì ancora più rapidamente di prima, poiché adesso entravano il lotta fra di loro anche le grandi società per azioni.

È facilmente comprensibile come i grandi azionisti siano riusciti a fare dei piccoli azionisti i loro satelliti. Spesso i piccoli azionisti sono residenti in un'altra città e non sono in grado di fare un viaggio di centinaia di chilome­tri per partecipare ad un'assemblea di azionisti. Ma anche quando un certo numero di piccoli azionisti interviene, essi non sono organizzati. I grandi azionisti invece sono organizzati e riescono perciò a realizzare tutti i loro piani. L'esperienza ha dimostrato che ai grandi azionisti basta avere un terzo delle azioni nelle proprie mani per essere i padroni incontrastati della intiera azienda.

Ma la concentrazione e centralizzazione del capitale non si arresta qui. Negli ultimi decenni al posto dei singoli imprenditori e delle società ano­nime sorsero intere associazioni di capitalisti, i cosiddetti sindacati ed i tru­sts.

Supponiamo che in un ramo dell'industria, per esempio nell'industria tessile od in quella metallurgica, siano scomparsi tutti i piccoli capitalisti e siano rimaste soltanto cinque o sei delle maggiori imprese a sostenere tutta la produzione. La concorrenza che si svolge fra queste imprese ha per effetto che i prezzi diminuiscono e quindi il profitto diventa minore. Supponiamo ora che alcune di queste imprese siano più forti delle altre. In tal caso le più forti continueranno la lotta di concorrenza finché le imprese minori siano distrutte. Ora supponiamo che tutte le imprese abbiano su per giù la stessa forza: esse avranno presso a poco la stessa produzione, le stesse macchine, lo stesso numero di operai, e quindi anche il prezzo di costo sarà uguale per i concorrenti. In tale caso la lotta non può essere vinta da nessuno, ma esauri­sce tutti nella stessa misura; il profitto di tutti diminuisce. I capitalisti ven­gono quindi a questa conclusione: perché dobbiamo guastarci reciprocamen­te i prezzi? Non sarebbe meglio per noi di unirci e derubare il consumatore in comune? Infatti se noi ci uniamo non vi sarà più concorrenza, ed essendo tutte le merci nelle nostre mani potremmo far salire i prezzi a beneplacito nostro.

In questo modo sorge un'associazione di capitalisti: il sindacato o il trust. Fra sindacato e trust c'è questa differenza. I capitalisti organizzati in sindacato stabiliscono di non vendere le merci al disotto di un dato prezzo, di dividersi tra loro le ordinazioni o di ripartirsi il mercato ecc.; ma la dire­zione del sindacato non ha il diritto, per esempio, di chiudere uno stabili­mento e ogni membro del sindacato conserva fino a un certo punto la sua indipendenza. Nel trust invece l'unione è così stretta che ogni singola im­presa perde la sua autonomia: la direzione del trust ha il diritto di chiuderla, di organizzarla in altri casi, di trasferirla altrove, se ciò può riuscire utile agli interessi complessivi del trust. Il proprietario dell'impresa continua a godere del suo profitto, il quale può anzi aumentare; ma su tutto impera la stretta e salda unione dei capitalisti, il trust.

I sindacati ed i trusts dominano quasi interamente il mercato. Essi non temono nessuna concorrenza, dato che l'hanno completamente distrutta. Al posto della concorrenza è subentrato il monopolio capitalistico cioè il do­minio di un trust.

In questo modo la concorrenza è stata lentamente distrutta dalla concen­trazione e centralizzazione del capitale. La concorrenza ha consumato sé stessa. A misura che essa si accentuava, progrediva la centralizzazione, poi­ché i capitalisti più deboli andavano più presto in rovina. In ultimo la con­centrazione del capitale, provocata dalla concorrenza, uccise la concorrenza stessa. Al posto della libera concorrenza subentrò il dominio delle associa­zioni monopolistiche dei sindacati e dei trusts.

Basta citare alcuni esempi per dimostrare l'enorme potere che hanno i trusts ed i sindacati. Negli Stati Uniti la parte che i sindacati ebbero nella produzione del 1900, quindi già al principio del secolo XX, era la seguente: nell'industria tessile più del 50 per cento; in quella del vetro il 54 per cento; in quella della carta il 60 per cento; in quella metallurgica l'84 per cento; in quella siderurgica l'84 per cento; in quella chimica l'81 per cento, ecc. Tale percentuale è naturalmente nel frattempo enormemente aumentata: infatti, l' intera produzione dell'America è ora concentrata nelle mani di due trusts , del trust della nafta e di quello dell'acciaio, e da questi due trusts dipendono tutti gli altri. In Germania il 92,6 per cento della produzione del carbone nel bacino renano-vestfalico era nel 1913 nelle mani di un solo sindacato; il sin­dacato dell'acciaio produceva quasi la metà dell'acciaio prodotto in tutto il paese; il trust dello zucchero produceva il 70 per cento per il mercato interno e l'80 per cento dell'esportazione, ecc.

Perfino in Russia una serie d'industrie si trovava sotto dominio mono­polistico dei sindacati. Il sindacato "Produgol" forniva il 60 per cento di tutto il carbone del Donetz; il sindacato "Prodameta" raggruppava l'88,93 per cento; la "Krowlija" il 60 per cento (lamiere ondulate): la "Prodwagon" centralizzava 14 su 16 imprese di costruzione, il sindacato del rame produ­ceva il 90 per cento; il sindacato dello zucchero l'intera produzione (100 per cento), ecc. Secondo i calcoli di uno scienziato svizzero, già al principio del secolo XX la metà di tutti i capitali del mondo si trovavano nelle mani di sindacati e di trusts.

I sindacati e trusts non centralizzano soltanto imprese di una sola indu­stria. Sempre più frequentemente si formano dei trusts che comprendono varie industrie. Come avviene ciò?

Tutti i rami di produzione sono collegati per mezzo della compera e vendita. Prendiamo per esempio la produzione della ghisa e dell'antracite. Qui si tratta di un prodotto che serve come materia prima alle fonderie ed agli stabilimenti metallurgici; queste ultime costruiscono macchine che ser­vono alla loro volta a vari altri rami d'industria. Supponiamo d'esser proprie­tari di una fonderia di ferro. Questa compera ghisa e carbone. Essa ha quindi interesse a comperare questi materiali a buon mercato. Ma come fare se la ghisa ed il carbone si trovano nella mani di un altro sindacato? In tal caso, fra i due sindacati si inizia una lotta che termina o con la vittoria di un sin­dacato sull'altro o con la loro fusione. In un caso come nell'altro sorge un nuovo sindacato che abbraccia due branche produttive. In questo modo si possono naturalmente unire non soltanto due, ma anche tre o dieci industrie. Imprese di questo genere si chiamano imprese composte o anche "combinate".

I sindacati ed i trusts non organizzano dunque soltanto singole indu­strie, ma uniscono anche varie industrie in una sola organizzazione, colle­gano una branca di industria con una seconda, terza, quarta, ecc. In altri tempi gli imprenditori erano in tutti i campi indipendenti uno dall'altro, e tutta la produzione era spezzettata in centinaia di migliaia di piccole fabbri­che. Verso il principio del secolo XX questa produzione era già concentrata in giganteschi trusts, che abbracciavano molte branche industriali.

La fusione dei vari rami dell'economia non avveniva soltanto mediante la formazione di imprese "combinate". Occorre qui esaminare un fenomeno che è più importante di queste imprese combinate: la dominazione delle banche.

Dobbiamo però far precedere qualche osservazione sulle banche stesse.

Noi abbiamo già visto che dopo che la concentrazione e centralizzazione del capitale ebbe raggiunto un alto grado di sviluppo, si fece sentire il biso­gno di forti capitali per la fondazione di nuove imprese su larga base. (Del resto tale bisogno diede origine anche alle società per azioni). L'organizza­zione di nuove imprese richiedeva sempre maggiori capitali.

Ora vediamo come il capitalista impiega il suo profitto. Una parte egli la consuma personalmente per il suo nutrimento, vestiario, ecc., il resto l'ac­cumula. In qual modo avviene questa accumulazione del profitto? È egli in qualsiasi momento in grado di ingrandire la sua azienda, di investire questa parte del suo profitto? No, per la semplice ragione che il profitto gli affluisce bensì continuamente ma a gradi, a mano a mano che viene prodotta e vendu­ta la merce. Ma il profitto deve raggiungere una certa altezza prima di poter essere impiegato per l'ingrandimento dell'azienda. Fino allora il denaro non può venir utilizzato, e giace inerte nei forzieri. E ciò non avviene soltanto per un capitalista, ma per tutti. Vi è sempre capitale disponibile. Ma, come abbiamo visto sopra, vi è anche una richiesta di capitale. Da una parte vi so­no sempre delle somme superflue che rimangono inutilizzate e dall'altra vi è sempre una richiesta di denaro. Quanto più presto si centralizza il capitale, tanto maggiore è la richiesta di grandi capitali, tanto maggiore è la quantità del capitale disponibile. Appunto questi fattori aumentano l'importanza delle banche. Perché questo denaro non resti senza frutti, l'industriale lo deposita in una banca e questa lo dà in prestito a quegli industriali che ne hanno bi­sogno per l'allargamento di qualche vecchia azienda o per la fondazione di una nuova. Con l'aiuto di questo capitale i capitalisti spremono dalla forza-lavoro nuovo plusvalore, che permette loro di pagare gl'interessi dei prestiti ricevuti dalla banca, la quale restituisce una parte di tale somma ai suoi creditori, mentre il resto rimane ad essa come profitto bancario. Questo è il funzionamento dell'ingranaggio bancario. Negli ultimi tempi l'importanza e l'attività delle banche è enormemente cresciuta. Le banche assorbono sempre maggiori capitali e li investono nell'industria. Il capitale bancario impiegato nell'industria diventa capitale industriale. L'industria cade così in dipen­denza delle banche che la sostengono e nutrono col loro capitale. Il capitale bancario si fonde col capitale industriale e diventa capitale finanziario.

Il capitale finanziario attraverso le banche unisce tutte le branche d'in­dustria in una misura superiore a quella che avviene per le imprese combi­nate. Per quali ragioni?

Prendiamo una qualsiasi grande banca. Essa finanzia non soltanto una, ma molte imprese e molti sindacati. Essa ha perciò interesse a che queste in­traprese non vengano alle prese fra di loro; la banca le unisce; la sua politica tende continuamente a realizzare la fusione di queste imprese in una orga­nizzazione unica sotto la sua direzione; la banca diviene così padrona di tutta l'industria, di tutta una serie di branche industriali; i fiduciari della banca vengono nominati direttori di trusts, sindacati e singole aziende.

In ultimo ci troviamo in presenza della seguente situazione: tutta l'indu­stria nazionale è unita nei sindacati, trusts ed imprese combinate; il mezzo d'unione sono le banche; alla testa dell'intera vita economica sta un piccolo gruppo di grandi banchieri che dominano tutta l'industria. Ed il potere sta­tale è l'esecutore della volontà di questi finanzieri, dominatori delle banche e dei trusts.

Questo fenomeno può venir osservato molto bene in America . Negli Stati Uniti il governo "democratico" di Wilson non è altro che il servitore dei trusts americani. Il Parlamento non vota che quelle leggi che sono state prima approvate dietro le quinte dei grandi banchieri ed industriali. I trusts spendono somme ingenti per la corruzione dei deputati, per le campagne elettorali, ecc. Uno scrittore americano (Myers) riferisce che nel 1904 ven­nero spesi a scopo di corruzione 364.354 dollari dal trusts di assicurazioni "Mutual", 172.698 dollari dall'"Equitable", 204.019 dal "New York". Il ge­nero di Wilson, il ministro delle finanze Mac Adam è uno dei più grandi banchieri ed industriali. I deputati, senatori, ministri sono semplicemente dipendenti o soci dei grandi trusts. Il potere statale, la "libera repubblica", non è altro che un'organizzazione per lo sfruttamento del popolo.

