Numero 118, 19 dicembre 2007

Non solo bombe

Negli Stati Uniti procede l'adattamento delle forze armate alla guerra globale. Le unità militari devono diventare moduli di un sistema flessibile in grado di affrontare ogni tipo di missione, dalle operazioni su larga scala al "lavoro sporco" oscuro e poco telegenico. Tutto ciò, scrive The Economist, richiede organizzazione e soprattutto denaro: i militari di professione costano, come costano gli appalti alle ditte private, le tecnologie moderne, i governi fantoccio. Sempre più uomini sarebbero necessari per controllare territori che diventano sempre più ostili. La guerra è ormai del tutto assimilabile al mondo della produzione: per ogni combattente occorrono dieci o venti addetti alla pianificazione, alla logistica, ai servizi e... alla pubblicità. La speculazione impera come sui mercati finanziari e le industrie sono in presa diretta con gli uffici del Pentagono per distruggere e ricostruire. La spesa militare americana è risalita ai livelli della guerra fredda, ma non ha più alle spalle un paese in crescita come allora. Perciò Washington deve convincere gli alleati a investire nella guerra americana proprio nel momento in cui essi si defilano aspettando qualche impossibile miracolo dalle prossime elezioni.

2006: Dall'equilibrio del terrore al terrore dell'equilibrio

Il collasso del fronte interno americano

L'uomo capitalistico è sempre più la mera appendice di un processo lavorativo che gli è estraneo. E' ridotto a sensore, valvola, termostato, apparecchio di controllo o carburante della grande macchina produttiva. Vorrebbe vivere secondo le lusinghe della propaganda ideologica, ma non gli è neppure consentito di esistere in quanto uomo. E siccome la guerra ricalca ed esaspera il mondo della produzione e del mercato, ecco che in essa l'abbrutimento assurge a livelli estremi. "C'è un'epidemia di suicidi" denuncia la rete televisiva Cbs al termine di un'inchiesta. Nel 2005 ci sono stati 6.256 suicidi tra ex-combattenti, una media di 17 al giorno. Il doppio dei soldati morti sul campo dal 2003 a oggi in Iraq. E il numero dei suicidi aumenta enormemente fra coloro che hanno partecipato alle guerre in Afghanistan e Iraq: inseguiti dai fantasmi dei torturati e dei massacrati, non riescono più a vivere una "normalità" altrettanto mostruosa della guerra. In fondo i suicidi si negano a questa società; manifestano allo stesso tempo il bisogno di cambiamento e l'impossibilità di realizzarlo entro i limiti di un sistema che li ha portati a quel gesto estremo.

2002: L'importanza del movimento americano contro la guerra

L'inferno delle carceri italiane

Il Capitale moderno, macchinista e razionalista, riduce sempre di più il numero dei lavoratori produttivi, perciò di lavoro non ce n'è proprio e non se ne può keynesianamente inventare più di tanto. Chi perde la sua condizione di lavoratore potenziale, o non la trova affatto, diventa un esubero permanente nei ranghi della sovvrappopolazione assoluta. Spesso diventa anche un candidato naturale alle già sovraffollate patrie galere. E alle malattie che allignano nell'ambiente. Adesso, oltre all'Aids, alla tubercolosi, ai disturbi psichici e ai suicidi, nelle carceri italiane arriva anche l'epatite C. Un detenuto su tre ne è colpito. Da un'indagine Gfk-Eurisko emerge che il 62% dei detenuti ha una patologia che richiede l'intervento medico. Di questi il 43,5% soffre di disturbi psichiatrici, per cui si moltiplicano gli atti di autolesionismo. Il 37% di tutti i detenuti è di nazionalità straniera e la fascia d'età più numerosa è quella tra i 30 e i 34 anni. Uno spreco immane e insensato di energia sociale. Un enorme potenziale umano, ben altrimenti indirizzabile, buttato via.

