Storia della Sinistra comunista Vol. III - Parte prima
Dal II al III Congresso dell'Internazionale Comunista. Settembre 1920 - giugno 1921

Premessa

Sedici anni sono intercorsi fra il II e l'attuale III volume della Storia della Sinistra comunista: complesse vicende interne hanno infatti impedito di accelerare, come avremmo auspicato, il ritmo della sua pubblicazione. Forse, d'ora innanzi - rimesse in ordine le questioni di fondo del movimento comunista internazionale nel cruciale biennio 1919-21 - sarà meno difficile tenere un passo più spedito.

Il presente volume copre il periodo che va dalla chiusura del II Congresso dell'Internazionale Comunista (fine agosto 1920) fino alla vigilia del III (giugno 1921): poco meno, dunque, di un anno, denso però di avvenimenti capitali come la nascita delle più importanti sezioni nazionali del Comintern, e di insegnamenti duraturi come quelli che si possono trarre sia da quel processo di formazione - anche se nella maggior parte dei casi non del tutto rettilineo -, sia dalle prime esperienze di vita attiva - anche se non di rado deludenti - dei principali partiti europei.

La ricostruzione di un periodo così accidentato, nel quale campeggiano come casi unici di linearità, coerenza ed efficacia la genesi e i primordi del Partito Comunista d'Italia sotto direzione di sinistra, ha imposto un lavoro attento e rigoroso di ordinamento critico dei fatti, di documentazione delle diverse tendenze in seno ai vecchi partiti socialisti prima delle rispettive scissioni (ed eventualmente dopo), di riscatto delle tesi programmatiche e delle forme di azione pratica della estrema Sinistra comunista dalla piramide di deformazioni vergognose e di inauditi stravolgimenti accumulata su di esse dalla compiacente "storiografia" dell'opportunismo riformista e staliniano (ivi comprese le filiazioni postume, "eurocomuniste" od altre, di quest'ultimo), di chiarificazione di punti cardinali della strategia e della tattica del Comintern e dei rapporti fra la sua direzione (o fra singoli esponenti di questa, primi fra tutti Lenin e Trotsky) e le direzioni dei giovani partiti comunisti nell'area europea, i soli che all'epoca avessero un peso.

Appunto perché la tendenza della pseudo-storiografia su accennata è di spedire nel dimenticatoio o rivedere e correggere secondo il susseguirsi capriccioso degli ordini di scuderia i fatti del movimento comunista (un movimento per definizione antiriformista ed antidemocratico; quindi, oggi, esecrando), e di relegare i principi e i programmi che lo ispiravano tra i ferrivecchi di una storia troppo remota per fornire utili strumenti alla fatua inventività dell'oggi, o di sottoporli ad analoghi trattamenti di chirurgia estetica, ci è sembrato necessario abbondare nella riproduzione di testi, mozioni, discorsi, articoli, brani di dichiarazioni, ecc. emananti non solo dalla corrente alla quale ci richiamiamo - la Sinistra comunista cosiddetta "italiana" o "astensionista" - ma dalle correnti sia avverse, sia confluite con essa nel Partito comunista d'Italia al Congresso di Livorno, e seguire l'evolversi, parallelo ma di segno opposto, dei giovanissimi partiti d'Italia e di Germania nel vivo degli scontri di classe da cui fu punteggiato il primo dopoguerra europeo e degli inizi di reazione - non più soltanto di Stato - borghese ai ripetuti attacchi proletari. Il lettore ha così di fronte un quadro non episodico e, soprattutto, non deforme di quelle che furono le scissioni di Halle, di Tours e di Livorno, degli sviluppi ai quali variamente dettero luogo, delle polemiche che, più o meno fondatamente a seconda dei casi, suscitarono, delle soluzioni che vennero date, più o meno felicemente, ai problemi della tattica rivoluzionaria. Se vorrà documentarsi di più, troverà le indicazioni opportune per risalire, di là dalle "ricostruzioni" postume - tutte interessate e, nessuna esclusa, da prendersi con tanto di molle - alle fonti che, almeno quelle, non mentono.

Che non si tratti qui di un ennesimo saggio di storiografia dotta o accademica, va da sé, soprattutto per chi abbia letto i due volumi precedenti (Dalle origini alla metà del 1919; Dal Congresso di Bologna a tutto il II congresso di Mosca). In quel passato, infatti, noi non cerchiamo la soddisfazione di curiosità intellettuali o di pruriti culturistici, ma le certezze offerte da quella continuità di pensiero e di azione, di teoria e di prassi, in cui risiede, a nostro avviso, la base unica ed insostituibile di un futuro che veda la classe operaia internazionale ridiscendere in campo contro l'intero fronte della classe nemica, dei suoi istituti politici e giuridici, delle sue formazioni di combattimento, dei suoi arnesi repressivi, e veda il partito comunista guidarlo non verso un'ennesima edizione di democrazia rappresentativa vagamente dipinta in rosa, ma verso la rivoluzione e la dittatura proletarie. La registrazione dei fatti, la ricostruzione dei programmi nella loro intatta e completa integrità, la documentazione delle risposte tattiche date al succedersi degli scontri fra le classi sui terreni più diversi, ci servono per la riscoperta non di illustri documenti di un passato sepolto, ma delle vere ed uniche armi di battaglia e di vittoria del proletariato internazionale: riscoperta, giacché si tratta di disseppellirle da sotto la coltre di oblio nella quale, dopo averle spezzate o distorte, l'opportunismo pretenderebbe di sommergerle per sempre; quindi, anche, ristabilimento del vincolo oggi purtroppo infranto fra passato, presente e futuro del movimento operaio in genere e comunista in specie. Storiografia dichiaratamente di parte, non è quindi per compiacimento intellettuale o per amor di campanile che essa si sforza di ricostruire il vero volto di uno dei periodi più gravidi di destino della storia del moto di emancipazione della classe lavoratrice; è per necessità di vita, cioè, indissolubilmente, di pensiero e di azione.

Due avvertenze per il lettore. La prima è che la piena comprensione dei temi svolti in questo III volume presuppone la conoscenza dei due che lo precedono, soprattutto del II, al quale esso si riferisce quasi pagina per pagina sia per le questioni di principio - codificate nelle tesi e condizioni di ammissione del II congresso mondiale (in esso integralmente riprodotte e commentate) -, sia per le questioni tattiche, allora già chiare per noi nelle linee dorsali come lo erano, divergenze secondarie a parte, per i bolscevichi. è vero che, nel riprendere il filo del II volume, si è sempre cercato di richiamare alla memoria del lettore i dati fondamentali di quel patrimonio teorico collettivo, ma è altrettanto vero che solo alla luce di una visione d'insieme che non tralasci nessuno dei punti giudicati sin da allora vitali ai fini di un sano e non disarmonico sviluppo del movimento rivoluzionario, le grandi questioni poste sul tappeto in quel periodo, ma più che vive tutt'oggi, possono essere assimilate e comprese. I tre volumi formano, in realtà, un corpo unico.

La seconda avvertenza riguarda la sola deroga apportata ai criteri ispiratori dei volumi precedenti: il complicato intreccio delle correnti e delle polemiche sviluppatesi in questo periodo e, ancor più, nel successivo, e del loro modo di esprimersi nelle diverse sedi e circostanze, ci ha infatti costretti a dare nome e cognome all'autore degli articoli, interventi congressuali, discorsi, ecc., più rappresentativi delle posizioni teoriche e pratiche della Sinistra comunista, così come è stato necessario farlo, del resto, per altri esponenti del partito di Livorno molti dei quali (non tutti, fortunatamente) passati successivamente in campo avverso. Resta tuttavia fermo che, per noi, il rinvio alla persona ha senso unicamente nel quadro di un orientamento collettivo di pensiero e di azione, al quale il militante Amadeo Bordiga (giacché di lui si tratta) diede tutto se stesso, costituendone l'immutabile polo, senza mai chiedere o rivendicare nulla per sé, meno che mai una forma qualunque di notorietà e, peggio, proprietà personale.

Legenda

IC = Internazionale Comunista (Comintern)

EKKI = Comitato esecutivo dell'Internazionale comunista

PCd'I = Partito comunista d'Italia

FGCd'I = Federazione giovanile comunista d'Italia

PSI = Partito socialista italiano

PC(b)R = Partito comunista (bolscevico) di Russia

KPD = Partito comunista di Germania

VKPD = Partito comunista unificato di Germania

KAAPD = Partito comunista operaio di Germania

SPD = Partito socialdemocratico di Germania

USPD = Partito socialdemocratico indipendente di Germania

SFIO = Sezione francese dell'Internazionale operaia (Partito socialista francese)

CGL = Confederazione generale del lavoro

USI = Unione sindacale italiana

CGT = Conféderation générale du travail

CE = Comitato esecutivo

CC = Comitato centrale

CS = Comitato sindacale (anche CCS = c. centrale s.)

CdL = Camera del lavoro

I. Il processo di formazione delle sezioni nazionali dell'Internazionale comunista

Non si può misurare la portata unica della scissione di Livorno, né capire fra quali scogli fu costretto fin dai primi anni a navigare il vascello apparentemente così sicuro della III Internazionale, senza aver chiaro l'effettivo processo di costituzione delle sue principali sezioni nazionali. A tale processo è quindi necessario dedicare un capitolo a sé: per ragioni di spazio, esso non si occuperà che di due grandi partiti - il Partito comunista unificato di Germania, VKPD, e il Partito comunista di Francia, PCF - costituitisi in quanto tali nella seconda metà del 1920, le cui vicende sono tuttavia emblematiche di un corso generale, sostanzialmente analogo in Cecoslovacchia e Svizzera, in Belgio e Spagna o nei Paesi scandinavi, cioè là dove la formazione di sezioni nazionali europee del Comintern avvenne dopo il II congresso mondiale (1).

Il lettore ricorderà che, di ritorno da Mosca, il delegato della Frazione comunista astensionista del PSI osservò che sebbene, durante i dibattiti, ai portavoce dell'USPD (il Partito socialdemocratico indipendente di Germania) e della SFIO (il PS francese) non fossero state risparmiate "le più aspre rampogne" e le già dure Condizioni di ammissione fossero state infine "completate ed inasprite", il succo della discussione era stato che "in massima i ricostruttori potranno entrare con certe garanzie nell'Internazionale"; ed espresse l'opinione che "in certi paesi e soprattutto in Francia [vi fosse] il pericolo dell'entrata di elementi troppo destri" (2).

Senza dubbio, la mente del nostro compagno si volgeva con particolare preoccupazione alla Francia, sia perché l'atteggiamento dei due "pellegrini" di Parigi era stato più arrendevole di quello delle loro controfigure berlinesi, e quindi l'adesione di una consistente pattuglia di "ricostruttori" all'IC - l'Internazionale Comunista - appariva più probabile di quella della "sinistra" indipendente, sia perché i precedenti dei Cachin e dei Frossard e le caratteristiche del "centrismo" francese apparivano più inquietanti dei precedenti e delle caratteristiche di un'ala dell'USPD, capeggiata da Däumig e Stöcker, che non si pensava potesse risultare altrettanto massiccia (3). Comunque, la tendenza generale era indiscutibile, e solo chi non aveva nessuna riserva di fondo da sollevare in merito alle basi costitutive del Comintern poteva non soltanto guardarla con allarme, ma denunciare il pericolo di un suo affermarsi sul piano organizzativo a dispetto del "catenaccio" delle "Condizioni di ammissione". Oggi si può affermare, ma è troppo semplice per autorizzare chicchessia a distribuire biasimi e condanne (come è nel costume degli eredi - del resto coerenti con la... tradizione di famiglia - del "comunismo europeo"), che il pericolo era più serio e imminente di quanto non fosse lecito supporre al momento. è una constatazione, però, che non serve a nulla se non si cerca di capire perché le cose andarono come sono andate, e come noi, primi fra tutti, avremmo auspicato che non andassero.

Anticipando sulle conclusioni di questo capitolo, si può riassumere una prima metà del nostro giudizio, dicendo che il processo di costituzione dei PC in Europa e America non rispose in generale ai requisiti fissati dalle Tesi del II Congresso; e ciò in larga misura perché i fattori, già indicati nel precedente volume, che indussero i bolscevichi ad allentare le maglie del rigore tattico ed organizzativo nelle procedure di ammissione - fattori destinati, ripetiamolo, a pesare tanto più sulla direzione dell'IC, quanto più si prolungava l'isolamento della Russia sovietica - non trovarono argine o almeno contrappeso nell'esistenza di solide, seppur numericamente modeste avanguardie, tali da offrire sicure garanzie di fungere da punti di cristallizzazione di forze genuinamente proletarie e da centri di irradiazione del programma comunista rivoluzionario fra le masse lavoratrici. Così, invece di ricevere dal movimento operaio occidentale la linfa di cui aveva urgente bisogno per dimostrarsi anche in questo campo all'altezza sia dei principi da essa splendidamente rivendicati, sia della propria tradizione di battaglia, la leadership dell'Internazionale trovò sulla propria già difficile strada, e non poté non assorbire, le inerzie e, peggio, le tradizioni inveterate di lassismo teorico, programmatico e organizzativo dei partiti della II Internazionale, neppur riscattate dal vigore di minoranze comuniste fermamente decise a contrastarle. è facile oggi registrare che, nella schiacciante maggioranza dei casi, i PC nacquero su basi molto più vicine al filone secondinternazionalista che a quello bolscevico; ma il fatto è che, nell'Europa centro-occidentale, quest'ultimo filone o non esisteva affatto, o era troppo fragile per opporre un'alternativa reale al corso prevalente in loco, o era troppo incerto o dubbio per non destare i sospetti, le diffidenze o addirittura l'ostilità - in sé legittime - di Mosca.

Comunque, in assenza di correnti che non divergessero dal bolscevismo per nessun punto essenziale e che, anzi, avessero assunto spontaneamente e non all'ultima ora posizioni totalmente collimanti con le sue nelle questioni decisive del movimento, l'Esecutivo dell'IC si trovò di fronte a un duplice problema. Primo: che fare di frazioni spesso consistenti di partiti socialisti, spinte dalla situazione generale e dalla pressione della base operaia ad allinearsi con Mosca, ma rimaste legate per mille fili alla tradizione democratica e parlamentare dell'Occidente? Secondo: come comportarsi, di fronte ad avanguardie altamente combattive e sinceramente rivoluzionarie; ma non molto più marxiste della destra e del centro contro i quali esse si battevano con coraggio, è vero, ma su un terreno infido? Il materiale con cui la storia condannava il Comintern a costruire il proprio edificio era quello: la soluzione del problema non poteva quindi non essere, come fu, imperfetta e in qualche caso persino negativa (4).

1. - In Germania

Quel che colpisce immediatamente nelle due scissioni, francese e tedesca, - alla prima delle quali dedichiamo qui uno spazio maggiore, rinviando per la seconda al II volume - è la rapidità con cui, nel giro di due o tre mesi dal II Congresso, la tesi dell'adesione al Comintern guadagnò non un'ala minoritaria, ma la grande maggioranza di partiti sulla cui natura centrista non v'erano mai stati dubbi (5), nel cui seno le grandi questioni che agitavano internazionalmente il movimento operaio e comunista non erano mai state seriamente dibattute (né, se non in casi del tutto individuali, se ne era mai avuta conoscenza), e la cui ala sinistra si era finora distinta dalla destra solo per la disposizione, d'altronde non priva di riserve, a subire il dettato formale dei 21 Punti, o per calcolo freddamente politico, o per suggestione emotiva.

É vero che l'adesione all'IC era stata invocata dagli Indipendenti tedeschi di sinistra fin dall'autunno 1919 e, in particolare, dal congresso di Lipsia di dicembre; è vero che solo cedendo alle loro insistenze l'USPD aveva infine deciso di imboccare la via di possibili trattative con Mosca - e, parallelamente, con partiti socialisti eventualmente inclini a rompere i legami di stretta dipendenza dalla superstite, ma impopolare e ormai boccheggiante, II Internazionale. Sarebbe però vano cercare nei numerosi articoli di Stöcker ed altri nelle pagine della "Freiheit" un serio accenno alle questioni teoriche che scavavano ormai da anni un solco invalicabile non solo tra riformismo e comunismo, ma fra diversi modi di concepire la stessa rivoluzione e dittatura proletaria e la via e i mezzi per giungervi. Non meno vano sarebbe sperar di scoprire fra le pieghe del resoconto della Reichskonferenz dell'1 - 3/IX/1920, convocata apposta per discutere il bilancio della partecipazione al II congresso di Mosca, il segno di un sostanziale passo avanti rispetto alle posizioni difese allora dai due delegati di "sinistra", pronti ad accettare i principi della dittatura e del terrore purché della prima non si pretendesse un'applicazione meccanicamente uniforme in tutti i paesi, e del secondo non si facesse una "norma tattica" assoluta (6), o a battersi perché si agisse "cum grano salis" nel sostituire al decentramento organizzativo tipico del loro partito la pur riconosciuta come indispensabile centralizzazione.

L'atteggiamento tenuto dalla "sinistra" alla stessa Reichskonferenz, di fronte all'attacco in grande stile di Crispien e Dittmann, appare oggi blandamente e perfino timidamente difensivo. Da un lato i due portavoce dell'ortodossia centrista vi si fanno forti del compito originariamente affidato loro di "trattare" con Mosca ("ni sans conditions - per dirla con i Cachin-Frossard - ni sans concessions") e di esprimere un parere sull'opportunità di continuare a farlo, non di decidere a favore o contro l'adesione immediata. Non esitano quindi a ripetere gli ormai classici clichés della "barbarie russa" (é mai concepibile che "il proletariato tedesco, la grande massa della popolazione qui in Germania", vengano messi sullo stesso piano della "massa grigia, sorda, analfabeta" di laggiù?), della dittatura esercitata dal partito bolscevico sulla classe operaia e sull'Internazionale, e della necessità di "mantenere l'autonomia del partito nelle questioni interne e nel campo tattico, naturalmente nel rispetto [?!] dei principi e dei deliberati dei congressi internazionali", non accettando di lasciarsi ridurre a "sezione nazionale di una Compagnia internazionale di Gesù". Alla richiesta di "creare dovunque un apparato organizzativo clandestino parallelo" (punto 3 delle Condizioni di ammissione) obiettano che, in tal modo, si creerebbero due partiti, di cui quello legale dominato dall'oscuro e incontrollabile partito illegale. Sfoderano l'intero arsenale delle loro armi polemiche per opporre ai principi della conquista violenta del potere, della dittatura e del terrore rossi, l'argomento pieno di saggezza che non si deve provocare la classe dominante minacciandola di rovesciarne l'apparato di dominio - così si rischia di farsi sbattere fuori legge.

Infine, come già a Mosca in sintonia con Serrati, "sinistreggiano" nelle questioni nazionale e agraria, criticando la tattica proposta in materia dall'IC come "rein russisch", cioè ispirata a interessi e considerazioni "puramente russi".

Dall'altro lato, i flebili portavoce della dissidenza di "sinistra" non hanno da ribattere nulla di più fondamentale che la necessità, reale ma insufficiente sul piano teorico, di opporre all'attacco della borghesia internazionale un fronte compatto ed unitario, che faccia perno sulle uniche forze esistenti di fatto: il potere sovietico e il Comintern (7).

Nella stessa occasione, la destra, sicura del controllo totalitario dell'apparato, anticipa il congresso straordinario del partito a Halle dal 20 ottobre originariamente fissato al 12; cosi mostra, è vero, di non saper fare i suoi conti, perché la discussione in tal modo strozzata non le evita poi la sconfitta, ma rende un ennesimo servizio indiretto alla causa della conservazione spingendo la "sinistra" a battersi o sul terreno della polemica di dettaglio intorno alla gestione dittatoriale del partito da parte di chi non ha parole sufficienti per bollare l'Esecutivo di Mosca di prevaricazione continuata e di esercizio autocratico del potere, o su quello delle semplificazioni frettolose ideate per ottenere il massimo effetto immediato in mancanza di argomentazioni teoricamente valide, e giungere al traguardo di Halle su posizioni, almeno passionali, di forza (8). Su questo piano - il piano della mozione degli affetti - la cosiddetta sinistra otterrà la maggioranza e, tre mesi dopo, condurrà al Partito comunista unificato qualcosa come 400.000 (secondo altri calcoli, 300.000) iscritti contro i 78.000 e poco più del KPD: non passerà un anno, e i più se ne saranno nuovamente andati.

Manca d'altro lato, negli stessi giorni, un'azione conseguente del KPD che valga almeno in parte a colmare il vuoto teorico e programmatico in cui si preparano la scissione dell'USPD prima, la fusione della sua ala estrema con il partito comunista di spartachiana memoria, poi. E si capisce perché. Fin dal congresso degli Indipendenti a Lipsia, la direzione del KPD ha vivamente caldeggiato un avvicinamento ai Däumig-Stöcker.

L'opuscolo di A. Thalheimer Der Weg der Revolution, dei primi del '20, dà il tono di quello che sarà poi, in velata polemica con Lenin, il modo costante di considerare l'USPD come partito di "traviati" assai più che di peccatori impenitenti. A Mosca, pur non lesinando le critiche ai delegati indipendenti, Levi si oppone in sede di commissione al proposito dell'Esecutivo di fare dei 21 punti, come testo invariabile, il banco di prova della serietà dell'adesione dell'USPD all'IC (come più tardi, per il partito di Livorno, il suo argomento-principe è che non si devono fare questioni puramente organizzative; un altro passo, e non si faranno questioni in generale!). Al vertice del partito, la tolleranza e benevolenza verso l'USPD sia pure di sinistra è solo eguagliata dall'insofferenza, per non dire intolleranza e ostilità, verso il KAPD - il Partito operaio comunista di Germania - e nelle sue file serpeggia la convinzione più o meno esplicita che nel gennaio 1919 sia stato un errore quello di dividersi.