In conclusione possiamo dire che sotto la signoria del capitale finanzia­rio il paese capitalista si trasforma complessivamente in un enorme trusts combinato, alla testa del quale stanno le banche ed il cui Comitato esecutivo è rappresentato dal potere statale borghese. L'America, l'Inghilterra, la Francia ecc., non sono altro che trusts capitalistici di Stato, potenti organiz­zazioni dei grandi banchieri e magnati industriali, che dominano e sfruttano milioni di operai, schiavi salariati.

27. L'imperialismo

Il capitale finanziario elimina fino ad un certo punto l'anarchia della produzione capitalistica nei singoli paesi. I singoli imprenditori concorrenti si uniscono in trusts capitalistico-statali.

Ma a questo punto qualcuno potrebbe domandare: in tal caso non viene a risolversi una delle antitesi fondamentali del capitalismo? Non abbiamo noi ripetutamente detto che il capitalismo deve trovare la sua fine per man­canza di organizzazione e per essere dilaniato dalla lotta di classe? Ma se una di queste antitesi viene a cadere (vedi §13), il pronosticato tramonto del capitale è ancora possibile.

Gli è però che in realtà l'anarchia della produzione e la concorrenza non vengono affatto eliminate: o meglio, eliminati questi fenomeni da una parte, essi si presentano tanto più accentuati da un'altra. Cerchiamo ora di spiegar ciò dettagliatamente.

L'attuale capitalismo è un capitalismo mondiale. Tutti i paesi dipendono l'uno dall'altro per l'acquisto e la vendita delle merci. Non vi è oggi un solo paese che non sia asservito al capitale, che produca tutto ciò che gli fa biso­gno.

Una quantità di prodotti non sono ottenibili che in determinati paesi. Gli aranci non crescono nei paesi settentrionali, il minerale di ferro non può venir estratto se non dove lo si trova nel sottosuolo. Il caffè, il cacao, ed il caucciù crescono soltanto nei paesi tropicali. Il cotone viene coltivato negli Stati Uniti, nell'Egitto, nelle Indie, nel Turkestan, ecc. donde esso viene esportato in tutti i paesi del mondo. Di carbone dispongono soltanto l'Inghil­terra, la Germania, gli Stati Uniti, la Cecoslovacchia e la Russia. L'Italia, che non ha carbone, dipende sotto questo riguardo dall'Inghilterra e dalla Germania. Il grano viene esportato dall'America, dalle Indie, dalla Russia e dalla Rumenia, ecc.

Oltre a ciò alcuni paesi sono più progrediti degli altri. Questi ultimi di­ventano i mercati per i prodotti industriali di quelli: articoli di ferro e d'ac­ciaio vengono forniti soprattutto dagli Stati Uniti, dall'Inghilterra e dalla Germania; prodotti chimici vengono esportati in prima linea dalla Germania.

In questo modo un paese dipende dall'altro. Fino a quale punto possa spingersi questa dipendenza noi lo vediamo nel caso dell'Inghilterra, che de­ve importare dai 3/4 ai 4/5 delle derrate e metà della carne necessaria per il suo fabbisogno, ed esportare la maggior parte dei suoi prodotti industriali.

La concorrenza sul mercato mondiale viene eliminata dal capitale fi­nanziario? il capitale finanziario con l'associare i capitalisti nei singoli paesi, crea esso una organizzazione mondiale? Certamente no. Con l'orga­nizzazione dei grandi imprenditori in trusts capitalistico-statali viene bensì più o meno eliminata la concorrenza e l'anarchia della produzione, ma sol­tanto per dar luogo ad una lotta ancora più accanita fra gli stessi trusts capi­talistico-statali. Questo è un fenomeno caratteristico della centralizzazione del capitale: con la rovina della singola azienda diminuisce il numero dei concorrenti e in luogo della concorrenza subentra la lotta dei trusts. Il nu­mero di quest'ultimi è bensì inferiore a quello dei singoli capitalisti, ma la loro lotta è tanto più accanita e distruttiva. Una volta che i capitalisti di un paese hanno rovinato tutti i piccoli imprenditori e si sono uniti in un trusts capitalistico statale, il numero dei concorrenti si riduce ancora di più. Come concorrenti si presentano ora le grandi potenze capitalistiche. E la loro lotta ha per conseguenza spese e distruzioni come nessuna altra, poiché la con­correnza dei trusts capitalistico-statali si manifesta in tempo di pace nella gara degli armamenti e sbocca infine nella guerra distruttrice.

Il capitale finanziario distrugge quindi la concorrenza in seno ai singoli Stati ma dà luogo ad una spietata concorrenza fra questi stessi Stati.

Per quali ragioni la concorrenza degli Stati capitalistici deve infine con­durre alla politica di conquista, alla guerra? Perché tale concorrenza non può svolgersi in forme pacifiche? Due fabbricanti che si fanno la concor­renza non si scagliano l'uno contro l'altro con coltelli, ma cercano in una lotta pacifica di portarsi via la clientela. Perché dunque la concorrenza sul mercato mondiale deve assumere una forma così violenta ed armata? Qui dobbiamo innanzi tutto esaminare quali trasformazioni ha dovuto subire la politica della borghesia col trapasso dall'antico capitalismo della libera con­correnza al nuovo caratterizzato dalla dominazione del capitale finanziario.

Cominciamo dalla cosiddetta politica doganale. Nella lotta fra i singoli paesi, il potere statale, che difende sempre i propri capitalisti, aveva già da tempo trovato nei dazi un mezzo di lotta per la propria borghesia. Quando per esempio gl'industriali tessili russi temevano che la concorrenza tedesca od inglese potesse provocare un ribasso dei prezzi, il Governo servizievole si affrettava a gravare i tessuti inglesi e tedeschi di un forte dazio. Questi dazi ostacolavano naturalmente l'importazione di merci straniere in Russia. Gl'industriali dichiaravano i dazi essere necessari come protezione della in­dustria indigena. Ma se noi consideriamo più da vicino come stanno le cose nei vari paesi, vediamo che vere ragioni sono tutt'altre. Non fu un semplice caso che proprio i paesi più grandi e più potenti, in prima linea l'America, abbiano introdotto dazi proibitivi. La concorrenza estera avrebbe realmente potuto danneggiarli?

Supponiamo che l'industria tessile di un paese sia monopolizzata da un sindacato o trust. Quali conseguenze ha qui l'introduzione di un dazio? I capitalisti pigliano in questo caso due piccioni con una fava: in primo luogo essi si sbarazzano della concorrenza estera, ed in secondo luogo possono aumentare senza alcun rischio di tutto l'importo del dazio i prezzi della pro­pria merce. Supponiamo che il dazio per un metro di qualche tessuto venga aumentato di un rublo. In questo caso i capitalisti dell'industria tessile pos­sono senz'altro aumentare il prezzo della propria merce di un rublo o di no­vanta kopeki al metro. Se non esistesse il sindacato, la concorrenza dei sin­goli capitalisti determinerebbe automaticamente un equilibrio dei prezzi. Il sindacato invece può senz'altro aumentare il prezzo; lo straniero rimane lon­tano perché il dazio è troppo alto e la concorrenza interna è stata eliminata. Lo Stato capitalista mediante i dazi aumenta i suoi introiti ed il sindacato con l'aumento dei prezzi realizza un sopraprofitto.

Dato questo sopraprofitto i baroni dei sindacati sono in grado di espor­tare le loro merci e di vendere all'estero sotto costo allo scopo di soppiantare i loro concorrenti anche nei paesi stranieri. Così per esempio il sindacato russo dello zucchero teneva in Russia i prezzi relativamente alti mentre in Inghilterra vendeva lo zucchero a prezzo molto basso allo scopo di battervi la concorrenza. Tanto è vero che circolava il detto che in Inghilterra si alle­vavano i maiali con lo zucchero russo. Per mezzo dei dazi i baroni dei sin­dacati sono quindi in grado di derubare senza posa i propri connazionali e di asservire i compratori stranieri.

Tutto ciò porta gravi conseguenze. È evidente che il plusvalore realiz­zato dai baroni dei sindacati aumenta col numero delle pecore che si lascia­no tosare, chiuse entro i confini doganali. Se questa barriera racchiude sol­tanto un piccolo territorio, il profitto non sarà grande. Se invece essa ab­braccia un vasto territorio con una grande popolazione, il guadagno realiz­zabile sarà corrispondentemente grande e permetterà di operare sul mercato mondiale con arditezza e con la prospettiva di un sicuro successo. Gli è per­ciò che la frontiera doganale coincide generalmente col confine statale. Co­me si può allargare quest'ultimo? Come si può togliere ad un altro paese un pezzo del suo territorio ed incorporarlo al proprio organismo statale? Me­diante la guerra! Ne consegue che il dominio dei capitalistici sindacati è sempre congiunto con guerre di conquista. Ogni Stato capitalistico tende ad "allargare i suoi confini". Lo esigono gli interessi dei baroni dei sindacati, gli interessi del capitale finanziario. Ma allargare i confini significa in lin­gua povera fare la guerra.

Così avviene che la politica doganale dei sindacati e trusts, che si in­forma alla loro politica economica sul mercato mondiale, conduce ai più violenti conflitti internazionali. Vi sono però anche altre cause concomitanti.

Noi abbiamo visto che lo sviluppo della produzione ha per conseguenza un continuo accumularsi di plusvalore. In ogni paese capitalista sviluppato aumenta pertanto continuamente il capitale eccedente, che dà qui un minore profitto che in un paese economicamente più arretrato. Quanto più grande è in un paese l'eccedenza di capitale, tanto più forte diventa la tendenza ad esportare il capitale, ad investirlo in un altro paese. Tale tendenza viene grandemente favorita dalla politica doganale.

I dazi protettori ostacolano l'importazione di merci. Quando per esempio i capitalisti russi gravarono di forti dazi le merci d'importazione tedesca, gli industriali tedeschi trovarono grandi difficoltà a vendere le loro merci in Russia.

Che cosa fecero i capitalisti tedeschi vedendosi tolta la possibilità di esportare le proprie merci? Essi cominciarono ad esportare in Russia i loro capitali; costruirono fabbriche ed officine, acquistarono azioni di aziende russe e ne fondarono delle nuove. I dazi erano loro di impedimento in queste operazioni? Nient'affatto. Anzi, nonché impedirle, le favorivano, servivano da allettamento all'importazione di capitali. E ciò per le seguenti ragioni. Il capitalista tedesco, che possedeva una fabbrica in Russia ed era per di più membro di qualche sindacato, trovava nei dazi russi un mezzo di intascare il sopraprofitto; i dazi russi permettevano a lui di derubare i consumatori come ai suoi colleghi russi.

Il capitale non viene esportato da un paese all'altro soltanto per fondarvi od aiutare imprese. Molto spesso il capitale viene prestato allo Stato stra­niero verso interessi (vale a dire lo Stato che contrae un prestito aumenta il suo debito pubblico, e diventa debitore dell'altro Stato). In questi casi lo Stato debitore s'impegna di solito a contrarre tutti i prestiti (specie di guerra) presso i capitalisti dello Stato creditore. In questo modo, fluiscono ingenti capitali da un paese in un altro, dove essi vengono investiti, parte in costru­zioni ed imprese, parte in debito pubblico. Sotto il dominio del capitale fi­nanziario l'esportazione di capitale raggiunge un'enorme estensione.