2006: La legge della miseria crescente

La condanna del capitale

In Dubai, dove è vietata l'organizzazione sindacale, per la prima volta c'è stato uno sciopero. I quattromila operai addetti alla costruzione di quello che sarà il più alto e lussuoso grattacielo del mondo hanno incrociato le braccia contro le inumane condizioni di lavoro ed il salario troppo basso. Essendo tutti immigrati, sono stati in un primo tempo minacciati di espulsione in massa. In un secondo tempo le loro richieste sono state parzialmente soddisfatte, anche perché era impossibile rimpiazzarli immediatamente in un cantiere così gigantesco e complesso. Il governo dell'Emirato ha comunque incaricato la polizia di controllare che siano rispettati gli standard, pur miserabili, previsti per i lavoratori stranieri, che sono ben 700.000 su 4 milioni di abitanti. Meglio non correre il rischio di un contagio rivendicativo. Non c'è niente da fare: dove c'è Capitale c'è proletariato, dove c'è sfruttamento c'è o ci sarà lotta.

2005: L'autonomizzarsi del Capitale e le sue conseguenze pratiche

Thyssen-Krupp, la morte differenziale

Dopo l'ennesimo incidente mortale sul lavoro, questa volta alle acciaierie della Thyssen-Krupp di Torino, i sindacati hanno affermato: "Non è più tollerabile questo continuo stillicidio: ognuno deve assumersi le proprie responsabilità". E dunque se le assumano i sindacati per primi. Essi da decenni sono i garanti della competitività italica sul mercato mondiale, il che significa controllare i costi dei fattori di produzione affinché su quello stesso mercato i prodotti della siderurgia nostrani siano confrontabili con quelli cinesi, indiani, ecc. L'acciaieria di Torino finirà per essere chiusa per "salvare" quella di Terni, ma nel frattempo dovrà produrre in concorrenza con il differenziale di plusvalore ricavabile in altri paesi. Lo sanno tutti che in Occidente la siderurgia è diventata una sfera produttiva marginale e che questa è la condizione in cui prospera il "risparmio sul capitale costante", cioè sugli impianti, sulla loro manutenzione, sulla sicurezza. Per essere concorrenziali con i cinesi o gli indiani occorre sfruttare a ritmo cinese e indiano, abbassare la soglia di sicurezza e ammazzare operai conseguentemente. E tutto ciò nella matematica certezza che Torino è solo l'anticamera di Terni la quale sarà l'anticamera di qualche altro processo di delocalizzazione produttiva e così via. Negli anni '50 scrivemmo che nelle vecchie miniere di carbone europee gli incidenti producevano "morte differenziale" in quanto esse erano in concorrenza con le nuove miniere di altri continenti. Rendita differenziale dai prodotti della terra e plusvalore differenziale da quelli delle fabbriche decidono quali miniere e fabbriche devono chiudere tra quelle che non sono, come dicono politici e sindacalisti, competitive. E' una legge economica, di fronte alla quale cozza ogni "rivendicazione" a tavolino e diventa insopportabile l'abbraccio mostruoso fra i proletari sopravvissuti e le "autorità addolorate".

1951: Partito rivoluzionario e azione economica
1954: La morte differenziale
2002: Chiudete agli uomini quelle dannate miniere!

Lo stupratore non bussa, ha le chiavi di casa

Lo stereotipo dello "stupratore medio", è quello dell'immigrato clandestino. Ma la realtà è molto diversa dalla propaganda dei democratici pantofolai imbottiti di televisione. Statistiche dell'Istat ci mostrano che il 69% delle violenze sessuali nel nostro Paese avviene in famiglia. E solo nel 6% dei casi l'autore della violenza è completamente estraneo alla cerchia delle persone conosciute. In questo 6% solo un decimo dei violentatori è di origine straniera. A dispetto dei provvedimenti forcaioli del Governo, l'origine delle violenze sulle donne è dunque da ricercarsi all'interno delle rassicuranti mura domestiche. Quando l'uomo si sente tale solo quando mangia, beve e si accoppia (attività che condivide con le bestie), mentre si sente bestia quando lavora (attività che gli sarebbe peculiare), qualcosa deve scattare nei rapporti con gli altri. La famiglia è ormai un decrepito involucro entro cui c'è il nulla, un mero moltiplicatore di violenza dovuta alla rabbia e alla frustrazione accumulate. D'altra parte la famiglia mononucleare e radicata localmente è in contraddizione con la società aperta e globalizzata. La degenerazione dei rapporti sociali si acutizza, e vengono in mente Marx ed Engels, che si aspettavano l'accelerazione dello sfascio sociale proprio osservando le manifestazioni spurie da esso prodotte...