Nello stesso partito, non è un mistero (comunque, al V congresso nazionale dell' 1 - 3/XI, Ernst Meyer ne farà esplicita menzione) che a Mosca la Centrale è stata severamente biasimata sia per l'opposizione - spinta fino alla minaccia di abbandonare i lavori - ad ammettere al Congresso i delegati kaapedisti, sia per un contegno di aristocratico distacco dalle masse e di passività di fronte alle loro lotte (molto controversa sarà la posizione assunta dal KPD in novembre durante lo sciopero degli elettricisti berlinesi), nascosto dietro un timore ossessivo del "putsch" in cui i bolscevichi fiutano una inclinazione al fatalismo legalitarista e riformista - giudizio la cui sostanziale fondatezza (9) troverà purtroppo ampia conferma nei mesi successivi.

Tutto, insomma, cospirava anche da parte comunista per mettere in sordina le questioni politiche di fondo (10), le sole che, pur senza eccessivi apriorismi, potessero determinare in seno all'USPD una rigorosa - e quanto necessaria! - selezione; tutto contribuiva ad orientare lo stesso Esecutivo dell'IC verso soluzioni meno rigide di quelle contemplate dai "21 Punti", nel tentativo di controbilanciare l'una con l'altra tre correnti del movimento operaio tedesco, delle quali nessuna presentava le caratteristiche proprie di un vero partito bolscevico ma ognuna poteva forse compensare con i suoi aspetti positivi le deficienze delle altre.

Così, da parte moscovita, la preparazione del terreno all'eventualità di una scissione in campo indipendente avvenne in forme che non potevano non risentire della preoccupazione di non urtare le suscettibilità di vasti strati dell'USPD, ma soprattutto dei suoi organi direttivi, più che dell'esigenza di fare chiarezza nelle sue file, specialmente operaie, sulle grandi questioni politiche e programmatiche. La lettera aperta dell'EKKI (il Comitato Esecutivo dell'IC) a tutti i membri dell'USPD, datata 28/IX (11), precisava, è vero, che

"fino a un certo punto l'IC è diventata una moda. Non vogliamo che la nostra Internazionale comunista assomigli alla seconda, che ha fatto bancarotta. Spalanchiamo le porte ad ogni organizzazione rivoluzionaria proletaria di massa [sorvoliamo sulla formula, equivoca e foriera di deviazioni future] ma ci pensiamo sopra dieci volte prima di aprire le porte a nuovi arrivati che provengono dal campo di dirigenti piccoli-borghesi, burocrati e opportunisti, come Hilferding e Crispien",

e poneva l'alternativa:

"Rompere con gli elementi di destra, sempre esitanti, ed unirvi a tutto il proletario rivoluzionario internazionale, oppure unirvi agli esitanti elementi del centro piccolo-borghese e rompere con il proletariato rivoluzionario internazionale".

Ma tutta l'argomentazione ruotava intorno alla necessità oggettiva di "un unico partito operaio universale, con proprie sezioni nei diversi paesi" e di un'organizzazione fortemente centralizzata in grado tanto di "sfruttare ogni sia pur pallida opportunità legale", quanto di creare una "propria organizzazione clandestina"; quasi che le Condizioni di ammissione facessero corpo a sé indipendentemente dall'insieme - pur rivelatosi così controverso per tanti delegati al II Congresso - delle tesi costitutive, 1919 e 1920, del Comintern, e fossero a loro volta suscettibili di variazioni e attenuazioni per ridursi infine a un pugno di clausole di contenuto generico.

Fu pure in uno spirito sostanzialmente analogo che Zinoviev e, a maggior ragione, Losovsky intervennero al congresso degli indipendenti ad Halle (12-17/X), lasciandosi condizionare, anche nel giudizio postumo sul celebre evento, da un'atmosfera assai più da assemblea dei soviet o da comizio di massa, che da congresso di partito, e al cui centro non era tanto il dilemma riformismo-comunismo, conquista graduale-conquista rivoluzionaria del potere, democrazia (sia pure "proletaria")-dittatura, quanto l'alternativa, fonte di frettolose convergenze nell'immediato e di radicali inversioni di rotta in avvenire: pro o contro Mosca!

É noto che il vero scontro ebbe allora per protagonisti Zinoviev e Hilferding (chiamato a sostenere con maggiore sottigliezza e sistematicità di Crispien o Dittmann le tesi della destra indipendente, e non a caso spalleggiato da Martov). Ora l'asse della requisitoria del presidente della III Internazionale é, anzitutto, la contrapposizione fra la tesi "menscevica" di Kautsky e C., secondo cui ci si sarebbe trovati in un periodo storico analogo a quello successivo alle rivoluzioni del 1848-1849, quindi senza prospettive di sbocchi rivoluzionari immediati, e la visione bolscevica di un nuovo 1847, dunque di un ciclo rivoluzionario le cui premesse oggettive erano tutte drammaticamente presenti e attendevano solo di essere fecondate dal partito alla testa delle organizzazioni proletarie di massa. Il vero "oggetto del contendere" non apparivano perciò 21 Punti piuttosto di 18, ma la preparazione o meno delle masse all'inevitabile scontro finale tra le classi - scontro che, come tutto nella situazione sociale sembrava dimostrare, non apparteneva più al regno della speculazione astratta o dell'aspettativa messianica, ma a quello delle possibilità concrete, e in funzione del quale, assai più che per motivi di principio, si giustificava la rivendicazione della violenza rivoluzionaria, della dittatura e del terrore. L'asse della requisitoria é, in secondo luogo, l'accusa alla destra di nascondere dietro una valutazione pessimistica della situazione, contrabbandata come frutto di analisi rigorosamente scientifiche, il timore di tutto ciò che di "brutto" Dittmann e Crispien avevano visto in Russia - il caos, la fame, la miseria - e, prima ancora, di quel "fanatismo" senza il quale le masse non troverebbero mai la forza di spezzare, a costo appunto di sopportare atroci sacrifici, il giogo dello sfruttamento e dell'oppressione capitalistici (12) - tutti rilievi critici più che legittimi, ma insufficienti per mettere i militanti proletari dell'USPD di fronte ai problemi, tutti ancora da digerire, della preparazione rivoluzionaria.

Questi problemi erano alla base di quelle stesse Condizioni di ammissione che la "sinistra" si ostinava, non meno della destra indipendente, a presentare come di contenuto essenzialmente organizzativo per un verso, di valore contingente, in quanto riferito alla fase costitutiva dei partiti comunisti (la più bisognosa di rigide delimitazioni e la più vincolata a necessari, anche se fastidiosi, formalismi), per l'altro. Ma il sorvolarli dandoli quasi per impliciti, e privilegiando gli argomenti tratti dalla situazione per infondere nei congressisti il senso della loro concretezza, della loro aderenza ai bisogni più immediati della lotta, tendeva - volente o nolente il relatore - a creare intorno al Partito e all'Internazionale una larga fascia di simpatie e anche di appoggi proletari, assai più che ad orientare ed inquadrare quelle che si pensava sarebbero state le nuove leve della milizia comunista in Europa.

Del resto, fu soprattutto il successo propagandistico di Halle che misero allora in risalto sia la stampa comunista internazionale, sia lo stesso Zinoviev nell'opuscolo Zwölf Tage in Deutschland, subito dopo il ritorno in Russia. Era, insomma, come se si trattasse non già di costituire di sana pianta il partito comunista, ma di raccogliere intorno a un partito già formato un'ampia fascia di consensi.

Il testo sul quale il congresso fu chiamato a votare, e che recava le firme dei principali esponenti della "sinistra", proclamava:

"Il congresso vede nell'affasciamento dei partiti rivoluzionari di tutti i paesi in un'Internazionale unitaria e rigidamente organizzata una necessità assoluta. Al capitale mondiale organizzato devono essere contrapposte come un solo blocco le forze rivoluzionarie del proletariato di tutti i paesi.

Il congresso vede nella III Internazionale comunista l'organizzazione mondiale del proletariato rivoluzionario, e decide l'adesione immediata a questa Internazionale perché ne condivide i principi e le tesi.

Nell'interesse della necessaria compattezza e capacità di azione dell'Internazionale, il congresso dichiara espressamente che, nella nuova Internazionale, di un'autonomia dei partiti nel senso finora corrente non si può più parlare. Ogni partito aderente deve rinunciare ad una parte della propria autonomia ed inserirsi pienamente nell'organizzazione internazionale di combattimento, per elevare al grado più alto la capacità di lotta sua e del proletariato internazionale.

Il congresso approva le Condizioni di ammissione all'Internazionale comunista e incarica la direzione di vegliare sulla loro traduzione in pratica.

Il congresso dà mandato alla Centrale di condurre a termine presso l'Esecutivo le pratiche di adesione del nostro partito e chiede di avviare trattative per la costituzione di una sezione nazionale tedesca dell'IC" (13).

Messa ai voti, la mozione raccolse 237 voti favorevoli contro 156 no e 2 astenuti: la scissione era fatta. Ma val la pena di osservare, 1) come l'accettazione integrale dei 21 punti vi si accompagni alla formula-scappatoia della rinuncia ad "una parte" della propria autonomia (il fatto di insistervi non è occasionale: il nostro delegato al II congresso aveva già posto il dito su quella che poi sarebbe stata la piaga generale dei congressi costitutivi delle sezioni nazionali del Comintern) (14); 2) come si instauri la procedura non già dell'adesione degli scissionisti al partito già esistente e riconosciuto come tale per la chiara e indiscutibile continuità delle sue basi teoriche e della sua azione pratica (del KPD, qui, non si fa nemmeno parola!), ma delle trattative su un piede di parità fra l'ala sinistra separatasi come partito a sé (15) dalla vecchia sezione della II Internazionale e l'Esecutivo del Comintern; 3) come, infine, la frazione di maggioranza di un partito che aveva condiviso con la "socialdemocrazia pura" dei Noske e Scheidemann le più gravi responsabilità di governo nella neonata repubblica prima, di sostegno a questa stessa repubblica e alle sue istituzioni alla tipica maniera "indiretta" (ma appunto perciò molto più efficace) del centrismo poi, dia per avvenuta la liquidazione completa del proprio passato, del peso oggettivo delle sue disastrose conseguenze sulla classe operaia tedesca, e del bagaglio politico e dottrinario che di quel passato era parte integrante. La mozione ha tutto il sapore di un semplice e burocratico atto notarile.

L'accettazione integrale dei 21 punti avrebbe dovuto implicare l'assimilazione di un insieme articolato di posizioni di principio, quelle che sole possono definire un partito non solo nominalmente comunista. Ora Paul Levi aveva un bell'esclamare, salutando la scissione di Halle:

"A Halle è stato definitivamente sepolto il programma di Erfurt, con la sua democrazia formale, le sue rivendicazioni immediate, la sua rivoluzione come prospettiva per l'eternità, la sua strategia di logoramento, il suo riformismo. Esso ha fatto il suo lavoro. Riposi in pace!" (16).

Il troncone di sinistra dell'USPD aveva, si, cambiato biancheria, ma, di là dai propositi dei suoi migliori militanti, non aveva nei fatti nessun titolo che lo autorizzasse a mettersi sullo stesso piano del partito sulle cui file già orrendamente decimate non aveva mai cessato di abbattersi il furore e della reazione borghese e dell'opportunismo socialdemocratico, senza che ciò lo inducesse mai a cedere le armi.

Per la "sinistra" indipendente, il processo reale - non meccanica e burocratica procedura - avrebbe dovuto essere, nell'ipotesi estrema, quello dello scioglimento dei ranghi, e dell'adesione individuale - anche se decisa collettivamente - all'unico partito già aderente all'IC; nell'ipotesi più blanda, quello dell'adesione collettiva preceduta dallo scioglimento collettivo. Sennonché la rivendicazione e la traduzione in pratica di un simile corso presupponevano, da parte del KPD, non solo la capacità, ma anche la disposizione a fungere non da duplicato del nuovo gruppo, ma da alternativa al vecchio partito nel suo insieme; ed è giocoforza ammettere che, nella Centrale dell'autunno 1920, questa disposizione e, a fortiori, questa capacità non esistevano. La questione non verte su Paul Levi come persona: verte su ciò che di collettivo egli incarnava nella difficile congiuntura allora attraversata dalla ex Lega di Spartaco.

Da un'emorragia fisica e morale come quella che aveva colpito il proletariato tedesco nel 1918-1919 non si esce senza profonde cicatrici, e il KPD era tanto meno in grado di rimarginarle, in quanto i terribili colpi della reazione si erano abbattuti su di esso quasi all'atto della sua costituzione, mentre perduravano nelle sue file perplessità ed incertezze sulla stessa opportunità di costituirsi in partito, e mentre intorno a numerosi problemi di valutazione del momento storico e della tattica da seguire esistevano seri dissensi; in quanto, d'altra parte, la fase montante del dopoguerra sociale aveva ceduto il passo, dopo il punto culminante della lotta contro Kapp e C., a un deciso riflusso solo interrotto da sporadici sussulti. Braccato, ridotto di numero, isolato in un clima di crescente apatia, il KPD tendeva - ed è obiettivamente spiegabile che tendesse - a rimettere in causa la sua stessa ragion d'essere, o almeno a ripiombare nei dubbi e nelle ambiguità che ne avevano accompagnato la complessa gestazione.

Non stupisce perciò la convinzione, sempre più diffusa soprattutto nelle sue sfere dirigenti - e collimante (come si ricorderà dai discorsi di Däumig e Stöcker a Mosca) con quella della sinistra USPD -, che il partito sarebbe stato veramente il partito rivoluzionario di classe soltanto il giorno in cui si fosse rimarginata la ferita della scissione del gennaio 1919. E non solo perché così si sarebbe infine rotto uno stato di isolamento dalle grandi masse che della ex Lega di Spartaco faceva non tanto un partito, quanto (secondo Levi) una setta, ma per una serie di considerazioni che, alla lunga, si identificavano con quelle accampate dagli Indipendenti nei lunghi dibattiti prima, durante e dopo il Congresso di Mosca, sulle questioni fondamentali del partito, della rivoluzione proletaria, della dittatura, del terrore, ecc.

Già in una delle accese discussioni interne che avevano caratterizzato la pur breve esistenza del KPD, Paul Frölich aveva fra gli altri deplorato la mancanza di iniziativa, l'indeterminatezza - non solo nelle parole ma negli atti - dei confini tracciati dalle sfere dirigenti nei confronti dei falsi partiti operai, e il tono di dottorale sufficienza con cui, mentre si ripeteva che le masse non erano mature per la rivoluzione, si pretendeva di ovviare alla loro "immaturità" con la pura arma della propaganda non sostenuta e avvalorata dall'azione, ottenendo il doppio risultato negativo di creare intorno a sé un'atmosfera di demoralizzazione e pessimismo e di favorire l'inclinazione a non turbare le chances legali di agitazione e proselitismo conquistate a prezzo di una estrema cautela nell'azione pratica. E vi aveva riconosciuto una specie di riduzione all'assurdo di alcune tesi tipiche della Luxemburg:

"Il concetto formulato nel Programma di Spartaco secondo cui prenderemo il potere soltanto sulla base della volontà esplicita della grande maggioranza della classe operaia viene completamente castrato dall'uso che ne fa il comp. Levi. Nella comp. Luxemburg, essa aveva il senso di impedire nel partito una tattica putschista. Qui, invece, esso è utilizzato per ostacolare e indebolire l'azione... Per evitare che la classe operaia prenda troppo presto il potere attraverso una tattica putschista, si cerca di rendere impossibili lotte che potrebbero assumere il carattere di battaglie decisive" (17).

E Frölich aggiungeva che, se è delittuoso buttarsi a capofitto in imprese votate al fallimento perché oggettivamente premature e soggettivamente impreparate, il peggior modo di preparare il terreno alla vittoria consiste nel subordinare ogni azione alla matematica certezza di poter evitare la sconfitta (la teoria, dirà Radek, della "rivoluzione notarilmente assicurata"!), a costo di sfibrare la classe operaia e renderne più lungo e doloroso, invece che più breve e sicuro, il cammino. La naturale e più che legittima aspirazione ad una "pausa di respiro" (Atempause) non doveva convertirsi in rinuncia o, peggio, capitolazione.

Al già citato V congresso del partito, E. Meyer solleverà lo stesso problema a proposito della passività di fronte alle lotte rivendicative (e della pavidità in campo parlamentare), di cui aveva dato prova di recente l'organizzazione spartachista, e farà risalire quella passività all'eterna ossessione del colpo di mano di minoranze incolte, "immature", incapaci di esprimere coscienza e volontà proprie. Erano, d'altronde, gli indipendenti "di sinistra" a invocare ad ogni pié sospinto l'autorità della Luxemburg e del "Programma di Spartaco" contro una interpretazione "giacobina" - ma, in realtà, leninista - della rivoluzione e della dittatura proletarie; ed è sul loro terreno che la direzione del KPD tendeva sempre più a spostarsi, nell'aspirazione, comune alle due parti, di seppellire il passato ricucendo la tela di una "unità" troppo presto e "sconsideratamente" infranta.

Posto in discussione era, prima di tutto, il quando della nascita del partito. Dando veste teorica sia alle esitazioni degli Spartachisti durante la guerra circa la rottura organizzativa con l'SPD prima e con l'USPD poi, sia a considerazioni già svolte a Mosca in un discorso di cui nel II volume (p. 472) abbiamo già citato uno dei brani più caratteristici, nell'imminenza del congresso di fusione Levi spiegava come due vie si aprano ai comunisti - in generale e per principio - nel decidere se separarsi o no dal troncone socialdemocratico per dar vita ad una propria organizzazione: quando la classe operaia non è ancora impegnata in "azioni rivoluzionarie", alla fondazione del partito "non si giunge mai abbastanza presto" ; in caso contrario, non ci si arriva mai abbastanza tardi, "perché allora il processo di metamorfosi intellettuale delle masse, il processo del loro rivoluzionamento, e così rapido, i programmi esistenti e le istanze di partito vengono così bruscamente buttati all'aria, che ogni giorno di più che i comunisti passano nel [vecchio] partito, in modo da contribuire al processo di radicalizzazione dei suoi militanti, costituisce un punto di vantaggio" (18).

Retrodatata nientemeno che al 1903 la fase storica in cui, alla luce di questa teoria oggettivamente disfattista, la scissione dall'SPD sarebbe stata augurabile, non restava che deplorarne l'avvento negli anni successivi, in particolare (a causa della maggior vicinanza alla situazione rivoluzionaria postbellica) nei giorni della capitolazione socialdemocratica di fronte alla guerra imperialistica ed all'union sacrée; a maggior ragione, poi, nei mesi a cavallo fra il 1918 e il 1919, appunto quando, cioè, l'organo-guida della rivoluzione era urgentemente necessario e invece mancava!

Nella stessa ottica, l'autocritica (o autoflagellazione?) della centrale investiva non solo il quando, ma il come della nascita del partito nel gennaio 1919. Creato fuori tempo, il KPD sarebbe infatti caduto preda, allora, non solo di una pattuglia di rivoluzionari generosi ma politicamente sprovveduti (ohne jede politische Schulung!) ma di una frazione del Lumpenproletariat, figlia della guerra e del disordine postbellico, e formata da "un accozzaglia di speculatori ed imbroglioni, sbirri e banditi di origine più borghese che proletaria". Alla sua prevalenza si sarebbero dovute le impazienze del gennaio e del marzo e, di riflesso, l'eccidio di Luxemburg, Liebknecht, Jogisches e migliaia e migliaia di combattenti comunisti. Così "si spiegava" l'infantilismo di sinistra da cui era imbevuto lo stesso congresso di fondazione, e da cui ci si era felicemente ma troppo tardi liberati al congresso di Heidelberg, in modo da potersi infine presentare all'appuntamento della riconciliazione con gli USPD di sinistra nella veste di partito maturo, riflessivo, responsabile, epurato da originarie scorie semi-anarchiche, semi-blanquiste e semi-putschiste (19). Così si confermava, nello stesso tempo, l'estraneità alla dottrina comunista di ogni tolleranza verso gli strati meno "coscienti" e "politicamente preparati" della classe operaia, riuniti in un sol fascio sotto l'etichetta di "proletariato straccione" e identificati in blocco con la teppaglia, quindi non ritenuti degni, neppure in una piccola minoranza, dei tentativi di riscatto e inquadramento eventualmente compiuti dal partito - dovendo quest'ultimo, "nell'interesse della sua influenza sulla classe lavoratrice", evitare con essi, in blocco e in tutti i casi, "ogni comunanza fosse pure soltanto morale" (20).