Come esempio vogliamo addurre alcuni dati, che sono ormai già sorpas­sati ma che ci possono tuttavia dire qualche cosa. La Francia nel 1902 pos­sedeva 35 miliardi di franchi investiti in 26 Stati, di cui circa la metà in forma di prestiti di Stato. La parte maggiore di questi prestiti era stata con­tratta dalla Russia (10 miliardi). (L'odio della borghesia francese contro la Russia dei Soviet si spiega innanzi tutto col fatto che la Russia dei Soviet non riconosce i debiti del Governo czarista e ne rifiuta il pagamento agli usurai francesi). Nel 1905 il totale del capitale esportato raggiungeva già i 40 miliardi. L'Inghilterra possedeva nel 1911 un credito di 1 miliardo e sei­centomila lire sterline, ed insieme alle colonie più di tre miliardi.

La Germania prima della guerra aveva all'estero un capitale di 35 mi­liardi di marchi, ecc. Insomma ogni Stato capitalistico esportava ingenti ca­pitali per saccheggiare con essi altri popoli.

Anche l'esportazione dei capitali è di grande portata politica. Le grandi Potenze cominciano a lottare per la supremazia nei paesi nei quali intendono collocare i propri capitali. Qui bisogna però notare che i capitalisti i quali investono i propri capitali in un paese straniero non rischiano soltanto la perdita di qualche partita di merce, ma quella di enormi somme che ammon­tano a milioni e miliardi. È naturale che ciò susciti in essi il desiderio di as­servirsi completamente i piccoli paesi debitori, di mettere a guardia di questi capitali i propri eserciti. Gli Stati creditori tendono quindi ad assoggettare questi paesi al proprio potere statale, a conquistarli. I diversi grandi Stati rapinatori aggrediscono i piccoli paesi ed è naturale che i concorrenti deb­bano cozzare l'uno contro l'altro (ciò che è infatti avvenuto). Quindi anche l'esportazione di capitali conduce alla guerra.

Con l'introduzione di dazi protezionisti si è rincrudita enormemente la lotta per il possesso dei mercati. Paesi liberi, nei quali si potessero esportare merci o capitali, non esistevano più già sullo scorcio del secolo XX. Aumen­tavano i prezzi delle materie prime, come quelli dei metalli, della lana, del legno, del carbone, del cotone, ecc.. Negli ultimi anni prima dello scoppio della guerra mondiale si era iniziata la caccia agli sbocchi per lo smercio e la lotta per nuove sorgenti di materie prime. I capitalisti di tutto il mondo andavano in cerca di nuove miniere, di nuovi giacimenti di metalli e di nuovi mercati, per esportarvi i propri prodotti industriali e sfruttare nuovi consumatori. In altri tempi le varie imprese concorrevano in un dato paese "pacificamente". Col dominio delle banche e dei trusts le cose hanno cam­biato aspetto. Supponiamo che siano stati scoperti nuovi giacimenti di rame. Vi sarà subito una banca od un trust che si impadronirà di questa nuova ric­chezza e vi stabilirà il suo dominio monopolistico. Ai capitalisti degli altri paesi non resterà che citare il proverbio russo: "Ciò che cade dal carro è per­duto". La stessa cosa avviene non soltanto per le materie, ma anche per i mercati. Supponiamo che in una lontana colonia penetri capitale straniero. La vendita delle merci viene ivi subito organizzata in grande stile. General­mente vi è qualche grande ditta che prende l'iniziativa, dissemina in tutto il paese le sue succursali e cerca, con l'appoggio del potere locale e con mille altri intrighi, di monopolizzare tutto il commercio, tenendo lontani i suoi concorrenti. È chiaro che il capitale monopolista, i trusts e i sindacati, deb­bono agire su vasta scala; sono passati "i bei tempi antichi", e le lotte odier­ne sono quelle dei briganti monopolisti per la conquista dei grandi mercati mondiali.

Per queste ragioni lo sviluppo del capitale finanziario doveva necessa­riamente rincrudire la lotta per la conquista dei mercati e delle fonti di ma­terie prime e condurre ai più violenti conflitti .

Nell'ultimo quarto del secolo XIX i grandi Stati predatori si impossessa­rono di molti piccoli paesi. Dal 1876 al 1914 le cosiddette "grandi Potenze" hanno arraffato circa 25 milioni di chilometri quadrati. La superficie dei territori da essi rubati supera del doppio quella di un intero continente euro­peo. L'intiero mondo è stato diviso fra i grandi predoni: essi hanno trasfor­mato tutti i paesi in loro colonie; in paesi tributari e schiavi.

Ecco alcuni esempi: l'Inghilterra conquistò dal 1870 in poi nell'Asia: Belucistan, Birmania, Cipro, il Borneo settentrionale, alcuni territori presso Hong Kong, ingrandì i suoi "Straits Settlements", annesse la penisola del Sinai, ecc. Nell'Australia essa s'impadronì di una serie di isole, della parte orientale della Nuova Guinea, della parte maggiore delle isole di Salomone, dell'isola Tonga, ecc.; nell'Africa estese il suo dominio sull'Egitto, il Sudan con l'Uganda, l'Africa orientale, la Somalia britannica, Zanzibar, Pemba; es­sa conquistò inoltre le due repubbliche del Transvaal, la Rhodesia, l'Africa centrale britannica, la Nigeria, ecc.

La Francia dopo il 1870 si assoggettò l'Annam, conquistò il Tonchino, annesse Laos, Tunisi, Madagascar, vasti territori del Sahara, del Sudan e della Guinea; acquistò territori sulla Costa d'Avorio, a Dahomè, la Somalia francese, ecc. La superficie delle colonie francesi al principio del secolo XX superava venti volte quella della Francia stessa. Le colonie inglesi sono cento volte più grandi della "madre patria".

La Germania partecipò dopo il 1884 a tutte le imprese brigantesche e riuscì in questo breve tempo a conquistare vasti territori.

Anche la Russia zarista condusse una politica di conquiste, specialmen­te nell'Asia, il che provocò il conflitto col Giappone, che voleva depredare l'Asia dall'altra estremità.

Gli Stati Uniti s'impadronirono da principio di numerose isole in vici­nanza della costa americana, per poi estendere la loro politica di rapina sulla terraferma. Particolarmente infame è la loro politica nel Messico.

La superficie delle sei grandi Potenze ascendeva a 16 milioni di chilo­metri quadrati di territori propri ed a 21 milioni di chilometri quadrati di colonie.

Queste imprese brigantesche colpivano naturalmente in piccolo luogo i piccoli paesi inermi e deboli. Questi perdettero per primi la loro indipenden­za. Come nella lotta fra industriali e artigiani dovettero soccombere questi ultimi, così i piccoli Stati vennero schiacciati dai grandi trusts statali. In questo modo si compì la centralizzazione del capitale nell'economia mondia­le; i piccoli Stati andarono in rovina o perdettero la loro indipendenza, men­tre i grandi Stati briganteschi si arricchivano ed aumentavano la loro este­nsione e potenza.

Ma dopo aver depredato l'intero mondo si accentuò la lotta fra di loro. Doveva incominciare la lotta per la nuova ripartizione del mondo, una lotta a vita o morte, che non poteva esser combattuta che fra le grandi potenze, rimaste padrone del mondo.

La politica di conquista, che il capitalismo finanziario conduce nella sua lotta per i mercati, delle fonti di materie prime e dei territori dove il capitale possa investire le sue riserve, questa politica si chiama imperiali­smo . L'imperialismo si sviluppa dal capitale finanziario. Come la tigre non può nutrirsi di erba, così il capitale finanziario non poteva e non può con­durre un'altra politica che non sia quella della conquista, della rapina, della violenza e della guerra. Ognuno dei trusts capitalistico-finanziarii intende conquistare tutto il mondo, fondare un impero mondiale nel quale domine­rebbe incontrastato un piccolo gruppo di capitalisti della nazione vincitrice.

L'imperialismo inglese per esempio sogna una "più grande Britannia" che dovrebbe dominare il mondo intero e nella quale i padroni dei trusts in­glesi terrebbero sotto la loro sferza Negri e Russi, Tedeschi e Cinesi, Indiani ed Armeni, in una parola, milioni di schivi bianchi, neri, gialli e rossi. L'In­ghilterra è infatti quasi arrivata a questo punto. Mangiando le cresce l'appe­tito. La stessa cosa vale per gli altri imperialismi. Gli imperialisti russi va­gheggiano una "grande Russia", quelli tedeschi una "grande Germania", ecc.

È senz'altro chiaro che in questo modo il dominio del capitale finanzia­rio doveva spingere l'intera umanità a sanguinose guerre a tutto profitto dei banchieri e dei grandi trusts, guerre, che non vennero condotte per la difesa del proprio paese, ma per la conquista dei paesi stranieri, per soggiogare il mondo al capitale finanziario del paese vincitore. Una di queste guerre fu appunto la grande guerra mondiale del 1914-1918.

28. Il militarismo

Il dominio del capitale finanziario, dei banchieri e dei grandi trusts si manifesta ancora in un altro notevolissimo fenomeno: nel continuo aumento delle spese per l'armamento, per l'esercito e la flotta. E ciò è ben compren­sibile. In altri tempi nessuno dei briganti avrebbe nemmeno sognato un do­minio mondiale. Ma ora gli imperialisti sperano di poter realizzare il loro sogno. Ed è perciò più che naturale che essi facciano tutti gli sforzi per esse­re preparati a questa lotta. Le grandi Potenze rubavano continuamente beni altrui, e quindi dovevano stare all'erta affinché uno dei loro vicini, anch'esso animale di rapina, non le aggredisse. Da ciò la necessità per ogni grande Po­tenza di mantenere un forte esercito, non soltanto per le colonie e per tener soggetti i propri operai, ma anche per la lotta contro i propri compagni in brigantaggio. Ogni innovazione, che una Potenza introduceva nel campo militare, suscitava nelle sue concorrenti il desiderio di superarla per non avere la peggio. Da questo reciproco incitamento sorse la pazzesca gara degli armamenti, che diede a sua volta origine alle imprese gigantesche ed ai trusts dei magnati dei cannoni, i Putilof, Krupp, Armstrong, Wikers, ecc. Questi trusts dei cannoni, che realizzano enormi profitti, stanno in intima relazione con gli Stati maggiori dei vari paesi, e cercano in tutti i modi di attizzare il fuoco per provocare sempre nuovi conflitti: poiché dalla guerra dipende il loro profitto.

I trusts statali si circondarono di una selva di baionette; tutto era pronto per la lotta mondiale; le spese per l'esercito e la flotta aumentavano anno per anno nei bilanci di tutti gli Stati. In Inghilterra per esempio le spese per l'esercito e la flotta costituivano nel 1875 il 38,6 per cento, quindi più di un terzo, e nel 1907-1908 il 48,8 per cento, quindi quasi la metà delle spese ge­nerali. Negli Stati Uniti le spese per gli armamenti costituivano il 56,9 per cento, quindi più della metà del bilancio statale. La stessa cosa avveniva negli altri paesi. Il "militarismo prussiano" fioriva in tutti i grandi trusts sta­tali. I magnati dei cannoni tosavano le loro pecorelle, e l'intero mondo anda­va rapidamente incontro alla più tremenda di tutte le guerre, alla carneficina mondiale.