2005: Una vita senza senso

Piano globale anti-crisi

I super-manager della finanza globale sono ideologicamente liberisti e praticamente statalisti. In parole povere: intascano privatamente quando c'è guadagno, reclamano la socializzazione delle perdite quando c'è crisi. Guidate dalla FED e dalla BCE, le banche centrali dei paesi europei e nord-americane hanno coordinato i loro sforzi per iniettare a più riprese liquidità nei mercati finanziari. Per stimolare l'economia Washington ha diminuito i tassi per tre volte in pochi mesi. Una specie di supermonopolio interstatale per l'intervento nel Santo Mercato. Altro che liberismo. Naturalmente paga Pantalone, cioè il popolo bue, come si diceva una volta quando non c'era il politically correct. Comunque, nonostante l'intervento, la crisi scatenata dalla "scoperta" che i mutui subprime erano incastrati nei normali strumenti di risparmio non accenna a mitigarsi. Nessuno si fida più di nessuno, specie fra banche, proprio quando la fiducia dovrebbe essere il principale motore del credito e quindi della ripresa. Per noi è una conferma dei nostri assunti vedere i pasdaran del liberismo comportarsi come inveterati fascisti controllori dell'economia. Solo che i liberisti attuali, a differenza dei fascisti, eliminano lo stato sociale che questi ultimi avevano realizzato.

1947: Il ciclo storico del dominio politico della borghesia
2000: Patologie dell'investimento
2002: Stato di avanzata decomposizione

Autotrasportatori: sciopero di una non-classe

Le cifre le abbiamo lette tutti: il trasporto di merci avvviene per l'85% su gomma; gli autotrasportatori sono per il 95% titolari di ditte individuali; il 40% dei camion viaggia vuoto a causa della polverizzazione della proprietà e della conseguente mancanza di coordinamento. Non siamo insomma di fronte a un settore industriale ma a una delle idiozie del capitalismo. Tuttavia il trasporto su gomma interessa davvero quell'85% di merci senza il movimento delle quali l'intero paese si ferma. Una non-classe, proprietaria e rovinata dalla concorrenza, indebitata fino al collo e pronta a tutto, è dunque arbitra del flusso produttivo e distributivo. Sì, perché le formulette alla moda che si leggono sui giornali, come outsourcing e just-in-time production cycle sottintendono una realtà effettiva: quelle che un tempo erano fasi di una linea di produzione all'interno di una fabbrica, oggi sono fabbriche collegate dalla strada, dalla ferrovia e dalla rotta marittima e aerea. La rete di comunicazioni è l'insieme di ciò che un tempo era fatto di nastri trasportatori su cui si muovevano i semilavorati fino alla fase finale. Paradossalmente, quindi, il capitalismo degenere ha cooptato la non-classe dei padroncini nella figura dell'operaio complessivo descritta da Marx. Una follìa, perché l'outsourcing integra un sistema diffuso di fornitori, e la produzione just-in-time integra nel tempo e nello spazio il flusso dei materiali in modo che non vi sia né un deposito permanente degli stessi. Consegnare questo sistema integrato a una rete fibrillante di padroncini anarcoidi è puro suicidio, e uno Stato che permette ciò merita di soccombere. L'unico aspetto positivo di un tale sistema è la sua estrema vulnerabilità rispetto agli eventuali assalti del proletariato: come hanno mostrato i lavoratori della UPS negli USA e i curtador de rutas (tagliatori di strade) in Bolivia e Argentina, bastano pochi picchetti nei punti nevralgici per bloccare l'intero sistema.

2002: Evitare il traffico inutile
2002: Risultati del processo di produzione immediato

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