Dietro questa concezione del partito si nascondeva un'altra reductio ad absurdum di formule care alla Luxemburg. Elevando ad assoluto la proclamazione che "la Lega di Spartaco si rifiuta di giungere al potere solo perché gli Scheidemann-Ebert hanno fatto bancarotta" e "non prenderà mai il potere in altro modo che attraverso la chiara, indubitabile volontà della grande maggioranza della massa proletaria in Germania, mai in altro modo che in forza della sua cosciente adesione alle idee, agli scopi e ai metodi di lotta della Lega di Spartaco" (cfr. II volume, p. 461), Levi teorizzava, in aspra polemica con Radek, che "la possibilità della dittatura del proletariato esiste non quando la borghesia precipita, ma quando il proletariato è in ascesa, quando ha conquistato in un'aspra lotta rivoluzionaria la maturità spirituale, la volontà e la chiara percezione che solo nella sua dittatura è la salute; quando, appunto perciò, l'ultimo proletario è imbevuto di fede nel socialismo" (21). All'assenza di queste condizioni di coscienza diffusa del socialismo e delle vie del suo trionfo rivoluzionario egli faceva risalire le rivoluzioni mancate di Ungheria e di Baviera (la funesta alleanza con la socialdemocrazia di sinistra era il massimo al quale poteva spingersi la coscienza delle masse: i comunisti magiari e bavaresi si erano limitati a riflettere lo stato d'immaturità proletaria; dunque, se qualcosa si poteva rimproverar loro, era di esservisi adattati senza reagire!) e, nel loro corso, gli eccessi (?!) di intimidazione e di terrore. Così ci si ricongiungeva, per vie traverse, alla concezione centrista della rivoluzione come prodotto non già dello scatenarsi della forza elementare delle grandi masse sotto la pressione di condizioni materiali intollerabili ma del loro grado di "adesione cosciente al socialismo" - rivoluzione cosciente e rivoluzione pulita, che "in momenti gravi" non rifuggirà, è vero, da "misure drastiche anche contro i vigliacchi e i traditori nelle proprie file", ma non per questo eleverà la forca a "metodo di unificazione e affasciamento del proletariato", e (si può ben immaginare) ridurrà a un minimo omeopatico il terrore rosso nei confronti della stessa borghesia, vinta ma tutt'altro che doma.

Tutto ciò dimostra come fosse avvenuta nelle sfere dirigenti del KPD una tendenziale identificazione con le tesi di quegli Indipendenti, la cui accettazione nel partito era una conclusione forse inevitabile del corso storico postbellico in Europa (22), ma che, per non avere effetti rovinosi, avrebbe richiesto da parte spartachista la massima fermezza nel difendere e propagandare i cardini della concezione marxista dello Stato, della rivoluzione e della dittatura, quindi anche la capacità di assimilare e digerire il corpo fondamentalmente estraneo che il KPD stava per accogliere nel proprio seno e l'autorità non solo morale ma obiettiva per dare un indirizzo univoco e uno sbocco sicuro all'intero processo di fusione. E il nodo veramente drammatico della situazione era che tutto ciò, almeno nei circoli determinanti del partito, mancava. Quando perciò, nella sua lettera al KPD dopo il congresso di Halle, l'EKKI scriveva:

"La fusione di tutti gli elementi comunisti in Germania in un unico grande partito è un avvenimento di portata storica mondiale: lo Spartakusbund ha assolto la sua missione; nel momento attuale il suo compito è di fondersi nel grande partito unito ed essere la forza motrice dell'unificazione comunista",

esso si inchinava di fronte alla constatazione di fatto che era la Lega di Spartaco a "fondersi nel grande partito unico", non erano, viceversa, le forze tendenzialmente rivoluzionarie ma non ancora pienamente comuniste dell'USPD a fondersi nello Spartakusbund, mentre, chiedendogli di "prender la guida del grande partito comunista unito che si sta[va] formando, per arrecargli la chiarezza di idee comunista" (23), si preparava alla difficile prospettiva di doversi accollare integralmente il compito che avrebbe invece dovuto assolvere in comune col partito tedesco. Contava, per riuscirvi, non solo sulle proprie forze, ma su quelle di un movimento che si sperava più saldo su scala internazionale e localmente suscettibile di consolidarsi nelle lotte imminenti oltre che nel crogiuolo di un'organizzazione internazionale saldamente centralizzata. In questa luce si capisce pure l'insistenza di Mosca perché gli Spartachisti mostrassero "più tolleranza che in passato nei confronti del KAPD", in considerazione del fatto che, nel congresso tenuto l'1-4/VIII a Berlino, questo aveva sconfessato il "nazionalbolscevismo" di Wolffheim e Lauffenberg e l'antisovietismo viscerale di Otto Rühle, e, d'altra parte, contava nelle proprie file "seri ed eccellenti rivoluzionari proletari" (24).

Nessuno più dei bolscevichi guardava criticamente le teorie dei Pannekoek e dei Gorter. Ma, "considerando il passato del movimento tedesco", dirà Zinoviev al III congresso mondiale, "era per noi evidente che il pericolo [per il partito nato dalla fusione con gli indipendenti] non minacciava affatto da sinistra nello stesso grado che da destra" e che, fino a un certo punto, le deviazioni kaapediste avevano trovato il loro terreno di coltura negli errori e nelle deficienze spartachiste; erano quindi più facili da "curare", e l'apporto dei migliori elementi del KAPD avrebbe forse conferito al partito unificato la tempra, lo slancio e la combattività che un lungo calvario e, infine, l'afflusso di dubbie (almeno ai vertici) falangi indipendenti tendevano a spegnere (25). Di qui l'idea di convocare a Mosca, per un franco dibattito intorno ai punti di dissenso, una delegazione kaapedista guidata dallo stesso Gorter, e, in seguito all'incontro - malgrado i gravi contrasti che lo splendido discorso di Trotsky (26) non solo non aveva eluso, ma aveva posto nel massimo rilievo - la decisione di accoglierne il partito, come "simpatizzante", nell'IC.

Il tentativo, anomalo (27) non meno della fusione USPD-KPD, non ebbe seguito. Da un lato, i Gorter e Pannekoek non attenuarono affatto la loro polemica, e la speranza sia di convincerli, sia di attirare nell'IC gli elementi più decisi della loro base operaia si dimostrò illusoria; dall'altro il partito tedesco non solo non diede prova di maggior "tolleranza" verso il KAPD, ma nell'elevare protesta contro la sua ammissione nel Comintern come partito simpatizzante si servi di argomenti alcuni dei quali erano formalmente validi (28), ma contenevano la stessa nota di altezzosa arroganza e di aristocratico disdegno con cui esso era solito raggruppare sotto l'insegna "infamante" di putschista e di Lumpen chiunque non si adattasse agli schemi nitidi ed eleganti di una superiore "saggezza tattica".

Il disegno strategico di Mosca presupponeva o che le due "malattie" del movimento, l'opportunismo centrista e l'infantilismo di sinistra, fossero meno profondamente radicate di quanto erano in realtà, o che, nel fuoco di una situazione sociale montante, avvenisse un processo "fisiologico" dì selezione delle cellule sane da quelle irrimediabilmente perdute. Presupponeva, inoltre, che esistesse almeno il nocciolo di un partito comunista al riparo delle due opposte "infermità", quindi in grado di opporre loro i necessari anticorpi. Della realtà oggettiva per cui né l'una né l'altra condizione era presente, almeno nel grado che sarebbe stato indispensabile, e delle sue conseguenze nefaste, tutta l'Internazionale pagherà poi lo scotto. Nel 1920, era difficile sia immaginare una soluzione diversa da quella infine adottata, sia credere che una soluzione diversa, basata su criteri rigidi come quelli che avremmo preferito noi, potesse offrire maggiori garanzie di consistenza e durata (29), il che, se si considera che cos'era e che cosa sarà in seguito quella che potremmo chiamare non tanto la sinistra del VKPD (il Partito comunista unito di Germania), quanto la sua ala "critica", è francamente lecito dubitare. Quello di cui ci si può rammaricare è che, non allora ma nel periodo successivo, si siano abbandonati i criteri di rigore organizzativo e tattico che soli avrebbero permesso un raddrizzamento della rotta del partito, col risultato di trovarsi ogni volta di fronte al fatto compiuto, da parte del VKPD, di brusche e quanto mai discutibili svolte tattiche e organizzative; peggio ancora, di lasciarsene condizionare o, addirittura, dirigere. Ma questo è un altro capitolo della storia del movimento comunista internazionale, quello che per la prima volta ci vide in profondo dissenso da quella che era stata, per noi più che per qualunque altra corrente comunista europea, la più grande conquista proletaria del dopoguerra, la III Internazionale; e non è qui il luogo per trattarne.

La storia successiva della formazione del VKPD è presto narrata. Il congresso di fusione del 4-7/XII a Berlino fu preceduto, come già detto, da un ultimo congresso del KPD l'1-3/XI: di là dalle sue risoluzioni, del resto senza particolare rilievo, esso offri l'immagine non certo entusiasmante di un partito che si considerava, salomonicamente, alla vigilia d'incontrarsi a metà strada con la sinistra USPD - questa (secondo Thalheimer) essendosi mossa in direzione della chiarezza teorica; il KPD avendola parzialmente smarrita in una successione di errori tattici - e che si accingeva ad affrontare profondamente diviso, e in dissenso con l'internazionale, la difficile prova dell'unificazione con forze anche numericamente superiori (30). Il congresso di unificazione si svolse poco dopo in un clima d'entusiasmo, quindi senza importanti dibattiti; ma val la pena di registrare ancora una volta l'intervento di Levi, sia perché ribadisce il disaccordo con Mosca nella questione del KAPD come possibile candidato alla fusione, sia perché sostiene la validità della speciale tattica adottata già allora verso il governo socialista di Sassonia, consistente in una opposizione non più "leale", come ai tempi di Kapp, ma "sleale", dunque di appoggio, si, ma al subdolo scopo di "offrire ai socialisti maggioritari ed agli indipendenti di sinistra l'occasione di fare sfoggio delle loro arti" - un'anticipazione, questa, della tattica del "governo operaio", in cui solo gli arciopportunisti di oggi possono scoprire un'affinità con la direttiva data da Lenin nella "Malattia infantile" di "rinunciare per un certo periodo di tempo al tentativo di rovesciare con la forza un governo in cui la maggioranza degli operai ha ancora fiducia" (31), perché si risolveva, proprio all'inverso, nella rinuncia a non sostenerlo dandogli una mano per... aiutarlo a smascherarsi come strumento della reazione, e non chiedendosi se, cosi facendo, non si rischiasse di passare per i suoi complici.

A riprova che i due tronconi del movimento godevano di pari dignità e, come tali, di pari diritti, il congresso finì con l'eleggere due presidenti del nuovo partito - Levi e Däumig - affiancati da una Centrale anch'essa paritetica, votando all'unanimità un programma tanto generico, quanto prolisso e completato da fin troppo minuti schemi di programma in materia agraria, sindacale ed organizzativa. Due mesi dopo, la Zentrale era in piena crisi: nell'aprile 1921, i due presidenti, un numero non irrilevante di dirigenti grandi e piccoli, e un forte stuolo di militanti, lasciavano il partito.

Note

(1) Il congresso di unificazione fra l'esistente nucleo comunista in Cecoslovacchia e la strapotente "sinistra" separatasi dal PS si tenne a cavallo fra l'ottobre e il novembre 1921; quello fra il gruppo, già separatosi dal PS nel gennaio 1920 in Belgio, delle Jeunes Gardes e la più forte ala "sinistra" socialista, il 14/IX/1921; quello fra il PC svizzero, costituitosi già nel maggio 1919 su basi teorico-programmatiche tuttavia malsicure, e la frazione socialista di sinistra, il 6/II/'21 e quello fra il Partido comunista de España, fondato dalla gioventù socialista il l5/IV/1920, e il Partido comunista obrero de E., tardivamente separatosi dal PS, il 7-14/XI/1921. In tutti questi casi la "sinistra" socialdemocratica, fondendosi con i preesistenti nuclei comunisti, piccoli suppergiù quanto, in Italia, la Frazione comunista, ma, a differenza di questa, teoricamente e organizzativamente fragili, non ebbe difficoltà a sommergerli, dando vita ad organismi pletorici (caso limite: in Cecoslovacchia, 350.000 iscritti, e dirigenti, come Smeral, notoriamente socialpatriottici durante la guerra) e a sfondo centrista. Quanto ai partiti scandinavi, fu una minoranza del PS (il quale aveva già aderito alla III Internazionale) a separarsi dal tronco socialdemocratico in base all'accettazione dei 21 punti (primavera 1921); ciò non impedì al nuovo PC, decisamente minoritario e apparentemente selezionato, di prolungare in nuova veste le tradizioni gradualiste, parlamentari e legalitarie dell'antica "casa madre".

(2) Intorno al Congresso internazionale comunista, nel nr. 24, 3/X/1920 de Il Soviet, riprodotto in Storia delta Sinistra comunista, vol. II, Milano, 1972, p. 678.

(3) In un articolo del 22/VII/1920, Trotsky notava a sua volta come "la questione dell'ammissione del Partito socialista francese nella III Internazionale presenti difficoltà e pericoli anche maggiori di quella dell'entrata della socialdemocrazia indipendente di Germania", in cui, almeno, una corrente di sinistra si era delineata, e dal cui seno, in ogni caso, era uscito da oltre un anno e mezzo il Partito comunista (Lega di Spartaco); e metteva in guardia contro la manovra dei "ricostruttori" di uscire dalla II Internazionale, come del tutto collimante con gli interessi di sopravvivenza della destra dei "Renaudel, Thomas e tutti gli altri servi della guerra imperialistica" (Il Partito socialista francese, ora in The First Five Years of the Communist International, Londra, 1973, I, pp. 116 e sgg.).

(4) I bolscevichi non si facevano illusioni. In Saluto ai comunisti italiani, francesi e tedeschi, il l0/X/1919, Lenin aveva scritto della Sinistra Indipendente che essa "riunisce, senza alcuna base ideale, pavidamente, i vecchi pregiudizi della piccola borghesia sulla democrazia parlamentare e il riconoscimento comunista della rivoluzione proletaria, della dittatura del proletariato, del potere sovietico" (Opere complete, XXX, p. 42), e i suoi discorsi al II congresso mostrano come non avesse affatto cambiato parere un anno dopo. Alla fine di febbraio 1922, in Note di un pubblicista, osservava ancora: "La trasformazione di un partito europeo di tipo vecchio, parlamentare, riformista di fatto e appena sfumato di colore rivoluzionario, in un partito di tipo nuovo, realmente rivoluzionario e realmente comunista, è una cosa estremamente ardua. L'esempio della Francia dimostra forse ciò nel modo più evidente". (Ibid., XXXIII, p. 188). Era passato un anno e mezzo dal congresso di Tours, e a Mosca si dovevano ancora fare i conti con un partito riformista appena appena riverniciato, con l'unica prospettiva seria di "farne qualcosa di diverso" solo grazie all'azione sia di una congiuntura rivoluzionaria che si sperava vicina, sia di una salda e coerente direzione centrale del Comintern, che poi non ci fu.

(5) Cfr. il par. 9 ("L'infame gioco degli Indipendenti in Germania") del cap. VIII del II vol. della presente Storia, cit., pp. 442-454, ma anche i paragrafi successivi e le pp. 525-527.

(6) Cfr. il riassunto dei loro discorsi al II congresso nel nostro II volume, pp. 611-612. Dai resoconti dei dibattiti in sede di commissione tedesca, apparsi nella "Rote Fahne" del 2/IX e del l0/X, non risulta che i due si fossero spinti molto più in là della dichiarazione di accettazione integrale delle Condizioni di ammissione, benché con riserve circa una loro applicazione indiscriminata.

(7) Abbiamo citato alcune frasi dall'ampio Protokoll der Reichskonferenz der USPD vom 1. bis 3. September 1920 zu Berlin,1920.

(8) In un appello del 20/IX ai membri del partito perché eleggano come delegati al congresso uomini che "stiano sul terreno dell'IC", i firmatari Däumig, Koenen, Hoffmann, Stöcker e Braunthal respingono il tentativo della "destra opportunista e riformista" di spostare il dibattito su questioni puramente organizzative, e indicano come asse centrale del congresso tre punti, la cui indeterminatezza rinvia all'armamentario massimalista italiano tipo 1919-1920: "Vogliamo diventare, si o no, un chiaro, puro, rivoluzionario partito di massa e, espulsi tutti gli elementi che ci frenano e paralizzano, essere finalmente il partito proletario che veramente dirige e stimola? Vogliamo, sì o no, tendere senza riserve e con tutti i mezzi alla dittatura del proletariato come obiettivo della nostra battaglia? Vogliamo, si o no, una forte e compatta Internazionale dei proletari rivoluzionari di tutti i paesi?" (In Dokumente und Materialien zur Geschichte der deutschen Arbeiterbewegung, VII, Berlino, 1966, p. 299).

(9) Cfr. nel nostro II volume (pp. 540 sgg. e, in particolare, p. 543) un giudizio non dissimile formulato da A. Bordiga dopo un incontro con esponenti sia del KPD, sia del KAPD a Berlino.

(10) Una circolare della Centrale del KPD del 5/X (in Dokumente u. Materialien etc., cit., VII, p. 308) lamenta bensì che, nella sua lotta per l'adesione alla III Internazionale, la sinistra USPD si muova "prevalentemente" su un piano organizzativo trascurando "completamente" l'azione politica, e invita i compagni a non tacere mai le divergenze tuttora aperte con essa. Ma ci si può chiedere fino a che punto il testo della direzione di un partito tutt'altro che omogeneo come quello tedesco possa esprimerne l'unanime convinzione, mentre resta il fatto che il tono della stampa ufficiale del KPD e delle sue prese di posizione pubbliche è ben lontano dal rispecchiare in quei mesi una linea cosi precisa.

(11) Cfr. alcuni estratti in I. Degras, Storia dell'Internazionale Comunista attraverso i suoi documenti ufficiali, vol. I, 1919-1922, Milano, 1975, pp. 212-213.

(12) Unabhängige Sozialdemokratische Partei: Protokoll über die Verhandlungen des ausserordentlichen Parteitags in Halle, etc., Berlino, 1920. Alle pp. 144-178 il discorso di Zinoviev, dedicato in buon parte alla confutazione delle accuse rivolte ai bolscevichi di opportunismo nella questione nazionale e coloniale (riprese da Hilferding nel suo discorso, cfr. pp. 179-204, in cui l'azione svolta dall'IC in Oriente in base alle tesi del II Congresso e di Bakù è vista come espressione di "una politica di potenza della Repubblica sovietica, di lotta contro l'Inghilterra") e in quella agraria, e di autoritarismo burocratico nei metodi di direzione e organizzazione dell'Internazionale. Di Hilferding basti dire che non negò l'esistenza di condizioni economiche favorevoli ad uno sbocco rivoluzionario delle lotte operaie; ad esse però non sarebbe corrisposta una vera coscienza e volontà rivoluzionaria nelle grandi masse, che l'USPD si proponeva, appunto perciò, di "spingere fino al limite in cui saranno costrette a riconoscere la necessità di un salto al di là del regime borghese" - senza impazienze e, soprattutto, senza la pretesa di accelerare la rivoluzione a colpi di parole d'ordine...

(13) Dokomente u. Materialien, cit., VII, p. 328.

(14) Cfr. il nostro II vol. pp. 607 e 692, a proposito delle "particolari condizioni" che era prevedibile sarebbero state invocate a salvaguardia di una sia pur limitata autonomia dalle direzioni, ancora legate al passato secondinternazionalista, dei nuovi partiti.

(15) è caratteristico che dopo il congresso la vittoriosa maggioranza si sia affannata a presentarsi come la vera USPD contestando alla minoranza il diritto non solo di conservarne il nome, ma di mantenerne il patrimonio, organi di stampa e cassa compresi. (Dokumente u. Materialien etc., cit., VII, pp. 329-332). Da parte sua, per non urtare la suscettibilità della "sinistra" indipendente, in vista di una prossima fusione il KPD aveva già provveduto ad eliminare dalla propria sigla l'indicazione (S), cioè Spartakusbund: si trattava di arrivare alle trattative su un piede di parità, come due potenze di egual peso e di eguali diritti!

(16) Articolo nella Rote Fahne del 19 ottobre.

(17) P. Frölich, Die Kappiade und die Haltung der Partei, in Die Internationale, anno II, nr. 24, 24/VI/1921, p. 31. (Va osservato tuttavia che l'autore scivola a sua volta in ingenuità di tipo "infantile", né d'altra parte si dimostrerà meno incline a sterzate "di destra" in anni successivi). Al III congresso mondiale, Zinoviev ricorderà di aver detto un anno prima ai compagni tedeschi: "Non comprendiamo perché, quando da voi si verifica un movimento, ed esso subisce una sconfitta, vi affrettiate a dichiarare, come uno shibbolet, che era stato un putsch [...] Non venite a ripeterci sempre questa parola [...] Caratterizzare come putschista ogni movimento che non abbia avuto direttamente successo, è la cosa più facile del mondo. Anche noi, in Russia, prima di vincere abbiamo subito dozzine di sconfitte: se avessimo voluto considerare tutte quelle lotte come dei putsch, non avremmo mai riportato vittoria". (Protokoll des III. Kongresses der K.I., etc., Amburgo, 1921, pp. 181-182). Cfr. anche K. Radek, Die Krise in der V.K.P.D., in Die Internationale, anno III, nr. 3, fine marzo 1921.

(18) P. Levi, Der Partei tag der Kommunistischen Partei, in Die Internationale, nr. 26 della II annata, 1/XII/1920, p. 42.

(19) V'é tutta una serie di equazioni, nell'ideologia "levita": blanquismo = putschismo, senza il nocciolo rivoluzionario che pure Marx, Engels, Lenin gli hanno sempre rivendicato; putschismo = Lumpenproletariat che prende le redini della rivoluzione e del partito; Lumpenproletariat, in blocco e per tutta l'eternità, = feccia, canagliume; feccia = tutto ciò che sta a sinistra del partito di classe (e che rappresenta un pericolo molto maggiore di ciò che sta alla sua destra) e cosi via. Si veda anche in V. Götz, Friedrich Engels' politisches Testament, nr. 26 cit. di Die Internationale, la riduzione del "testamento politico di F. Engels" alla condanna del "blanquismo".

(20) Articolo cit., p. 43.

(21) P. Levi, Die Lehren der ungarischen Revolution, in Die Internationale, ann. II, nr. 24, 24/VI/1920, p.p. 32-33.