Di particolare interesse era la gara degli armamenti fra la borghesia in­glese e quella tedesca. L'Inghilterra deliberò nel 1912 di costruire tre dread­noughts per ogni due che ne costruiva la Germania.

Le spese per l'esercito e la marina crebbero nei singoli Stati nella se­guente misura (milioni di rubli):

Paese 1888 1908
Russia 210 470
Francia 300 415
Germania 180 405
Austria-Ungheria 100 200
Italia 75 120
Inghilterra 150 280
Giappone 7 90
Stati Uniti 100 200

Nel corso di venti anni le spese aumentarono del doppio, e nel Giappone niente meno che 13 volte. Immediatamente prima della guerra la febbre degli armamenti degenerò in frenesia. La Francia spese nel 1910 502 mi­lioni di rubli per armamenti, nel 1914 740 milioni di rubli. La Germania spese nel 1906 478 milioni di rubli e nel 1914 943 milioni di rubli, cioè il doppio nel corso di otto anni. In una misura ancora maggiore si armava l'In­ghilterra. Nel 1900 essa spese per armamenti 499 milioni di rubli, nel 1910 694 milioni e nel 1914 804 milioni. Nel 1913 la sola Inghilterra spese per la sua flotta più che nel 1886 tutti gli Stati messi insieme. Le spese militari della Russia zarista ascendevano nel 1892 a 293 milioni di rubli, nel 1902 a 421 milioni, nel 1906 a 529 milioni, nel 1914 a 957 milioni.

Queste spese inghiottivano una grande parte delle imposte. La Russia per esempio stanziava per la sua armata più di un terzo del suo bilancio e calcolando gli interessi dei prestiti ancora di più.

Su ogni 100 rubli erano destinati nella Russia zarista:

Per l'esercito, la flotta, pagamento di interessi rubli 40,14
Per l'istruzione pubblica rubli 2,86
Per l'agricoltura rubli 4,06
Per l'amministrazione, la giustizia, la diplomazia, le fer­rovie, il commercio, l'industria, le finanze, ecc. rubli 51,94
Totale rubli 100.00

La stessa cosa noi vediamo negli altri Stati. Prendiamo la "democratica Inghilterra". Nel 1904 si spendevano su ogni 100 rubli:

Per l'esercito e la flotta rubli 53,80
Per il pagamento degli interessi dei prestiti e l'ammortiz­zazione del debito pubblico rubli 22,50
Per i servizi pubblici rubli 23,70
Totale rubli 100,00

29. La guerra imperialista degli anni 1914-1918

La politica imperialista delle grandi Potenze doveva tosto o tardi con­durre ad un conflitto. È evidente che le origini della guerra mondiale sono da ricercarsi nella politica brigantesca di tutte le grandi Potenze.

Soltanto un pazzo può ancora credere che la guerra sia scoppiata perché i Serbi uccisero il principe ereditario austriaco o perché la Germania aggredì il Belgio. Agli inizi della guerra si discusse molto per colpa di chi essa fosse scoppiata. I capitalisti tedeschi sostenevano naturalmente che la Germania era stata aggredita dalla Russia, ed i capitalisti russi strombazzavano a tutti i venti che la Russia era stata aggredita dalla Germania. L'Inghilterra preten­deva condurre la guerra per la difesa del piccolo Belgio così duramente col­pito. Anche la Francia si vantava di combattere nel modo più disinteressato e generoso per l'eroico popolo belga. E la Germania e l'Austria dicevano di combattere per tener lontane dai loro confini le orde dei cosacchi e di con­durre una guerra santa di difesa.

Tutto ciò non era altro che una menzogna ed un inganno teso alle masse lavoratrici. La borghesia doveva ricorrere a questo inganno per spingere i suoi soldati al macello. E non fu la prima volta che la borghesia si servì di questo mezzo. Noi abbiamo visto più sopra come i baroni dei grandi trusts introducessero ali dazi per poter condurre, attraverso lo sfruttamento dei propri connazionali, la lotta per i mercati esteri in condizioni privilegiate. I dazi erano quindi per essi un mezzo offensivo. La borghesia invece prote­stava di dover difendere "l'industria nazionale ". La stessa cosa avvenne con la guerra. La natura della guerra imperialista, che doveva asservire il mondo al dominio del capitale finanziario, consisteva appunto nel fatto che tutti erano aggressori. Oramai queste cose sono fuori dubbio. I lacchè dello zar affermavano di essere sulla "difensiva". Ma quando la rivoluzione d'ottobre aprì i cassetti segreti dei Ministeri si poté constatare, in base a documenti, che sia lo Zar che il signor Kerenski conducevano la guerra, in accordo con gli Inglesi e Francesi, per annettere Costantinopoli, depredare la Turchia e la Persia e per strappare all'Austria la Galizia.

Gli imperialisti tedeschi sono stati pure smascherati. Basta ricordare la pace di Brest-Litovsk, le invasioni dei Tedeschi nella Polonia, nell'Ucraina, nella Lituania e nella Finlandia. Anche la rivoluzione tedesca ha portato alla luce parecchio ed ora sappiamo, in base a documenti sicuri, che la Germania era entrata in guerra con intenti annessionisti, con la speranza di poter con­quistare nuovi territori e nuove colonie.

Ed i nostri generosi alleati? Anch'essi sono ora smascherati. Dopo aver strangolato la Germania con la pace di Versailles, dopo averle imposto 125 miliardi di indennità, dopo averle tolto tutta la flotta, tutte le colonie, quasi tutte le locomotive, nessuno crederà più alla loro generosità. Essi depredano anche la Russia del Nord e del Sud. Anch'essi hanno condotto una guerra di rapina.

I comunisti (bolscevichi) previdero tutto ciò già prima della guerra. Ma se allora ci credettero soltanto pochi, ora non vi è più persona sensata che ne dubiti. Il capitale finanziario è un rapace e sanguinario brigante, qualunque sia la sua origine, sia egli russo, tedesco, francese giapponese od americano.

È quindi ridicolo sostenere che in una guerra imperialista uno degli im­perialisti sia colpevole e l'altro no, oppure che questi imperialisti siano gli aggressori e gli altri si trovino in difesa. Tutto ciò era stato escogitato per imbottire i crani degli operai.

In realtà tutti aggredirono in prima linea i piccoli popoli coloniali, tutti pensarono di depredare il mondo intiero e di asservirlo al capitale finanzia­rio del proprio paese.

Questa guerra doveva diventare una guerra mondiale. Quasi tutto il mondo era diviso fra le grandi potenze, collegate fra di loro da una comune economia mondiale. Nessuna meraviglia quindi se la guerra divampò in quasi tutte le parti del mondo.

L'Inghilterra, la Francia, l'Italia, il Belgio, la Russia, la Germania, l'Au­stria-Ungheria, la Serbia, la Bulgaria, la Rumenia, il Montenegro, il Giap­pone, l'America, la Cina ed una dozzina di altri piccoli Stati vennero attratti nel vortice sanguinoso. Il miliardo e mezzo di uomini che popolano la terra dovettero direttamente od indirettamente subire le dolorose conseguenze della guerra, che un piccolo gruppo di delinquenti capitalisti aveva loro im­posto. Il mondo non aveva mai visto eserciti così giganteschi, come quelli che vennero messi in campo; né armi micidiali né una simile potenza del capitale hanno riscontro nella storia. I capitalisti inglesi e francesi non co­strinsero soltanto i propri connazionali a farsi uccidere per i loro interessi, ma anche i popoli coloniali. I predoni civili non si peritano neppure di im­piegare dei cannibali per i propri fini di dominazione e sfruttamento. E tutto ciò viene mascherato colle ideologie più nobili.

La guerra del 1914 ebbe i suoi precedenti nelle guerre coloniali, come la campagna delle potenze "civili" contro la Cina, la guerra americano-spagno­la, la guerra russo-giapponese del 1904 (per il possesso della Corea, di Porto Arturo, della Manciuria, ecc.), la guerra italo-turca nel 1911 (per il possesso di Tripoli), la guerra del Transvaal al principio del secolo XX, nella quale la democratica Inghilterra strangolò le due repubbliche boere. Vi fu una serie di situazioni internazionali in cui i conflitti fra le singole potenze minaccia­rono di sboccare in una guerra micidiale. La spartizione dell'Africa per poco non provocò una guerra fra la Francia e l'Inghilterra (episodio di Fascioda), poi fra la Germania e la Francia (per il Marocco). Gli antagonismi fra In­ghilterra e Russia nell'Asia centrale minacciarono di degenerare in un con­flitto armato fra questi due paesi.

Già al principio della guerra mondiale si delineò nettamente l'antitesi di interessi fra l'Inghilterra e la Germania per la supremazia nell'Africa, nell'Asia Minore e nei Balcani. Le contingenze politiche determinarono l'alleanza dell'Inghilterra colla Francia, che voleva strappare l'Alsazia-Lo­re­na alla Germania, e con la Russia, che pensava di fare i suoi interessi nei Balcani e nella Galizia. L'imperialismo americano intervenne solo più tardi, poiché esso speculava sull'indebolimento delle potenze europee.

Le potenze imperialiste si servono per i loro loschi fini, oltre che del militarismo, anche della diplomazia segreta, che opera con trattati segreti e intrighi, senza però rifuggire da assassini, attentati, ecc. I veri obiettivi della guerra imperialista erano appunto contenuti in questi trattati segreti, stipu­lati fra l'Inghilterra, la Francia e la Russia da una parte e fra la Germania, l'Austria, la Turchia e la Bulgaria dall'altra. L'assassinio del principe eredi­tario d'Austria non avvenne certamente all'insaputa della diplomazia dell'In­tesa. Ma anche la diplomazia tedesca non se ne dolse. Un imperialista tede­sco scrisse in merito: "Noi dobbiamo considerare come una vera fortuna che la grande congiura antitedesca sia scoppiata in seguito all'assassinio del principe ereditario austriaco prima del termine stabilito. Due anni più tardi la guerra sarebbe stata per noi molto più difficile". Gli imperialisti tedeschi sarebbero stati capaci di sacrificare un proprio principe pur di provocare la guerra.

30. Il capitalismo di stato e le classi

Il metodo di guerra imperialista non si distingue soltanto per le sue di­mensioni e distruzioni, ma anche per il fatto chel'intiera economia dei paesi belligeranti viene subordinata agli interessi di guerra. In altri tempi bastava avere del denaro per condurre una guerra. Ma la guerra mondiale è stata così enorme, e venne condotta da paesi così poco sviluppati, che il solo de­naro non poteva bastare. Questa guerra esigeva che le fabbriche metallurgi­che costruissero soltanto armi e munizioni, che tutti i prodotti, metalli, tes­suti, pellami, servissero soltanto per i bisogni degli eserciti. È perciò natura­le che potesse sperare nella vittoria finale quello dei trusts capitalistico-sta­tali, presso il quale l'industria ed i mezzi di trasporto sarebbero stati meglio conformati alle esigenze della guerra. Come si poteva ottenere ciò? Soltanto mediante la centralizzazione dell'intera produzione. La produzione doveva svolgersi senza ostacoli, essere ben organizzata, e direttamente sottoposta al Comando supremo.

Per raggiungere questo fine la borghesia ebbe un mezzo molto semplice: mettere la produzione privata ed i singoli sindacati e trusts privati a dispo­sizione dello Stato brigantesco borghese.

