Storia della Sinistra comunista Vol. III - Parte quarta
Dal II al III Congresso dell'Internazionale Comunista. Settembre 1920 - giugno 1921

IV. Dai convegni di Milano e di Imola al congresso di Livorno

Della riunione di Milano dalla quale uscirono il Manifesto-programma della Frazione comunista del PSI e, sulla sua base, nacque la Frazione poi detta anche "di Imola" o dei "comunisti puri", è solo noto che avvenne verso la metà di ottobre 1920 (il 15-16?), presenti Bordiga per la Frazione comunista astensionista, Gramsci e Terracini per l'Ordine Nuovo, o meglio per gran parte della sezione socialista torinese (vedi, sopra, il paragrafo 5 del capitolo II), Luigi Repossi e Bruno Fortichiari per la sinistra massimalista milanese, Luigi Polano per la maggioranza della Federazione giovanile socialista, Bombacci e Misiano come esponenti non di gruppi organizzati o di correnti ben definite, ma di una diffusa tendenza di opposizione all'indirizzo "serratiano" che si prevedeva potesse cristallizzarsi attorno al nucleo della nuova Frazione.

Si è già detto - e lo confermano tutte le testimonianze, anche di parte "eurocomunista" - che il solo gruppo dotato di organizzazione propria, solida e a base nazionale, ad essa aderente era quello riunito attorno al Soviet (1). È vero che Polano aveva già portato a Mosca l'adesione dei giovani (2) alle Tesi e alle Condizioni di ammissione all'IC, ma la firma da lui apposta al Manifesto-programma non significava né che la Federazione giovanile fosse totalmente schierata sulla sua linea, né che se ne potesse attendere un apporto più che marginale al lavoro della Frazione. Quanto a Bombacci e Misiano, essi vantavano un notevole prestigio in seno al partito, ma la loro adesione era più il simbolo di quanto sarebbe potuto avvenire al Congresso, che l'espressione di un deciso orientamento attuale, non parliamo poi di una corrente organizzata. Diverso il caso del gruppo milanese intorno a Repossi e Fortichiari. Esso si era distinto durante la guerra per un'intensa attività antimilitarista, procedeva d'intesa con la Sinistra fin dal convegno del 18/XI/1917, aveva appoggiato al congresso di Bologna la proposta di Bordiga a Serrati che la direzione provvedesse all'espulsione della destra mentre il suo gruppo avrebbe rinunciato alla pregiudiziale astensionista, aveva un forte senso dell'organizzazione e anche per questo vantava un buon seguito operaio, sia pure su scala prevalentemente locale; da tempo, inoltre, lavorava a stretto contatto con uno degli inviati dell'IC in Italia, "Carlo Niccolini" (3) e si può dire che incarnasse il meglio della base proletaria, di affiliazione massimalista ma di vigoroso istinto classista, destinata a costituire il grosso - dal punto di vista numerico ed organizzativo - del PCd'I.

1. - Il Manifesto-programma della Frazione comunista del PSI

Se nulla è rimasto a documentazione del dibattito nel corso della suddetta riunione, il Manifesto-programma parla a sufficienza da sé. A parte l'introduzione, che oltre a un rapido quadro della situazione della classe operaia in Italia contiene una violenta denuncia dell'incapacità del PSI di farvi fronte nell'atto in cui la borghesia "concentra le ultime energie della sua difesa contro l'avanzata delle masse rivoluzionarie" agendo sul duplice piano della repressione ad opera di corpi regolari e irregolari e di una politica di "apparenti concessioni e di mentite benevolenze" ad opera del governo, il documento segue in tutti i campi la traccia dei deliberati del II Congresso mondiale, non solo con assoluta fedeltà, ma con tale nettezza e intransigenza da non lasciare dubbi che l'applicazione integrale dei punti elencati come caratterizzanti il programma di azione del nuovo partito implichi necessariamente - quali che siano le aspettative dei singoli - la "separazione" dal centro non meno che dalla destra. Quando perciò esso formula l'auspicio che gli obiettivi e i compiti illustrati nel programma "possano e debbano essere comuni a quanti compagni condividono, assieme ai principi fondamentali del comunismo, l'intendimento di applicare nel modo più energico alla costituzione e alle attività del partito le deliberazioni di Mosca" in modo da costituire "la piattaforma comune di azione per quei gruppi e quelle correnti di sinistra che, pur distinguendosi su particolari concezioni di certi problemi di dottrina e di tattica, si sono incontrati nelle critiche rivolte dal punto di vista rivoluzionario all'insufficienza dell'azione del Partito", è chiaro che la Frazione concepisce se stessa come il partito già in atto di costituirsi, e il suo documento programmatico non come base di trattative, quindi anche di concessioni reciproche e di "ragionevoli" compromessi, ma come il quadro generale, completo e obbligatorio, del suo modo d'essere ed agire non solo in futuro, ma al presente.

Il lavoro al quale la Frazione si dedicò nei mesi successivi, sul piano dell'elaborazione teorica e della polemica politico-programmatica, come della propaganda e dell'organizzazione, fu quindi, sostanzialmente, lavoro di partito, svolto dal nucleo ristretto dei suoi dirigenti in uno spirito di disciplina senza riserve "ai principi fondamentali del comunismo" considerati non nella loro accezione generica, ma nella loro traduzione specifica nei deliberati del Comintern. Su questa base i diversi gruppi avevano deciso di unirsi malgrado le diversità di origine storica e di formazione dottrinaria; su questa base avrebbero lavorato coloro ai quali incombevano i compiti di impostazione politica generale, di orientamento tattico particolare, di propaganda e, infine, di organizzazione; con essi e sotto la loro guida si sarebbe mossa tutta la Frazione. Che in seno a questa vi fossero sfumature diverse, era scontato: spettò essenzialmente al nucleo compatto degli "astensionisti" (4) vegliare affinché l'esigenza di un taglio radicale col passato non andasse perduta per le esitazioni, o i sentimentalismi, o la mancanza di chiarezza di singoli militanti (o gruppi di militanti).

(È questo - sia detto per inciso - anche il senso della costante richiesta della nostra corrente che si metta a base della costituzione e dello sviluppo dei partiti comunisti l'adesione individuale; richiesta che non nasce dal concepire il processo di vita organica del partito come pura e semplice espansione "a macchia d'olio" di un nucleo originario caratterizzato da un grado superiore di omogeneità e di coerenza, ma dall'esigere che la convergenza di gruppi anche diversi poggi sull'accettazione di un'unica piattaforma intesa come definitivamente sostitutiva delle loro proprie, e che di fronte ad essa il gruppo, la frazione, la corrente ecc., cessino perciò in quanto tali di esistere, non lasciando come soggetto dell'adesione altro che il militante, poco importa se confluito nel nuovo organismo da solo o insieme ad altri).

Il Manifesto-programma della Frazione comunista, qui riprodotto dal n. 25, 17/X/1920, de Il Soviet, può essere utilmente raffrontato, per la parte riguardante l'organizzazione del partito, alle principali Condizioni di ammissione e, per quelle relative all'azione parlamentare e sindacale, alle Tesi su I partiti comunisti e il parlamentarismo e su Il movimento sindacale, i consigli di fabbrica e di azienda e la III Internazionale, votate al II Congresso e da noi riprodotte nel capitolo IX del precedente volume. Si potrà, così, non solo constatare l'assoluta concordanza fra i vari testi (5), ma rilevare nel testo italiano l'assenza di ogni ben che minimo richiamo all'ideologia propria dell'ordinovismo, e la completa convergenza con tutto ciò che gli "astensionisti" andavano sostenendo dalla fine della guerra (a parte, s'intende, la questione della partecipazione o meno alle elezioni).

In particolare, si osserverà che, sul piano politico, l'accento è posto con vigore sul problema del partito e, sul piano economico, sul problema della conquista degli organismi sindacali e, prima di tutto, delle confederazioni nazionali, alla direzione del partito rivoluzionario di classe, e che, agli effetti di entrambi gli obiettivi, nessun ruolo speciale è attribuito ai consigli di fabbrica. Del partito si esige nello stesso tempo - e a tutti i livelli - la massima centralizzazione:

"La crisi che travaglia da gran tempo il nostro partito, sulla quale la vostra attenzione è stata sempre più richiamata così dai recenti avvenimenti d'Italia che dai deliberati del II congresso della III Internazionale, rende necessario ed urgente, nell'approssimarsi del Congresso Nazionale del Partito, uno sforzo concorde negli elementi di sinistra del Partito stesso per uscire finalmente da una situazione intollerabile e contrastante con le esigenze della lotta rivoluzionaria del proletariato italiano.

Tutto ciò ci ha indotti a farci iniziatori di un movimento di preparazione del Congresso e di concorde intesa fra tutti quei compagni che sentono veramente la necessità che il Congresso indichi una soluzione definitiva ed energica del grave problema.

Non ci dilungheremo nel ricordarvi qual sia la situazione del nostro paese. Le condizioni nelle quali esso ha partecipato ed è uscito dalla grande guerra mondiale, e gli episodi di questo turbato periodo di dopoguerra, dimostrano perfino ai nostri avversari i sintomi molteplici della disorganizzazione irrimediabile dell'attuale regime, e la incapacità di esso a lottare contro le conseguenze rivoluzionarie del proprio intimo disfacimento.

Dall'altra parte il fremito, il sentimento, lo slancio ribelle delle masse di tutti gli strati del proletariato crescono ogni giorno di più e si manifestano nelle continue agitazioni, nell'ardore con cui le battaglie della lotta di classe vengono condotte nell'aspirazione, sia pure indistinta, che esse si conchiudano nella vittoria finale della rivoluzione proletaria.

La borghesia, pur essendo conscia della propria impotenza a fronteggiare il dissesto del suo regime sociale, concentra le ultime energie della sua difesa contro questa avanzata delle masse rivoluzionarie. Da un lato essa organizza corpi regolari e irregolari per la repressione armata dei moti operai, dall'altro svolge un'astuta politica di apparenti concessioni e di mentite benevolenze verso i desiderati delle masse.

Gli organismi che conducono l'azione proletaria ed a cui spetta il compito di svolgere una opposizione vittoriosa a questa politica di conservazione borghese, hanno più volte dimostrato all'evidenza le proprie deficienze.

L'organizzazione sindacale raccoglie ogni giorno più estese schiere di lavoratori, ma mentre questi nelle agitazioni e negli scioperi dimostrano di sentire la necessità di allargare il campo della lotta e spingersi verso conquiste rivoluzionarie, la burocrazia dirigente dei sindacati imprime a tutta l'azione i caratteri tradizionali delle lotte corporative, chiudendola nei limiti di un perseguimento di miglioramenti graduali nelle condizioni di vita del proletariato.

Quanto al partito politico della classe operaia, al Partito Socialista, che avrebbe il compito di riassumere in sé le energie rivoluzionarie di avanguardia, di imprimere un nuovo carattere e un nuovo indirizzo ai metodi di lotta per il conseguimento dei massimi fini del comunismo, esso anche si rivela inadatto alla sua funzione.

È ben vero che la maggioranza del Partito, adottando a Bologna il nuovo programma massimalista e dando la sua adesione alla Internazionale di Mosca, credeva di aver risposto alle esigenze del problema storico che, dopo lo scioglimento della grande guerra, aveva dovunque poste di fronte le due concezioni antitetiche della lotta proletaria: quella social-democratica, disonorata nel fallimento della II Internazionale e nella complicità con le borghesie; e quella comunista, forte delle originarie affermazioni marxiste e delle esperienze gloriose della rivoluzione russa, che, organizzatasi nella nuova internazionale, lanciava al proletariato le sue parole d'ordine rivoluzionarie: lotta violenta per l'abbattimento del potere borghese, per la dittatura proletaria, per il regime dei consigli dei lavoratori.

Ma in realtà il Partito, illuso forse dal legittimo compiacimento pel fatto di avere tenuto durante la guerra un contegno ben diverso da quello degli altri partiti della II Internazionale, non intese la necessità che a un cambiamento formale del programma corrispondesse un rinnovamento profondo della sua struttura e delle sue funzioni.

I successivi avvenimenti hanno dimostrato, attraverso circostanze che è superfluo rammentare, quanto il Partito fosse ancora lontano dall'essere pari al compito rivoluzionario che la situazione storica gli confidava.