(22) Nel suo breve commento alla scissione di Halle, Il Soviet scriveva: "Certo, questa riunione di due partiti in uno, questa fusione, non può accettarsi che come un fatto di carattere eccezionale, ammissibile nella fase costitutiva dell'Internazionale comunista. L'eredità del II congresso dovrà essere quella della sistemazione del movimento in tutti i paesi, dopo di che non potrà più ammettersi altro processo di adesione alla III Internazionale che la normale adesione individuale ai Partiti che ne costituiscono le sezioni in ciascun paese". (Il Congresso degli Indipendenti tedeschi nel nr. 26, 24/X/1920, de Il Soviet).

(23) Lettere del CEIC al congresso del Partito comunista tedesco, ottobre 1920: estratti in Degras, op. cit., p. 214.

(24) Ibid. Alla questione si è già accennato nel vol. II, pp. 497-498 e nota 4 a p. 497. Cfr. anche l'articolo di Bordiga da Berlino La situazione in Germania e il movimento comunista, ibid., pp. 540-543.

(25) Rapporto Zinoviev nel già cit. Protokoll del III Congresso, pp. 180-182 e 185-187.

(26) Discorso sulla politica del KAPD alla sessione 24/XI/1920 del Comitato Esecutivo dell'IC, in L. Trotsky, The First Five Years of the Communist International, cit., I, pp. 174-189, e, ora, in Problemi della rivoluzione in Europa, Milano, 1979, pp. 105-121. Si ricorderà dal nostro II vol. che già al II Congresso soprattutto Lenin e Trotsky avevano avviato una discussione con i consiglisti, spontaneisti, operaisti, anarco-sindacalisti ecc. mettendosi sul loro proprio terreno e dimostrando come i principi ad essi più ostici (funzione del partito, carattere della dittatura proletaria, centralizzazione, ecc.) erano in realtà posti come esigenze imprescindibili dallo stesso sviluppo del loro pensiero e della loro azione.

(27) La nostra corrente si oppose anche in anni successivi all'introduzione nel Comintern della figura equivoca del "partito simpatizzante". Nel dicembre 1920 aveva preso posizione contro la decisione relativa al KAPD anche Humbert-Droz (allora molto vicino a noi, in seguito convertitosi alle manovre cosiddette elastiche dell'IC e allo stalinismo, salvo tornare successivamente in seno alla socialdemocrazia svizzera e mondiale) in un lucido articolo di Le Phare (cfr. J. Humbert-Droz, L'Internazionale Comunista fra Lenin e Stalin, Milano, 1974, p. 52). La risoluzione dell'EKKI sull'ammissione del KAPD, in via provvisoria, come partito simpatizzante, per "facilitare il processo di unificazione di tutti gli elementi comunisti tedeschi", si legge nella citata tr. it. del volume della Degras, p. 222. Essa invita tutti i membri del KAPD ad aderire "all'unica sezione del Comintern con pieni diritti in Germania", cioè il VKPD, e a portare avanti "al suo interno la battaglia in difesa dei propri punti di vista", pur non tacendo il proprio giudizio negativo sulla tattica di boicottaggio sia del parlamento, sia dei sindacati. In attesa dell'unificazione, il KAPD avrebbe dovuto pubblicare nei propri organi di stampa tutti i manifesti e le risoluzioni del VKPD e prestargli "sostegno fraterno in tutte le sue azioni". Certo, pur approvando nella riunione del CC del 3/II/1921 l'ammissione all'IC come partito simpatizzante, il KAPD non cessò mai di esprimere ostilità verso il partito "fratello", il quale d'altro lato gli restituì la pariglia con un astio anche superiore a quello riservato agli indipendenti e ai socialdemocratici. Era cosi preparata la rottura definitiva del KAPD non solo col partito tedesco, ma con la stessa Internazionale, al III congresso, nel luglio 1921.

(28) La lettera di protesta nella Rote Fahne del 28 dic. fa perno sui seguenti argomenti: 1) In paesi in cui la rivoluzione proletaria è all'ordine del giorno, non ci si deve associare a partiti non-comunisti [altrove e in altre situazioni, invece, si?] come il KAPD. 2) Diverse sezioni di quest'ultimo sono già passate al VKPD; la decisione di Mosca equivale perciò alla somministrazione di ossigeno a un moribondo: o l'Esecutivo giudica comunista il VKPD, e allora lo rafforzi, invece di indebolirlo mantenendo in vita un organismo alternativo; o è di altro avviso, e allora ne tragga le logiche conclusioni. 3) L'autorità dell'IC, al cui giudizio negativo sul KAPD ci si è appellati in lunghi mesi, è un'arma di propaganda che si spunterebbe il giorno in cui, per seguirne le direttive, si dovesse cambiare linguaggio. In un articolo del 24/XII, Levi è ancora più drastico: "Se il C.E. giudica che il VKPD non sia all'altezza dei suoi compiti, ne formi un altro; ma che sia uno ed uno solo". Considerazione giusta, se non fosse inficiata da un costante preconcetto sul KAPD, tanto ritenuto non-comunista, quanto (serratianamente) si propendeva a giudicare in fondo già comunista la sinistra USPD.

(29) D'altronde, l'accettazione senza riserve, da parte della Sinistra Indipendente, delle 21 Condizioni legò le mani all'EKKI come invece non successe in altri casi. Ad Halle, inoltre - osservava Il Soviet nella nota già citata - venne ribadito il principio "che non si tratta di escludere certi noti uomini, campioni dell'opportunismo, ma di tagliar fuori in blocco le minoranze non comuniste, le minoranze che nel congresso si dichiarano contro i principi e le condizioni dell'IC" (come appunto si fece), e che "dinnanzi ai cardini fondamentali programmatici non è questione di disciplina più o meno accettata e rispettata, ma di essere o non essere, di restare od uscire dal partito". Era quindi difficile, obiettivamente, opporre barriere supplementari all'ingresso degli Indipendenti di sinistra.

(30) Il contrasto verteva sulla concezione del partito come puro organo di propaganda piuttosto che come milizia attiva ed operante: il manifesto redatto in origine da Levi fu modificato da Radek, dopo un vivace incidente, per sottolineare appunto il ruolo dell'azione nella conquista delle grandi masse e ai fini stessi della loro "Schulung". Per Thalheimer e lo stesso Levi, cfr. il Bericht des V. Kongresses der KPD etc., Berlino, 1920. Secondo un accenno di Radek al III congresso mondiale, Levi, che già aveva deciso di ritirarsi dalla vita politica, venne eletto co-presidente in seguito a richiesta ultimativa degli uomini dell'USPD. è certo, comunque, che il volto del VKPD appena nato risultò molto più "indipendente" che "spartachista".

(31) Lenin, L'"estremismo", malattia infantile del comunismo, appendice 2, in Opere complete, XXXI, p. 100.

2. - In Francia

Nel volume precedente abbiamo ricordato gli incalzanti quesiti che, secondo Trotsky (luglio 1920), l'IC avrebbe dovuto sottoporre ad un partito, come la SFIO, che le chiedeva di aprire trattative per la costituzione di una nuova Internazionale unitaria; quesiti che equivalevano a riconoscerlo affetto dalle forme più gravi, per giunta croniche, non solo di opportunismo in senso lato, ma di socialsciovinismo (32). Era d'altra parte difficile immaginare che di tali infermità fosse del tutto esente l'ala (rivelatasi poi di maggioranza) che si era schierata dopo il II congresso mondiale a favore dell'IC, ma che solo allora si era convinta, più o meno, dell'impossibilità di convivere più a lungo con il centro dei Longuet e la destra dei Renaudel. Né rendeva meno dubbie le prospettive del futuro l'esistenza quale gruppo a sé del battagliero nucleo di avanguardia classista e internazionalista che avrebbe dovuto essere, e non fu, il perno della scissione di Tours, e la cui natura composita aveva, già un anno prima, destato nei compagni del "Soviet" l'impressione che "sebbene anche in Francia le masse, tormentate dalla situazione economica, tendano ad uno stato d'animo rivoluzionario, pochissime probabilità vi sono che possa presto sorgere un forte partito sulla base del programma della III Internazionale" (33).

La duplice constatazione era tanto più amara in quanto, sul piano diplomatico-militare come su quello ideologico, "la Francia imperialista", scriveva altrove Trotsky, "rappresenta il fulcro della controrivoluzione mondiale: le tradizioni della Grande Rivoluzione, frammenti di ideologia democratica, la fraseologia repubblicana - tutto ciò, unito all'ebbrezza della vittoria, è sfruttato per sostenere e rafforzare le posizioni del capitale contro le ondate burrascose della rivoluzione sociale" (34). Parigi era il perno della strategia controrivoluzionaria mondiale come Berlino lo era della strategia rivoluzionaria mondiale. E, ad aggravare di fronte a ciò gli effetti devastatori dell'opportunismo allo stato puro, v'era il fatto che "la Grande Rivoluzione del XVIII secolo, borghese nei suoi obiettivi più radicali come nei suoi risultati e, al contempo, profondamente nazionale - nel senso che ha riunito attorno a sé la maggioranza della nazione e, prima di tutto, le sue classi creatrici -, ha stabilito un legame di comuni reminiscenze e tradizioni fra un settore considerevole della classe operaia e gli elementi di sinistra della democrazia borghese: legame ideologico conservatore, di cui Jaurés è stato l'ultimo e il massimo rappresentante" (35). Come dirà poi Loriot, "qualunque cosa facciamo, non possiamo impedire che la prassi di 50 anni di democrazia borghese abbia creato nelle masse nelle cui fila siamo chiamati a batterci una mentalità tutta particolare. Le masse popolari restano persuase che abbiamo un patrimonio comune di libertà da difendere. Tutta la nostra formazione culturale si basa su tradizioni rivoluzionarie [nel senso dell'"89"] che la democrazia borghese sapientemente sfrutta" (36). E questo, mentre dava una speciale colorazione - plebea e tribunizia, e, in tempi di burrasca, giacobina - all'ala più pugnace o meglio più chiassosa del socialismo francese, e così sembrava riscattare il socialismo francese nel suo insieme da quello che si potrebbe dire il suo costituzionale girondinismo, non solo aveva reso e rendeva estremamente difficile l'acclimatazione in Francia di un marxismo genuino, ma tendeva alla classe operaia nuovi e più pericolosi agguati (grazie al "drammatico sfoggio", osservava ancora Trotsky, di tendenze di volta in volta "antidinastiche, anticlericali, repubblicane, radicali ed altre" sulle quali battere la grancassa e chiamare il popolo "aux armes!"), contribuendo in tal modo ad orientare verso l'immediatismo anarcosindacalista le sane reazioni proletarie al corso riformista della SFIO.

La grossa pietra d'inciampo era proprio quest'amalgama: nella vita di ogni giorno, il partito socialista campava sull'eredità materiale della Grande Rivoluzione, crogiuolandosi in un parlamentarismo come non se ne conosceva l'eguale in tutta Europa (a cavallo dei due secoli, il revisionismo in Francia aveva indossato d'emblée le vesti del ministerialismo, lasciando libero campo alla prassi su... licenza ufficiale del più squallido "cretinismo parlamentare"); in tempi eccezionali, l'eredità ideale giacobina serviva indifferentemente a giustificare, come nell'agosto 1914, il passaggio armi e bagagli all'union sacrée sotto pretesto che la patria era in pericolo insieme al patrimonio comune di libertà, o a propiziare, come nell'estate-autunno 1920, la corsa in direzione della Terza Internazionale sotto pretesto che "i bolscevichi sono i veri eredi della nostra tradizione rivoluzionaria" di cui "hanno preso la fiamma" mentre "noi non ne abbiamo conservato che la cenere" (37), così preparando il letto, a breve e a più lunga scadenza, a infidi matrimoni.

Il fatto che, tutti insieme e con pari diritto, la destra classica della SFIO, il centro che da essa prese le distanze nel corso della guerra, e l'ala di quest'ultimo "convertitasi" al terzinternazionalismo dopo il II congresso mondiale, si gloriassero di avere la propria autentica matrice nel "socialisme jaurésien" (38), mentre non potevano né appellarsi né risalire ad un marxismo (neppure adulterato come quello della socialdemocrazia tedesca di destra e di centro) al quale erano impermeabili, spiega l'estrema flessibilità con cui il partito socialista in blocco, e le sue diverse correnti, ciascuna a modo suo, riuscirono ad ammantare di fraseologia rivoluzionaria (rivoluzione, dittatura, terrore, non appartenevano forse al retaggio dell''89 e del '93?) la prassi parlamentare, legalitaria e democratica, e, dal 1918 a tutto il 1920, non esitarono a far proprie le bandiere più in voga sul mercato della "pubblica opinione" senza doversi spremere le meningi per trovare la giustificazione teorica o programmatica del proprio mutevole operato. Il fatto poi che questo eclettismo riflettesse la struttura sociale e il grado di sviluppo capitalistico della Francia, nonché le alterne vicende della sua collocazione internazionale, da un lato rendeva straordinariamente labili le linee di demarcazione fra le correnti succitate, dall'altro dava alla variante francese del fenomeno internazionale del centrismo la tenacia e la capacità di resistenza proprie di ciò che affonda le sue radici in "peculiarità nazionali" incancrenite - come sperimenterà l'Esecutivo dell'IC nei ripetuti tentativi di disciplinare in qualche modo i transfughi del centrismo gallico, anzi perfino di instaurare con esso un linguaggio comune. Il fatto che le divergenze fra centro e destra fossero, più che altro, di sfumatura, dà infine ragione della prontezza con cui le due correnti liquidarono subito dopo Tours le antiche querelles, per far fronte comune contro i transfughi di "sinistra".

SFIO e CGT (quindi anche i sindacalisti rivoluzionari che controllavano quest'ultima) avevano aderito quasi senza defezioni alla guerra nell'agosto 1914 e avevano poi mandato i loro rappresentanti al governo, ma soprattutto al sottogoverno, di union sacrée. Più che nel consiglio e nel congresso nazionali socialisti del 1916, è nel consiglio nazionale SFIO del maggio 1917, sotto la spinta dell'ondata di scioperi già scatenatasi un anno prima, dei primi episodi di ammutinamento al fronte, della rivoluzione di febbraio, e del wilsonismo, che prende consistenza (38bis) un gruppo, detto dei "minoritaires" e riunito intorno a Longuet, non contrario per principio al voto dei crediti di guerra e alla politica di appoggio al governo di unione sacra, ma convinto tanto che "l'esperienza ministeriale sia ormai durata abbastanza" e, per non perdere l'appoggio delle masse, sia tempo di tornare ad "essere se stessi" (39), quanto che i socialisti abbiano il compito, più che di sostenere lo sforzo bellico fino alla vittoria, di preparare le vie e le condizioni di una pace "senza vinti né vincitori". In ritardo sui loro omologhi tedeschi, cioè gli Indipendenti, a differenza di questi i "minoritaires" restano nel partito, radicalizzandosi via via che la situazione lo impone, fino a divenire maggioranza nel consiglio nazionale socialista del 28/VII/1918 e, soprattutto, nel congresso nazionale straordinario del 20-22/IV/1919, quando viene approvato un programma elettorale, caratteristicamente redatto da un Léon Blum facente funzione in tutto il biennio 1919-1920 di ponte fra destra e centro, in cui non si esclude, Dio guardi!, la soluzione rivoluzionaria, ma si ha cura di distinguere fra "rivoluzione e violenza"; circa la dittatura del proletariato si precisa la necessità che sia "breve quanto le circostanze lo permettono"; si stabilisce che la condizione più favorevole al successo della rivoluzione è "l'esistenza preliminare in ogni paese di istituzioni e tradizioni democratiche" (40) e, per logica conseguenza, si completa l'omaggio reso in tal modo (benché con qualche... riserva) a parole d'ordine ricche di tanta eco fra le masse nel turbinio dei primi mesi di pace, elencando una serie di proposte di riforma sociale, economica e politica da agitare durante la campagna elettorale e in parlamento e di contenuto avanzatissimo, nella buona vecchia linea del "socialismo jaurésiano" e in geniale anticipazione del frontepopolaresco 1936.

Solo nel dicembre dello stesso anno, in seguito al relativo insuccesso del partito nelle elezioni generali e alle iniziative prese dagli Indipendenti tedeschi dopo Lipsia, Longuet si fa promotore in seno alla maggioranza centrista di un "Comitato per la ricostruzione dell'Internazionale" il quale si pone l'obiettivo di lavorare d'intesa con tutte le correnti analoghe dei partiti socialisti in Europa in vista della creazione di un organismo che "non sarà né la Seconda Internazionale, ne la Terza, né la Quarta, ma nascerà dalla fusione di tutti gli elementi rivoluzionari, e sarà semplicemente l'Internazionale" (41), senza per questo escludere di aderire in caso estremo al Comintern purché alle proprie condizioni.

Dati tuttavia i precedenti qui accennati, e data la tradizionale renitenza del partito a discutere "questioni di principio", non ci si stupirà che al successivo congresso di Strasburgo (25-29/II/1920), la destra, pur opponendosi - contro il parere dei Ricostruttori - all'abbandono della II Internazionale, non esiti a far blocco, in pratica, con Longuet e C. e a sottoscrivere la mozione conclusiva presentata dalla maggioranza, limitandosi ad aggiungervi un emendamento che esclude dalla condanna delle coalizioni ministeriali quelle concluse negli anni di guerra (in sostanza, occorreva una sanatoria per i trascorsi dell'union sacrée: per il presente, nessun disaccordo!) e votando il testo Longuet con la suddetta riserva ideata da Blum. La vittoriosa mozione centrista, respingendo la tesi dell'estrema sinistra a favore dell'adesione immediata e senza riserve all'IC e dilungandosi in dichiarazioni di sapore demagogicamente massimalista, propone di "entrare senza indugi in trattative con gli organi qualificati" di quest'ultima, preparando però nello stesso tempo, "d'accordo con i socialisti indipendenti di Germania e i partiti svizzero e italiano, una conferenza in vista di unirsi finalmente con i partiti decisi a mantenere la loro azione sulla base dei principi tradizionali del socialismo" (42) - ed è facile immaginare in che cosa potessero consistere tali "principi".

Da questa decisione maggioritaria uscì la "missione" Cachin-Frossard a Mosca, del cui svolgimento abbiamo trattato nel II volume. Prima di proseguire, tuttavia, è necessario esaminare le posizioni assunte dalla destra e dal centro alla vigilia del decisivo congresso di dicembre a Tours, anticipando sulla successione cronologica, in base a due testi fondamentali: la mozione Blum-Bracke presentata in nome del "Comitato di resistenza socialista all'adesione alla III Internazionale" e intitolata "Per l'unità internazionale", sulla quale finiranno per schierarsi la destra di Renaudel e perfino l'ultra-destra di A. Thomas, e la mozione Longuet-Faure "di adesione con riserve alla III Internazionale" redatta a nome dei "ricostruttori" e incarnante le posizioni del centro maggioritario della SFIO. Esse apparvero nella Humanité rispettivamente l'11 e il 6 novembre, prefigurando, in polemica diretta con i 21 Punti di Mosca, i temi dei discorsi soprattutto di Blum e Longuet a Tours.

Come risulta già dai titoli, destra e centro si distinguono qui per il fatto di escludere la prima, e invocare il secondo, l'adesione all'Internazionale comunista: le riserve contenute nella mozione Longuet-Faure sono però tali da rendere impossibile quest'ultima, e quindi da eliminare l'esile diaframma fra le due correnti; d'altronde, i destri si proclamano decisi ad operare in vista dell'unità internazionale dei partiti socialisti "autonomi", liberi cioè da "ingerenze esterne", e i centristi annunziano che, pur nell'ambito del Comintern, continueranno "a mantenere i contatti con le organizzazioni socialiste che hanno lasciato la II Internazionale, al fine di realizzare al più presto l'unità mondiale del socialismo". Sulle questioni di fondo, poi, le due ali sono divise da pure e semplici sfumature - sono, in realtà, due facce della stessissima medaglia.

Struttura del partito. La mozione Blum-Bracke riconosce la necessità della centralizzazione, ma "non spinta fino ad annullare totalmente l'autonomia della sezioni locali e [ci si poteva immaginare qualcosa di diverso?] l'iniziativa del gruppo parlamentare" e fino a "privare le minoranze del diritto di vivere nel partito sopprimendo la rappresentanza proporzionale, del diritto di pensare sopprimendo la libertà di discussione, o dello stesso diritto di vivere entro il partito organizzando le esclusioni in massa e le epurazioni periodiche". Respinge inoltre la costituzione, "accanto e al disopra degli organismi pubblici, di organismi clandestini e, come tali, irresponsabili, che li controllino". La mozione Longuet-Faure, dopo aver dichiarato che i 21 Punti, essendo "un sistema di condizioni imperative, identiche per tutti i paesi", non facilitano l'adesione al Comintern, contrastano con "gli interessi e la tradizione del movimento operaio francese", e sono "di applicazione impossibile o nefasta", entra assai più nel dettaglio. Prima di tutto, se per essa è "legittima" l'imposizione da parte dell'IC "a tutte le sezioni, di direttive generali di azione per raggiungere un massimo di efficienza rivoluzionaria e pervenire alla costituzione di un fronte unico di lotta contro il capitalismo", invece "non si può tollerare che si esiga [dalle stesse sezioni] uno statuto e un regolamento interno che non possono essere gli stessi in tutti i paesi, e che le sezioni devono essere le sole a stabilire in libertà completa e nella pienezza della loro sovranità" (siamo qui alle origini del policentrismo: i partiti "comunisti" come entità libere e sovrane!). In secondo luogo, si respingono l'organizzazione clandestina, in quanto... doppione del partito; l'espulsione di chicchessia per il suo passato; il cambiamento di nome del partito; le condizioni 20a e 21a, che sono giudicate "inaccettabili in quanto da un lato attentano all'autonomia [dei partiti] e sono dall'altro di natura tale da provocare una completa divisione [Al solito, unità a tutti i costi!]". Infine, si rivendica la "necessaria autonomia delle federazioni" verso gli organi centrali e, "fedeli allo spirito di tolleranza" della SFIO e "alla memoria e all'insegnamento di Jaurés", si chiede che le frazioni mantengano integri i loro diritti e siano rappresentate proporzionalmente nella direzione. I destri, almeno, vogliono l'autonomia per mantenere al partito il suo carattere di "partito popolare"; i centristi, al contrario, rivendicano quel po' po' di roba mentre dicono di volere un partito all'altezza della sua natura di "organo di combattimento vigoroso e disciplinato, che non deve esitare a servirsi contro la borghesia e i governi capitalistici di tutti i mezzi che le situazioni e le circostanze imporranno"!