Ciò avvenne infatti durante la guerra. L'industria venne "mobilitata" e "militarizzata", vale a dire messa a disposizione dello Stato e delle autorità militari. Come, potrebbe obbiettare qualcuno, la borghesia non perde in tal caso i suoi profitti? Non è ciò forse una nazionalizzazione dei mezzi di pro­duzione? Se tutta la produzione viene messa nelle mani dello Stato, che cosa ci guadagna la borghesia? Ma la borghesia accettò volentieri le nuove con­dizioni; e non c'è punto da meravigliarsene, poiché i sindacati privati conse­gnarono tutto ciò, non già allo Stato operaio, ma al proprio Stato imperiali­sta. Che cosa poteva trattenere la borghesia da questo passo? Essa non fece altro che passare le sue ricchezze da una delle sue tasche in un'altra, senza che perciò ilo contenuto diminuisse.

Bisogna sempre tener presente il carattere classista dello Stato. Lo Stato non è una "terza potenza" che stia al di fuori, al di sopra delle classi, ma una organizzazione classista per eccellenza. Sotto la dittatura della classe ope­raia esso è una organizzazione degli operai, sotto il dominio della borghesia è una organizzazione di imprenditori, come un trust o un sindacato.

Per questa ragione la borghesia non perdette nulla quando essa affidò la gestione dei sindacati privati al proprio Stato (non a quello proletario, ma a quello capitalistico). Poco importava all'industriale di ritirare i suoi profitti dalla cassa del sindacato o da quella dello Stato. La borghesia anzi ci guada­gnò. Ci guadagnò per il semplice motivo che con una simile centralizzazio­ne la macchina di guerra funzionava meglio e rendeva più probabile la vit­toria.

Non c'è quindi da stupirsi se durante la guerra si sviluppò, in luogo dei sindacati privati, il capitalismo di Stato. La Germania, per esempio, non avrebbe potuto conseguire tante vittorie e resistere per così lungo tempo alla pressione di forze preponderanti, se la sua borghesia non avesse saputo or­ganizzare il capitalismo di Stato in un modo così geniale.

Il passaggio al capitalismo di Stato si verificò sotto varie forme ed in vari modi. Le forme più frequenti furono i monopoli di Stato nel dominio della produzione e del commercio, vale a dire che la produzione ed il com­mercio nella sua totalità passò nelle mani dello Stato. Talvolta questo pas­saggio non avvenne di colpo, ma gradatamente, in quanto lo Stato acquistò soltanto una parte delle azioni di un sindacato o trust.

Una impresa di questo genere era per metà statale e per metà privata, e lo Stato borghese attuava in essa la sua politica. Alle imprese che rimasero di proprietà privata lo Stato imponeva ordinamenti coercitivi, obbligando, per esempio, date imprese ad approvvigionarsi presso dati fornitori, e questi a vendere soltanto determinati quantitativi ed a determinati prezzi; lo Stato prescriveva determinati metodi di lavoro, dati materiali, e razionava tutti i prodotti più importanti. Così si sviluppò, in luogo del capitalismo privato, quello statale.

Sotto il dominio del capitalismo di Stato le organizzazioni indipendenti della borghesia vengono sostituite dalla sua organizzazione unitaria, lo Stato. Prima della guerra esistevano negli Stati capitalistici le organizza­zioni statali borghesi ed indipendentemente da esse si organizzavano i sin­dacati, i trusts, le associazioni di imprenditori e di latifondisti, i partiti poli­tici borghesi, le organizzazioni di giornalisti, di scienziati, di artisti, società religiose, organizzazioni giovanili borghesi, uffici di detectives privati, ecc. Nel capitalismo di Stato tutte queste organizzazioni indipendenti si fondono con lo Stato borghese, diventano le sue succursali, seguono i suoi piani, si subordinano al suo "comando supremo". Nelle fabbriche e nelle miniere si eseguiscono gli ordini dello stato maggiore; i giornali pubblicano ciò che vuole lo stato maggiore; nelle chiese si predica ciò che ritiene utile lo stato maggiore; si disegna, si verseggia, si canta ciò che prescrive lo stato mag­giore; si inventano cannoni, proiettili, gas che fanno bisogno allo stato maggiore. In questo modo tutta la vita viene militarizzata per assicurare al­la borghesia il profitto del suo sanguinoso mercato .

Il capitalismo di Stato significa un formidabile rafforzamento della grande borghesia. Analogamente alla dittatura proletaria, che è tanto più forte quanto più intima è la collaborazione fra il potere dei Soviet, i sinda­cati, il partito comunista, ecc., anche la dittatura borghese è tanto più poten­te quanto più strettamente sono collegate tutte le organizzazioni borghesi. Il capitalismo di Stato, centralizzando le organizzazioni borghesi e trasfor­mandole in elementi di un unico organismo integrale, conferisce al capitale una enorme potenza. Proprio qui la dittatura della borghesia raggiunge il suo apice.

Il capitalismo di Stato nacque durante la guerra in tutti i grandi paesi capitalistici. Anche nella Russia zarista esso stava sviluppandosi (Comitati per l'industria di guerra, monopoli, ecc.) Più tardi però la borghesia, inti­morita dalla rivoluzione, cominciò a temere che col potere statale anche la produzione potesse passare nelle mani del proletariato. Dopo la rivoluzione di febbraio essa impedì perciò l'organizzazione della produzione.

Noi vediamo che il capitalismo di Stato, anziché eliminare lo sfrutta­mento, rafforza enormemente il potere della borghesia. Ciò non ostante gli Scheidemann in Germania ed i socialpatrioti degli altri paesi chiamarono questi lavori forzati socialismo. Una volta che tutti i mezzi di produzione si troveranno in possesso dello Stato il socialismo sarà realizzato, dicevano, non comprendendo di avere a che fare non con lo Stato proletario, ma con un'organizzazione, nella quale l'intero apparato statale si trova nelle mani dei nemici ed assassini del proletariato.

Il capitalismo di Stato, che unendo ed organizzando la borghesia ne au­menta il potere, indebolisce per conseguenza la forza della classe operaia. Gli operai sotto il capitalismo di Stato divennero gli schiavi bianchi dello Stato oppressore. Essi vennero privati del diritto di sciopero, mobilitati e militarizzati; chi si dichiarò contrario alla guerra venne subito condannato per alto tradimento; in molti paesi gli operai perdettero il diritto di libertà di scelta del lavoro e del luogo del lavoro. Il "libero" operaio salariato divenne proprietà dello Stato, fu costretto a farsi uccidere sui campi di battaglia, non per la propria causa, ma per quella dei suoi nemici, o ad esaurirsi sul lavoro, ma non pel proprio interesse bensì per quello dei suoi sfruttatori.

31. Lo sfacelo del capitalismo e la classe operaia

La guerra accelerò in questo modo al suo inizio la centralizzazione ed organizzazione dell'economia capitalista. Ciò che non avevano potuto com­piere i sindacati, i trusts e le imprese combinate, cercò di compiere in fretta e furia il capitalismo di Stato, creando una vasta rete di vari organismi, de­stinati a regolare la produzione e distribuzione, e preparò così il terreno sul quale il proletariato potrà iniziare la grande produzione centralizzata.

Ma la guerra che gravava con tutto il suo peso sulla classe operaia dove­va inevitabilmente provocare l'esasperazione delle masse proletarie. In prima linea sta il fatto che la guerra fu una carneficina senza precedenti nella storia. Secondo le varie statistiche il numero dei morti e dei feriti rag­giungeva nel marzo 1917 2 milioni; fino al 1 gennaio 1918 si calcolavano 8 milioni di morti. Per essere più esatti bisognerebbe aggiungere ancora qual­che milione di mutilati e di infermi. La sifilide, che dilagò enormemente du­rante la guerra, ha infettato quasi l'intera umanità. Lo stato fisico generale è notevolmente peggiorato dopo la guerra. I danni maggiori riportò natural­mente la classe operaia e quella dei contadini.

Nei grandi centri degli Stati belligeranti si sono formate piccole colonie di mutilati di guerra, dove questi disgraziati, in parte orribilmente deformati, sono una vivente testimonianza della civiltà borghese.

Ma il proletariato non è stato vittima soltanto di questa infame carnefi­cina. Ora si cerca di rovesciare sulle spalle dei superstiti l'enorme fardello dei debiti di guerra. Mentre i capitalisti si godono i loro soprapprofitti, la classe operaia deve sopportare gravose imposte per coprire le spese di guer­ra. Il ministro delle Finanze francese dichiarò alla Conferenza della pace nell'autunno 1919 che le spese di guerra complessive di tutti gli Stati belli­geranti ammontano ad un trilione di franchi. Non tutti sono in grado di af­ferrare l'entità di tale cifra. In altri tempi si calcolavano con queste cifre le distanze fra le stelle, oggi si calcolano con esse le spese del delittuoso mas­sacro. Un trilione è formato di un milione di bilioni. Secondo altri calcoli le spese di guerra si presentano come dal seguente specchietto (miliardi di rubli):

Primo anno di guerra 91,00
Secondo anno di guerra 136,50
Terzo anno di guerra 204,70
Quarto anno di guerra (dato parziale dal 31.7 al 31.12 del 1917) 153,50
Totale 585,70

In seguito le spese sono ancora aumentate. Nessuna meraviglia quindi se gli Stati capitalistici cominciarono ad accollare alla classe operaia enormi imposte, sia dirette che indirette, facendo in questo modo salire i prezzi dei generi di prima necessità. La carestia assunse proporzioni disastrose, mentre gli industriali e specialmente quelli che lavoravano per forniture di guerra realizzavano guadagni favolosi.

Gli industriali russi aumentarono i loro dividendi per più della metà; al­cune aziende distribuirono ai loro azionisti dividendi favolosi. Ecco alcuni dati in merito: la società della nafta Fratelli Mirsojeff distribuì un dividendo del 40 per cento; la società an. Fratelli Daniscevski del 30 per cento ecc. In Germania i profitti netti di quattro branche industriali (la chimica, la metal­lurgica, la automobilistica e quella degli esplosivi) ascesero nel 1912-1914 a 133 milioni, negli anni 1915-16 a 259 milioni, cioè aumentarono del doppio nel corso di un anno. Negli Stati Uniti il guadagno del trusts dell'acciaio aumentò del triplo dal 1915 al 1916. Dal 1915 al 1917 i profitti salirono da 98 milioni di dollari a 478 milioni. Spesso vennero distribuiti dividendi del 20 per cento. Nella stessa favolosa misura aumentarono i profitti delle ban­che. Durante la guerra si produssero innanzi tutto cannoni, proiettili, navi da guerra, aeroplani, gas asfissianti ed altri ordigni micidiali. Negli Stati Uniti intorno alle fabbriche di esplosivi sorsero intere città. Queste fabbriche furo­no costruite in fretta senza i necessari provvedimenti di sicurezza, sicché si verificarono spesso catastrofiche esplosioni. I proprietari di queste fabbriche realizzarono naturalmente favolosi guadagni. Ma la situazione del popolo peggiorò sempre più, poiché dei generi di prima necessità si produssero quantità sempre minori. Coi cannoni ed i proiettili si poteva uccidere e di­struggere ma non nutrire e vestire il popolo. Ma tutte le energie produttive erano rivolte alla produzione di ordigni micidiali. La mano d'opera venne in gran parte assorbita dall'esercito e l'intera industria lavorava per i bisogni della guerra. La scarsa produzione di merci utili determinò fame e carestia. Deficienza di carbone, di tutti i generi di prima necessità, nonché esauri­mento dell'intiera umanità, sono le conseguenze della delittuosa guerra im­perialista.