Esso non ha modificato essenzialmente i criteri della sua politica; la sua azione soprattutto parlamentare, adagiandosi nei metodi tradizionali dell'anteguerra, ha spesso fatto il gioco del governo borghese.

Nei momenti in cui occorrevano risoluzioni decisive, restarono arbitri della situazione uomini sorpassati a cui il partito non seppe togliere la dirigenza dell'azione sindacale e parlamentare, e si ricadde così nei vecchi metodi di accomodamento e di transazione. Le masse del proletariato, deluse, si rivolgono quindi in parte ad altre correnti rivoluzionarie militanti fuori del partito, come i sindacalisti e gli anarchici, che a concezioni del processo rivoluzionario in cui i comunisti non possono concordare uniscono giustissime critiche di un atteggiamento così contrastante con le esigenze rivoluzionarie e con lo stesso linguaggio rivoluzionario dei capi del partito.

È per le ragioni che abbiamo riportate e per tutte quelle altre che in molte occasioni sono state più ampiamente prospettate dagli elementi di sinistra, che il Partito Socialista Italiano si è rivelato inadatto al suo compito, è per queste ragioni che il Congresso Internazionale di Mosca, accogliendo le richieste dei compagni italiani di tendenza più avanzata, ha stabilito di porre con chiarezza e con fermezza la questione del rinnovamento del nostro partito, ed ha fissato le basi su cui il prossimo nostro congresso dovrà lavorare per conseguire tale scopo.

Quali dunque i compiti del prossimo Congresso? Quali gli obiettivi che dobbiamo proporci per far si che esso, anziché esaurirsi in vane logomachie ed in accorte manovre di corridoio, affronti coraggiosamente il male e vi apporti i più radicali rimedi? Noi crediamo che questi obiettivi e questi propositi possano e debbano essere comuni a quanti compagni condividono, assieme ai principi fondamentali del comunismo, l'intendimento di applicare nel modo più energico alla costituzione ed alle attività del partito le deliberazioni di Mosca.

Queste costituiranno la piattaforma comune di azione per quei gruppi e quelle correnti di sinistra, che pur distinguendosi su particolari concezioni di certi problemi di dottrina e di tattica, si sono incontrati nelle critiche svolte dal punto di vista rivoluzionario all'insufficienza dell'azione del Partito.

Il programma d'azione comune che noi vi prospettiamo in vista del Congresso, può, a parer nostro, essere compendiato nei seguenti capisaldi principali.

  1. Cambiamento del nome del Partito in quello di Partito Comunista d'Italia (sezione dell'Internazionale Comunista).
  2. Rielaborazione del programma votato a Bologna, alcune particolari affermazioni del quale devono essere rese più conformi ai principi della III Internazionale per contrapporlo ancora una volta al programma social-democratico di cui è partigiana la destra del partito.
  3. Conseguente e formale esclusione dal Partito di tutti gli iscritti e gli organismi, i quali si sono dichiarati o si dichiareranno contro il programma comunista attraverso il voto delle sezioni e del Congresso o con qualunque altra forma di manifestazione.
  4. Modifica degli statuti interni del partito per introdurvi i criteri di omogeneità, di centralizzazione e di disciplina che sono la base indispensabile della struttura del Partito Comunista (adottando, tra le altre innovazioni, il sistema del periodo di candidatura per i nuovi iscritti al partito, e quello delle revisioni periodiche di tutti gl'iscritti, la prima delle quali dovrà immediatamente seguire il Congresso).
  5. Obbligo di tutti i membri del Partito alla completa disciplina d'azione verso tutte le decisioni tattiche del Congresso Internazionale e del Congresso Nazionale, la cui osservanza sarà affidata con pieni poteri al Comitato Centrale designato dal Congresso.

Le direttive dell'attività del Partito s'ispireranno alla realizzazione dei criteri stabiliti dal Congresso di Mosca e saranno principalmente le seguenti:

  1. Preparazione dell'azione insurrezionale del proletariato utilizzando tutte le possibilità di propaganda legale, e organizzando nello stesso tempo su larga base il lavoro illegale per realizzare tutte le condizioni indispensabili dell'azione ed assicurarne i mezzi materiali (6).
  2. Organizzazione in tutti i sindacati, le leghe, le cooperative, le fabbriche, le aziende ecc. di gruppi comunisti collegati all'organizzazione del partito, per la propaganda e la conquista di tali organismi e la preparazione rivoluzionaria.
  3. Azione nelle organizzazioni economiche per conquistare la direzione di esse al Partito Comunista. Appello alle organizzazioni proletarie rivoluzionarie che sono fuori della Confederazione Generale del Lavoro, perché vi rientrino per sorreggere la lotta dei comunisti contro l'attuale indirizzo e gli attuali dirigenti di essa. Denunzia del patto di alleanza fra Partito e Confederazione, ispirato ai criteri social-democratici della parità di diritto tra partito e sindacato, per sostituirlo con l'effettivo controllo dell'azione delle organizzazioni economiche proletarie da parte del Partito Comunista attraverso la disciplina dei comunisti che lavorano nei sindacati agli organi direttivi del partito. Distacco della Confederazione, appena conquistata alle direttive del partito comunista, dal segretariato giallo di Amsterdam, e sua adesione alla sezione sindacale dell'Internazionale Comunista, con le modalità previste dallo statuto di questa.
  4. Lotta per la conquista da parte del Partito Comunista della direzione del movimento di organizzazione cooperativa, per liberarlo dalle attuali influenze borghesi e piccolo borghesi e renderlo solidale col movimento rivoluzionario di classe del proletariato.
  5. Partecipazione alle elezioni politiche e amministrative con carattere completamente opposto alla vecchia pratica social-democratica e con l'obiettivo di svolgere la propaganda e l'agitazione rivoluzionaria, di affrettare il disgregamento degli organi borghesi della democrazia rappresentativa. Revisione da parte degli organi del partito, sotto la direzione del Comitato Centrale, della composizione di tutte le rappresentanze elettive del partito nei comuni, nelle province e nel parlamento, con facoltà di scioglimento di tali organismi. Controllo e direzione permanente da parte del comitato centrale dell'attività di quelli che saranno conservati. Il gruppo parlamentare sarà considerato come organo designato a compiere una specifica funzione tattica sotto la direzione della centrale del partito. Esso non avrà facoltà di pronunciarsi come corpo deliberante su questioni che investono la politica generale del partito.
  6. Controllo di tutta l'attività di propaganda da parte degli organi centrali, e specialmente disciplinamento di tutta la stampa del partito, i cui comitati di direzione saranno nominati o confermati dal comitato centrale che ne controllerà l'opera sulla base delle direttive politiche dei congressi.
  7. Stretto contatto col movimento giovanile, secondo i criteri contemplati dallo statuto dell'Internazionale comunista; intensificazione della propaganda e organizzazione femminile.

Noi confidiamo che queste linee generali del programma di azione comune raccoglieranno il consentimento di tutti i comunisti, che contribuiranno attivamente ad assicurarne il trionfo nelle prossime assisi del partito attraverso una larga agitazione e la organizzazione di tutte le forze che si porteranno su questo terreno.

Al lavoro dunque, o compagni, perché trionfi, al di sopra di falsi sentimentalismi unitari, come di misere questioni di persone, la causa della rivoluzione comunista."

Milano, ottobre 1920.

Formalmente, il Manifesto doveva essere "trasformato in risoluzione [o, come si disse infine, mozione] da portare al Congresso nazionale" ad opera di quello che poi sarà il Convegno di Imola, nella quale occasione si sarebbe anche provveduto a "fissare il procedimento preciso e non equivoco per attuare la selezione del Partito dagli elementi non comunisti"; era però chiaro, e l'organo della Frazione lo precisò subito,

"che certi punti che formano il contenuto intimo delle decisioni di Mosca e sono nello stesso tempo indicazioni categoriche della situazione italiana, devono restare incontroversi nel campo della Frazione, senza di che questa perderebbe troppo di compattezza e di vigore. Vogliamo alludere soprattutto, oltre che al fondamentale concetto della eliminazione dei non comunisti, alla limitazione severa dell'autonomia dei Partiti nella Internazionale, al cambiamento di nome del Partito, al rinnovamento della tattica parlamentare, alla questione sindacale come, secondo le tesi di Mosca, la prospetta il nostro manifesto: lotta contro il riformismo e i riformisti confederali, sostituzione degli attuali equivoci rapporti fra Partito e Confederazione con la efficace direzione da parte del Partito Comunista del movimento proletario italiano, attraverso la disciplina dei comunisti nei sindacati" (7).

Particolari questioni di applicazione pratica delle tesi potevano essere poste in discussione e dare anche luogo a divergenze; su questi punti, tuttavia, condensanti non solo alcuni dei principi fondamentali della teoria marxista, ma le esperienze vissute della classe operaia europea nel corso di almeno un decennio, non potevano sorgere, ed essere ammesse, esitazioni.

Il numero del Soviet che (cfr. il capitolo III) riproduceva il Manifesto lo faceva precedere da un breve commento:

"Giorni addietro, a Milano, ha avuto luogo una riunione di pochi compagni rappresentanti le frazioni e tendenze estremiste del partito socialista italiano. Da questa riunione è uscito il manifesto-programma che pubblichiamo, e che non ha bisogno di commenti.

Notiamo soltanto che l'adesione degli astensionisti a questo movimento non può meravigliare alcuno. Fin dal Congresso di Bologna una riunione della nostra frazione deliberava di proporre una intesa ai comunisti elezionisti, ove essi, a parte la questione elettorale, avessero accettato altri due capisaldi della nostra mozione: il cambiamento di nome del Partito e l'espulsione della destra social-democratica. Questo passo non ebbe esito favorevole, poiché, com'è noto, tutti ad eccezione di noi astensionisti non vollero abbandonare allora il pregiudizio dell'unità del Partito.

Oggi, dopo le note vicende e dopo il congresso comunista internazionale, il logico sviluppo della nostra azione ci conduce al leale accordo con gli elementi rivoluzionari del Partito, assieme ai quali è stato tracciato senza alcuna difficoltà e senza il minimo dissenso il progetto di azione comune che viene oggi presentato a tutti i compagni italiani".

È una dichiarazione eccessivamente riduttiva, se si pensa che (anche qui per testimonianza generale, compresa quella dell'ex-astensionista divenuto poi arcinemico Giuseppe Berti) la mole del lavoro politico e propagandistico fu poi svolta quasi esclusivamente, ad Imola e col totale appoggio di Bruno Fortichiari, da Amadeo Bordiga (8); ma esprime efficacemente lo spirito col quale il gruppo più quadrato e - oggi si direbbe, ma si cominciò a dirlo fin da allora - più coriaceo non solo aderì alla Frazione, ma le diede un'impronta inconfondibile di rigore, saldezza e determinazione. L'esplicita adesione della dirigenza della Frazione comunista e della sua Federazione giovanile al nuovo organismo è già stata documentata nel capitolo precedente.

In un incontro del 31 ottobre a Torino, di cui informa il numero XXVIII del Soviet, si procedette alla nomina del Comitato centrale provvisorio della Frazione nelle persone dei firmatari del Manifesto e di un Comitato esecutivo di tre membri (Bombacci, Bordiga e Fortichiari) con sede provvisoria a Bologna, e si decise la pubblicazione, dal 7 novembre, del settimanale Il Comunista e la convocazione di un convegno nazionale ad Imola per il 28 dello stesso mese. Poiché Bologna, trovandosi al centro della prima grande offensiva fascista, non era sede adatta per il lavoro che urgeva impostare, sia l'esecutivo (in pratica ridotto a Bordiga e Fortichiari) sia la direzione del Comunista si trasferirono poco dopo ad Imola presso la Sezione socialista. È qui che si concentrò tutta l'attività della Frazione.

2. - Il Comunista e la preparazione della scissione.