Obiettivo del partito. I Blum-Bracke sostengono la necessità della "presa del potere" (solita formula socialdemocratica, buona per tutti gli usi), non esitando ad aggiungere: con qualunque mezzo, legale o violento che sia. Tale necessità (hanno la faccia di dichiarare) dev'essere proclamata apertamente "contro ogni tentativo di deviazione teorica o di collaborazione pratica con la borghesia", non dimenticando però, anzitutto, che nelle condizioni generali della Francia "il potere non può essere conquistato mediante movimenti di massa del proletariato inorganico [inorganique: qualcosa come il Lumpenproletariat e, in genere, gli operai incolti degli Indipendenti tedeschi e di... Levi], ma solo mediante l'azione cosciente del proletariato organizzato" (dunque, rivoluzione si, ma col beneplacito delle vestali della "cultura" e dei bonzi della CGT!). Affermano, in secondo luogo, che la rivoluzione può vincere "solo nella misura in cui lo stato di sviluppo della società capitalistica e l'insieme delle circostanze economiche permettano la trasformazione del regime di proprietà" (il solito argomento dei riformisti, che silura la rivoluzione dopo averla proclamata necessaria; si troveranno sempre degli esperti pronti a dichiarare che quelle tali circostanze non esistono!).

Infine, sostengono che "é regola invariabile da oltre mezzo secolo" quella secondo cui hanno "valore rivoluzionario tutte le forme di attività immediata del proletariato che, nel quadro della società attuale, preparano la formazione della società futura". (Perché dannarsi tanto a cercare vie nuove? Anche il riformismo - lo diranno pure i colleghi italiani - è rivoluzionario!). A loro volta, i Longuet-Faure se la cavano con la retorica proclamazione che "all'infuori della presa del potere da parte della classe operaia e contadina [Presa del potere, come? Contadini, quali? Mistero!] non ci può essere per il mondo del lavoro che l'inganno e la continuazione di una servitù che deve ad ogni costo finire".

Dittatura e terrore. La destra ammette che il proletariato e il suo partito hanno il dovere, conquistato il potere, di "governare dittatorialmente senza aspettare una consacrazione od un appoggio dalle forme politiche abolite". Essi però devono farlo sotto le seguenti "riserve formali": a) "che la dittatura sia esercitata da un partito la cui organizzazione poggi effettivamente sulla sovranità popolare [!!!] e quindi la realtà del potere appartenga impersonalmente al proletariato, invece di concentrarsi nelle mani di un comitato, pubblico od occulto" (dittatura sì, ma... metafisica!); b) "che una presa del potere impaziente e prematura non lasci un intervallo smisurato fra la presa del potere e la trasformazione socialista" (la vecchia teoria della dittatura a tempo fisso, il più possibile breve per decreto!); c) "che il ricorso alla violenza e, a fortiori, l'applicazione del terrore, sempre combattuto dalla dottrina socialista [!!!], appaia come il mezzo estremo di salute della Rivoluzione minacciata, invece di essere affermato sistematicamente come lo strumento normale e inevitabile del potere proletario" (no comment!). Il centro di Longuet spiega meglio il concetto di "rivoluzione... organica"; "all'indomani della presa del potere - esso afferma - e per tutto il periodo transitorio che da questa presa del potere andrà fino alla realizzazione stessa del socialismo, la dittatura impersonale [e dagli!] del proletariato dovrà essere esercitata in piena sovranità [...] dal proletariato organizzato, cioè dai mandatari qualificati dei sindacati e delle cooperative, in stretta collaborazione [ma solo collaborazione] con il partito socialista [...] e, eventualmente, con i Consigli di operai e contadini", così liquidando la funzione del partito e delegandola agli organismi economici immediati.

Partito e sindacati. Blum e C. ammettono che l'azione dei due organismi deve essere "coordinata", con esclusione però di ogni "passo diretto o mascherato contro l'autonomia [siamo nel regno delle mille autonomie, come si vede] del movimento sindacale", e di ogni tentativo di scinderlo - il che sarebbe giusto, se non si presentasse la scissione come, sempre e per principio, "guerra fratricida fra lavoratori". Longuet e C. fanno eco: "É indispensabile un'intesa permanente fra CGT e Partito. Rispettoso dell'autonomia della CGT, il Partito afferma che nessuna delle due organizzazioni dev'essere in qualunque misura subordinata all'altra". Inoltre, "i sindacati sono i soli qualificati [...] per dire se intendono rompere con l'Internazionale sindacale di Amsterdam; il Partito non deve immischiarsi in un dibattito del genere".

Tattica parlamentare. Per il centro, finché non si ha in mano il potere, "la battaglia elettorale è una delle forme della lotta di classe, o deve esserne, in ogni caso, una manifestazione"; naturalmente, gli eletti devono far opera di "opposizione irriducibile ai governi", ed è esclusa ogni partecipazione al governo, anche in circostanze eccezionali. L'opposizione deve, però, essere "costruttiva" (a costo di non essere più "irriducibile"?). La destra non ha bisogno di dilungarsi sull'argomento: è per il parlamentarismo. Ciò non toglie che… accetti il rivoluzionarismo.

Questione nazionale e coloniale. Secondo la mozione Blum, è senza dubbio doveroso, per i socialisti, agire a favore dei popoli coloniali oppressi, a condizione però di "non confondere il moto di rivolta dei popoli oppressi con il lavoro di emancipazione proletaria" (la clausola-scappatoia degli Indipendenti tedeschi e dei massimalisti italiani) e di respingere ogni propaganda "tendente a falsare la lotta di classe e scatenare una guerra di razze, contraria sia ai principii di fratellanza, sia alla volontà di pace" del partito. Più gesuita, il centro "si proclama [costa così poco!] amico di tutti i popoli oppressi e, in particolare, degli indigeni delle colonie francesi, e sì dichiara pronto a servire, con tutti i mezzi salvo la guerra, l'azione emancipatrice di queste popolazioni, alle quali riconosce come sacro il diritto di disporre liberamente di se stesse".

Questione agraria. La mozione di destra assegna al partito il compito di "difendere la piccola proprietà". Quella di centro è più esplicita: "contrariamente alle calunnie diffuse nelle campagne, il socialismo al potere rispetterà la piccola proprietà contadina creata e messa in valore dal lavoro dei suoi detentori; dunque il socialismo non può attentarvi e non vi attenterà", limitandosi a nazionalizzare "a profitto della nazione" (socialismo e... nazione!) le sole grandi proprietà terriere.

Guerra. Il centro sorvola sulla grave questione. La destra si dichiara pacifista ad oltranza: se però, malgrado tutti gli sforzi d'impedirla, la guerra scoppiasse, "il dovere internazionale e il dovere nazionale potrebbero, per i lavoratori, coincidere".

La sostanziale convergenza fra i due testi illustra il peculiare meccanismo grazie al quale in Francia, mentre l'opportunismo centrista si dimostrava "particolarmente raffinato" (43) nel conciliare la fraseologia rivoluzionaria delle sue proclamazioni con la realtà quotidiana di una prassi riformista, da parte sua la destra socialdemocratica portava a compimento - direttamente o per le interposte persone dei Blum o dei Bracke - l'operazione solo in apparenza inversa di conciliare la realtà quotidiana di una prassi ultrariformista e socialsciovinista con la fraseologia rivoluzionaria dei comizi domenicali. E, se così avveniva sul versante di destra dello schieramento socialista francese, su quello diciamo così di centro-sinistra non era difficile ravvisare, tra fiumi di retorica non tanto filobolscevica, quanto filorussa (44), il patrimonio di origine jaurésiana (nella migliore delle ipotesi) comune a tutto il partito. Nato convogliando la maggioranza di un partito, come la SFIO, che solo dieci mesi prima, a Strasburgo, aveva dato la vittoria al longuettismo, il PCF non potrà non ereditarne le tradizioni di "autonomia nazionale" verso l'"esterno", di federalismo incancrenito nella sua struttura interna, di parlamentarismo tout court, di eclettismo tattico nascosto dietro il paravento di una "flessibilità" sedicentemente imposta dalle "particolari condizioni" della Francia, e di opportunismo neppure tanto dissimulato in questioni, vitali in campo francese più che altrove, come quella agraria, quella nazionale e coloniale, e quella dell'atteggiamento da tenere verso il proprio imperialismo, con la sua armée, le sue alleanze di pace e di guerra, la sua diplomazia cinicamente prevaricatrice, le sue pretese esorbitanti a carico sia dei vinti che dei vincitori di seconda e terza classe del conflitto imperialistico, e degli aborti di Stati nazionali partoriti dal ventre mostruoso di Versailles.

É contro questi scogli derivanti da tutto un passato che, nei mesi ed anni seguiti al congresso costitutivo del PCF, naufragarono gli sforzi della direzione bolscevica del Comintern per trasformare un partito che "conteneva ancora elementi centristi e semicentristi e nelle cui file, nella cui stampa, nel cui gruppo parlamentare perduravano le antiche tradizioni" (45), in un organismo all'altezza delle basi teoriche e programmatiche e delle condizioni di ammissione dell'Internazionale comunista. Gli stessi Cachin e Frossard (46), nei mesi seguiti al loro rientro da Mosca, avevano gareggiato nel proclamare, l'uno, che le condizioni di ammissione si riducevano in realtà ad una sola: "rompere decisamente con la collaborazione di classe, agire da socialisti, prepararsi per la rivoluzione imminente: il resto è una questione di forma, cioè secondaria"; l'altro, che avrebbe considerato "un'indegnità e un disonore" l'espulsione di uomini come Longuet. Entrambi avevano fatto appello alle "speciali condizioni" della Francia per invocare un'attenuazione dei 21 Punti e conservare il più possibile integra l'"unità" del partito. Ma non era questo (insieme al timore di una scissione) il "punto comune" ai ricostruttori e alla destra in tutti i paesi, come scriveva giustamente Le Phare a commento dei deliberati del II Congresso mondiale (47), e come aveva sostenuto a Mosca e continuerà a sostenere in Italia la nostra corrente: "esigere l'indipendenza del partito nazionale nei confronti dell'Esecutivo internazionale", "voler avere nell'Internazionale comunista la stessa libertà di tradire che avevano nella II Internazionale"? Sopravvissute per una specie di resistenza passiva agli sforzi incessanti di sradicarle, le tradizioni ereditate dal vecchio partito celebreranno la loro seconda giovinezza negli anni '30: si vedrà allora che mentre, nel decennio 1920-1930, il corso progressivamente degenerativo del Comintern aveva tratto, se non impulso diretto, certo ispirazione soprattutto dalle giravolte tattiche del VKPD, la palma della vittoria finale dell'opportunismo sulla Internazionale di Lenin, l'Oscar della sua metamorfosi in senso bloccardo, frontepopolaresco e, all'ennesima potenza, socialsciovinista, spettava di diritto al partito francese; e questa vittoria, la trasformazione del Comintern in una specie di SFIO mondiale, era nello stesso tempo una rivincita pazientemente attesa dopo le molte umiliazioni subite da parte dell'EKKI (48).

Ma, a tenere a battesimo il PCF alla fine del 1920, non v'erano anche altre forze che, per non essersi compromesse con la politica di guerra del partito socialista, anzi per averla inflessibilmente combattuta, potevano a buon diritto incarnare, contro le miserie del passato, le luminose certezze del futuro e, rappresentando il pilastro del nuovo partito, sostenere la direzione dell'Internazionale nello sforzo di applicare col massimo rigore i 21 Punti e, in genere, le Tesi del II Congresso, invece di assecondarne la tendenza, già allora profilatasi, a renderle più accomodanti per gli stessi motivi che ne avevano ispirato gli interventi in Germania nei confronti degli Indipendenti? Non si può rispondere a questa domanda senza interrogarsi sulle origini e sulla formazione politica degli uomini ai quali si deve la costituzione, l'8 maggio 1919, del Comité pour l'adhésion à la IIIe Internationale (o, più brevemente, de la IIIe Internationale) - i Loriot, i Monatte, i Cartier, i Rosmer, i Monmousseau, i Souvarine, i Péricat, i Saumoneau, ecc. - o che si raggrupparono intorno ad esso.

Essi vantavano un glorioso passato di lotta in difesa delle tradizioni classiste ed internazionaliste del movimento operaio contro il socialsciovinismo e la politica di unione sacra del partito e dei sindacati ufficiali, una lotta che risaliva ancor più indietro della creazione ufficiale nel novembre 1915 del Comité pour la reprise des relations internationales (embrione del Comitato postbellico di cui sopra) in stretto collegamento con Trotsky e il gruppo di esuli russi riuniti sotto la bandiera del "Nasce Slovo" e sulla scia della maggioranza di Zimmerwald e Kienthal, anche se non sul fronte di estrema sinistra incarnato da Lenin. Erano stati i soli ad affrontare i rigori del regime di guerra, a salutare con entusiasmo la rivoluzione di Ottobre e, fin dalla costituzione del nuovo comitato, ad aderire toto corde all'Internazionale Comunista. Prima sulle pagine della rinata Vie ouvriére di Monatte e Rosmer, poi su quelle del Bulletin communiste (il cui primo numero è dell'1/III/1920), essi erano stati gli interpreti in Francia della spinta proletaria verso Mosca, i portavoce della direzione bolscevica dell'Internazionale presso la classe operaia francese, l'anima della battaglia polemica contro l'opportunismo socialdemocratico di destra e di centro. I voti raccolti dalla mozione Loriot a Strasburgo - 1621 contro i 2299 alla mozione Longuet e i 732 alla mozione Blum - testimoniano dell'influenza o, almeno, della simpatia riscossa dal Comité nelle federazioni più importanti e a base più schiettamente proletaria del partito, e diciamo simpatia per sottolineare che si trattava di un orientamento di natura essenzialmente istintiva e passionale verso quella che appariva come la bandiera della lotta intransigente di classe e della preparazione alla conquista rivoluzionaria del potere. Non a caso, del resto, nel maggio 1920, durante il poderoso sciopero dei ferrovieri, scoppiato sullo slancio dell'ondata di agitazioni sindacali e politiche del maggio-giugno 1919 e degli inizi dell'anno, la repressione poliziesca e giudiziaria dello Stato borghese si era abbattuta essenzialmente sui suoi maggiori rappresentanti - chiaro omaggio al loro ruolo di portavoce in Francia del bolscevismo, e alla fitta rete di contatti da essi stabilita con la classe operaia in una lunga serie di battaglie. Non a caso, in agosto, era – finalmente - uscito dal loro carcere il grido di saluto alla scissione liberatrice che avrebbe messo "i controrivoluzionari del Partito al posto che loro compete: nel campo della borghesia" (49). Come, dunque, poté accadere che un nucleo di militanti dal passato così conseguente, e con legami cosi estesi e ramificati con una classe lavoratrice ormai da anni in movimento, non fosse in grado, né sul piano della consistenza obiettiva e della forza organizzata, né e soprattutto su quello del rigore teorico e della fermezza politica, di costituire la vera leva della formazione del PCF per trascinare al proprio seguito il meglio del vecchio partito (e del proletariato francese in genere), invece di lasciarsi trascinare se non dal peggio in assoluto, certo da una maggioranza infida e riottosa di esso? Come poté accadere che quel nucleo non pesasse in modo determinante sulla scissione di Tours, lasciandone invece stabilire i confini all'equivoco gruppo di "centro-sinistra" dei Cachin-Frossard?

Nel dicembre 1916, scrivendo la "Lettera aperta a Boris Souvarine" per criticare le indecisioni e le ambiguità del "centro zimmerwaldiano", Lenin esortava i compagni del "Comité pour la reprise des relations internationales" a non lasciarsi paralizzare dallo "spauracchio con cui i capi socialisti cercano di spaventare gli altri, ma di cui hanno essi stessi una gran paura" - lo spauracchio della scissione -, e a riconoscere che, piacesse o no, internazionalmente la scissione era già avvenuta. Quanto all'obiezione che a nulla sarebbe giovato "creare una nuova Internazionale la cui azione sarebbe affetta da sterilità a causa della sua debolezza numerica", Lenin rispondeva ponendo senza mezzi termini la questione di fondo: "Debolezza numerica? Ma da quando in qua i rivoluzionari farebbero dipendere la loro politica dal fatto di essere in maggioranza o in minoranza?" E non è forse vero che si può, oggi, costituire "al massimo la decimillesima o persino la centomillesima parte della propria classe" e, domani, trascinare "con sé le masse, milioni e decine di milioni di uomini", perché (come insegnano le stesse rivoluzioni borghesi) "si rappresentano i reali interessi delle masse, si ha fiducia nell'imminente rivoluzione, si è pronti a servirla con coraggio" (50)?

Era stato questo il segreto dell'Ottobre: la capacita di un'esile pattuglia di rivoluzionari di rimanere soli contro tutti a difendere nei momenti decisivi i reali interessi delle masse, per poterle avere con sé, anche se a distanza di anni, alla resa finale dei conti. Troppo tardi - come abbiamo cercato di mostrare nel II volume - gli spartachisti si erano resi conto della necessità di tradurre l'implacabile lotta contro il socialsciovinismo in un irrevocabile taglio organizzativo con l'SPD prima, con l'USPD poi: troppo tardi; eppure, si erano trovati alla testa di un esercito proletario immenso. A maggior ragione in Francia, dove la SFIO non solo aveva praticato la politica dell'union sacrée, ma aveva mandato tre dei suoi uomini, scelti fra i più rappresentativi, in posti-chiave dei ministeri di guerra, la rottura programmatica ed organizzativa con le vecchie organizzazioni divenute apertamente anti-operaie e, in ogni caso, screditatesi agli occhi dei lavoratori, era conditio sine qua non della conquista di una reale influenza sulle masse. La scissione andava fatta a tempo, e come un bene; non subita tardivamente, e come un male sia pure necessario. Agli uomini del Comité, la forza per agire secondo questa direttrice di marcia era mancata.

"Scopo dei membri del Comitato - aveva tenuto a precisare Loriot all'atto della sua fondazione - è di fare propaganda in tutti i partiti rivoluzionari [quali, di grazia?] a favore della nuova Internazionale. Essi devono quindi restare aderenti ai gruppi dei quali fanno parte". Era la teorizzazione dello stato di fatto, non certo ideale, che impediva a militanti tuttavia generosi e risoluti di presentarsi alle masse come la loro guida non solo programmatica, ma organizzata; non solo futura, ma presente. Malgrado tutto, "lo spauracchio della scissione" faceva ancora gioco; ai Longuet e di qui ai Renaudel non costava nulla, anzi fruttava dividendi, concedere all'estrema sinistra un diritto di cittadinanza nel partito e di rappresentanza nel suo organo direttivo supremo, pudicamente chiamato "commissione amministrativa permanente" (a Strasburgo, vennero chiamati a farne parte sia la Saumoneau, sia Loriot, eletto inoltre trésorier del partito) - era un modo di esautorarla. Non diversamente poteva permettersi di agire la CGT, almeno a guerra finita, con i ribelli nelle sue file, gli uomini del "Comité de défense syndicaliste" che erano nello stesso tempo membri del Comitato per la III Internazionale. Non era essa, come non era la SFIO, a fare le spese dell'unità mantenuta ad ogni costo; era l'odiata estrema-sinistra.

In una pagina di straordinario vigore, il 20/XI/1919, Trotsky scriveva: "Il proletariato francese ha un glorioso passato rivoluzionario. Natura e storia l'hanno dotato di un superbo temperamento guerriero. Ma, nello stesso tempo, esso ha conosciuto troppe sconfitte, delusioni, perfidie e tradimenti. Prima della guerra, l'unità del partito socialista e dell'organizzazione economica sindacalista era la sua ultima grande speranza. Il crollo di questa speranza ha avuto un effetto pernicioso sulla coscienza degli operai di avanguardia, e il movimento proletario di Francia è stato precipitato in una lunga paralisi. E, oggi che nuove masse ancora politicamente sprovvedute premono contro i baluardi della società borghese, l'incompatibilità fra la vecchia organizzazione e i compiti obiettivi del movimento balza agli occhi in tutta la sua forza. Di qui non solo la probabilità ma l'inevitabilità che poderosi movimenti di massa si sviluppino prima che la nuova organizzazione sia pronta a guidarli" (come tragicamente avvenne nell'inverno e nella primavera successivi). E aggiungeva: "Qualunque sia il motivo per conservare l'unità della vecchia organizzazione, alle masse rivoluzionarie deve rimanere incomprensibile perché mai coloro che le chiamano alla rivoluzione continuino a sedere allo stesso tavolo con individui che le hanno ingannate, e, in particolare, con gli individui che le hanno così sfacciatamente e vergognosamente tradite durante la guerra. Le masse rivoluzionarie hanno profondamente cara la loro unità nella lotta, ma è dubbio che riescano a capire l'unità dei militanti rivoluzionari con la cricca dei Jouhaux-Merrheim e dei Renaudel-Longuet" (51). Ogni giorno di più passato in questo vincolo oggettivo (nessuno potrà mai accusare gli uomini dei diversi Comité postbellici di averlo voluto a tutti i costi mantenere), era molto più di un giorno perduto per la causa della preparazione rivoluzionaria nell'immediato, della rivoluzione e della dittatura proletarie in una prospettiva a lungo termine. Disgraziatamente, troppi furono questi giorni.