Ecco alcuni esempi dai vari paesi:

In Francia la produzione agricola diminuì nei primi anni della guerra nella seguente misura (quintali):

Derrate 1914 1916
Cereali 42.272.500 15.300.000
Patate, rape, ecc. 46.639.000 15.260.000
Piante industriali 59.429.000 20.448.000

In Inghilterra si esaurirono le scorte di minerali nella seguente misura (tonnellate):

Verso la fine del 1912 241.000
Verso la fine del 1913 138.000
Verso la fine del 1914 108.000
Verso la fine del 1915 113.000
Verso la fine del 1916 3.000
Verso la fine del 1917 600

In Germania la produzione della ghisa ammontava nel 1913 a 19,3 mi­lioni di tonnellate; nel 1916 soltanto a 13,3 milioni, nel 1917 a 16,1 milioni, nel 1918 a 12 milioni e nel 1919 ancora meno.

Nella situazione più disperata piombò l'intera industria per la mancanza di carbone. Il principale fornitore dell'Europa era l'Inghilterra. Ma la pro­duzione di carbone dell'Inghilterra diminuì già nel 1915 del 13 per cento; le industrie più importanti per la vita economica erano già nel 1917 quasi sprovviste di carbone: le officine elettriche ricevevano la sesta parte del quantitativo di carbone necessario, l'industria tessile l'undicesima parte del suo fabbisogno normale. Durante il periodo della conferenza di Versailles per la "pace" quasi tutti i paesi attraversarono una terribile crisi di combu­stibili; le fabbriche dovettero venir chiuse, i trasporti limitati. Ne seguì la grave crisi dell'industria e dei trasporti. In Russia si verificò il medesimo processo. Già nel 1917 la produzione di carbone in seguito alla guerra ver­sava in pessime condizioni. Il distretto industriale di Mosca aveva bisogno di 12 milioni di pudi al mese. Il governo di Kerenski promise di fornire 6 mi­lioni al mese, ma in realtà vennero forniti i seguenti quantitativi; nel gen­naio 1,8 milioni di pudi, nel febbraio 1,3 milioni di pudi, nel marzo 0,8 mi­lioni. La naturale conseguenza di questo stato di cose fu il decadimento dell'industria russa. In Russia, come in tutto il mondo, incominciò il proces­so di dissolvimento del capitalismo.

Nel 1917 (sotto Kerenski) si addivenne alla chiusura delle seguenti fab­briche:

Mese Numero di aziende Numero di operai
Marzo 74 6.646
Aprile 55 2.916
Maggio 108 8.701
Giugno 125 38.455
Luglio 206 47.754

Lo sfacelo progredì a passi di gigante. Per farsi un'idea del caro-vita provocato dalla mancanza di prodotti e dalla circolazione di una enorme quantità di carta moneta, basta gettare uno sguardo sul paese, il quale dalla guerra ha sofferto meno di tutti gli altri, cioè l'Inghilterra.

I prezzi medi dei cinque generi alimentari più importanti (zucchero, burro, tè, pane e carne) erano i seguenti:

Periodo The, zucchero Pane, carne, burro
1901-1905 500 300
Fine luglio 1914 579 350
Fine gennaio 1915 786 413
Fine gennaio 1916 946,5 465
Fine gennaio 1917 1310 561
Fine gennaio 1918 1221,5 681
fine maggio 1919 1247 777,5

Anche in Inghilterra durante la guerra aumentarono i prezzi per più del doppio, mentre i salari aumentavano soltanto del 18 per cento. I prezzi delle merci aumentarono quindi di sei volte più presto dei salari. Particolarmente disastrose furono le condizioni in Russia, dove la guerra aveva devastato il paese. Nella stessa America, che aveva sofferto meno di tutti gli altri paesi, i prezzi dei 15 generi più importanti aumentarono dal 1913 al 1918 del 180 per cento mentre i salari aumentavano soltanto dell'80 per cento.

Anche l'industria di guerra andò in definitiva, per mancanza di carbone, di acciaio e di altri materiali, in rovina. Tutti i paesi del mondo, ad ecce­zione dell'America, immiserirono completamente. La fame, il freddo e la di­struzione fecero la loro corsa trionfale attraverso tutto il mondo. La classe operaia fu in tutti i paesi - nei monarchici come nei democratici - esposta alle più inaudite persecuzioni. Gli operai vennero privati del diritto di scio­pero, ed il minimo loro atto di protesta spietatamente represso. In questo modo il dominio del capitalismo condusse alla guerra civile fra le classi.

Le persecuzioni sofferte dalla classe operaia durante la guerra sono state chiaramente messe in luce dalla risoluzione dell'Internazionale comunista sul terrore bianco: "Le classi dominanti, che hanno disseminato sui campi di battaglia più di 10 milioni di morti, instaurarono subito al principio della guerra anche nell'interno dei propri paesi un regime di brutale dittatura. Il governo zarista fece mitragliare gli operai, organizzò pogromi di ebrei e commise altre barbarie. La monarchia austro-ungarica soffocò la ribellione degli operai e contadini ucraini e ceco-slovacchi. La borghesia inglese as­sassinò i migliori rappresentanti del popolo irlandese. L'imperialismo tede­sco infierì nell'interno del proprio paese e le prime vittime del suo terrore fu­rono i marinai. In Francia vennero fucilati i soldati russi che rifiutavano di difendere le casseforti dei banchieri francesi. In America la borghesia linciò gli internazionalisti e condannò a dure pene i migliori militanti della classe operaia.

La società capitalistica cominciò a scricchiolare in tutta la sua compa­gine. L'anarchia della produzione aveva condotto alla guerra, e questa, ina­sprendo gli antagonismi di classe, sboccò nella rivoluzione. Il capitalismo cominciò a disgregarsi in due direzioni principali (vedi § 13). Si aprì il pe­riodo dello sfacelo del capitalismo.

Esaminiamo ora più da vicino questo processo di decomposizione della società capitalistica.

La società capitalistica era organizzata in tutte le sue parti secondo un unico modello. La fabbrica aveva la stessa struttura organica come il reggi­mento dell'esercito borghese: di sopra i ricchi che comandano, di sotto i po­veri, gli operai, i piccoli impiegati che ubbidiscono; fra mezzo gli ingegneri, i sottufficiali, gli alti impiegati. Da questo confronto si vede come la società capitalista possa mantenersi soltanto finché l'operaio-soldato si subordini al latifondista-generale e finché l'operaio industriale ubbidisca agli ordini del direttore che percepisce un favoloso stipendio, od a quelli del proprietario che intasca il plusvalore. Ma dal momento in cui le masse lavoratrici co­minciano a riconoscere di non essere altro che pedine nelle mani dei loro nemici, cominciano pure a spezzarsi le fila che legano il soldato al generale, l'operaio all'industriale. Gli operai cessano di ubbidire ai loro padroni, i sol­dati ai loro ufficiali, gli impiegati ai loro superiori. Comincia così il periodo di dissoluzione dell'antica disciplina di cui si servirono i ricchi per domina­re i poveri. Questo periodo durerà inevitabilmente finché la nuova classe, il proletariato, non avrà spodestato la borghesia, l'avrà costretta a mettersi al servizio di chi lavora, e avrà creato una disciplina nuova.

Questo caos, nel quale il vecchio non è ancora distrutto ed il nuovo non ancora creato, può terminare soltanto colla vittoria definitiva del proletariato nella guerra civile.

32. La guerra civile

La guerra civile è una lotta di classe inasprita, che si trasforma in rivo­luzione. La guerra imperialista fra i vari gruppi della borghesia per la ripar­tizione del mondo venne condotta coll'aiuto degli schiavi salariati. Ma la guerra addossò agli operai tali oneri, che la lotta di classe dovette trasfor­marsi in una guerra civile degli oppressori, in quella che Marx chiamò l'unica giusta guerra.

È naturalissimo che il capitalismo debba condurre alla guerra civile, e che la guerra imperialista fra gli Stati borghesi debba terminare colla guerra di classe. Tutto ciò è stato predetto dal nostro partito già nel 1914, quando nessuno pensava neppure lontanamente alla rivoluzione. Ma già d'allora era evidente che da una parte gli enormi sacrifici imposti alla classe operaia avrebbero provocato la ribellione del proletariato, e dall'altra parte la bor­ghesia non sarebbe stata capace di comporre gli antagonismi che tengono divisi i vari gruppi nazionali, e di assicurare una pace duratura.

Troviamo ora le nostre previsioni pienamente confermate. Dopo i ter­ribili anni di massacri e di distruzioni scoppiò la guerra civile contro gli op­pressori. Questa guerra civile ebbe il suo inizio nella rivoluzione russa del febbraio ed ottobre 1917; la rivoluzione finlandese, ungherese, austriaca e tedesca ne furono la continuazione, ma anche tutti gli altri paesi sono entrati in un periodo rivoluzionario. La borghesia si sforza invano di concludere una pace duratura. La pace di Versailles venne firmata appena molti mesi dopo la cessazione delle ostilità, e tutti prevedono che essa non sarà di lunga durata. Dopo la firma di essa gli Italiani si sono già accapigliati con gli Ju­goslavi, i Polacchi con i Tedeschi, i Lituani con i Polacchi, e così di seguito. E tutti gli Stati insieme aggrediscono la Repubblica dei vittoriosi operai russi. Così la guerra imperialistica sbocca nella guerra civile, dalla quale dovrà uscire vittorioso il proletariato.

La guerra civile non è l'invenzione od il capriccio di un partito politico, ma la forma in cui si manifesta la rivoluzione, la quale doveva fatalmente scoppiare poiché la guerra imperialista ha finalmente aperto gli occhi alle masse operaie.

Pensare che la rivoluzione sia possibile senza la guerra civile è come credere alla possibilità di una rivoluzione "pacifica". Coloro che pensano in questo modo (come, per esempio, i Menscevichi, i quali strillano contro gli orrori della guerra civile) retrocedono da Marx ai socialisti antidiluviani, i quali si illusero che i capitalisti potessero intenerirsi per le condizioni della classe operaia. Questi "socialisti" rassomigliano ad un uomo che pensasse di poter ammansire una tigre con delle carezze, ed indurla a nutrirsi di erba e lasciar in pace i vitellini. Marx era fautore della guerra civile, cioè della lotta armata del proletariato contro la borghesia. Carlo Marx scrisse che i comunardi furono troppo poco risoluti durante le lotte della Comune di Pa­rigi. Nel manifesto della prima Internazionale, redatto da Marx, è contenuto il seguente brano scritto in evidente tono di biasimo : "Perfino i sergenti di polizia, invece di venir disarmati ed imprigionati, trovarono le porte di Pa­rigi aperte per poter sicuramente scappare a Versailles. Non solo si lascia­rono indisturbati gli uomini dell'ordine, ma si permise loro di raccogliersi e di occupare più di una forte posizione nel cuore di Parigi. Nella sua rilut­tanza ad impegnare la lotta civile, aperta colla invasione notturna di Thiers (il Denikin francese) a Montmartre, il Comitato centrale si rese colpevole del decisivo errore di non avanzare contro la allora impotente Versailles, e di porre così fine alle congiure di Thiers e dei suoi signorotti agrari. Si permise invece ancora una volta al "partito dell'ordine" di misurare le sue forze nelle urne, allorquando il 26 marzo venne eletta la Comune" . Carlo Marx propugna qui apertamente la soppressione violenta delle guardie bian­che durante la guerra civile.

Come si vede, i maestri del socialismo considerarono la rivoluzione co­me una cosa molto seria. Essi capirono chiaramente che il proletariato non poteva vincere la borghesia colle armi della persuasione, ma che doveva "imporre ad essa la sua volontà in una lotta civile condotta con fucili, baio­nette e cannoni".