Il Comunista, di cui, fra il 14/XI/1920 e il 9/I/1921, uscirono 9 numeri a 4 pagine ed un supplemento, rispecchia assai bene i compiti che la Frazione comunista del PSI si era assunti. Vi compaiono i documenti dell'Internazionale che più direttamente concernono il movimento in Italia: la lettera dell'Esecutivo del 27/VIII/1920 "al proletariato italiano" (9), quella del 23/X di Zinoviev alla Frazione, le parti del discorso di quest'ultimo al II Congresso riguardanti la situazione in Italia, il manifesto La Terza Internazionale e i comunisti tedeschi agli operai di tutto il mondo, un altro scritto di Zinoviev su Quando e in quali condizioni si devono organizzare i Soviet (10), la Risoluzione sul movimento sindacale internazionale approvata alla VI Conferenza panrussa dei sindacati, precisazioni in merito al II Congresso e alla parte ivi sostenuta dalla delegazione italiana, corrispondenze sui congressi di Halle e Tours, ecc. Vi sono i manifesti e i comunicati della Frazione, alla documentazione della cui vita attiva - assemblee, riunioni, conferenze, adesioni ecc., - è sempre riservata una pagina. Gli articoli sono soprattutto di Amadeo Bordiga, ma anche (benché in modo più saltuario) di G. Sanna, C. Seassaro, C. Niccolini, N. Loverso, S. Presutti: frequenti le note polemiche, e i commenti - rapidi perché l'attenzione è prevalentemente assorbita dalle questioni interne del partito - agli sviluppi della situazione in Italia.

La polemica si rivolge in particolare contro la destra socialista e le molte varianti della sua ideologia, mentre il centro massimalista è attaccato soprattutto come suo avallo e scudo protettivo; tale doveva essere infatti, secondo i deliberati di Mosca, il principale oggetto del prossimo Congresso. Ciò non significa che l'orizzonte della campagna della Sinistra si restringa rispetto alla campagna svolta dal Soviet: è solo meno disperso e, relativamente, più concentrato.

Meritano comunque un cenno introduttivo i temi svolti negli articoli che riproduciamo in appendice al capitolo. Il primo, in polemica con gli unitari e i riformisti che pretendono disciplina in un partito disunito (riservandosi poi di violarla quando fa loro comodo), svolge i seguenti concetti: 1) Solo l'omogeneità politica e programmatica del partito consente di realizzare quel "massimo di disciplina" (su cui insiste un altro articolo dedicato allo stesso tema) in cui va ravvisato uno degli obiettivi fondamentali della scissione; anche solo per questo, la rottura del confuso amalgama socialista è necessaria. 2) Non può militare in un partito comunista degno di questo nome chi accetta "per disciplina" dei principi ed un programma che in realtà non condivide; la disciplina del militante verso il partito cessa a sua volta di motivarsi non appena le basi programmatiche dell'organizzazione sono centralmente misconosciute o addirittura minate da indirizzi tattici e da soluzioni organizzative con esse contrastanti (argomento che la Sinistra riprenderà nel 1924-26 nella sua battaglia contro i primi sintomi di degenerazione della III Internazionale. 3) È solo l'adesione incondizionata, teorica e pratica, ai principi e al programma del comunismo che, mentre impone l'osservanza delle direttive emanate dalle istanze centrali del partito in base a punti di principio vincolanti per ogni iscritto, al centro o alla periferia, quindi la più rigorosa disciplina, rende ammissibile e non distruttivo il dibattito intorno a questa o quella decisione contingente (ad es. se partecipare o no alle elezioni), ovvero intorno a questioni di tattica generale, come quelle sollevate dagli astensionisti pur nella più stretta disciplina ai deliberati dei Congressi mondiali.

L'articolo Non vi sono più "riformisti"? spiega come e perché dal nuovo partito debbano essere esclusi sia i riformisti che negano il principio della lotta di classe e accettano di collaborare apertamente con la borghesia, sia i socialdemocratici che tale collaborazione non escludono. Dimostra come in seno al PSI il riformismo sia tutt'altro che morto, e ne vede la prova nelle elucubrazioni intorno alle cosiddette approssimazioni socialiste, cioè quelle riforme da cui si dovrebbe attendere un superamento del capitalismo, mentre non sono che "rabberciature della crollante economia capitalistica": controllo sulla produzione, nazionalizzazione della grande industria, disciplina del lavoro, restaurazione… del valore della moneta, ecc. Loro inevitabile corollario è l'accettazione di fatto e per principio del metodo democratico come via al socialismo - metodo che, come dimostravano troppe esperienze di governo socialdemocratico, non esclude affatto il ricorso alla violenza: la violenza, cioè, contro i proletari!

La conclusione è che "il riformismo c'è, e fa la sua fatale strada, avvelenando sempre più di sé il Partito, verso la controrivoluzione", ma il pericolo maggiore è un altro: è "la cecità degli unitari. E, nell'implacabile dialettica della storia, cecità e complicità sono la stessa cosa".

In Gli unitari non sono comunisti si dà la prova inconfutabile che, con le loro riserve, gli unitari si pongono fuori e contro i postulati fondamentali del comunismo, analizzandone le obiezioni alle Tesi del Comintern e mostrando come esse contengano "tutto ciò che il nostro Partito ha di operaista, di socialdemocratico, di tradizionalmente arretrato alle forme della vecchia Internazionale, tutto ciò di cui i comunisti, con un supremo sforzo, si devono liberare". Solo spezzato l'equivoco unitario, nulla esclude che molti dei suoi odierni seguaci vengano "attirati nell'orbita comunista". L'obiettivo della cacciata della destra è dunque definitivamente superato: occorre espellere, non meno, il centro socialista!

L'opportunismo internazionale conserva tutta la sua attualità per i lettori di oggi, in quanto mette in evidenza come l'opportunismo, mentre rivendica per ogni paese una particolare via al socialismo basata sulla diversità delle condizioni ambientali, quindi anche pretende per ogni partito nazionale una effettiva autonomia di decisione, abbia in tutti i paesi le stesse caratteristiche: è dunque internazionale, esige l'internazionalizzazione dei suoi principi e dei suoi metodi, ed è il primo ad escludere nei loro confronti ogni autonomia, quindi anche la libertà di respingerli. Se un articolo precedente metteva alla gogna quella teoria delle "approssimazioni socialiste" che sarà il piatto forte del neo-opportunismo di discendenza staliniana, qui si dimostra come l'opportunismo stesso abbia radici e perciò anche manifestazioni internazionali e, lungi dall'essere caratterizzato da una straordinaria creatività e da eccezionali doti innovatrici, non faccia che ripetere dovunque le stesse "verità" ultrastantie.

L'articolo Gli avvenimenti di Bologna e l'unità del Partito, che il 5 dicembre commenta i fatti di Palazzo D'Accursio, mostra con quale urgenza la realtà della situazione oggettiva ponga già di per sé il problema della scissione: lo stesso Partito che ostenta una tale forza nel mobilitare per le urne il proletariato, tradisce invece una profonda debolezza non appena si tratta di difendere la classe e le sue organizzazioni. Il testo getta un ponte verso la questione, che diverrà scottante meno di un anno dopo, sia della difesa dallo squadrismo nero affiancato dalle forze statali di repressione, sia della possibilità anche se non immediata di un contrattacco proletario. E non sarà mai abbastanza sottolineato come il modo di impostare il problema - qui sul piano teorico generale, in seguito sul piano pratico - stia agli antipodi di quello, corrente allora come oggi nelle file anche dell'"ultrasinistra", il quale vede nello "stringiamoci per difenderci" la chiave alla vittoria sulla "reazione", invece di riconoscervi il preludio ad una immancabile sconfitta. L'altro insegnamento è che la destra riformista, sempre pronta ad insorgere contro l'uso della violenza, è invece la prima a ricorrervi se - ma soltanto se - si tratta di difendere la democrazia minacciata.

3. - Il Convegno di Imola.

Era intanto avvenuto, il 28-29 novembre nel teatro comunale di Imola, il Convegno nazionale della Frazione comunista del PSI, presenti 130 "delegati da gruppi di maggioranza o minoranza costituiti in seno alle sezioni del Partito sulla base del programma della Frazione"; temi centrali, l'indirizzo politico del Partito e la preparazione al Congresso nazionale. Le sezioni o gruppi rappresentati erano 420 secondo L'Avanti! e 430 secondo Il Comunista, divisi in 273 con invio e 157 senza invio di delegati: avevano aderito 14 Federazioni e 85 gruppi giovanili, nonché la maggioranza delle sezioni socialiste in Francia e Lussemburgo.

Di questa tappa sulla via di Livorno è appena noto quanto ne scrive il nr. 4 del Comunista uscito il 5/XII, di cui può al massimo servir da integrazione il resoconto dell'Avanti! ediz. piemontese del 30/XI: le testimonianze postume sono ottusamente partigiane o di pura superficie. Si sa, comunque, che nelle riunioni preparatorie si diede forma definitiva alla mozione da presentare in seduta plenaria e si decise di ammettere solo a titolo consultivo, come imposto dalle norme precedentemente emanate, il gruppo Graziadei-Marabini; si sa che il Convegno si svolse nel segno concorde del rifiuto opposto all'invito giunto da più parti di "attenuare qualcuno dei capisaldi del nostro programma, di piegare sia pur di poco la rotta a destra per attirare altre forze", e della ferma volontà (scriveva Il Comunista) di ottenere vittoria unicamente "con le risorse della nostra fede, della nostra giovinezza, della nostra attività, imponendo alle masse del Partito i veri termini del problema e guadagnandole col valore intrinseco delle nostre tesi e col fervore della nostra propaganda, anziché attraverso patti e concessioni diplomaticamente stipulati".

Data la presenza massiccia di massimalisti di sinistra, le discussioni e, su punti particolari, le divergenze non mancarono; ma non furono di principio, e le perplessità, le esitazioni, i disaccordi legati a diverse tradizioni di pensiero trovarono a disciplinarli la saldezza teorica e l'omogeneità politica del nucleo dirigente della Frazione, in grado di realizzare una "perfetta concomitanza nell'opera e nell'azione" di tutti i compagni malgrado ogni dissonanza.

Perciò, nella relazione introduttiva, Bordiga poté affermare che: 1) la Frazione si sarebbe preclusa "volontariamente le risorse di corridoio", fissando immediatamente i termini delle conclusioni da presentare al Congresso nazionale; 2) obiettivo del Convegno non era né la polemica con le altre correnti, né l'esposizione minuta degli argomenti a sostegno della mozione da presentare a Livorno, di cui si trattava al massimo di "spiegare il meccanismo"; 3) il Convegno era "di propaganda, di agitazione, di azione": era, oggi si direbbe, una riunione essenzialmente "di lavoro". Scheletricamente, il Comunista riassume cosi il discorso:

"La nostra mozione prende le mosse dai dettami del marxismo, dalle esperienze che derivano dalle passate battaglie del nostro partito, dagli insegnamenti della rivoluzione proletaria mondiale oggi in atto. La disciplina alle decisioni di Mosca di cui noi, fautori della assoluta centralizzazione nella azione, siamo fautori convinti, sbocca nelle stesse conclusioni a cui la vera e migliore tradizione della sinistra del nostro partito ci conduce.

Dopo la fine della II Internazionale, dopo la dolorosa lezione della guerra, il proletariato internazionale possiede oggi il nuovo organo di lotta rivoluzionaria, l'Internazionale comunista di Mosca. Essa si è formata sopra la esclusione di due tendenze politicamente degeneri dal socialismo, sopra l'esclusione di due categorie, di due tipi di disertori della lotta proletaria: non solo i socialpatrioti, ma altresì i socialdemocratici, ossia quelli che dopo gli insegnamenti della rivoluzione russa non hanno veduto chiaro che il proletariato ritrova la sua giusta via nelle originarie affermazioni marxiste: abbattimento violento del potere borghese, dittatura del proletariato.

Per questo il partito italiano non corrisponde ancora al carattere storico della III Internazionale, conservando nelle sue file i socialdemocratici più ostinatamente avversi alla nostra concezione della rivoluzione. L'esperienza degli ultimi episodi della lotta di classe in Italia conferma che un Partito così costituito non solo non coglierà mai l'occasione favorevole in una situazione che possa divenire rivoluzionaria, ma ha lasciato passare tutte le occasioni senza elevare il grado della preparazione ideale e materiale delle masse, anzi contribuendo a disorientarle ognor più. L 'esperienza delle rivoluzioni estere ci prova che nel momento decisivo i socialdemocratici sono i complici della reazione borghese" (11).