Lo si spiega anche con la natura composita - quanto a formazione teorica e quindi ad orientamento politico - degli zimmerwaldiani del tempo di guerra e dei terzinternazionalisti dell'immediato dopoguerra in Francia. Schierate sullo stesso fronte di battaglia contro il socialsciovinismo, l'ala di formazione socialista marxista alla Loriot-Cartier, l'ala sindacalista rivoluzionaria alla Monatte-Rosmer, l'ala libertaria alla Péricat, conservavano tuttavia immutate le loro divergenze. Potevano sopirle nella misura in cui si stabiliva fra l'una e l'altra una sorta di naturale divisione del lavoro - la prima operando essenzialmente in seno alla SFIO, le altre due sviluppando un'intensa attività soprattutto in seno alla CGT e, in particolare, alla Fédération des Métaux, e assumendo una parte di primo piano nei movimenti di sciopero e nelle prime manifestazioni di resistenza alla politica di concordia fra le classi, sia attraverso gli organismi più o meno effimeri sorti in antitesi alle bonzerie dominanti e al loro capo supremo, Léon Jouhaux, sia attraverso il battagliero La vie ouvriére in difesa delle tradizioni sindacaliste della poderosa confederazione -; ma non potevano sopprimerle, meno che mai di fronte ad avvenimenti internazionali o anche nazionali d'importanza particolare. Perciò la rivoluzione di Ottobre aveva suscitato una "lettura" profondamente diversa del regime dittatoriale sovietico e dello stesso Stato e rivoluzione di Lenin (52), quindi anche del bolscevismo; lettura più consona alla visione leniniana, nella corrente socialista anche se non sempre omogenea; fondamentalmente operaista, consiglista o addirittura libertaria, nella corrente anarco-sindacalista. Che questa diversità di fondo sia successivamente riapparsa di fronte alla costituzione della III Internazionale nella primavera del 1919, è soltanto naturale, ma è significativo che, lungi dal rimaner circoscritta a discussioni interne o a prese di posizione personali, essa abbia avuto riflessi organizzativi nell'ambito stesso del Comité de la IIIe Internationale: di fronte al caso di un Rosmer che aderisce senza riserve alla nuova Internazionale, quindi anche al PCF, ci sono quelli di un Monatte e di un Monmousseau che vi si decidono soltanto nel 1922, di una Saumoneau che ritorna in grembo alla maggioranza longuettista nella primavera del 1920, di un Péricat che, il giorno successivo alla fondazione del Comité, costituisce insieme ad altri sindacalisti rivoluzionari e libertari un alternativo Parti communiste, Section Française de la Troisiéme Internationale, ispirato assai più al motto "Ni dieu, ni maître" (ma soprattutto, aggiungiamo noi, "ni État"!), che alle tesi costitutive del Comintern. Sia detto per inciso, questo "Partito" si scinde già nel dicembre 1919 in due ali, una che conserva il nome originario e collabora con il Comité per staccarsene poco prima del congresso di Tours, l'altra che, assumendo il titolo di "Fédération communiste des Soviets", se ne va per la sua strada; si tratta di formazioni "microscopiche", è vero, ma intanto la scissione sottrae nel 1920 al gruppo degli ex zimmerwaldiani una parte dei suoi più battaglieri componenti, primo fra tutti lo stesso Péricat, e il fatto che siano i transfughi, nell'atto di proclamarsi "comunisti integrali", a definirsi "in prevalenza libertari, antistatali, federalisti, nemici del collettivismo centralizzatore" (53), non toglie che un filone sostanzialmente operaista, consiglista e federalista sopravviva anche nell'esile drappello poi confluito nel PCF a Tours, per rimanervi, del resto, solo durante una breve stagione.

Né il quadro di variopinta eterogeneità ideologica del movimento si ferma qui. Al primo congresso della III Internazionale, marzo 1919, non era potuto intervenire dalla Francia nessun delegato; vi presenziava in compenso il "Groupe communiste français" fondato a Mosca nell'autunno 1918 da Pascal, Guilbeaux e Sadoul, e questo, se aveva il privilegio di muoversi a stretto contatto coi bolscevichi, recava anche, per giunta esasperate, le tare individualistiche ricorrenti in tutti i gruppi di profughi; era quindi lacerato da divergenze di formazione politica oltre che da idiosincrasie personali (54). Nel dicembre 1919, d'altra parte, si avvicinarono al Comitato della III Internazionale, rivendicando al suo fianco il posto che la "superiore disciplina del progresso" assegnava alla loro missione di "illuminare e regolarizzare", gli intellettuali del Gruppo Clarté, fondato pochi mesi prima da Barbusse con l'ambizione di gettar "le basi di un'organizzazione universale", quella "Internazionale del Pensiero che da tanto tempo invocano tutti gli spiriti liberi dell'universo"; gruppo a proposito del quale aggiungiamo soltanto che, mentre additava nel socialismo "l'espressione più adeguata, più lucida e più coordinata dei principi repubblicani" e nella "dottrina politica della Terza Internazionale quella che più sembra avvicinarsi all'ideale sociale", non esitava a lanciare proclamazioni in tutto degne dell'agognata "révolte de la Raison" come quella secondo cui "tutta l'organizzazione collettiva degli uomini deve ricondursi all'uomo, vivificarsi della vita individuale e, nella misura massima possibile, rispettare l'autonomia dell'individuo" (55) (stupendo biglietto da visita, fra parentesi, per futuri bardi e tirapiedi dello stalinismo!). E il nodo della questione è che, in tutto questo pullulare di gruppi e gruppetti policromi, l'ala socialista del Comitato non era in grado di opporre alla confusione imperante l'argine di posizioni teoriche e programmatiche chiare e organicamente sviluppate: nel periodo che va fino al novembre 1920 non conosciamo un solo articolo (a parte quelli ripresi da pubblicazioni dell'IC) in cui le grandi questioni sollevate dalla rivoluzione bolscevica e dalla nascita della III Internazionale in seno alla classe operaia francese come in seno a un organismo, quale il Comité, che ne rispecchiava, volere o no, gli umori, siano affrontate ed agitate su un piano che superi il livello della polemica immediata; domina la tendenza ad eludere i punti controversi invece di prenderli di petto - silenzio già grave in un partito come quello tedesco, tuttavia poggiante su basi dottrinarie tutt'altro che disprezzabili; gravissimo agli effetti del processo di gestazione del PCF, destinato a nascere con gracili o addirittura nulle radici teoriche marxiste (56). In margine al congresso di Strasburgo, Henriette Roland-Holst aveva osservato che in Francia il processo di selezione di un gruppo comunista dalla sinistra in generale era appena agli inizi: ciò che ne teneva uniti gli esponenti non era tanto una strategia positiva per l'avvenire, quanto l'opposizione alle politiche passate e l'odio per i socialpatrioti (57). Fuori di questo vincolo "negativo", ognuno vedeva le cose a modo suo; "per Loriot - è stato scritto giustamente - il bolscevismo era "marxismo in azione"; per Monatte e Loriot, una versione up to date del sindacalismo rivoluzionario; per Péricat e Chauvelon, anarchia - atea, federalista e antiparlamentare; per Lefebvre, Vaillant-Couturier e Barbusse, pacifismo rivoluzionario, internazionalismo illuminato e democrazia diretta; insomma, avant-garde" (58). E se ciò era vero all'alba del 1920, lo era altrettanto e forse più al suo tramonto.

A rendere più difficile il processo di gestazione del PCF, avvenne che la classe dominante francese prendesse a pretesto l'ultimo grande episodio di lotta di classe nella scena postbellica francese, lo sciopero ferroviario e generale del maggio 1920, per arrestare e trattenere in gattabuia fino alla primavera successiva i maggiori esponenti del Comité. E anche questo non fu né un fatto estrinseco, né una coincidenza fortuita: non un fatto estrinseco, perché l'assenza dei Loriot, dei Souvarine e di altri a Tours, per grave che fosse, non sarebbe stata disastrosa come invece fu, lasciando nelle mani dei Cachin-Frossard tutte le chiavi dell'avvenire immediato, senza l'isolamento e la conseguente assenza di "forze di ricambio" in cui l'ossessione della "unità", lo "spauracchio della scissione", aveva costretto a muoversi l'estrema sinistra: non una coincidenza fortuita, perché la finale débâcle del movimento di sciopero confermava il drammatico presagio di Trotsky - l'inevitabilità che poderosi movimenti sociali si sviluppassero prima che la nuova organizzazione potesse prenderne la guida, con l'inevitabile risultato che l'organizzazione ufficiale, complice oggettiva (per debolezza, non certo per proposito deliberato) la minoranza sindacalista rivoluzionaria, ne prendesse le redini e, con la tattica suicida delle "ondate successive", li consegnasse inermi alla brutalità della repressione governativa.

Infine, per colmo di disgrazia, la tragica scomparsa di Lefebvre, Lepetit e Vergeat nel viaggio di ritorno per mare da Mosca privò il Comitato della III Internazionale di un terzetto di giovani che al II congresso si erano battuti contro un'eccessiva tolleranza verso i pellegrini ufficiali della SFIO e che, sebbene di formazione ideologica non omogenea e di recente acquisizione al comunismo, promettevano di portare nel dibattito congressuale a Tours e nel nuovo partito lo stesso spirito di opposizione irriducibile all'opportunismo in tutte le sue varianti.

In presenza (per tutte queste ragioni) di un nucleo che se per il suo passato era il solo a dare affidamento di poter sfuggire alle perenni oscillazioni dei centristi "pentiti", si presentava alla vigilia del congresso nazionale come ideologicamente eterogeneo, numericamente debole, e decapitato dei suoi elementi migliori, l'Internazionale si trovò nel dilemma o di rinviare sine die la costituzione della sezione francese o di allargare i confini dei 21 punti fino ad accogliere, beninteso a date condizioni, almeno una parte dei "ricostruttori", rinviando a tempi migliori e alla fermezza di una guida esterna il compito di disciplinarli, selezionarli ed eventualmente disfarsene. Convinta che l'incalzare di situazioni giudicate prerivoluzionarie non offrisse alternative, essa prese la seconda delle due possibili vie, cedendo anzi in un primo tempo (fra le proteste dell'estrema sinistra) alla tentazione di aprire la porta perfino ai Longuet e C. e provvedendo a richiuderla soltanto in extremis, dopo cioè aver contribuito, benché non di proposito, a far sì che gli uomini del Comité si trovassero isolati di fronte alla massa dei "dimissionari dal Comitato per la ricostruzione" - per intenderci, gli uomini intorno a Cachin-Frossard -, e questi, godendo di un'influenza schiacciante negli organi direttivi del nuovo partito, potessero dargli l'impronta tipica di tradizioni ed inerzie le cui determinanti materiali, quindi anche la cui pervicacia, abbiamo cercato di mettere in risalto.

Di qui "l'accordo" stipulato da Zinoviev ad Halle, in ottobre, con Renoult, che dava degli articoli 20 e 21 delle Condizioni di ammissione un interpretazione estensiva tale da permettere in pratica ad "opportunisti notori" come quelli di centro citati nell'articolo 7 di aderire all'IC e alla sua sezione nazionale francese purché accettassero le decisioni del Partito e le tesi e condizioni dell'Internazionale (59), incrinando così le fondamenta di principio sulle quali soltanto era possibile (come aveva notato al II Congresso il delegato della Frazione comunista astensionista) basare il funzionamento organico del Partito e quindi anche una sana, rigorosa e non formale disciplina, e sostituendo al metodo universalmente valido di porre l'insieme dei militanti (e ciascuno di essi singolarmente preso) di fronte a un corpo unitario di "articoli" di statuto ricalcati punto per punto sui postulati teorici e programmatici del comunismo, stabiliti una volta per tutte, vincolanti senza possibilità di eccezioni, e non suscettibili di mutamenti, il metodo eclettico (ma gravido di implicazioni opportunistiche) consistente nel mettere quello stesso corpo di articoli e postulati a base di trattative ispirate non al criterio di "prendere o lasciare", ma, come ogni trattativa, a quello di cercare un punto di incontro a metà strada fra esigenze e direttive contrastanti, preludio a quella che in seguito diverrà, nei confronti di gruppi o frazioni di più che dubbia consistenza politica, la prassi "istituzionalizzata" di un Comintern immemore dei suoi principi costitutivi. Il risultato sarà, ogni volta, di annacquare le posizioni di principio dell'IC dando al centrismo una patente del tutto immeritata di coerenza e rigidezza, e suscitando un più che comprensibile senso di delusione e perfino disgusto in proletari di avanguardia ansiosi di veder tracciato un "corso nuovo" estraneo alle manovre di sapore parlamentare e bottegaio di un passato che si sperava per sempre sepolto.

Di qui, anche, la lettera indirizzata nello stesso ottobre ai "compagni francesi", in cui Zinoviev minimizzava il valore dei 21 Punti in quanto tali, per limitarsi a chiedere che "si mettesse una pistola al petto del gruppo Longuet" esigendone risposta al quesito se voleva "fare quello che avevano fatto in Germania Hilferding, Crispien e Dittmann", o se, viceversa, avrebbe accettato e coscienziosamente eseguito i dettami dell'Internazionale e del partito; insomma, se era disposto a... cessare d'essere se stesso (60). (Come vedremo, è solo dopo averne ricevuto una netta e completa ripulsa, che dalla "pistola" puntata al petto dei centristi francesi partirà il "colpo" della lettera con cui si ingiunse ai delegati al congresso di Tours di respingere il "fatale compromesso" implicito nella mozione Longuet; gesto di salutare riparazione, è vero, ma non tale da sciogliere il dubbio più volte sollevato dalla nostra corrente che il danno prodotto da simili manovre di alta diplomazia fosse di gran lunga maggiore dei vantaggi ottenuti nel lanciare il sasso e ritirare la mano).

Che l'intreccio di tutti questi fattori non potesse non riflettersi sulla preparazione del congresso straordinario convocato a Tours per la fine di dicembre, soprattutto nel senso di smussare gli angoli e ridurre al minimo le occasioni di rottura in seno al vecchio partito, risulta già dalla mozione di adesione alla III Internazionale, "redatta, decisa ed approvata dal Comitato della III Internazionale e dalla frazione Cachin-Frossard, dimissionaria dal Comitato per la ricostruzione dell'Internazionale", mozione apparsa nel nr. 40 del 4/XI/1920 del Bulletin Communiste, pp. 8-14.

Essa contiene una parte espositiva di carattere generale (I. La presa del potere da parte del proletariato e la dittatura proletaria. -II. Il Partito comunista e la rivoluzione proletaria. -III. Il parlamentarismo. -IV. Il Partito e i Sindacati. -V. La solidarietà internazionale. -VI. La questione agraria. -VII. L'organizzazione delle donne e dei giovani) del tutto coerente con le tesi del Comintern (61), e un capitoletto finale sulle condizioni di ammissione, che risente dello sforzo di venire incontro ai "dimissionari" con un certo grado di compromesso; ed è appunto qui che balza agli occhi la fragilità delle basi su cui stava per nascere il partito.

Prima di tutto, con una formula che riecheggia le tradizioni federaliste della lì Internazionale, si afferma: "Se è vero che ogni partito é, nel proprio paese, il miglior giudice della situazione interna di questo paese e delle possibilità di azione del suo proletariato; che è di conseguenza il più qualificato per formare il giudizio dell'Internazionale comunista su questo punto, non è men vero che ogni partito non è che una delle unità delle forze proletarie mondiali strettamente solidali che l'Internazionale deve dirigere se vuol essere qualcosa di diverso da un semplice apparecchio registratore" (le due questioni sono poste sullo stesso piano). In secondo luogo, questo rapporto di parità fra… potenze, ciascuna sovrana nella propria sfera e convergenti solo grazie ad un accordo di do ut des (io il giudizio sulla situazione e sulle possibilità di agire in essa, tu la decisione su che cosa fare sulla sua base), corrisponde un rapporto analogo fra partito e sindacato, in cui non è difficile riconoscere l'eco di posizioni tradizionali sia nel socialismo non soltanto francese, sia nell'anarcosindacalismo: "Il Partito raggruppa i militanti di tutte le organizzazioni proletarie che accettano le sue concezioni teoriche e le sue conclusioni pratiche. Tutti, ubbidendo alla sua disciplina, sottomessi al suo controllo, diffondono le sue idee negli ambienti in cui si esercitano la loro attività e la loro influenza. E, quando la maggioranza in queste organizzazioni è conquistata al comunismo, fra esse e il Partito vi è coordinamento di azione e non assoggettamento di un'organizzazione all'altra". Infine, si stabilisce che "a partire dal Congresso, il Partito si chiamerà "Partito socialista, Sezione francese dell'Internazionale comunista". Esso farà valere presso il Comitato esecutivo dell'Internazionale "le ragioni che militano a favore dell'accettazione provvisoria di questo titolo": chiara concessione alle nostalgie unitarie dei centristi ravveduti e segno evidente delle perplessità tuttora regnanti circa la necessità di una netta rottura col passato (del resto, la questione del nome fu allora uno dei cavalli di battaglia anche del massimalismo italiano). V'é d'altra parte una clausola che, riprendendo i termini dell'accordo Zinoviev-Renoult, statuisce: "Il Partito considera che le eccezioni previste all'art. 20 delle condizioni per quanto riguarda i rappresentanti della tendenza centrista nominata all'art. 7 debbano applicarsi al Partito francese nelle circostanze presenti. Queste eccezioni valgono pure per i delegati al Congresso di cui all'art. 21, che dichiarino di inchinarsi di fronte alle decisioni del Partito". Il PCF è dunque alla vigilia di nascere in un'atmosfera di eccezioni invocate in omaggio alla contingenza: sarà il suo punto forte nelle relazioni future con l'IC. Ed é, da parte di quest'ultima - a pochi mesi di distanza dal II congresso -, una prima rinuncia, e di portata internazionale, perché di principio.

Appunto perciò la reazione della nostra corrente fu immediata ed estremamente energica. Il nr. 32 del 23/XII/1920 de Il Soviet reca un articolo intitolato I socialisti francesi e la Terza Internazionale che, tenendo conto anche della breve presentazione fatta precedere dal Bulletin Communiste al testo della résolution, scrive (corsivi nostri: l'articolo è di L. Tarsia):

"Sul Bollettino comunista, organo del Comitato della III Internazionale, abbiamo letto la mozione di adesione alla III Internazionale votata dal Comitato e dai dimissionari della frazione per la ricostruzione della Internazionale.

Nel cappello che la precede si afferma che la mozione sia "il sunto delle tesi della III Internazionale e il loro adattamento alla situazione in Francia".

Appena si legge una formula di tal genere bisogna subito mettersi in guardia perché essa vuol dire che gatta ci cova. Le tesi del 2° Congresso dell'Internazionale non hanno bisogno di adattamenti; adattamento è sinonimo di frode, adattamento è sinonimo di confusione, di decisioni non nette ed equivoche.

Non vi è bisogno di molto studio per andare alla ricerca di dove sia l'adattamento, ossia il marcio; esso non sarà certo in alcune delle quistioni fondamentali che interessano l'azione dell'Internazionale, ma che sono pel momento allo stadio della pura disamina teorica. L'abitudine democratica che come una lue ha infettato gli aderenti ai partiti socialisti, è cosi avvezza alle finzioni, agli abili sgusciamenti, che non farà mai trovare un solo ingenuo ed onesto che voglia dignitosamente abbandonare l'Internazionale per una discordanza profonda nei principi dottrinali che la guidano.

Una divisione sana e regolare quale dovrebbe verificarsi su questi principi non sarà possibile che avvenga. Tutta quella parte che discorda dalla Internazionale sui principi si guarda bene dall'enunciarlo in modo esplicito, tanto meno fa su di essi quistione di incompatibilità di comunanza di vita.

Chi in questa ora vuol scorgere ove sia il marcio nelle mozioni che si presentano e si discutono nei varii partiti deve andare diritto ad esaminare quella parte che riguarda il modo di adesione alla III Internazionale, il modo di accettazione delle 21 condizioni da questa messe ai partiti che vogliono farne parte. La mozione francese, infatti, che fila a vele gonfie attraverso tutte le altre tesi dell'Internazionale, incespica ed impunta precisamente a questo punto, dove incespicano ed impuntano, a qualunque paese appartengano, tutti coloro che non sono in corpo ed in anima colla Internazionale comunista, ma fanno della sua adesione una quistione di opportunità senza avere la sincerità, che sarebbe antidemocratica, di confessarlo.

Ognuno di questi tali opportunisti (é meglio chiamarli colla denominazione che meritano) sostiene che bisogna accettare i famosi 21 punti, ma aggiunge che nel partito del proprio paese vi sono delle condizioni speciali per cui essi debbono essere applicati con qualche eccezione, dicono i francesi; con… una certa larghezza di interpretazione, dicono gli italiani; e così dicono gli svizzeri, e via dicendo. Se noi consideriamo che le critiche che sono mosse a quelle deliberazioni di Mosca sono le stesse ovunque, se ovunque si giunge alle stesse richieste, bisogna convenirne che queste condizioni, che ognuno di quei tali chiama speciali per il proprio partito, non esistono, se si riproducono tal quali per tutti i partiti.

Più che una varietà nelle condizioni dei singoli paesi, che sono, invece, molto uniformi, esiste una varietà di valutazioni di esse, valutazioni che una parte dei componenti dei partiti socialisti fa in conformità dei criterii della Internazionale ed un'altra in difformità da questi, ma con criterio uniforme tra loro.