Nella guerra civile le classi della società capitalistica, divise da insana­bili antagonismi economici, marciano armate l'una contro l'altra. Il fatto che la società capitalistica è divisa in due parti, che essa rappresenta in sostanza due società, questo fatto rimane in tempi normali quasi ignorato. E ciò per­ché gli schiavi ubbidiscono ai loro padroni senza mormorare. Ma nella guer­ra civile questa supina rassegnazione trova la sua fine, e la parte oppressa della società insorge contro quella opprimente. In tali condizioni non si può naturalmente pensare ad una pacifica convivenza delle classi; l'esercito si divide in guardie bianche (composte dell'aristocrazia, dell'alta borghesia, degli intellettuali, ricchi, ecc.) ed in guardie rosse (composte di operai e con­tadini). Qualsiasi assemblea nazionale, nella quale i capitalisti seggano ac­canto agli operai, diventa un assurdo; come è mai possibile che essi collabo­rino "pacificamente" nell'assemblea, mentre sulle strade combattono i loro compagni di classe colle armi in pugno? Nella guerra civile, una classe si le­va contro l'altra. Perciò essa può terminare colla vittoria completa di una classe sull'altra, ma in nessun modo con un compromesso, con un'intesa. E l'esperienza della guerra civile in Russia e negli altri paesi (Germania, Un­gheria) conferma pienamente questa nostra asserzione: attualmente non esi­ste che la dittatura del proletariato o quella della borghesia e del militari­smo. I governi delle classi medie (socialrivoluzionari, menscevichi) non rappresentano che una passerella verso una delle due parti. Al governo so­viettista di Ungheria, rovesciato coll'aiuto dei menscevichi, succedette un governo di "coalizione" che, dopo pochi giorni di esistenza, dovette far posto alla reazione. I Socialrivoluzionari costituzionali, riusciti ad impossessarsi di Ufa, del territorio al di là del Volga, e della Siberia, vennero ventiquattro ore più tardi soppiantati dal generale Kolciak che poggiava sui capitalisti e latifondisti, e che sostituì la dittatura degli operai e contadini con quella dei latifondisti e borghesi.

La vittoria decisiva sul nemico e l'instaurazione della dittatura proleta­ria saranno il risultato fatale della guerra civile mondiale!

33. La forma della guerra civile e le sue spese

Il periodo della guerra civile venne aperto dalla rivoluzione russa, che è soltanto l'inizio della rivoluzione mondiale. La rivoluzione scoppiò in Russia prima che negli altri paesi, perché colà si iniziò il processo di decomposi­zione del capitalismo. La borghesia ed i latifondisti russi, che volevano con­quistare Costantinopoli e la Galizia, e d'accordo coi loro alleati inglesi e francesi avevano provocato quella immane guerra, perirono per primi a causa della loro debolezza e disorganizzazione; la carestia e lo sfacelo gene­rale si verificò in Russia prima che negli altri paesi. Per questa ragione il proletariato russo riuscì per primo a debellare i suoi nemici, a riportare la vittoria, ad instaurare la sua dittatura.

Ma da ciò non consegue affatto che la rivoluzione russa sia la più perfet­ta del mondo, e che il comunismo sia tanto più facilmente realizzabile quan­to meno sviluppato è il capitalismo in un paese. Secondo un simile criterio, il comunismo dovrebbe realizzarsi prima in Cina, in Persia, nella Turchia, ed in altri paesi capitalisticamente arretrati, nei quali non esiste quasi una classe proletaria. L'intera dottrina di Marx sarebbe in tale caso errata.

Chi ragiona in questa maniera confonde l'inizio della rivoluzione col suo carattere, il suo "compimento". La rivoluzione scoppiò prima in Russia a causa del debole sviluppo del capitalismo. Ma appunto questa debolezza, e il fatto che il nostro paese è ancora molto arretrato, e il proletariato vi forma una minoranza, mentre è grande il numero di piccoli proprietari e commer­cianti, rendono così difficile l'organizzazione di una economia comunista. In Inghilterra la rivoluzione scoppierà più tardi, ma il proletariato dopo la sua vittoria vi potrà organizzare la nuova economia molto più rapidamente, for­mando la stragrande maggioranza del paese ed essendo abituato al lavoro sociale. La produzione in Inghilterra è incomparabilmente più centralizzata. La rivoluzione in Inghilterra scoppierà più tardi, ma sarà più completa di quella russa.

Molti credono che la violenza della guerra civile sia una conseguenza dell'"asiatismo", della primitività russa. I nemici della rivoluzione nell'Eu­ropa occidentale affermano che in Russia fiorisce il "socialismo asiatico" e che la rivoluzione negli altri paesi si svolgerà senza violenze. Queste sono stupide chiacchiere. Nei paesi più capitalisticamente più evoluti la resistenza della borghesia sarà più forte, tanto più che gli intellettuali sono più inti­mamente legati al capitale e perciò più ostili al comunismo. Per queste ra­gioni la guerra civile in questi paesi sarà molto più violenta che in Russia. Lo vediamo infatti in Germania, dove si è chiaramente dimostrato che la lotta nei paesi capitalisticamente più progrediti assume forme più violente.

Coloro che si scandalizzano per il terrore dei Bolscevichi dimenticano che la borghesia non rifugge da nessuna violenza per conservare il portafo­glio. La risoluzione del Congresso dell'Internazionale comunista dice in merito quanto segue: " Allorquando la guerra imperialista cominciò a tra­sformarsi in guerra civile e si prospettò agli occhi dei dominatori, cioè dei più grandi delinquenti che conosca la storia dell'umanità, il pericolo del tramonto del loro dominio sanguinario, la loro efferatezza divenne ancora maggiore...".

I generali russi - questi genuini esponenti del regime zarista - fecero mi­tragliare, e lo fanno ancora oggi, le masse lavoratrici coll'appoggio diretto od indiretto dei social-traditori. Durante il dominio dei social-rivoluzionari e menscevichi in Russia, le prigioni e carceri erano colme di operai e conta­dini, ed i generali decimarono interi reggimenti per indisciplina. I generali Krasnof e Denikin, che godono il benevolo appoggio dell'Intesa, hanno fatto massacrare ed impiccare diecine di migliaia di operai, e per intimidire gli al­tri lasciarono penzolare gli impiccati per tre giorni dalla forca. Negli Urali e nel territorio del Volga le guardie bianche ceco-slovacche seviziarono i pri­gionieri nei modi più atroci, li annegarono nel Volga e li seppellirono vivi. In Siberia i generali controrivoluzionari fecero massacrare migliaia di co­munisti ed operai. La borghesia tedesca ed austriaca ha dimostrato sufficien­temente la sua natura cannibalesca, facendo impiccare su apposite forche trasportabili migliaia di operai e contadini ucraini da loro depredati, ed i lo­ro propri connazionali, i nostri compagni tedeschi ed austriaci. In Finlandia, nel paese della democrazia borghese, sono stati fucilati 14.000 proletari e più di 15.000 martoriati nelle carceri. A Helsingfors le guardie bianche si fecero procedere da donne e bambini per proteggersi contro il fuoco di mi­traglia. A Tammerfors si costrinsero le donne condannate a morte a scavarsi la propria fossa; a Wiborg vennero massacrati a centinaia uomini, donne e fanciulli proletari. Tutto ciò avvenne coll'aiuto degli imperialisti tedeschi.

Nell'interno del loro paese la borghesia e la socialdemocrazia tedesche, colla bestiale repressione proletaria comunista, col brutale assassinio di Carlo Liebknecht e Rosa Luxemburg, hanno raggiunto l'apice del terrore reazionario. Il terrore collettivo ed individuale è la bandiera sotto la quale marcia la borghesia.

La stessa situazione ci si presenta anche negli altri paesi. Nella demo­cratica Svizzera è tutto pronto per il massacro degli operai, ove essi doves­sero osare di violare la legge borghese. Nell'America la borghesia ha elevato la galera, la legge di "Lynch" e la sedia elettrica a simboli della democrazia e della libertà. Nell'Ungheria come nell'Inghilterra, nella Cecoslovacchia come nella Polonia - dappertutto la stessa cosa. I terroristi borghesi non ri­fuggono da nessuna infamia. Per consolidare il proprio dominio essi susci­tano il nazionalismo ed organizzano la democrazia borghese ucraina, col menscevico Petliura alla tesa, appoggiano la democrazia polacca, diretta dal socialpatriota Pilsudski, organizzano pogromi di Ebrei, che per efferatezza superano di gran lunga quelli della sbirraglia zarista. E l'assassinio della missione della Croce rossa bolscevica da parte dei delinquenti reazionari e socialdemocratici polacchi è soltanto una goccia nel mare dei delitti e dei massacri che il morente cannibalismo borghese commette giornalmente.

A misura che la guerra civile progredisce, essa assume sempre nuove forme. Allorquando il proletariato è oppresso in tutti i paesi, esso conduce questa guerra nella forma di insurrezioni contro il potere statale della bor­ghesia. Ma che cosa succede quando il proletariato di un paese o dell'altro si è impadronito del potere? In questo caso esso dispone dell'organizzazione statale, dell'esercito proletario, dell'intero apparato del potere, e conduce una aspra lotta contro la propria borghesia che cerca, per mezzo di congiure e di rivolte, di strappare il potere alla classe operaia. Ma lo Stato proletario è pu­re costretto a combattere contro Stati borghesi stranieri. La guerra civile as­sume dunque qui una nuova forma, quella di una vera guerra di classe, nella quale vediamo lo Stato proletario in lotta contro gli Stati borghesi. Gli ope­rai non combattono più soltanto la borghesia del proprio paese, ma lo Stato operaio conduce una guerra vera e propria contro gli Stati capitalistici. Que­sta guerra non viene condotta al fine di conquiste e di rapine, ma per la vit­toria del comunismo, per la dittatura della classe operaia.

Il che avvenne realmente. Dopo la rivoluzione di ottobre, la Russia dei Sovieti venne aggredita da tutte le parti: dalla Germania e dalla Francia, dall'America e dal Giappone, ecc. A misura che la rivoluzione russa incitava col suo esempio gli operai degli altri paesi alla rivolta, il capitale interna­zionale si organizzava sempre più contro la rivoluzione, e cercava di strin­gere contro il proletariato una alleanza di tutti i briganti capitalisti.

Un tentativo di questo genere fecero i capitalisti alla conferenza di Ver­sailles dietro suggerimento di Wilson, di questo scaltro agente del capitale americano. La "Società delle nazioni" - come essi chiamarono questa nuova organizzazione - non è in realtà una lega di popoli ma dei capitalisti dei vari paesi e dei loro governi borghesi.

Questa lega rappresenta il tentativo di organizzare un enorme trust mondiale che dovrebbe abbracciare l'intero nostro pianeta, sfruttare il mondo intero e reprimere nel modo più efficace la rivoluzione della classe operaia. Tutte le chiacchiere secondo le quali la Società delle nazioni dovrebbe essere una garanzia della pace sono ipocrite menzogne. I suoi unici e veri obiettivi sono in prima linea lo sfruttamento del proletariato mondiale e dei popoli coloniali ed in secondo luogo lo strangolamento della crescente rivoluzione mondiale.

Il primo violino in questa orchestra che è la "Società delle nazioni", è rappresentato dall'America, che si è enormemente arricchita durante la guerra. L'America è diventata creditrice di tutti gli Stati borghesi d'Europa. La sua posizione predominante è inoltre dovuta alla sua ricchezza di materie prime, di carbone e di grano. Perciò essa pensa di mantenere in dipendenza gli altri briganti, e si può dire che la posizione dominante nella "Società delle nazioni" le è assicurata.