Quanto alla tesi tipicamente "unitaria" secondo cui, per la scissione, occorreva a controprova di quanto già previsto "lasciare che i destri compiano prima la loro opera antirivoluzionaria, e poi espellerli", essa avrebbe reso "superflua la esistenza e la funzione del Partito come veicolo di coscienza storica e teorica della classe, presupposto per la sua vittoriosa azione". Si trattava invece "di eliminare dal Partito i socialdemocratici, cancellando l'equivoco di Bologna che, sotto il pretesto di una male impostata - e poi non rispettata - disciplina, tollerava la presenza nel partito di quelli che non accettavano il nuovo programma comunista". Perciò: "manderemo via chi non voterà il programma. Ma intanto identifichiamo costoro nella già evidente ed esistente frazione di concentrazione, nei convenuti di Reggio Emilia. Ecco il punto centrale della mozione".

Fra gli interventi in sede di dibattito vanno segnalati almeno quello di Terracini (12), il quale "chiarisce quanto sia inconsistente l'obiezione unitaria che la scissione del partito porti ad una scissione delle masse (noi invece vogliamo conquistare la CGL dall'interno, conducendo nel suo seno la lotta contro gli attuali capi riformisti)"; quello di Gennari, che, rinnovando l'adesione già data alla Frazione (cfr. il nr. I de Il Comunista), sottopone a vivace critica le tesi sia degli unitari che dei concentrazionisti; e quello di Gramsci, di cui il resoconto pubblicato ne Il Comunista sintetizza così il discorso:

"Gramsci constata che siamo venuti a questo convegno con la psicologia di quelli che prendono parte ad una costituente di partito. Questo il nostro stato d'animo. Del resto anche gli unitari tendono ad essere un partito: analogo a quello socialrivoluzionario russo. Forse non a caso Serrati, all'inizio della rivoluzione russa, la personificava in Cernov, l'opportunista piccolo borghese avversario di Lenin.

Gramsci pensa, come ha detto Bordiga, che la discussione non debba avere l'obiettivo di una polemica colle altre frazioni. Si deve insistere nella propaganda, nel lavoro da compiere per arrivare al partito comunista in Italia. Egli non condivide l'ipotesi della fase socialdemocratica in Italia; noi siamo molto più vicini alla fase della conquista del potere da parte del proletariato. L'oratore è per la denominazione comunista del partito […]. Anch'egli sostiene che non dobbiamo preoccuparci di attirare a noi frazioni intermedie. Gli unitari sono in realtà dei controrivoluzionari. È più utile tattica spingerli a destra per smascherarli meglio" (13).

Fra le voci in parte discordi spicca quella di Antonio Graziadei, fattosi promotore con Anselmo Marabini di un appello "per l'unità del movimento comunista" (14), noto più tardi come "circolare Graziadei-Marabini" o "circolare-passarella", in cui si invitavano "le sezioni e i compagni massimalisti della provincia di Bologna" a partecipare al convegno di Imola "per impedire il minacciato disgregamento delle forze comuniste" (che invece, "facendo gettito di ogni personalismo", avrebbero dovuto stringersi "in un unico fascio") allo scopo di sostenervi che: "1) si deve rielaborare il programma del Congresso di Bologna, rendendolo più conforme allo spirito essenziale del Manifesto dei Comunisti e quindi anche alle principali Tesi del Congresso di Mosca; 2) date le esigenze della situazione creatasi in seguito alla guerra mondiale, l'accettazione di tale programma deve fondarsi, non tanto sopra una disciplina che si pretenda di imporre forzatamente, quanto sopra la libera convinzione dei singoli aderenti al Partito; 3) escluso ogni processo di carattere personale ed ogni apriorismo contro individui o gruppi, coloro i quali non accetteranno tale programma dovranno considerarsi come postisi fuori del Partito e della Terza Internazionale; 4) tenuto conto della tradizione, e per un periodo transitorio, si chiede che il nome del Partito divenga quello di Partito comunista socialista d'Italia (Sezione dell'Internazionale Comunista)".

Ciò premesso, è ovvio che Graziadei auspichi, ai fini dell'auspicato processo di "sbloccamento" della frazione unitaria, non solo "chiarezza di idee" ma "onesta abilità", e a tale scopo chieda in via temporanea la suddetta designazione del partito ("per la sola considerazione tattica di non mettersi apertamente contro certi sentimentalismi sia pure irragionevoli") e la precisazione che "il programma comunista deve essere accettato non per disciplina, ma per libero consenso", in modo che i destri si allontanino da sé e la responsabilità ne ricada su di loro. (Interruzione di Bordiga, in cui si riassume il senso di tutta la nostra battaglia, certo aliena da... oneste abilità: "Questa responsabilità la vogliamo noi!").

Facendosi portavoce di preoccupazioni serpeggianti fra i massimalisti di sinistra, anche Salvadori nega che l'accettazione senza riserve delle decisioni di Mosca renda indispensabile il cambiamento di nome del partito ("ci chiamammo socialisti anche dopo il Manifesto dei comunisti; possiamo chiamarci tali anche ora" - come se nel frattempo non fosse successo proprio nulla!); giudica che con i comunisti unitari si debba restare nello stesso partito anche se si sarà in minoranza, e propone il rinvio dell'approvazione della mozione in attesa che una commissione vi introduca le necessarie varianti: crede quindi inopportuno fissare sin d'ora l'uscita dal PSI qualora la tesi unitaria prevalga nel Congresso.

Entrambe le posizioni, come pure la timida richiesta di Gennari che in sede di convegno si parli anche delle future "concretazioni socialiste" per togliere di mano a destri e centristi un'arma da essi fin troppo utilizzata, vengono respinte senza esitazioni dalla stragrande maggioranza dei convenuti, per i quali la sezione italiana della III Internazionale esiste già, avendo come base i documenti fondamentali del II Congresso e il Manifesto-Programma e non tollerando eccezioni di sorta a quanto vi è stabilito.

Gli storici della greppia staliniana hanno fatto gran caso dell'"incidente" provocato da una seduta a porte chiuse dei delegati della Frazione comunista astensionista - vista con sospetto da alcuni dei presenti e oggi addotta a riprova della mentalità "chiusa" e "settaria" dei "fedeli di Bordiga". In realtà, essa era stata convocata sia per definire meglio l'atteggiamento della Frazione sui diversi punti in discussione, sia e soprattutto per precisare le ragioni e i limiti della sua sopravvivenza fino al (ma non oltre il) XVII Congresso, superando le resistenze tuttora vive in alcuni compagni al suo scioglimento a quella data. Tralasciando le ricostruzioni... folcloristiche (15), riproduciamo il comunicato emesso dal CC della Frazione comunista a chiusura dell'episodio:

Dichiarazione

In seguito alle versioni tendenziose date dalla stampa dell'incidente avvenuto nella seduta pomeridiana del 29 nel Congresso Nazionale della Frazione ad Imola; il C.C. dichiara che all'atto della compilazione del Manifesto-programma della Frazione, che costituì il terreno comune per l'unione dei gruppi di sinistra del P.S.I. sulla base delle decisioni del Congresso di Mosca, il rappresentante la Frazione Comunista Astensionista dichiarò che questa, pur riconoscendo pienamente la disciplina ai deliberati dell'Internazionale, non riteneva giunto il momento di sciogliersi ed avrebbe nelle elezioni amministrative tenuto l'atteggiamento contemplato nei deliberati del suo C.C. di Napoli: che infine questo avrebbe convocato la Frazione a regolare convegno in occasione del Congresso di Firenze per deliberare il suo scioglimento. Tale pregiudiziale venne accettata dai convenuti; essa fu rinnovata dal Comitato suddetto nel dare la sua pubblica adesione con deliberato apparso sull'Avanti!, insieme al manifesto-programma, e ripetuta dai singoli gruppi astensionisti che aderirono alla Frazione Comunista. Il Comitato Provvisorio di questa accettò tale situazione, risultandogli anche che gli astensionisti non compivano opera di differenziazione sulla loro tesi antielezionista, ma lavoravano disciplinatamente con tutti i loro mezzi pel trionfo del comune programma e dei deliberati della Terza Internazionale. Solo un equivoco, subito completamente dissipato, determinò quel passeggero incidente, che ha dato esca alle più fantastiche ed esagerate interpretazioni della stampa borghese" (16).

Dopo una breve replica di Bombacci a Salvatori e a Graziadei (17) circa il nome del partito, Bordiga chiuse il convegno precisando che delle "concretazioni socialiste" sarebbe stato utile parlare solo una volta superata la pregiudiziale della costituzione del partito e della sua posizione storica e politica, e che, mentre si poteva concordare con Salvatori nel non pretendere di stabilire "oggi la tattica da seguire [al prossimo Congresso] se saremo in minoranza", sul punto 4° della mozione [vedi oltre] non v'era da transigere: "non può essere altro il meccanismo della scissione" - un modo diverso per dire che, lasciata formalmente indefinita, la tattica da seguire era nella sostanza già decisa.

La mozione presentata dal CC, la stessa che figurerà a Livorno e che riprende in forma leggermente diversa i punti essenziali del Manifesto-Programma della Frazione, viene riprodotta più avanti: basti per ora dire che fu approvata all'unanimità dal Convegno, il quale subito dopo riconfermò il CC e il CE uscenti, dando incarico ad una commissione composta da Belloni, Gennari, Grieco, Tasca, Togliatti ("i quali riceveranno dal CC una circolare con tutti gli elementi per il loro lavoro") di redigere in forma definitiva il programma e lo statuto del partito da presentare al congresso insieme con la relazione politica alla cui stesura delegò Amadeo Bordiga e Umberto Terracini. Poco dopo, il 5 dicembre, il Consiglio nazionale della Federazione giovanile socialista, riunito a Genzano, votava un ordine del giorno di "adesione incondizionata" alla Frazione comunista, chiamando i giovani ad una "lotta spietata contro la socialdemocrazia e contro l'opportunismo unitario".

Si deve a L. Tarsia un articolo di commento al convegno di Imola, uscito nel nr. 1/1921 de Il Soviet, del 6/I, che fa da pendant a quello di A. Bordiga: Verso il partito comunista, con cui abbiamo concluso il capitolo precedente. Esso meriterebbe una riproduzione integrale in quanto voce del partito che già vive ed opera anche se non ancora formalmente costituito, e che non ammette deroghe né ai principi affermati, né alle direttive tattiche e alle norme organizzative emanate (18). Per noi, una volta di più, Imola non poteva che inaugurare Livorno, e Livorno risolversi nella sanzione formale di un atto già consumato (19).

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4. - La Relazione della Frazione al Congresso di Livorno.

Abbiamo ripercorso tutto il cammino dall'agosto al dicembre 1920 per sgombrare il terreno dalle molteplici deformazioni e mistificazioni degli storici. La Relazione presentata dalla Frazione Comunista al Congresso di Livorno del PSI (15-21 gennaio 1921) sull'indirizzo politico del Partito (20) ci riporta direttamente sul terreno delle grandi questioni di principio. La riproduciamo integralmente, con brevi note introduttive di commento ad ognuno dei capitoli.

La mozione votata ad Imola aveva precisato che le deliberazioni in essa elencate erano state prese "richiamandosi ai principi marxisti, all'esperienza storica di tutta l'attività passata del partito e agli insegnamenti che scaturiscono dalle vicende della lotta rivoluzionaria condotta dal proletariato internazionale dopo la grande guerra imperialistica". In coerenza con questa impostazione, che solleva dal piano della contingenza temporale e spaziale il problema della costituzione del partito di classe, la Relazione parte dalle fondamenta teoriche del movimento comunista, convalidate dall'esperienza internazionale delle lotte proletarie e condensate nelle Tesi e Condizioni della III Internazionale, per trarne le principali conclusioni circa la nascita, il programma, la struttura e la tattica dell'organo rivoluzionario in Italia, riconfermando in tal modo i criteri di principio e di metodo ai quali la Frazione si era attenuta nel costituirsi e nello svolgere tutta la sua attività.