I compagni francesi dicono: "Se è vero che ogni partito è nel proprio paese il miglior giudice della situazione interna di questo paese e della possibilità di azione del suo proletariato, che è per questo fatto il più qualificato per formare il giudizio dell'internazionale comunista su questo punto, non è meno vero che ciascun partito ecc.". Niente di diverso di quanto affermano i nostri serratiani unitari".

Stabilito così - in base a criteri validi allora come ai giorni nostri (quando, fatto fare ai principi del 1920 un giro di 360°, si è scoperto che il comunismo non è comunismo se non é... policentrico, se non ci si arriva per tante vie quante sono le nazioni di questa terra) - che le "speciali condizioni" del rispettivo paese si invocano ad un unico scopo, quello di sottrarsi ai ceppi di un programma vincolante per tutti e intollerante di eccezioni, per accettare i postulati di un programma che si pretende aperto ad ogni possibile variazione, ma che si riduce in pratica ad una sintesi degli "eterni" principi della democrazia, l'articolo affronta il problema dell'adesione all'IC da un punto di vista di principio, e qui appare chiaro come la nostra concezione del "partito mondiale unico della rivoluzione proletaria" fosse agli antipodi di quella in genere corrente fra i partiti "europei" nati nel 1920-1921:

"Questa affermazione non è per nulla esatta. è soltanto una presunzione gratuita, ma non è affatto dimostrato che il partito del paese o meglio una parte di questo partito, sia pure la maggiore, sia il miglior giudice della possibilità di azione del suo proletariato. è invece perfettamente ammissibile che un comitato internazionale, che raccolga le più elevate menti del movimento proletario e che sia dalla sua stessa funzione chiamato a guardare nel suo insieme questo movimento in tutto il mondo, possa vedere anche meglio di quella tale parte del partito di un paese, essendo, come nel caso attuale, per giunta questo comitato in perfetto accordo di vedute con un'altra parte di quegli stessi partiti.

Non vogliamo sollevare la quistione dei rapporti fra singoli partiti e Internazionale che debbono divenire ad ogni costo affatto identici a quelli attualmente esistenti tra le singole sezioni e il partito. Che cosa direbbero i compagni francesi e i nostri unitari, se una sezione del partito, o che volesse entrare in esso, ripetesse il medesimo ragionamento che essi fanno? Che vi è forse una differenza pel solo fatto che l'Internazionale ha a capo i compagni russi? Oh l'internazionalismo di certi comunisti!

La frase dei compagni francesi è equivoca in quanto si fa cenno al giudizio sulla possibilità di azione dei singoli proletariati.

Finora la III Internazionale non ha ancora emanato ordini di azioni, perché non ha ancora raggiunto il grado di perfezione nel suo funzionamento, al quale dovrà necessariamente giungere per coordinare le mosse del proletariato. Per ora esso non ha tracciato che delle direttive di indole generale sulle varie quistioni, cominciando collo stabilire in quale modo debbano organizzarsi, in quale modo forgiarsi i vari suoi componenti che debbono guidare l'azione rivoluzionaria del proletariato, ossia i vari partiti comunisti. Al quale primo passo noi speriamo seguirà presto l'altro della unificazione nel prossimo congresso dei vari partiti in uno solo con un solo programma, con una sola tessera, in modo da dare anche per le sue forme esteriori la sensazione materiale ad ogni iscritto di far parte di un solo organismo, cui è legato dai più stretti e rigorosi vincoli programmatici e disciplinari.

Quei compagni francesi, tanto simili a certi nostri italiani, aspiranti opportunisti alla III Internazionale, ossia della più pericolosa specie di opportunisti, abituati come sono ai partiti minestrone in cui vi è posto per ogni specie di gente, vorrebbero continuare il giuoco colla III Internazionale. Essi si aggrappano alle eccezioni previste dall'articolo 7 e dal 20° dei 21 punti, eccezioni che si sono volute sancire per qualche raro caso, ma che debbono rimanere rigorosamente e strettamente delle eccezioni. Se attraverso questo varco si allarga la strada, le eccezioni saranno tali e tante che finiranno per divenire la regola. I compagni francesi infatti, non contenti delle eccezioni previste, chiedono che le eccezioni siano estese ai delegati del congresso, pei quali il disposto dell'art. 21 è più che mai reciso nel sancire la espulsione. Questi compagni francesi e italiani che oggi si preoccupano di conservare nelle file dell'esercito, che deve combattere per la rivoluzione, dei soldati che non possono essere buoni, perché non accettano la forma di lotta che si vorrebbe ad essi imporre, non pare si preoccupino di questa eventualità pel solo fatto che non sembra loro imminente. Essi col loro contegno non ci danno garanzia se, quando la battaglia sarà ingaggiata, abbandoneranno i loro compagni o, continuando l'alleanza, li seguiranno nelle file nemiche ove costoro non possono non andare.

Anche i compagni francesi non vogliono cambiare il nome del partito ed hanno stabilito la seguente denominazione: "Partito Socialista, Sezione francese della Internazionale... comunista".

Come si vede, anche la questione del nome ha le sue esigenze di carattere tanto locale, che sono identiche nei vari paesi. Noi ripetiamo, circa la questione del nome, a coloro che dicono abbia poca importanza, che non debbono tergiversare; agli altri che una importanza le riconoscono, in quanto accettano che le parole socialista e comunista hanno ormai due significati profondamente diversi, [ripetiamo] che la loro proposta di connubio è una implicita confessione che essi non si sentono comunisti, o per lo meno sono degli spiriti vacillanti. Se ne vadano in conseguenza alla buonora o alla malora altrove. La III Internazionale non ha bisogno di loro.

A proposito però delle richieste francesi, come di quelle consimili italiane e via, è da porre in rilievo che tutte queste varie pecore zoppe si volgono fiduciose al Comitato Esecutivo della Internazionale e sperano in esso speculando sulla più che giustissima deliberazione del 2° Congresso che stabiliva dovesse tra un Congresso e l'altro decidere sulle quistioni con autorità pari a quella del congresso il Comitato Esecutivo. Per un organo di battaglia quale deve essere la III Internazionale sarebbe stato grave errore non stabilire questo. La difficoltà di riunire i congressi e le condizioni storiche cosi varie e mutevoli avrebbero tolto alla sua funzione ogni efficacia, se essa non avesse assicurata la continuità della funzione affidando questo compito con quella decisione al comitato esecutivo. Con questo però il congresso non ha creduto o voluto stabilire che questo comitato possa disfare, attraverso singole deliberazioni, quanto esso aveva deliberato.

Le deliberazioni del congresso della Internazionale non sono l'assoluto nel campo della pratica, né sono delle affermazioni astratte di principio; esse vogliono essere e sono le direttive tattiche nell'attuale situazione storica. Col mutarsi di queste muteranno anche le direttive, e, fino a che non vi sarà un nuovo congresso, provvederà a ciò il comitato esecutivo, a cui tutta la Internazionale obbedirà con disciplina. Ma oggi il comitato delibera ed agisce in una situazione identica a quella in cui ha deliberato il congresso e perciò non ha nulla da mutare, da raffazzonare, da mitigare, da attenuare, specie per quanto riguarda le condizioni di ammissione, in cui deve soltanto eseguire, e fedelmente. Se facesse diversamente, farebbe opera di disgregazione e di indisciplina, farebbe opera di sopraffazione e si renderebbe colpevole quanto coloro che invocano in tale senso indisciplinato il suo intervento e la sua azione.

É bene su ciò spiegarsi chiaro per non incorrere in equivoci spiacevoli. Il compagno Lenin ci ha appreso di alcune esitanze del compagno Zinovieff in una ora storica gravissima; non vorremmo che questi ricadesse di nuovo ora in qualche debolezza, per correggere la quale noi facciamo appello alla inesorabile intransigenza del compagno Lenin che è stata la mirabile forza del partito nei supremi momenti.

Un gruppo di compagni francesi ha proposto alla mozione, di cui ci occupiamo, alcuni emendamenti, pei quali vengono corrette le contorsioni e le equivoche esitanze, e per cui l'adesione alla III Internazionale viene proposta quale si deve, ossia senza riserve, senza reticenze e senza eccezioni. Forse sarebbe stato meglio che essi, così come ha fatto la frazione comunista italiana, avessero presentato senz'altro una mozione per loro conto in modo da far risultare più netta la loro azione, ma anche senza questo è soltanto ad essi che la nostra Frazione comunista può manifestare la più completa solidarietà" (62).

La partita, comunque, era ormai giocata. Rimasti soli i "dimissionari dal Comitato per la ricostruzione dell'internazionale" a difendere la tesi dell'adesione all'Internazionale Comunista e le sue ragioni, Tours non poteva essere che il teatro di una scissione imperfetta: respinta fino all'ultimo da coloro che avrebbero dovuto fermamente volerla; voluta da coloro che avrebbero dovuto essere posti nella condizione di subirla; non basata per i primi, e per buona parte dei militanti al loro seguito, su una chiara delimitazione teorica e politica, quindi non suscettibile di tradursi in un indirizzo positivo profondamente diverso dal passato nell'atteggiamento, nell'azione pratica, nell'organizzazione del partito. Non possiamo qui soffermarci sull'andamento di un congresso destinato a riproporre le ambiguità e a perpetuare le inerzie di una tradizione profondamente radicata: l'abbiamo già fatto altrove (63). Limitiamoci alle seguenti annotazioni:

Mentre a Livorno i comunisti saranno all'offensiva, pronti a "tagliare" non solo con la destra ma col centro massimalista, non subordinando a considerazioni di maggioranza o minoranza l'accettazione di una frattura già consumata nei fatti, e traendo da questa accettazione non debolezza, ma forza, a Tours i "fondatori" del partito rivoluzionario di classe restano fino all'ultimo sulla difensiva: di fronte soprattutto a un Blum chiamato a svolgere il tema della contrapposizione non del riformismo al comunismo, ma di due "diverse concezioni rivoluzionarie", e in grado di farlo con la sottigliezza del causidico assai più che del dialettico, essi possono soltanto giustificarsi. Non è un fatto esteriore che, a Livorno, siano i comunisti a lasciare la "vecchia casa comune" e a Tours, invece, la destra e il centro accomunati, i soli che si schierino in piena coerenza e consapevolezza sullo spartiacque di principi riconosciuti "essenziali ed invariabili" (parole, vivaddio, di Blum!) e di norme tattiche e organizzative ad essi conformi (64). Ed è nella stessa logica che da Livorno esca un partito comunista minoritario e da Tours un partito ipertrofico, a base democratica e a struttura informe.

A Halle e Berlino, d'altra parte, il passaggio della sinistra indipendente al KPD era avvenuto in una specie di consegna del silenzio sulle questioni di fondo del movimento comunista: le 21 condizioni e le Tesi dei due primi congressi dell'IC, erano infatti state accettate in blocco, e parlavano da sé, senza bisogno di commenti. A Tours, l'ala sinistra della "Ricostruzione" non difende né i documenti del Comintern, né la mozione tuttavia concordata con gli uomini del Comité de la 3° Internationale, ma l'interpretazione personale e, soprattutto, tricolore, che Cachin e Frossard credono di doverne dare, perché è l'unica alla quale si sentano vincolati. Qual é, in sostanza, il leit-motiv dei discorsi sia di Blum, che di Longuet? La contrapposizione di un patrimonio socialista francese immutabile (ma liberamente accettato!), a qualcosa di nuovo e di estraneo: il bolscevismo. E quale è la preoccupazione dominante nei discorsi di Cachin e Frossard? Quella di dimostrare, al contrario, che fra il socialismo francese di sempre e il bolscevismo di oggi, almeno come lo intendono loro, corre un filo continuo. Cachin - futuro direttore dell'Humanité - lo proclama pro domo sua ("Quando affermiamo con la Rivoluzione russa che il proletariato deve considerare la necessità, per esso urgente, di giungere alla preparazione pratica della sua rivoluzione, penso che restiamo nella più pura tradizione socialista di questo paese") e, non richiesto, per i rivoluzionari russi ("Lasciate che vi dica, una volta di più, quanto questi uomini, un grandissimo numero dei quali ha ricevuto qui da noi (!!!) la sua educazione rivoluzionaria, sono legati allo spirito e alla tradizione di azione della Rivoluzione francese"). Frossard - futuro segretario generale del PCF - apre il suo discorso con la frase: "Se avessi la sensazione che la nostra politica di domani è in rottura con la tradizione socialista nazionale, non sarei a questa tribuna", e lo chiude con una immaginosa citazione da Jaurés, "di cui posso ben dire che resterà il nostro patrimonio comune" (un patrimonio marxista non esiste per nessuno, a Tours, nemmeno nell'esile filone che da Lafargue va al primo Guesde: evidentemente, non è made in France!). Particolare curioso, nel 1920 il richiamo a Jaurés come alfa ed omega serve a Frossard anche per obiettare ai riformisti che "il rispetto della tradizione socialista non può in nessun modo condannarci a irrigidirci nella immobilità del dogma"; due anni dopo, gli servirà di argomento contro l'Internazionale!

É in nome del proprio paese, d'altro lato, che Cachin, se si rifiuta di concedere alla borghesia una cambiale in bianco per la sua politica di guerra, si augura di sentir "attestare dall'unanimità dei rappresentanti del proletariato di questo paese che non confonderanno mai difesa dell'oligarchia capitalistica e difesa nazionale"; è in nome delle sue tradizioni che Frossard, "fiero del proprio passato, perché è il passato di un militante senza macchia" e convinto di parafrasare... Trotsky parlando di una "difesa nazionale onesta" in antitesi a quella fallace delle oligarchie dominanti, spiega come sia stata interpretata a rovescia la frase di Marx sui proletari che non hanno patria: "Quel che voleva dire Marx, è che la patria dei proletari è stata loro rubata dalla borghesia capitalistica e che essi debbono fargliela restituire" (un gioiello perduto da recuperare!), e come sia lungi dall'intenzione sua e dei suoi compari di "ricadere nell'antipatriottismo grossolano, imbecille e assassino dell'anteguerra". Corollario degno di un... eurocomunismo avanti lettera: "Quello che vogliamo salvare con un'opposizione irriducibile alla guerra non sono soltanto [un'inezia, infatti!] le possibilità di emancipazione della nostra classe; è tutta la civiltà che è il frutto di secoli di fatiche, e di sacrifici di cui il socialismo vuole che tutti gli uomini possano beneficiare in un nuovo mondo che avrà realizzato la sovranità del lavoro. La nostra difesa nazionale la riassumo con una parola: è la pace!" (65).

É chiaro che la via della fedeltà alla tradizione socialista nazionale, ivi compresa la difesa della patria in versione aggiornata, era nello stesso tempo quella dell'unità, almeno con i "ricostruttori". Ed è noto che, in un congresso apertosi all'insegna della "grande amitié", la svolta giunse - come poteva solo giungere - dall'esterno e contro le migliori intenzioni della cosiddetta estrema sinistra, cioè dal telegramma, datato Riga 24 dicembre, in cui il Comitato esecutivo dell'IC, preso atto delle diverse mozioni presentate in vista del congresso, concludeva:

"Le tesi approvate dal 2° congresso dell'IC ammettono certe eccezioni a favore dei riformisti che si sottomettano alle decisioni dell'IC e rinuncino al loro passato opportunismo. Il progetto di risoluzione firmato da Longuet e Paul Faure mostra che Longuet e il suo gruppo non hanno nessun desiderio di fare eccezione nel campo dei riformisti. Sono stati e restano degli agenti decisi dell'influenza borghese sul proletariato. Quel che è più notevole, nella loro risoluzione, non è tanto ciò che dicono, quanto ciò che tacciono. Della rivoluzione mondiale, della dittatura del proletariato, del sistema sovietico, Longuet e i suoi amici preferiscono o non dire nulla del tutto, o dire le più banali ambiguità.

L'IC non può aver nulla in comune con gli autori di simili risoluzioni. Il peggior servizio che si possa rendere nelle circostanze attuali al proletariato francese è di immaginare non si sa quale compromesso pasticciato che poi sarà una vera palla al piede per il vostro Partito. Siamo profondamente convinti, cari compagni, che la maggioranza degli operai coscienti di Francia non ammetterà un compromesso cosi rovinoso con i riformisti e creerà finalmente a Tours il vero Partito comunista unico e possente, liberato dagli elementi riformisti e semi-riformisti. è in questo senso che salutiamo il vostro Congresso e gli auguriamo successo. Viva il Partito comunista di Francia, viva il proletariato francese!"

L'effetto del "colpo di pistola" è immediato: destra e centro fanno, praticamente se non formalmente, blocco. Ed è caratteristico che, lungi dal prenderne atto come di una conseguenza necessaria e, agli effetti degli sviluppi futuri, positiva, sia l'estrema sinistra a cercar di ricucire la tela bruscamente spezzata. Daniel Renoult offre una sua interpretazione benevola della frase che definisce Longuet e C. agenti dell'influenza borghese sul proletariato, spiegando che "essa vuole semplicemente dire, nel pensiero di chi l'ha scritta, che una certa politica troppo timida, troppo esitante, ai suoi occhi, è di tal natura da contribuire indirettamente, e senza che i difensori di questa politica lo vogliano, al prolungamento del regime capitalista". Frossard, che già si era pronunciato contro ogni esclusione, si dichiara in disaccordo con Zinoviev, aggiungendo: "Quando noi abbiamo votato l'adesione del nostro Partito alla III Internazionale, non abbiamo inteso rinunciare per sempre ad ogni spirito critico, ad ogni libertà di discussione, e sui testi e sugli uomini intendiamo conservare il nostro diritto di libero esame, come si conviene a un grande partito di libero pensiero", e lancia un accorato appello ai "compagni della Ricostruzione" scongiurandoli: "Restate con noi! Io lo proclamo: Voi siete quanto noi dei buoni operai del Socialismo internazionale. Restate con noi, oh voi coi quali ho lottato nelle condizioni più difficili. Restate con noi, ve lo chiedo. Restate con noi per l'avvenire del Socialismo internazionale!". A Longuet, il quale chiede che gli si dica francamente se lo si considera davvero un agente della borghesia, Cachin risponde che non è il caso di prendersela per le "espressioni brutali" e le "violenze verbali" d'uso corrente fra i bolscevichi: anche lui, in un primo momento, ne è rimasto ferito, poi ci ha fatto il callo. D'altra parte, "i Russi hanno avuto il grande merito di agire, il merito supremo di non pensare che al trionfo della Rivoluzione mondiale che vi libererà come li ha liberati [...] Ci avviciniamo ad avvenimenti decisivi, da noi e in tutta Europa, e sarebbe soltanto perché vi si è inviata una lettera in cui alcune parole vi hanno ferito, che rifiutereste di unirvi al grosso dell'esercito socialista rivoluzionario mondiale?".

Ma gli uomini del centro sono irremovibili: dopo che, avendo i destri ritirata la loro mozione, quella per la III Internazionale ha ottenuto 3.208 voti contro i 1.022 alla mozione Longuet, i 44 alla mozione Heine-Leroy, i 60 ad una mozione di... centro-destra firmata Pressemane, e 397 astensioni, il congresso è chiamato ad esprimersi su due mozioni redatte all'ultimo momento in risposta alla lettera di Mosca. Quella presentata da Daniel Renoult per l'estrema sinistra suona:

"Il Congresso registra la dichiarazione del comp. Zinoviev come una condanna della politica della destra da un lato, e della politica detta centrista dall'altro. Dichiara che la mozione di adesione firmata dal Comitato della III Internazionale, approvata dal CE dell'IC, legifera per l'avvenire e non impone alcuna esclusione per il passato, ma precisa nel modo più netto che le esclusioni previste all'art. 7 e all'art. 20 delle Condizioni di Mosca non potranno applicarsi a nessun membro del Partito che si inchini di fronte alla decisione del presente Congresso e conformi la sua azione alla disciplina comune".

Quella presentata da Mistral per i longuettisti dice seccamente:

"Il Congresso, in presenta del telegramma del CE dell'I.C., dichiara di rifiutarsi di procedere alle esclusioni richieste da questo telegramma e proclama la sua volontà di mantenere l'unità attuale nel Partito" (66).

Messe ai voti, la prima ne raccoglie 3.247, la seconda 1.398: le astensioni sono 143, gli assenti 29. Uniti, destra e centro lasciano la sala, per continuare altrove i lavori del congresso socialista. La scissione è avvenuta. Alla resa dei conti si vedrà che 86 federazioni su 96, e 110.000 iscritti su 179.000, sono passati dal vecchio al nuovo partito...

***

Osservando come i dibattiti al congresso di Tours e la campagna che li aveva preceduti non avessero fatto chiarezza sulla necessità di una rottura completa col passato, e in particolare avessero lasciato intatte le ambiguità in materia di "difesa nazionale" in cui si era sempre dibattuto il centrismo, Le Phare scriveva nel nr. 16 del 1920 (67), e questo era anche il giudizio della nostra corrente:

"Per quanto ci possa rallegrare, la decisione di Tours non riesce ad illuderci. Il PSF aderisce all'Internazionale comunista, ha chiaramente affermato la sua simpatia per i principi che guidano la rivoluzione russa, ma non è diventato, con la decisione di Tours, un partito comunista. Tours non è un punto d'arrivo, ma un inizio che segna la via nella quale il partito dovrà evolvere, purificarsi, crescere e diventare un partito che pratica realmente una politica comunista. La scissione condotta dai socialpatrioti di Renaudel e dai centristi di Longuet, sbarazzando il partito da questi elementi corrotti dall'opportunismo, faciliterà tale evoluzione. I ventun punti sono stati votati; ora si tratta di applicarli. Il voto di Tours deve segnare una rottura con la passata politica del partito, un orientamento nuovo della sua tattica, un rinnovamento della sua dottrina".

Tale era, del resto - come risulterà dai tre successivi Congressi ed Esecutivi Allargati -, anche l'opinione della Terza Internazionale. Il fatto é, tuttavia, che troppi fattori giocavano in senso avverso a questa prospettiva.