È interessante osservare con quale sfoggio di frasi umanitarie e genero­se gli Stati Uniti cerchino di mascherare la loro politica rapace. Essi fecero il loro ingresso nella guerra mondiale sotto la divisa di "salvatori dell'uma­nità", ecc. All'America conveniva trovarsi di fronte ad un'Europa divisa in alcune dozzine di Stati, apparentemente "indipendenti", ma in realtà dipen­denti da essa. Il diritto di "autodecisione delle nazioni" fu un'altra maschera di cui si truccò l'imperialismo americano. La gendarmeria capitalista, le guardie bianche e la polizia, che secondo il piano di Wilson hanno la mis­sione di soffocare in tutti i paesi la rivoluzione, vennero istituite col pretesto di avere a disposizione una forza armata, destinata a punire ogni "violazione della pace". Nel 1919 tutti gli imperialisti divennero d'un tratto sfegatati pacifisti e gridarono a perdifiato che i veri imperialisti e nemici della pace erano i Bolscevichi. Il desiderio di strangolare la rivoluzione si nascose qui dietro la maschera del "pacifismo" e della "democrazia".

La "Società delle nazioni" ha infatti già dato prova di essere il gendarme della reazione internazionale. I suoi agenti hanno strangolato la repubblica soviettista della Baviera e della Ungheria. I tentativi di strangolare il prole­tariato russo sono in pieno svolgimento; gli eserciti inglesi, americani, fran­cesi e giapponesi, in unione coi controrivoluzionari russi, assalgono la Rus­sia da tutte le parti. Perfino truppe coloniali vennero impiegate contro la classe operaia russa ed ungherese (Odessa, Budapest). Quale grado di infa­mia possa raggiungere la "Società della nazioni", noi lo vediamo dal fatto che i briganti "civili" mantennero una "associazione di assassini" con alla testa il generale Judenic, il capo del cosiddetto "governo della Russia nord-occidentale". La "Società delle nazioni" istiga la Finlandia, la Polonia, ecc. contro la Russia dei Sovieti, ordisce congiure, organizza attentati contro i comunisti russi, ecc. Non esiste infamia di cui non sia capace la "Società delle nazioni".

Quanto più minacciosa diventa l'offensiva del proletariato, tanto più strettamente si unisce la masnada capitalista. Marx ed Engels scrissero nel 1847 nel "Manifesto dei comunisti": "C'è uno spettro in Europa, lo spettro del comunismo. Tutte le potenze della vecchia Europa si sono unite in una santa alleanza contro questo spettro, il Papa e lo Czar, Metternich e Guizot, i radicali francesi ed i poliziotti tedeschi". Lo spettro del comunismo è di­ventato ormai un corpo di carne ed ossa. Contro di esso scende in campo, non soltanto la "vecchia Europa" ma l'intero mondo capitalista. La "Società delle nazioni" però non sarà capace di assolvere i suoi due compiti: orga­nizzare l'intera economia mondiale in un unico trust e schiacciare la rivolu­zione mondiale. Fra le grandi potenze stesse regna la discordia. L'America ed il Giappone sono divisi da insanabili antagonismi e proseguono nei loro armamenti. In quanto alla Germania, sarebbe puerile voler credere che essa possa nutrire sentimenti amichevoli verso i predoni dell'Intesa che l'hanno completamente spogliata. Anche i piccoli Stati sono divisi da gelosie ed inimicizie. Ma, ciò che è più importante, le colonie sono in pieno fermento. I popoli oppressi dell'India, dell'Egitto, dell'Irlanda, ecc. insorgono contro i "civili" loro oppressori. Alla guerra di classe, che il proletariato europeo conduce contro la borghesia, si aggiungono le rivolte nelle colonie, che con­tribuiscono a minare e distruggere il dominio dell'imperialismo mondiale. Il sistema capitalista si sfascia sotto l'urto del proletariato insorto, sotto la pressione delle repubbliche proletarie, sotto il cozzo dei popoli coloniali ri­svegliati, senza contare l'azione dissolvente dei contrasti e delle discordie che dilaniano gli stessi Stati imperialisti. Invece della "pace duratura" - un caos completo; invece dello schiacciamento del proletariato mondiale - una accanita guerra civile. Mentre le forze del proletariato aumentano in questa lotta, quelle della borghesia diminuiscono. E la lotta non potrà finire che con la vittoria del proletariato. Ma il trionfo della dittatura proletaria non lo si ottiene senza sacrifici. La guerra civile, come ogni altra guerra, esige sacri­fici di vite umane e di beni materiali. Ogni rivoluzione è accompagnata da tali sacrifici. Perciò è da prevedersi che nelle prime fasi della guerra civile il processo di dissoluzione, provocato dalla guerra imperialista, si accentuerà maggiormente. La produzione industriale soffre soprattutto pel fatto che i migliori operai vengono mobilitati per difendere il suolo della repubblica proletaria contro le armate bianche della controrivoluzione. Ma ciò è inevi­tabile in ogni rivoluzione. Anche durante la rivoluzione francese del 1789-1793, nella quale la borghesia strappò il potere dalle mani dei latifondisti feudali, la guerra civile ebbe per conseguenza gravi distruzioni. Ma dopo la sconfitta dell'assolutismo feudale la Francia rifiorì rapidamente.

Ognuno comprenderà che in una rivoluzione così grandiosa come quella del proletariato mondiale, destinata a distruggere un edificio sociale co­struito nel corso di secoli, i sacrifici non potranno essere lievi. La guerra civile si svolge attualmente su scala mondiale, e in parte si trasforma in una guerra fra Stati borghesi e proletari. Gli Stati proletari che si difendono con­tro l'imperialismo capitalista conducono una guerra di classe, che è santa. Ma questa guerra richiede sacrifici di sangue e, coll'allargarsi della batta­glia, aumenta il numero delle vittime, progredisce la distruzione.

Ma i sacrifici della rivoluzione non possono in nessun caso fornire un argomento contro di essa. La società capitalistica ha dato origine al più spa­ventoso dei massacri che abbia mai visto la storia. Quale guerra civile può essere paragonata a quella folle e delittuosa distruzione di tanti esseri umani e di tante ricchezze, accumulate nel corso di secoli? L'umanità deve farla finita col capitalismo una volta per sempre. Per compiere questa opera nes­sun sacrificio può essere troppo grande. È necessario sopportare per qualche tempo i dolori e i danni della guerra civile per l'avvento del comunismo, che guarirà tutte le piaghe e determinerà un rapidissimo sviluppo delle forze produttive della società.

34. Sfacelo generale o comunismo?

La rivoluzione che si sta sviluppando diventerà una rivoluzione mondia­le per le stesse ragioni per cui la guerra imperialista diventò una guerra mondiale. Tutti i paesi più importanti sono collegati fra di loro, rappresen­tano i membri dell'economia mondiale e vennero dalla guerra mondiale uniti in modo particolare. In tutti i paesi, la guerra causò distruzioni terribili, ge­nerò la carestia e l'asservimento del proletariato, determinò il lento disgre­gamento e lo sfacelo del capitalismo, condusse al dissolvimento della di­sciplina del bastone nell'esercito e nell'officina. E con la stessa implacabile fatalità essa conduce alla rivoluzione comunista del proletariato.

Nulla può arrestare il dissolvimento del capitalismo e l'avanzata della rivoluzione mondiale. Qualsiasi tentativo di ricondurre la società umana sulle antiche vie del capitalismo è a priori condannato all'insuccesso. La co­scienza delle masse operaie ha raggiunto un così alto grado di sviluppo, che esse non sono più disposte né a lavorare né a combattere per gli interessi dei capitalisti, per la conquista di terre straniere e di paesi coloniali. Oggi per esempio sarebbe impossibile ricostituire in Germania l'esercito di Gu­glielmo. E come non è più possibile ristabilire la disciplina capitalista del lavoro e costringere l'operaio a lavorare per il capitalista o per il latifondista. Il nuovo esercito non può essere che l'opera del proletariato, come la nuova disciplina del lavoro non può venir realizzata che dalla classe operaia.

Ora vi sono soltanto due soluzioni possibili: o lo sfacelo, il caos genera­le, il crescente disordine, l'abbrutimento e l'anarchia - oppure l'avvento del comunismo. Stanno a dimostrazione di ciò tutti i falliti tentativi di rimettere in piedi il capitalismo nei paesi dove il proletariato fu già in possesso del po­tere. Né la borghesia finlandese né quella ungherese, né Kolciak, né Deni­kin, né Skoropadsky sono stati capaci di ravvivare la vita economica, e que­sti ultimi non furono nemmeno capaci di mantenere il loro regime di san­gue.

L'unica via d'uscita per l'umanità è il comunismo. E poiché soltanto il proletariato può realizzarlo, esso appare in quest'ora come il vero salvatore dell'umanità dagli orrori del capitalismo, dallo sfruttamento atroce, dalla politica coloniale, dalla fame, dall'abbrutimento, da tutte le mostruosità del capitalismo finanziario e dell'imperialismo. Questa è la grande missione storica del proletariato. Esso potrà subire delle sconfitte in singole battaglie, e magari in singoli paesi; ma la sua vittoria finale è così inevitabile come è fatale il tramonto della borghesia.

Da quanto abbiamo esposto qui sopra, risulta chiaramente che tutti i partiti, tutti i gruppi e tutte le classi che pensano ad un risorgimento del ca­pitalismo e credono che l'ora del socialismo non sia ancora venuta, aiutano, volenti o nolenti, scientemente od incoscientemente la controrivoluzione. A questa categoria appartengono tutti i partiti dei socialisti collaborazionisti e ricostruttori. (A questo proposito vedi anche il seguente capitolo).

Letteratura. - L. Kassienef, Il sistema economico dell'impe­rialismo; N. Lenin, L'imperialismo come più recente fase del capitalismo; N. Bucharin, L'economia mondiale e l'imperialismo; G. Zinovief, Sindacati e trust in Russia; N. Lenin (Antonof), Il militarismo; Pavlo­vic, Che cosa è l'imperialismo; Pavlovic, Le grandi strade ferroviarie; lo stesso, Militarismo e marinismo; lo stesso, I risultati della guer­ra mondiale. - Opera fondamentale, ma di difficile lettura è Il capitale fi­nanziario di R. Hilferding.

Inoltre vedi i libri seguenti: C. Kautsky, La via al potere; Ker­scenzef, L'imperialismo inglese; Losovsky, Ferro e carbone (la lotta per l'Alsazia-Lorena); G. Zinovief, L'Austria e la guerra mondiale; Pokrovsky, La Francia nel periodo della guerra; Cheraskof,L'In­ghilterra nel periodo della guerra; M. Lurje (Larin), Il paese vittorioso; lo stesso, Gli effetti della guerra; G. Zinovief, Triplice alleanza e triplice intesa; A. Lomof, La dissoluzione del capitalismo e l'organizza­zione del comunismo; N. Osinsky, L'edificazione del socialismo (primo capitolo).

Inoltre sia lecito anche rinviare al romanzo di Jack London, Il tal­lone di ferro.

Note:

10) La parola "monopolio" deriva dal greco "monos" (unico) e "polis" (Stato, amministra­zione, dominio).

11) Un pud = kg. 16,389. N.d.r.

Prima di copertina
L'ABC del comunismo

Quaderni di n+1 dall'archivio storico.

Scritto nel 1919 da Bucharin e Preobragenskij, questo volumetto fu tra i primi saggi che la III Internazionale raccomandò a tutti i Partiti comunisti del mondo come efficace strumento di propaganda del programma e dell'impostazione tattica del comunismo.

Indice del volume

L'ABC del comunismo