Essa si apre ricordando come la frazione comunista sia nata "sulla base di un'intesa tra i gruppi di sinistra del PSI che si ponevano sul terreno delle decisioni del II Congresso mondiale della Internazionale Comunista" e come, al convegno di Imola, sia stata "deliberata all'unanimità la mozione da presentare al Congresso nazionale del Partito, affidando ad una commissione di cinque membri la redazione del programma". Riproduce quindi il testo della Mozione, che sintetizza i caratteri, la struttura e i compiti fondamentali del partito nel prossimo futuro, e quello del celebre Programma nei cui 10 punti è sintetizzato l'intero ciclo della lotta di emancipazione proletaria, con i passaggi obbligati che lo contraddistinguono: antitesi di interessi e lotta di classe fra proletariato e borghesia dominante; organizzazione del proletariato in partito politico, come indispensabile organo della lotta per l'abbattimento del potere statale borghese; rivoluzione violenta e costituzione del proletariato in classe dominante tramite l'instaurazione della propria dittatura e organizzazione armata; interventi sistematici nei rapporti dell'economia sociale fino alla completa eliminazione della divisione della società in classi, e quindi anche dello Stato; comunismo - la sintesi forse più lucida ed efficace del programma comunista, che il primo dopoguerra abbia mai prodotto.

Mozione (21)

Il XVII Congresso Nazionale del Partito Socialista Italiano, dopo adeguata discussione intorno all'indirizzo del Partito, basata sull'esame della situazione politica italiana e internazionale e di tutti i deliberati dell'Internazionale comunista (con particolare riguardo alle tesi del II Congresso sulle condizioni di ammissione dei partiti nell'Internazionale e alla 17a di quelle sui compiti principali dell'Internazionale):

richiamandosi ai principi marxisti, all'esperienza storica di tutta la passata attività del partito, e agli insegnamenti che scaturiscono dalle vicende della lotta rivoluzionaria, condotta dal proletariato mondiale dopo la grande guerra imperialistica, adotta le seguenti deliberazioni:

  1. Conferma l'adesione alla Terza Internazionale comunista, impegnandosi a tutti quei provvedimenti che sono necessari per rendere la struttura e l'attività del Partito conformi alle condizioni di ammissione, con le quali il II Congresso dell'Internazionale ha efficacemente provveduto alle necessità di vita e di sviluppo dell'organo di lotta del proletariato rivoluzionario.
  2. Conferma i criteri generali della revisione programmatica deliberata al Congresso di Bologna, modificando nella forma ed in alcuni concetti particolari il programma del Partito, che resterà formulato secondo il testo unito alla presente mozione; e dichiara che il programma stesso dovrà costituire la base per l'adesione personale al Partito di ciascun suo iscritto attraverso la integrale accettazione di principio.
  3. Decide di cambiare il nome del Partito in quello di "Partito Comunista d'Italia (Sezione della Terza Internazionale Comunista)".
  4. Afferma essere incompatibile la presenza nel Partito di tutti coloro che sono contro i principi e le condizioni dell'Internazionale Comunista, dichiarando che si sono posti o si pongono in tale situazione di incompatibilità:

a) tutti gli aderenti alla Frazione detta di concentrazione ed ai suoi convegni;

b) tutti gli iscritti al Partito che nel presente Congresso daranno il proprio voto contro il programma comunista del Partito e contro l'impegno all'osservanza completa delle 21 condizioni di ammissione all'Internazionale.

  1. Adotta come fondamento dell'organizzazione e della tattica del Partito le risoluzioni del II Congresso dell'Internazionale Comunista dichiarando obbligatoria per tutti gli iscritti la più stretta disciplina nella loro azione alle risoluzioni stesse, attraverso la interpretazione e le disposizioni degli organismi centrali direttivi internazionali e nazionali.
  2. L'applicazione di questi criteri tattici in relazione alle esigenze della situazione politica italiana fissa al Partito i seguenti compiti principali:

  1. preparazione nel campo spirituale e materiale dei mezzi indispensabili per assicurare il successo dell'azione rivoluzionaria del proletariato;
  2. costituzione in seno a tutte le associazioni proletarie di gruppi comunisti per la propaganda, la preparazione rivoluzionaria e l'inquadramento delle forze proletarie da parte del Partito;
  3. annullamento immediato dell'attuale patto di alleanza con la Confederazione Generale del Lavoro, quale espressione inadeguata dei rapporti tra Sindacati e Partito: appello alle organizzazioni proletarie rivoluzionarie che sono fuori della Confederazione ad entrarvi per sorreggere la lotta dei comunisti contro l'attuale indirizzo e gli attuali dirigenti di essa. Impegno per tutti gli iscritti al Partito, che quali organizzati ed organizzatori militano nel movimento economico, a sostenere in ogni circostanza nel seno di questo i criteri e le decisioni del Partito, e a lottare su tale piattaforma per assicurare ad elementi designati dal Partito le cariche direttive dei Sindacati. Distacco della Confederazione, appena conquistata alle direttive del Partito Comunista, dai Sindacati gialli di Amsterdam e sua adesione alla Sezione dell'Internazionale comunista con le modalità previste dallo statuto di questa;
  4. partecipazione alle elezioni politiche e amministrative con carattere completamente opposto alla vecchia pratica socialdemocratica, e con l'obiettivo di svolgere la propaganda e l'agitazione rivoluzionaria, di affrettare il disgregamento degli organi della democrazia borghese;
  5. disciplinamento, con la elaborazione di un nuovo statuto interno per il Partito, le Federazioni e le Sezioni, di tutti i rapporti di organizzazione riguardanti: la stampa del Partito; il funzionamento delle rappresentanze elettive nei Comuni, nelle Province e nel Parlamento; il movimento giovanile e femminile; l'istituzione del periodo di candidatura al Partito pei nuovi iscritti e le revisioni periodiche di tutti i membri del Partito, di cui la prima dovrà immediatamente seguire il Congresso.

Programma

Il Partito Comunista d'Italia (Sezione dell'Internazionale Comunista) è costituito sulla base dei seguenti principi:

  1. Nell'attuale regime sociale capitalista si sviluppa un sempre crescente contrasto fra le forze produttive e i rapporti di produzione, dando origine all'antitesi di interessi ed alla lotta di classe fra il proletariato e la borghesia dominante.
  2. Gli attuali rapporti di produzione sono protetti e difesi dal potere dello Stato borghese che, fondato sul sistema rappresentativo della democrazia, costituisce l'organo della difesa degli interessi della classe capitalistica.
  3. Il proletariato non può infrangere né modificare il sistema dei rapporti capitalistici di produzione, da cui deriva il suo sfruttamento, senza l'abbattimento violento del potere borghese.
  4. L'organo indispensabile della lotta rivoluzionaria del proletariato è il partito politico di classe.
  5. Il Partito Comunista, riunendo in sé la parte più avanzata e cosciente del proletariato, unifica gli sforzi delle masse lavoratrici, volgendoli dalle lotte per gli interessi di gruppi e per risultati contingenti alla lotta per l'emancipazione rivoluzionaria del proletariato.

    Il Partito ha il compito di diffondere nelle masse la coscienza rivoluzionaria, di organizzare i meni materiali di azione, e di dirigere, nello svolgimento della lotta, il proletariato.

  6. La guerra mondiale, causata dalle intime, insanabili contraddizioni del sistema capitalistico che produssero l'imperialismo moderno, ha aperto la crisi di disgregazione del capitalismo, in cui la lotta di classe non può che risolversi in conflitto armato tra le masse lavoratrici ed il potere degli Stati borghesi.
  7. Dopo l'abbattimento del potere borghese, il proletariato non può organizzarsi in classe dominante che con la distruzione dell'apparato di stato borghese e con l'instaurazione della propria dittatura, ossia basando le rappresentanze dello Stato sulla base produttiva ed escludendo da ogni diritto politico la classe borghese.
  8. La forma di rappresentanza politica nello Stato proletario è il sistema dei Consigli dei lavoratori (operai e contadini), già in atto nella Rivoluzione russa, inizio della Rivoluzione proletaria mondiale e prima stabile realizzazione della dittatura proletaria.
  9. La necessaria difesa dello Stato proletario contro tutti i tentativi controrivoluzionari può essere assicurata solo col togliere alla borghesia ed ai partiti avversi alla dittatura proletaria ogni mezzo di agitazione e di propaganda politica e con la organizzazione armata del proletariato per respingere gli attacchi interni ed esterni.
  10. Solo lo Stato proletario potrà sistematicamente attuare tutte quelle successive misure di intervento nei rapporti della economia sociale con le quali si effettuerà la sostituzione del sistema capitalistico con la gestione collettiva della produzione e della distribuzione.
  11. Per effetto di questa trasformazione economica e delle conseguenti trasformazioni di tutta l'attività della vita sociale, eliminando la divisione della società in classi, andrà anche eliminandosi la necessità dello Stato politico il cui ingranaggio si ridurrà progressivamente a quello della razionale amministrazione delle attività umane".

I due testi "formano un tutto inseparabile": il primo si basa, come ogni indicazione di compiti tattici, sui principi e sugli obiettivi indicati nei punti iniziali del secondo; il secondo cessa di rappresentare una costruzione meramente teorica per divenire un'arma di battaglia in quanto si traduce e si completa nel primo. Inseparabili, ma distinti e, come tali, da non confondersi. La Mozione contiene infatti quello che Lenin chiama "il piano sistematico, illuminato da principi fermi e rigorosamente applicato, che solo merita il nome di tattica" (dove è notevole il legame dialettico in forza del quale la tattica è veramente tale non solo se illuminata da principi fermi ma anche se e a condizione che trovi applicazione rigorosa; e viceversa). Questo "piano" non si "deduce" dai principi attraverso un procedimento di natura logica, ma costituisce la precisazione e applicazione alla vita del Partito di "criteri tattici" (come si legge nel Manifesto-programma) obbligatori, definiti in stretta concordanza col programma generale e in diretto legame con le esigenze della lotta proletaria e comunista nell'arco storico dato (22).

Nel suo ambito, i criteri non variano (non varia per esempio l'obbligo per i comunisti di lavorare nei sindacati per conquistarne l'influenza, o nei parlamenti per denunciarne la funzione controrivoluzionaria); sono invece variabili le forme della loro applicazione pratica (variano, per esempio, se la direzione dei sindacati è ormai conquistata dai comunisti, o se le diverse organizzazioni sindacali si sono fuse in una; se l'accesso al parlamento viene legalmente precluso ai comunisti, o se la fase in cui esso si apre si annuncia come prerivoluzionaria, ecc.).

L'impostazione o quadro d'insieme è, comunque, globale, e più che di "piano" si dovrebbe parlare (come nel testo in parola) di "piattaforma di azione" (e, nello stesso tempo, di organizzazione) su cui basare le direttive di partito in quell'"avvenire visibile" che da un lato ne consente e dall'altro ne impone l'applicazione. È significativo, a questo proposito, che il testo formuli già, al punto 5, quello che sarà uno dei cardini dell'attività del PCd'I dalla primavera 1921 in poi: l'appello all'unione di tutti i sindacali e, su questa base, al fronte unico sindacale in difesa delle condizioni di vita e di lavoro dei proletari.

In quanto, conformemente ai principi, la Mozione riassume le ragioni obiettive in virtù delle quali l'avanguardia proletaria ha sentito l'esigenza insopprimibile, per condurre a buon fine la storica lotta di emancipazione della sua classe, di riunirsi nelle file di un partito indipendente da tutti quelli che tradizionalmente la rappresentavano, anzi irriducibilmente ostile, essa è nello stesso tempo la piattaforma di azione sulla cui base i militanti aderiscono al partito. Il Programma, da parte sua, è il corpo unitario di quelli che altrove, sulla scorta di Lenin, abbiamo definiti i fini, i principi ed il programma (23), ed è sulla sua base che il partito in quanto tale si costituisce al di là di ogni contingenza spaziale o temporale. I due processi sono certamente inseparabili, ma non si identificano. La piena coscienza individuale dei 10 punti del programma e di tutte le loro complesse implicazioni - in quanto distinta dall'"adesione di principio" ad essi - non è (né lo era per l'enorme maggioranza degli iscritti al PCd'I all'atto della sua costituzione) il presupposto necessario e sufficiente dell'accettazione nel partito; ne è, semmai, uno dei possibili ed auspicabili risultati (24). Non è d'altro lato pensabile adesione al partito senza accettazione totale della sua "piattaforma di azione". Ecco perché i due documenti figurano insieme come i due pilastri dell'esistenza reale, quindi della vita attiva, del partito; questo non sarebbe il partito rivoluzionario di classe senza i dieci punti del Programma, ma non lo sarebbe neppure se questi punti non si prolungassero, rivestendosi di carne ed ossa, nei "criteri tattici" fondamentali della Mozione. Dialetticamente, è soltanto alla luce di quel binomio che si possono e si debbono considerare la nascita del PCd'I e, finché fu coerente a se stesso, i suoi sviluppi.