Storicamente inevitabile, il modo di formazione dei due grandi partiti europei celava pericoli la cui gravità poteva essere attenuata soltanto dall'incontro fra una situazione di ripresa ed estensione della lotta di classe nelle sue manifestazioni politiche più avanzate, ed una ferma e rigorosa direzione del movimento comunista mondiale ad opera di Mosca. Il primo requisito, almeno a breve termine, era assente: contro ogni previsione dell'IC, in tutta Europa, la curva delle agitazioni operaie aveva raggiunto l'apogeo nell'inverno e nella primavera del 1920 entrando poi nettamente in riflusso (lo vedremo anche a proposito dell'occupazione delle fabbriche in Italia): la fine del putsch di Kapp e la liquidazione dei suoi strascichi in Germania, l'epilogo deludente degli scioperi di maggio in Francia, ne erano un chiaro indizio; i moti del marzo e dell'aprile 1921 in Germania saranno più l'effetto ritardato del "biennio rosso" che l'annunzio di un nuovo corso ascendente. E, in tale situazione, il peso delle forze equivoche cui si era dovuto - e lo si era fatto con eccessiva larghezza - concedere l'accesso nei due partiti-chiave in Europa non poteva non farsi sentire sempre più a scapito delle forze sane che essi tuttavia contenevano: era il loro momento; si aveva un bell'epurarli; via gli uomini, l'orientamento avrebbe finito per ubbidire alla stessa bussola.

D'altra parte, il modo in cui si era arrivati alla scissione dai partiti socialisti dimostrava che il secondo requisito tendeva anch'esso a svanire: la mano di Mosca era ferma, ma la rotta tendeva ad essere oscillante. La causa di ciò - siamo costretti a ripeterlo - va cercata fuori delle vicende personali di singoli o gruppi, e meno che mai la si potrà trovare in "difetti" intrinseci della dottrina allora comune; va cercata in fattori oggettivi esterni ed interni all'area in cui aveva sede la direzione del movimento comunista mondiale, e dai quali alla lunga doveva risultare vulnerabile lo stesso partito bolscevico - non "primo motore" ma ultimo anello di una crisi generale (che poi l'effetto possa a sua volta essere diventato causa, non stupisce certo la dialettica marxista!). Sta il fatto, comunque, che - benché con ripensamenti e ritorni indietro anch'essi negativi -, si cominciò allora a rimettere in causa decisioni già prese e direttive già impartite come irrevocabili, a rendere problematiche tesi che non avrebbero più dovuto ammettere dubbi o riserve, ad allentare i rigori della disciplina organizzativa e ad attenuare le linee di demarcazione della tattica; in una parola, a rimpiangere non già che il processo di formazione dei partiti comunisti non avvenisse secondo lo schema di Livorno, ma che non riproducesse il modello di Tours - il modello cioè di un partito la cui forza numerica e il cui prestigio nel paese potevano ben far perdonare la scarsa consistenza teorico-programmatica, il lassismo organizzativo, l'attaccamento ad abitudini di un passato che si voleva dovunque superato.

Si poteva discutere sull'opportunità o meno di allargare le maglie delle condizioni di ammissione, almeno entro un certo limite. Quello che non avrebbe dovuto tollerar discussioni era la necessità di non ricominciare ogni volta a tessere la tela delle sezioni nazionali dell'IC in base a criteri diversi da quelli adottati ai suoi congressi costitutivi e adottati come obbligatori perché in tutto e per tutto coerenti con i principi del comunismo non in astratto, ma dal punto di vista della continuità fra programma generale del partito e sua azione pratica. Per le stesse ragioni per cui il movimento comunista europeo era in grave ritardo sull'incalzare degli eventi, le forze decise a battersi entro il Comintern in difesa di quei criteri e, quindi, della sua stessa esistenza di organo centrale del movimento in tutto il mondo furono minime: non a caso la voce della nostra corrente (e del PCd'I che essa dirigeva) restò senza eco anche quando se ne riconobbe la corretta impostazione. E l'assenza di un contributo reale dell'Occidente proletario e comunista al mantenimento della giusta rotta collettiva si convertì in fattore aggravante del suo smarrimento, cosi come i mancati sviluppi rivoluzionari in Occidente si ripercossero, quali concause di un processo involutivo già in atto, sulla Russia sovietica, e questi e quella sulla parabola del glorioso partito di Ottobre.

Al II Congresso dell'Internazionale, proprio in riferimento alle preoccupazioni che destava nelle avanguardie comuniste il contegno sfuggente dei due delegati socialisti francesi, Rakovsky aveva additato come vera "garanzia" contro i "tradimenti avvenire", assai più che le Condizioni di ammissione, l'esistenza di "un vero e proprio centro del movimento internazionale, un vero e proprio stato maggiore della rivoluzione, munito di pieni poteri per dirigere il movimento in tutto il mondo" (68). è su questa base che si procedette, fra l'estate 1920 e l'estate 1921, nell'affrontare il problema dell'adesione all'Internazionale di Mosca di frazioni più o meno consistenti dei vecchi partiti socialisti. Alla fine del 1926, scrivendo a Karl Korsch (69), Bordiga potrà constatare che il tentativo "di raggruppare materialmente, e poi dopo soltanto fondere omogeneamente i vari gruppi" (sorti come "blocco di opposizioni locali e nazionali") "al calore della rivoluzione russa, in gran parte non [era] riuscito".

Nello stesso tempo, l'assenza o l'arresto del necessario lavoro "spontaneo" di elaborazione nei principali paesi dell'Occidente capitalisticamente evoluto aveva finito per privare l'Internazionale delle più sicure capacità di recupero dell'organismo nei momenti di crisi. Riconoscerlo non significava emettere una sentenza di condanna, ma constatare un dato di fatto.

E per capire come andarono (e come poterono e dovettero andare) le cose allora e in seguito, non per inscenare stupidi processi neppure alle intenzioni, che abbiamo dato spazio così largo alle vicende non certo entusiasmanti (ma l'epoca ne offrirebbe anche di peggiori: vedi l'esempio cecoslovacco) della formazione del VKPD e del PCF, e soprattutto di quest'ultimo.

Note:

(32) Cfr. il II Volume della Storia della Sinistra comunista, cit., pp. 561-562.

(33) Cfr. il citato II volume, p. 118: Conversando con Louise Saumoneau.

(34) L. Trotsky, Lettera ai nostri compagni francesi. (Ai comp. Loriot, Rosmer, Monatte e Péricat), sett. 1919, in The First Five Years, etc., cit., p. 89. Anche l'Appello del Presidium del II Congresso a tutti i membri del Partito socialista francese, a tutti i proletari di Francia che hanno coscienza di classe, datato 26 luglio 1920, dice: "Per tutta una serie di motivi, la borghesia francese attualmente sostiene il ruolo più reazionario in tutto il mondo. La Francia borghese è diventata un sostegno della reazione mondiale. Il capitale imperialista francese si è assunto agli occhi di tutto il mondo il ruolo di gendarme internazionale […] La rivoluzione mondiale non ha peggior nemico del governo degli imperialisti francesi". Cfr. A. Agosti, La Terza Internazionale, Storia documentata, Milano, 1974, I/1, pp. 235-236.

(35) In cammino: riflessioni sul corso della rivoluzione, in The First Five Years etc., p. 78, e tr. it. Problemi della rivoluzione in Europa, Milano, 1973, p. 81.

(36) Citato in A. Kriegel, Aux origines du communisme français, Parigi, 1969, pp. 286-287.

(37) Frase di Frossard in un comizio del l2/VIII/1920 (cfr. Humanité del 14), a commento di quanto gli avrebbero detto Lenin e Trotsky.

(38) "Il socialismo francese non è forse in primo luogo il socialismo di Jaurés? Un socialismo che si preoccupa, certo, di uniformarsi alle tesi della II Internazionale […] ma, non meno, di uniformarsi alle particolarità della sua condizione nazionale: ritmo relativamente lento dello sviluppo industriale; strutture sociali complesse, caratterizzate dal volume eccezionale delle classi medie, rurali e urbane; vincoli di una dimensione nazionale rigida: fin dall'origine il movimento operaio accetta d'essere patriottico, giacobino [...]; esistenza, infine, assai presto, di un quadro politico parlamentare, e di conseguenza un problema come quello della partecipazione socialista a un governo borghese". Così la Kriegel (Le Congrés de Tours, Parigi, 1964, p. XVI), per la quale la cosa non è affatto scandalosa: è una semplice constatazione di fatto, cui adattarsi. Se perciò citiamo di frequente i suoi scritti, ciò non significa che ne condividiamo l'impostazione: ci servono per la parte documentaria e per qualche giudizio corretto su singoli aspetti dei problemi. Per una critica del volume qui citato, si veda À propos d'une brochure sur "la naissance du parti communiste français", ou quand la vérité se met au service de la confusion, nella rivista teorica internazionale Programme Communiste, nr. 29, ott. dic. 1964, pp. 56-65.

(38bis) Non consideriamo per ora l'esile ma battagliero gruppo di socialisti e sindacalisti rivoluzionari riuniti intorno al Comité pour la reprise des relations internationales e ad altri organismi analoghi nella CGT.

(39) Articolo dell'8-IX-1917 cit. in R. Wohl, French Communism in the Making, Stanford, 1966, p. 96.

(40) Ibid., p. 150.

(41) Ibid., p. 478.

(42) Il testo della mozione politica dei Ricostruttori si legge nel Compte rendu sténographique del Congresso di Strasburgo, Parigi, 1920, pp. 536-538; le proposte di emendamento Blum, alle pp. 539-542.

(43) Lenin, Al comp. Loriot e a tutti gli amici francesi che hanno aderito alla III Internazionale, 28/X/1919 (in Opere, XXX, pp. 70-71). Nell'articolo Zimmerwald-Kienthal, del l0/VI/1916, Zinoviev scriveva del gruppo Longuet-Pressemane che era composto della "peggior specie di kautskyani francesi" (cfr. Lenin-Sinowjev, Gegen den Strom, Amburgo, 1921, p. 345). E Trotsky, nell'estate 1919, osservava che in una Francia divenuta il fulcro della controrivoluzione mondiale, la destra socialdemocratica rappresentava "una forza più reazionaria che il clericalismo", ma "Renaudel e impensabile senza Longuet", cioè senza la sua arte di nascondere il proprio ruolo di sostenitore dell'inviolabilità dell'ordine borghese "dietro il rituale e la liturgia del culto del socialismo e perfino dell'internazionalismo" (Lettera ai nostri compagni francesi, sett. 1919, in The First Five Years, etc. I, pp. 89-90; ma si veda anche l'articolo Jean Longuet del 18.XII.1919, ivi, pp. 104-111, e tr. it. nel nostro O preparazione rivoluzionaria o preparazione elettorale, pp. l4-18). Per la necessità, sempre ribadita da Lenin, di una "lotta implacabile" contro il centrismo soprattutto in Francia, cfr. anche il Saluto ai compagni italiani, francesi e tedeschi del l0/X/ 1919, e le Note di un pubblicista del 14.II.1920 (in Opere, XXX, pp. 40-49 e 316-325), ma anche la Lettera agli operai francesi e tedeschi (A proposito delle discussioni sul secondo congresso dell'IC.), del 24.IX.1920 (Opere, XXXI, pp. 266-268) e Falsi discorsi sulla libertà, dell'11.XII.1920 (ivi, pp. 371-375).

(44) Si è visto nel II volume come fossero equivoche le dichiarazioni con cui, a Mosca, Cachin e Frossard si erano impegnati a difendere in Francia le basi programmatiche del II congresso, e come la serietà della loro "conversione" al comunismo rivoluzionario fosse duramente contestata da molti delegati non solo francesi. Si deve aggiungere che i comizi e gli articoli dei due pellegrini al loro rientro in patria non si spinsero mai oltre le proclamazioni di entusiasmo per l'opera compiuta dai bolscevichi in Russia e la sua assunzione a generico modello in Occidente, secondo lo schema del discorso Frossard del 12 agosto (Humanité del 14): "Non si tratta, compagni operai, di chiedervi di fare la rivoluzione domani, ne, se la fate, di copiare i Soviet: si tratta di affermare diversamente che a parole la nostra solidarietà verso il proletariato russo". In realtà, nei discorsi, negli articoli e in genere negli scritti dei due "dissidenti della Ricostruzione" nulla permette in quei mesi di distinguerli sostanzialmente dai longuettisti (quindi anche dai destri alla Blum) "né sul fondo, quanto al rispettivo modo di intendere la rivoluzione e il socialismo, né nella forma, quanto allo stile di pensiero e di azione" (Kriegel, Aux origines etc., cit., p. 347).

(45) Zinoviev al III Congresso (Protokoll etc., cit., p. 195).

(46) Rispettivamente nell'Humanité del 9/IX e del 15/XI. Tutti e due avevano pure insistito nel considerare... autentiche soltanto 10 (o 9) delle 21 Condizioni.

(47) Citato in J. Humbert-Droz, L'internazionale Comunista fra Lenin e Stalin, Milano, 1974, p. 47. (L'A. aveva votato al II Congresso le nostre tesi sul parlamentarismo, schierandosi anche a favore dell'aggiunta Bordiga alle Condizioni di ammissione).

(48) Nel 1927, il "cretinismo parlamentare" e il "rispetto della legalità" che caratterizzavano il PCF avevano ancora il potere di scandalizzare un... Togliatti (cfr. il suo rapporto a Humbert-Droz del 29.VI.1927, in Humbert-Droz, Il contrasto fra l'Internazionale e il P.C.I., 1922-1928, Milano, 1969, p. 249). Dieci anni dopo, i vari Togliatti-Ercoli non faranno mai abbastanza per riscattarsi dallo storico delitto di non aver esercitato all'ennesima potenza quelle due sovrane "virtù" di ogni buon democratico.

(49) Articolo firmato (molto trasparentemente) Varine, nel nr. 20/VIII de L'Humanité, cit. in G. Walter, Histoire du Parti communiste français, Parigi, 1948, p. 33.

(50) Lenin, Lettera aperta a Boris Souvarine, in Opere, XXIII, pp. 196-205. Boris Souvarine era allora assai più vicino ai "minoritari" o longuettisti che alla maggioranza degli zimmerwaldiani; Lenin tuttavia rivolge i suoi strali anche contro questi ultimi, sia per la loro esitazione nel rivendicare una nuova Internazionale, sia per il rifiuto di spingere l'opposizione intransigentemente classista alla guerra fino al "disfattismo rivoluzionario" - o perché la formula si sarebbe prestata a speculazioni da parte della propaganda bellicista (Come sostiene ancora A. Rosmer nel I vol. di Le mouvement ouvrier pendant la guerre, Parigi, 1936, pp. 478-479), o perché, come spiegò Loriot durante il congresso di Strasburgo (vol. cit., p. 432), pur non essendo essi "contro la disfatta", "la rivoluzione proletaria che ne sarebbe scaturita quasi fatalmente ci sembrava acquistata a un prezzo troppo alto col sangue di venti milioni di lavoratori".

(51) L. Trotsky, Socialismo francese di oggi, in The First Five Years etc., cit. pp. 93 e 95.

(52) L'interpretazione operaista e tendenzialmente libertaria è nuovamente rivendicata da Rosmer in Mosca al tempo di Lenin, tr. it. Firenze, 1953, pp. 50 sgg.

(53) La citaz. è dal nr. 28/VIII/1920 di Le Communiste (cfr. Kriegel, Aux origines etc., p. 328): tardiva, dunque, ma indicativa dell'orientamento generale del gruppo. D'altronde, il piccolo nucleo di militanti del suddetto "Partito comunista" che aderì al PCF a Tours sulla base della mozione Heine-Leroy per "l'adesione senza riserve alla III Internazionale", diede vita nel settembre 1922 ad un "Comité de défense communiste dans la fédération de la Seine", che si dichiarava a favore delle tesi astensioniste presentate dalla nostra corrente al II Congresso, professandosi però nello stesso tempo "federalista e sovietista" e propugnando "l'adozione del sovietismo" e della "democrazia operaia" nel programma del partito. Se ne vedano alcuni documenti in Archives de Jules Humbert-Droz, I, Origines et débuts des partis communistes des pays latins, 1919-1923, Dordrecht, 1970, pp. 579-590.

(54) Victor Serge, che ebbe modo di conoscerlo a fondo nel 1921, lo chiama "un piccolo nido di vipere" (Memorie di un rivoluzionario, tr. it., Firenze, 1956, p. 210). Si veda un resoconto ottimistico dell'attività e del ruolo del gruppo in P. Pascal, Le Groupe Communiste de Moscou, Bulletin communiste, nr. 3 dell'1/IV/1920.

(55) Citaz. da H. Barbusse, La lueur duns l'abîme. (Ce que veut le Groupe Clarté), Parigi, 1920, pp. 133, 119, 72, e da una lettera di Barbusse a Humbert-Droz del 6 sett. 1919, in Archives de Jules Humbert-Droz, etc., cit., p. 3.

(56) Vien da chiedersi infatti quali tracce avesse mai lasciato dietro di sé in Francia il filone "collettivista" di Lafargue e di Guesde (quello dei tempi migliori, s'intende), l'unico che potesse vantare radici marxiste. E, in questa luce, non stupisce davvero che, malgrado l'attiva propaganda a favore della sinistra di Zimmerwald svolta da Inessa Armand nel 1916-1917, le tesi di Lenin sulla trasformazione della guerra imperialistica in guerra civile non abbiano attecchito in terra francese.

(57) Giudizio citato in R. Wohl, op. cit., p. 157.

(58) R. Wohl, op. cit., p. 202.

(59) Secondo il nr. 14, nov. 1920, di Le Phare, l'"accordo" prevedeva essenzialmente: che "l'eccezione prevista all'art. 20 [delle Condizioni di ammissione] per quanto riguarda l'esclusione dei 'centristi' si applichi a Longuet, Paul Faure e gli altri membri del loro gruppo, se, dopo il voto del prossimo congresso, rimangono nel partito e ne accettano le decisioni, così come le tesi e le condizioni dell'I.C."; che "la questione dei due terzi [vedi art. 20] vada intesa nel senso che la maggioranza, composta dal Comité de la IIIe Internationale e dagli elementi che difendono già l'adesione e le condizioni, si assicurerà una maggioranza minima dei due terzi in tutti gli organismi direttivi del Partito e dell'Humanité; un terzo al massimo potrà però essere concesso alla minoranza, purché accetti in principio le tesi e le condizioni"; che "i delegati della minoranza al prossimo congresso non potranno essere esclusi se si sottomettono alla decisione del Partito". (riferimento all'art. 21).

(60) La versione tedesca della lettera di Zinoviev si legge nel nr. 45, 3/XII/1920, della rivista Kommunismus, di Vienna, pp. 1630-1634.

(61) A onor del vero il testo originario della risoluzione, redatto da Souvarine, era più netto e rigoroso, e, in tutto il periodo precedente il congresso di Tours, il Bulletin Communiste, specie nei nr. 37, 46 e 47-48, non cessò di mettere in guardia lo stesso Esecutivo di Mosca contro l'illusione che proposte come quelle contenute nella lettera di Zinoviev della fine di ottobre potessero essere accettate dal gruppo Longuet; insistette, anzi, perché si guardasse all'inevitabile scissione come ad un evento salutare. Purtroppo l'argomento non fu svolto come meritava: Souvarine era essenzialmente un polemista, e la vena "teorica" di Loriot, viva e ricca durante la guerra, sembrava essersi esaurita. - Una sola nota in margine al paragrafo della risoluzione relativo alla questione agraria: corretto nell'insieme, esso tende a mettere quasi sullo stesso piano i piccoli contadini proprietari o affittuari e i salariati agricoli (il che era particolarmente pericoloso in Francia, date le tradizione di corteggiamento della SFIO e in genere delle correnti socialiste nei confronti dei "coltivatori diretti") e parla sempre di proprietà, non di azienda contadina, lasciando così supporre che la nazionalizzazione della terra - di tutta la terra -, fermo restando in un primo tempo, ed entro certi limiti, l'esercizio privato della piccola azienda agricola sul suolo concesso in usufrutto, non appartenga al programma immediato della dittatura proletaria. Si tratta senza dubbio di formulazioni imprecise, non di propositi deliberati; l'avvenire mostrerà tuttavia la tenacia anche in seno al PCF della tradizione "popolare", quindi anche "contadina", del socialismo francese.

(62) Allusione alla mozione Heine-Leroy. Evidentemente, Il Soviet ignorava la specifica "ideologia" del gruppo da cui essa emanava.

(63) Cfr. Enseignements de la scission de Tours e A propos du cinquantenaire des scissions de Tours et de Livourne, rispettivamente nei nr. 31, aprile-giugno 1965, e 55, aprile-giugno 1972, della rivista Programme communiste. D'altronde, Blum e Longuet non fanno che sviluppare - il primo soprattutto con notevole abilità e "finezza" - i temi già illustrati più sopra delle rispettive mozioni.

(64) Cfr. Le congrés de Tours, cit., p. 105.

(65) Per le citazioni dai discorsi di Cachin e Frossard, cfr. ibidem, pp. 59-60, 62, 143, 193-194, 75, 181-183.

(66) Per le citazioni che precedono, a partire dal telegramma dell'EKKI in poi, cfr. ibidem, pp. 140-141, 243, 244, 245, 246-47, 238-39, 239.

(67) Citato in J. Humbert-Droz, L'internazionale comunista tra Lenin e Stalin, cit. p. 50.

(68) Cfr. il nostro II volume, pp. 603-604.

(69) Cfr. Lettera a Karl Korsch del 28/X/1926, in Quaderni del Programma comunista, nr. 4, aprile 1980, pp. 5-8.

Archivio storico 1952 - 1970