I relatori proseguono:

"Avendo ricevuto dal Comitato Centrale della Frazione comunista l'incarico di stendere la relazione illustrativa delle conclusioni che essa sostiene, esponiamo gli elementi di giudizio che a quelle conclusioni concorrono, in modo necessariamente incompleto, ma tale da richiamare sistematicamente ed in ordine logico tutti i dati di fatto e gli argomenti sui quali si basa l'atteggiamento odierno dei comunisti italiani. La critica all'attuale partito socialista italiano, e le nostre proposte di rinnovamento radicale della sua struttura e della sua funzione, esigono che si ristabiliscano i concetti fondamentali sul carattere e i compiti del partito politico proletario, e che si richiamino perciò i principi marxisti e quindi le esperienze storiche internazionali e nazionali della lotta proletaria che conducono alla ricostituzione del movimento rivoluzionario nella III Internazionale, per giungere alla esposizione e alla difesa delle nostre proposte pel rinnovamento del partito italiano e per la sua azione avvenire. È quanto faremo in una rapida sintesi [I corsivi sono nostri]".

Ha così inizio il primo di dieci capitoletti. Esso mostra come il superamento e la demolizione teorica della ideologia democratica, operata dal marxismo, porti logicamente ad affermare la necessità irrinunciabile della rivoluzione e della dittatura proletarie e, congiuntamente, la necessità del partito di classe, organo indispensabile sia della lotta per la conquista rivoluzionaria del potere, sia del suo esercizio dittatoriale; e come, d'altro lato, il partito politico possa assolvere la sua funzione di guida delle masse proletarie sulle quali avrà conquistato una sicura influenza, alla sola condizione di mantenere intatti i suoi specifici caratteri di coscienza critica e teorica e di decisione nell'azione, quindi di omogeneità di vedute e di volontà dei suoi membri, mai sacrificando alla ricerca della quantità il requisito fondamentale della qualità, o al conseguimento di obiettivi contingenti il "supremo risultato rivoluzionario" dell'abbattimento del potere borghese. Eccone il testo integrale, che fra l'altro esclude in modo esplicito ogni interpretazione consiglista o anarco-sindacalista del processo rivoluzionario:

1) Partito e rivoluzione nella dottrina marxista

Non è certamente necessario svolgere qui una completa esposizione delle dottrine marxiste ripetendo cose ben note; ci basterà richiamare alcuni risultati salienti della critica marxista che, rimessi in viva luce dagli avvenimenti, costituiscono i punti di partenza del movimento comunista contemporaneo.

Il principale risultato a cui ci conduce tutto il sistema di critica storica del marxismo è il superamento e la demolizione teorica della ideologia democratica. Viene messa in evidenza la fallacia della fondamentale tesi democratica secondo la quale la rivoluzione borghese, creando la libertà e la uguaglianza politica dei cittadini nel sistema rappresentativo elettorale e parlamentare, avrebbe poste le condizioni di un ulteriore indefinito sviluppo pacifico delle società umane verso un sempre più elevato tenore di vita economica, morale, intellettuale, escludendo per l'avvenire altre crisi rivoluzionarie ed altre guerre civili.

Da una esauriente critica economica e storica i primi grandi assertori del marxismo desumono la constatazione di una lotta tra le classi in cui tuttora la società borghese è divisa dalla natura dei rapporti di produzione che le sono propri, lotta che da elementari antitesi di interessi, e da primi informi tentativi ribelli della classe sacrificata, tende ad assurgere ad un vasto conflitto pel rivoluzionamento di tutto il sistema dei rapporti produttivi. Contemporaneamente l'apparato democratico dello Stato è dimostrato essere corrispondente al regime e all'epoca storica capitalistica, sorto per la necessità della affermazione e atto solo ed esclusivamente alla protezione dei rapporti economici capitalistici, id est degli interessi della borghesia dominante.

Un altro punto strettamente connesso a tutta la teoria marxista ed al suo modo di intendere la formazione della coscienza nei singoli e nelle collettività, l'azione della volontà umana come risultato delle cause determinanti che consistono nei rapporti economici, è la negazione che l'interesse di classe del proletariato concretato nella necessità del superamento e della distruzione delle istituzioni del regime capitalistico, possa trovare una manifestazione ed una via di affermazione decisiva nel meccanismo delle rappresentanze democratiche borghesi, che di quelle istituzioni è parte integrante.

Essendo il proletariato per le sue stesse condizioni di vita legato ad una inferiorità intellettuale, culturale e politica, ma essendo per le condizioni stesse la classe chiamata a spingere innanzi la storia, questa apparente contraddizione si risolve dialetticamente nell'escludere che il proletariato possa agire come classe, ossia con finalità generali e storiche, in un meccanismo maggioritario, ed assegna la funzione di rappresentante della classe e del suo compito rivoluzionario alla organizzazione di una minoranza di avanguardia, che dalla conoscenza delle condizioni della lotta più precisa che nel restante della massa, trae la volontà di indirizzare gli sforzi propri alla generale e ultima finalità rivoluzionaria del rovesciamento degli istituti capitalistici, nella quale sola tutto il proletariato troverà la soluzione del disagio in cui vive. Di qui il concetto della necessità di un partito politico di classe, diverso da tutti gli altri partiti perché anticostituzionale per definizione, generato non dalla meccanica del sistema elettorale borghese ma proprio dalle forze che anche quel sistema tendono a superare ed infrangere.

Da questi risultati critici la dottrina marxista assurge non solo a tracciare le previsioni dello sviluppo che dovrà presentare il processo storico della rivoluzione proletaria, ma a dettare le norme dell'azione della classe lavoratrice nel suo partito, ponendo così i primi dati, ma anche le soluzioni generali, del vasto problema dei rapporti tra la teoria - che esamina, critica, prevede conseguenze future di elementi e condizioni esistenti nel passato e nel presente - e la tattica, che da tali risultanze trae le norme dell'azione di quella minoranza che, dall'aver conosciuto le condizioni e le leggi della lotta, passa a volerne e a prepararne la vittoria.

Poiché l'apparato statale borghese difende e protegge i rapporti dell'economia capitalistica, il partito di classe è quello che raccogliendo le forze proletarie disperse in vani conati di superare le proprie condizioni di sfruttamento e di oppressione, le unifica e le indirizza al rovesciamento del potere statale borghese, che solo coll'azione violenta potrà realizzarsi, trattandosi di una organizzazione di forze armate. Demolire l'impalcatura dello Stato borghese nella sua burocrazia, nel suo esercito, nella sua polizia, per sostituirvi l'organizzazione armata dello Stato proletario, é indispensabile per stabilire le fondamenta dell'opera posteriore di trasformazione dell'economia, che richiederà un lungo periodo. Ma mentre si rovescia il potere e la posizione politica delle classi, cadono gli ordinamenti rappresentativi propri del potere borghese, ossia i parlamenti democratici, e sorgono i nuovi istituti di rappresentanza propri dello Stato proletario.

Il grande tracciato programmatico del marxismo, che si riconsacra oggi nei testi, e più ancora nelle conquiste del movimento comunista internazionale, si può riassumere così: organizzazione del proletariato in partito di classe - lotta per l'abbattimento del potere politico borghese - organizzazione del proletariato in classe dominante, tradotta nella espressione ciclopica di dittatura proletaria - intervento del potere proletario nei rapporti della produzione per realizzare la socializzazione dei mezzi e delle funzioni economiche, che condurrà alla sparizione delle classi e di ogni altro apparato statale di potere.

Parlando fin d'allora di dittatura proletaria Marx volle stabilire una differenza fondamentale: mentre il potere borghese è in realtà una solidissima dittatura, ma é protetto da una apparente eguaglianza di diritto di rappresentanza politica negli uomini d'ogni classe - e la borghesia non può porre il proletariato in una condizione patente e costituzionale di inferiorità, poiché essa non può vivere senza il proletariato - il potere della classe proletaria dovrà essere una aperta e palese dittatura, ossia si fonderà sulla esclusione dei membri della classe borghese da ogni ingerenza nella formazione degli istituti dello Stato - e ciò perché il proletariato tende ad eliminare la borghesia, e con essa l'esistenza stessa delle classi e delle dittature di classe.

In tutta questa sua tragica via, alla classe proletaria è indispensabile il suo partito rivoluzionario. Solamente una piatta interpretazione delle tesi marxiste, che viene talvolta dalla estrema destra, talvolta dalla 'estrema sinistra', riconosce o esalta la classe in organismi che istituzionalmente ne comprendono la totalità o la grande maggioranza - prima della rivoluzione nei sindacati o nei consigli d'azienda, dopo nei consigli operai - più che nel partito che ne raccoglie solo una parte. È invece proprio per l'intimo valore delle ragioni marxiste che la maggioranza della classe proletaria non potrà accogliere ed esprimere la coscienza e la volontà dei compiti storici della classe, se non quando le sue condizioni di inferiorità nel tenore di vita fisica saranno eliminate; quando cioè già sarà in atto il comunismo. Fino allora non solo la classe sarà rappresentata solo nel partito, ma in tanto il proletariato apparirà ed agirà come classe, in quanto esprimerà dal suo seno questo partito, capace di critica e di coscienza storica, e perciò stesso capace di volontà e di azione.

Nel suo cammino nella storia, il Partito Comunista troverà sempre più larghi strati della classe attorno a sé, trascinati, inquadrati, diretti nella sua opera rivoluzionaria.

Questi effettivi e queste forze esso avrà ed usufruirà sicuramente, solo in quanto avrà mantenuto i suoi caratteri specifici, che appunto lo differenziano sopra ogni altro organismo operaio: coscienza critica e teorica, decisione nell'azione - caratteri per i quali è soprattutto indispensabile condizione l'omogeneità di vedute e di volontà nei suoi membri, che in nessun altro organo proletario esiste né può pretendersi che esista.

Anche i rapporti tra il partito e i più larghi immediati organi operai, tra la lotta del partito per un programma 'massimo' e le azioni dei gruppi operai per minime realizzazioni limitate e contingenti, sono nella dottrina di Marx ben chiari. Il partito non nega né trascura quei movimenti, ma, senza accettarli come fine a se stessi o alla propria azione, li considera come le occasioni per allargare il campo della lotta e condurre un sempre maggior numero di operai alla constatazione che occorre mirare a più vasti obiettivi e foggiarsi un organo di più alta potenzialità per la lotta contro il fondamento stesso dello sfruttamento capitalistico.

Ed il problema della tattica comunista sta qui: nel raggiungere più larghi strati della massa e condurli sul terreno dell'azione rivoluzionaria, preparandoveli in armi ideali e materiali, conservando al partito il suo carattere di qualità che garantisca il successo di tale preparazione - evitando l'errore di prospettiva di credere di poter raggiungere più facilmente la massa allargando le basi del partito rivoluzionario in quantità, ma avendo attenuato il carattere e il contenuto del partito e della sua opera, che, perdendo il loro carattere generale e massimale, vadano a combaciare con le manifestazioni frammentarie di limitati interessi, e si risolvano nel conseguire obiettivi immediati e contingenti a scapito del supremo risultato rivoluzionario.

Tutto ciò scrissero Carlo Marx e Federico Engels, anzi insuperabilmente scolpirono nelle pagine di granito del Manifesto dei Comunisti, nel 1847.

Segue un capitoletto in cui, ripercorrendo il corso storico che attraverso la II Internazionale e la sua capitolazione di fronte alla guerra imperialistica ha portato alla crisi del movimento operaio e socialista mondiale, si fa risalire il fenomeno del revisionismo all'insieme di fattori storici, tutt'altro che imprevisti dalla nostra dottrina, che compensano almeno in parte la maturazione della crisi interna del sistema economico capitalista - sfogo alla sovrapproduzione nei mercati esteri e nella preparazione militare; riduzione del movimento proletario, imprigionato in una prassi minimalistica, a complemento integratore del regime borghese. Si spiega cosi il precipizio del movimento operaio e della II Internazionale nell'unione sacra di guerra e per la guerra.

2) La II Internazionale e la grande guerra mondiale

Di tutta la storia del movimento proletario internazionale, dal Manifesto alla vigilia della grande guerra mondiale, ci interessa rammentare quale carattere avesse assunto l'organizzazione socialista negli ultimi decenni precedenti il 1914, nei quali visse la II Internazionale.

I fondamenti della dottrina e del metodo marxista erano stati a poco a poco travisati. Il revisionismo aveva poste in dubbio le basi fondamentali della critica marxista al sistema capitalistico, fondandosi sul fatto che le previsioni di un rapido volgere di esso alla crisi finale apparivano non essersi verificate, ed aveva a poco a poco elaborate nuove teorie nelle quali l'acutizzarsi della lotta di classe, la violenza rivoluzionaria, la dittatura proletaria più non avevano parte, ma in realtà si ripiegava sulle superate posizioni democratiche, affermando la possibilità di una lenta evoluzione delle forme capitalistiche verso il socialismo, che economicamente si sarebbe presentata come un elevamento graduale ma sicuro del tenore di vita del proletariato, politicamente come una partecipazione sempre più larga della classe lavoratrice agli istituti rappresentativi e anche governativi attuali. Al travisamento delle direttive teoriche si accompagnò un'azione proletaria totalmente diversa da quella tracciata dal marxismo rivoluzionario.

I partiti socialisti o socialdemocratici, trascurando ogni lavoro diretto alla realizzazione del programma massimo, che fu ridotto ad uno scialbo motivo di propaganda e di retorica demagogica, si posero come obiettivo la soddisfazione dei piccoli interessi dei vari aggruppamenti proletari, concludendosi tutta l'azione in un corporativismo economico sindacale tenero solo di piccole e insensibili migliorie, ed in una pratica politica puramente elettorale e parlamentaristica volta a fiancheggiare il prevalere di quei minimi interessi e ad introdurre riforme favorevoli al proletariato nella legislazione borghese.

Questo movimento proletario, mentre acquistava estensione registrando grandi ed apparenti successi numerici nel campo sindacale ed elettorale, mancava completamente del carattere di fucina delle forze rivoluzionarie tendenti ad abbattere il capitalismo, e di questo divenne un elemento di conservazione, contemperando il rigore delle sue contraddizioni intime e dei loro riflessi rivoluzionari col gioco delle concessioni proposte ed ottenute a tacitare l'insofferenza delle masse. Una piccola schiera del movimento socialista della II Internazionale rimase fedele al marxismo rivoluzionario; mentre quella parte del proletariato che istintivamente ripugnava dalla pratica di transazione e di compromesso dei capi riformisti si volgeva in molti paesi a scuole derivanti da un altro revisionismo (che non meno del primo rimetteva a nuovo vecchi errori già demoliti dal marxismo), all'anarchismo cioè ed al 'sindacalismo rivoluzionario' che vanamente deducevano dal fallimento dei partiti proletari esistenti un programma di azione rivoluzionaria che pretendeva fare a meno del partito politico come organo della lotta, e del potere politico centrale del proletariato come strumento della trasformazione del sistema economico dal capitalismo al comunismo.

Di tali scuole ci basta dire che mai rappresentarono le depositarie del sano metodo rivoluzionario; che il processo attraverso il quale nel 1871-72 Marx si separava da Bakunin nella I Internazionale, non è in alcun modo un aspetto del volgere a destra del movimento socialista, ma è riconosciuto e riconfermato nell'attuale lavorio di costituzione della Internazionale rivoluzionaria di cui ci occupiamo in appresso, cosicché è un grossolano errore - non potendo essere una accusa - attribuire ai comunisti anche di sinistra tendenze sindacaliste e anarchiche.

I grandi partiti socialdemocratici che si erano formati nell'epoca della II Internazionale non seguivano dunque né una dottrina né una tattica rivoluzionaria; tutta l'organizzazione di essi era caratterizzata da una doppia schiera di capi: i funzionari del movimento sindacale, abituati in una pratica inveterata a transigere cogli esponenti della borghesia; ed i parlamentari, che manovravano sul terreno di più vasti compromessi politici e governamentali coi poteri costituiti, rappresentando gli uni e gli altri lo 'stato maggiore' del proletariato, i depositari, oltre che della sua fiducia, delle sue casse, della sua stampa, in una parola di tutti i suoi mezzi di azione.

Dello scoppio della bufera guerresca nel 1914 il movimento della II Internazionale, nonostante l'ottimismo cronico di cui era tutto imbevuto, aveva avuto qualche sentore, ed il Congresso di Basilea del 1912 ne aveva dato prova, deliberando che il movimento della classe operaia dovesse opporsi alla guerra, e ove non l'avesse potuta deprecare, dovesse tentare di approfittarne per l'abbattimento del capitalismo.

Tutto il bagaglio teorico e tattico della II Internazionale la spingeva però a non parlare della seconda eventualità, se non nel tono affatto accademico nel quale ancora si nominava talvolta la 'rivoluzione sociale'. In realtà tutta la sua preparazione era imperniata sulla ipotesi di una graduale evoluzione storica che, come avrebbe reso superflua la rivoluzione catastrofica di Marx, così rendeva impossibile la guerra tra i grandi Stati moderni.

Lo scoppio della guerra europea demoliva d'un colpo entrambe queste fallaci previsioni, poiché demoliva la loro base comune: l'ottimismo riformista, per venire a riconfermare il tragico pessimismo di cui era improntata la concezione marxista originaria nei riguardi dell'avvenire del mondo capitalistico.

Le tesi favorite del revisionismo sugli errori delle leggi puramente economiche tracciate nel Capitale sulla concentrazione della ricchezza, la miseria crescente, le inevitabili e incalzanti crisi del capitalismo, non intaccarono menomamente la costruzione marxista, il cui coronamento era la condanna del sistema capitalistico a sparire in una crisi spalancata dalle sue contraddizioni, dalla barbarie che esso avrebbe apprestata sotto la vernice chiassosa della sua vantata civiltà.

Tutto l'insieme dell'opera politica e storica di Marx ci permette di dire - e lo dichiara d'altronde anche la prefazione alla sua Critica della economia politica - che i primi volumi del Capitale rappresentano una critica dello schema del capitalismo dal punto di vista della scienza economica, destinata a costituire la base dell'ulteriore trattazione che doveva abbracciare l'esame di altri argomenti politici e storici, sino alla funzione dello Stato e ai rapporti internazionali, argomenti che del resto sono trattati in modo molteplice in altri scritti conducendo logicamente a quella critica dell'imperialismo svolta successivamente - e in modo che si potrebbe provare non discontinuo - dalla 'sinistra marxista' e oggi completata nel pensiero della Internazionale Comunista e dei suoi teorici.

Le dottrine economiche di Marx sulla natura e lo sviluppo del capitalismo non escludono, ma concludono all'obiettivo esame dei fatti storici che hanno compensato il maturare fatale della crisi interna del sistema dell'economia borghese, introducendo come elementi di equilibrio lo sfogo della sovrapproduzione capitalistica nei mercati esteri e nella preparazione militare, e lo stesso movimento operaio imprigionato in una prassi minimalistica e ridotto a complemento integratore del regime borghese. L'errore del revisionismo della II Internazionale è stato di non intendere come tali coefficienti dilatori, se allontanavano la crisi suprema, non ne eliminavano però la necessità, anzi la preparavano più acuta e tremenda, tale da non presentare altra soluzione che quella già contenuta nelle lapidarie prospettive del programma marxista: l'insurrezione violenta del proletariato e la instaurazione della sua dittatura.

Gli ideologi della borghesia poterono pensare di coronare la demolizione del pensiero rivoluzionario elaborata dal riformismo socialista, con la constatazione della fine di ogni lotta di classe nella collaborazione nazionale ovunque determinata dalla guerra. Ma il riformismo vedeva in realtà crollare i suoi schemi, essendo troppo evidente che la guerra, oltre al creare una terribile e sanguinosa situazione al proletariato, uccideva ogni speranza di future pacifiche e rosee evoluzioni verso un migliore e benefico assetto del sistema attuale, e nello stesso tempo risospingeva le masse alla soluzione rivoluzionaria.

Così il movimento della II Internazionale veniva strappato ai suoi obiettivi teorici e tattici. Il fatto che esso, dinanzi a questa cosi palmare constatazione, non si riportasse sul terreno della vecchia dottrina e prassi rivoluzionaria marxista, viene comunemente indicato come il tradimento dei partiti della II Internazionale. Ma quel fatto non era che la logica conclusione delle premesse revisionistiche, e la fatale conseguenza della dialettica storica, per cui la coscienza critica e l'orientamento di pensiero proprio di movimenti collettivi non sono dati astratti che si determinano al di sopra delle cose umane, ma sono effetti delle circostanze storiche, e non si mutano da un giorno all'altro.

L'attitudine adunque del movimento della II Internazionale allo scoppio della guerra nella maggior parte dei paesi capitalistici non va spiegata colla perfidia e la viltà di alcuni uomini, ma è la conseguenza fatale di tutto l'indirizzo precedente del movimento e della sua azione.

I partiti della II Internazionale nel 1914 coi loro capi sindacali e parlamentari, col loro ingranaggio e la loro routine collaborazionista, anche se crollava nella guerra la possibilità di ottenere quanto essi avevano posto come fine della loro collaborazione, abbandonarono totalmente il fine - graduale e continuo miglioramento delle condizioni dei lavoratori - e continuarono nella loro pratica, ossia si associarono anche nella guerra e per la guerra alla borghesia dominante.

Riprendendo un tema già svolto in un intervento del delegato della Sinistra al II Congresso, il capitoletto su Gli insegnamenti della rivoluzione russa addita l'importanza decisiva di quest'ultima nel fatto che proprio là dove ci si poteva attendere che il moto rivoluzionario si esaurisse nel completamento dei compiti storici di ogni rivoluzione borghese e si adagiasse nelle forme democratiche di governo, queste erano state invece superate con la instaurazione di una dittatura dichiaratamente proletaria e comunista. Da ciò si trae l'insegnamento del valore non locale né contingente ma universale e duraturo dei "grandi episodi della rivoluzione russa, la dispersione dell'assemblea costituente, la rottura di ogni alleanza tra il Partito rivoluzionario e i partiti della borghesia, ecc." e la dimostrazione del carattere anch'esso necessario e universale dell'atteggiamento dei partiti operai non solo di destra ma di centro nei confronti della rivoluzione e della dittatura di classe.

Se i primi due capitoletti dimostrano il carattere permanente dei cardini della dottrina marxista, il terzo reca quindi la duratura conferma dell'esclusione di ogni "via nazionale" che pretenda di modificarli e indica infine nell'Internazionale l'organismo destinato storicamente a radunare tutte "quelle forze che dall'esperienza della guerra traggono la conseguenza che la crisi che si è iniziata è la crisi finale del regime capitalistico" e che, per uscirne, il proletariato ha una sola via: abbattimento violento del potere borghese e instaurazione della dittatura proletaria. Di qui l'esclusione dal partito di tutti coloro che questa tesi di principio respingono.

3) Gli insegnamenti della rivoluzione russa

Le tendenze di sinistra che rimanevano nel seno del movimento proletario durante la guerra furono sulle prime assorbite nella critica e nella propaganda contro la collaborazione di guerra sforzandosi di dimostrarla in contraddizione con quei principi internazionalistici e pacifisti che mai prima l'Internazionale aveva rinnegato. Ma l'elemento che valse a mettere questo problema nella sua vera luce fu il movimento rivoluzionario russo, ed il partito marxista vi contribuì prima ancora della rivoluzione con la sua partecipazione alle prime riunioni internazionali di Zimmerwald e di Kienthal nelle quali costituì il nocciolo dell'estrema sinistra, affermando nettamente la tesi che la guerra borghese doveva essere trasformata in guerra civile rivoluzionaria tra borghesia e proletariato, e che su tale base dovevasi costruire una nuova Internazionale.

Dopo la rivoluzione del 1905 erasi trasferito in Russia il centro dell'attività teorica marxista. Fu, d'altra parte, la Russia che, per la sua situazione anacronistica di paese ad economia ed a regime precapitalistici, si spezzò prima sotto lo sforzo della guerra, mancandole tutte le condizioni e le risorse del militarismo moderno proprio dei più avanzati stati capitalistici. Né l'uno né l'altro fatto costituiscono contraddizione alla dottrina marxista, come si può provare anche con le opinioni e i giudizi di Marx e di Engels sulla Russia e con tutto lo spirito della loro dottrina nei riguardi della situazione del proletariato tedesco nel 1847-48, e soprattutto con la considerazione della nuova situazione storica internazionalmente creata dalla guerra.

La rivoluzione russa, col suo svolgimento, viene a galvanizzare tutto il movimento di revisione teorica del socialismo, per il modo impressionante con cui essa riprende e conferma il metodo rivoluzionario marxista. La Russia era, appunto per quelle condizioni arretrate, il paese ove si poteva attendersi che un moto rivoluzionario si sarebbe formato ed esaurito nelle forme della democrazia borghese, che costituivano ivi tuttora una necessità ed un progresso. Invece il fatto che il proletariato russo, appena ha voluto mettersi in moto per il crollo della impalcatura statale esistente, è stato spinto - contro il tentativo di chiudere la rivoluzione in un programma democratico che rispettasse la proprietà capitalistica e perfino continuasse la guerra al fianco delle potenze imperialistiche dell'occidente - alla soluzione classista del problema rivoluzionario, al superamento delle forme democratiche, alla instaurazione della dittatura proletaria, è la conferma, assai più evidente di quella che poteva venire da altri paesi, che una simile soluzione storica è l'unica che presenti il problema della liquidazione della crisi mondiale aperta dalla guerra.

Appunto per questo i grandi episodi della rivoluzione russa, la dispersione dell'assemblea costituente, la rottura di ogni alleanza tra il partito del proletariato rivoluzionario ed i partiti della borghesia, il passaggio del potere ai consigli operai, rivelatisi come la forma dei nuovi istituti rappresentativi propri della dittatura proletaria, costituiscono un insegnamento di valore mondiale, inquantoché non sono l'esempio di un modo di fare la rivoluzione, di una ricetta che si è potuta applicare in condizioni particolari, ma trovano le loro cause nelle condizioni universali determinate dalla guerra, e riconducono il movimento rivoluzionario di tutti i paesi ai valori originari della dottrina marxista, alle tavole fondamentali del Manifesto.

Ciò risulta chiarissimo non appena si disperdano le prime false interpretazioni che presentano la rivoluzione massimalista russa come una realizzazione anarchicheggiante di forme proudhoniane e bakuniniane, non appena il vero carattere degli avvenimenti viene in evidenza soprattutto ad opera del partito dirigente, vero partito marxista, pel quale la rivoluzione russa non è che l'inizio della rivoluzione internazionale, e deve, con la sua esperienza, servire di base alla ricostruzione della Internazionale rivoluzionaria.

L'altro suggestivo insegnamento che dagli eventi della rivoluzione russa emerge si desume dal contegno che tennero in essa gli altri partiti che pur si dicevano socialisti, che non solo appartenevano alla II Internazionale, ma avevano partecipato ai primi tentativi di reazione al socialpatriottismo. Questi partiti (socialisti rivoluzionari e menscevichi) erano già da tempo differenziati dal partito bolscevico per la valutazione dei problemi rivoluzionari; negavano, pur invocando ragioni che riflettevano la sola Russia, il metodo rivoluzionario marxista e la dittatura proletaria, e - benché avessero rifiutato, durante la guerra, la solidarietà al vigente regime zarista - nella rivoluzione del 1917 sostennero l'alleanza con la sinistra borghese, la continuazione della guerra al fianco dell'Intesa, la costituzione democratica e parlamentare della repubblica.

Allorquando, invece, il proletariato, guidato dal partito comunista, ingaggiò e vinse la lotta per le parole d'ordine della 'fine della guerra' e del 'passaggio del potere ai consigli operai', avvenne - per quei partiti - un fenomeno assolutamente analogo a quello constatato nel caso del movimento revisionista della II Internazionale allo scoppio della guerra; anziché constatare il fallimento del loro programma, anzi la possibilità immediata di superarlo senz'altro per raggiungere ulteriori obiettivi che anch'essi affermavano di condividere, seguirono la traccia della loro pratica di collaborazione alleandosi alla borghesia nella lotta contro i proletari comunisti.

Da questa fondamentale esperienza storica si desumevano i caratteri costitutivi della nuova Internazionale, che in tutti i paesi avrebbe dovuto preparare le masse alle esigenze del processo rivoluzionario. La rivoluzione russa non dava solo per questo obiettivo un ammaestramento di ordine critico e teorico; ma - mentre difendeva, sola contro tutti gli sforzi del mondo capitalistico, nella sua causa quella della rivoluzione mondiale - gettava anche le basi della organizzazione della nuova Internazionale.

Questa, adunque, nasce col fondamentale significato di essere la forza storica che deve risolvere la situazione creata dalla guerra nella vittoria mondiale della rivoluzione. Essa non si limita a riorganizzare tutti quei socialisti, che nella crisi del 1914 rimasero formalmente fedeli all'internazionalismo, ma raccoglie quelle forze che dalla esperienza della guerra traggono - non la conclusione che meglio sarebbe stato se la guerra non fosse avvenuta e se non fosse stata resa impossibile la graduale evoluzione verso il socialismo, ragionamento assurdo e vanamente pacifistico - ma la conseguenza che la crisi che s'è iniziata è la crisi finale del regime capitalistico, dalla quale il proletariato non ha altra via d'uscita che quella tracciata dal marxismo: l'abbattimento violento del potere della borghesia e la instaurazione della dittatura proletaria.

Questi sono i termini costitutivi della nuova Internazionale che si stringe intorno alla rivoluzione russa, e che - come non si accontenta della sterile avversione formale alla guerra - così non si accontenta di una difesa platonica della rivoluzione russa e del suo libero esplicarsi, ma chiede ai suoi seguaci l'adesione completa a quelle direttive di azione rivoluzionaria che le esperienze integrantisi della grande guerra e della grande rivoluzione forniscono al proletariato, appunto perché in Russia si combatte la prima battaglia della grande guerra rivoluzionaria mondiale di cui l'Internazionale comunista vuole essere il compatto e formidabile esercito.

In questo processo, che in tutti i paesi conduce dalla rovina dei partiti della II Internazionale alla costituzione dei partiti aderenti alla Terza, il proletariato deve dunque dividersi da tutti gli antichi suoi capi che accettarono le formule della collaborazione di guerra e della difesa nazionale, ed ancora da quelli che respingono il programma che tende all'azione violenta contro il potere borghese, alla abolizione degli istituti rappresentativi democratici per la istituzione del potere rivoluzionario soviettista.

Il quarto capitoletto proietta su scala internazionale il duplice insegnamento della necessità della rivoluzione e della dittatura proletaria come unica via al socialismo, e della funzione storica dell'opportunismo come gerente degli interessi capitalistici e gendarme delle ultime difese del capitale, e mostra come le 21 condizioni rappresentino nel loro insieme la soluzione di un "problema internazionale per sua natura": ognuna di esse si applica a tutti i paesi o non si applica a nessuno, come d'altronde è dimostrato dalla campagna internazionale dell'opportunismo contro la loro accettazione. A chi accampa le "speciali condizioni" del proprio paese a dimostrazione dell'impossibilità di osservare anche soltanto uno dei 21 punti, si rivolge l'argomento polemico che, se mai ci fosse un paese che in teoria potrebbe sollevare eccezioni del genere, è appunto quella Russia alle cui caratteristiche peculiari si pretende che le condizioni di ammissione si ispirino: quasi tutte si riferiscono infatti a partiti che non hanno ancora conquistato il potere.

4) La situazione internazionale dopo la guerra e il Congresso di Mosca.

Gli avvenimenti che dopo la fine della guerra si sono svolti in molti paesi, vengono a confermare pienamente le conclusioni che i comunisti hanno tratto dalle esperienze di Russia, e soprattutto la necessità di una netta separazione tra il movimento rivoluzionario che si organizza nella nuova Internazionale ed i socialdemocratici di tutte le sfumature.

La stessa posizione presa dai diversi partiti proletari in Russia si è riprodotta in tutti gli altri paesi in cui le conseguenze della guerra hanno già originato moti rivoluzionari, anche quando i primi tentativi rivoluzionari comunisti si sono chiusi con la sconfitta, e quando il moto si è limitato alla costituzione di un governo diretto dai partiti socialdemocratici.

In Germania gli avvenimenti dal novembre 1918 al gennaio 1919 ci mostrano la tendenza spartachista di Liebknecht e Luxemburg, costituitasi in partito sul programma comunista, che lotta nella sua generosa azione rivoluzionaria contro la coalizione borghese, rappresentata da un governo che ha alla sua testa i socialdemocratici e che ha partecipi e complici gli indipendenti, cioè quei socialisti che avevano abbandonato il vecchio partito per essere contrari alla guerra, ma restavano su di un terreno nettamente antirivoluzionario caratterizzato dalla posizione piccolo borghese presa dai loro duce teorico, l'ex marxista Kautsky.

Gli episodi della rivoluzione non solo a Berlino ma anche in altri punti della Germania, come in Baviera, dove Kurt Eisner, elemento di estrema sinistra degli Indipendenti, cerca tino all'ultimo di coalizzare le forze comuniste con quelle socialdemocratiche di sinistra, mostrano gli stessi caratteri salienti.

La rivoluzione d'Ungheria si presenta in principio sotto un aspetto che appare suo proprio: la pacifica rinunzia della borghesia al potere e l'assunzione di esso da parte di un solo partito derivato dalla fusione di comunisti e socialdemocratici. Ma i disgraziati avvenimenti posteriori dimostrano come i comunisti avessero profondamente errato ed i socialdemocratici anche nel governo rivoluzionario avessero lavorato quali complici della contro-rivoluzione.

Nei paesi dove i socialdemocratici sono stati o sono tuttora al potere, tanto in collaborazione con partiti borghesi, quanto da soli e sulla base di maggioranze parlamentari 'socialiste' (di questo secondo caso dettero esempio l'Ucraina e la Georgia) i social-democratici hanno agito come rappresentanti degli interessi borghesi contro ogni tentativo rivoluzionario del proletariato.

Se potessimo qui diffonderci in un paragone tra i risultati dell'opera compiuta nel campo economico e politico dalla dittatura proletaria russa, con quella svolta da tali governi socialdemocratici, risulterebbe sempre più evidente l'antitesi storica che corre tra i due metodi.

La Russia ha dovuto sostenere uno sforzo immane per la propria difesa politica e militare contro tutte le risorse della reazione capitalistica mondiale; quei governi hanno usufruito di tutto l'appoggio politico ed economico delle potenze borghesi; ciò nonostante l'evoluzione economica in Russia ha già percorso tappe decisive per la costruzione comunista, ed i risultati dell'opera del potere dei Soviet sono altrettanto grandiosi per il rendimento delle energie consacratevi quanto per la conferma della dottrina economica socialista. Invece nei paesi retti dalla socialdemocrazia, nulla assolutamente si è fatto che intaccasse a vantaggio delle classi lavoratrici i privilegi economici del capitale; e nemmeno quelle vantate riforme che sono nel programma socialdemocratico e che, come la socializzazione dietro indennità, non sposterebbero l'essenza del capitalismo, ma gli servirebbero a superare la presente crisi, sono state attuate.

Ma la bancarotta del metodo, e meglio la rivelazione della vera sua natura, sono ancora più evidenti quando si consideri che anche la tesi fondamentale socialdemocratica, cioè il rispetto delle forme democratiche e delle libertà politiche per tutte le classi, è stata smentita e distrutta. Anche in quei paesi esistono la dittatura e il terrore e si sopprimono tutti i diritti di agitazione politica ai partiti avversari al governo; ma la dittatura e il terrore che in Russia pesano implacabilmente sui nemici del proletariato sono in quei paesi socialdemocratici volti contro i partiti comunisti e i difensori degli interessi e delle aspirazioni delle classi lavoratrici.

A dunque la situazione politica e sociale di tutti i paesi ci conferma come dopo la grande guerra non vi siano che due alternative: la dittatura del capitale o quella del proletariato; ci mostra che in tutti i paesi vi è un movimento sedicente socialista e proletario che afferma teoricamente possibili soluzioni intermedie, e la cui caratteristica infallibile è quella che, quando la lotta suprema tra le classi avverse scoppia malgrado gli ipocriti e vani suoi scongiuri, si rivela storicamente come il gerente degli interessi capitalistici, il gendarme delle ultime dittature del capitale.

Questo movimento, residuato dalla decomposizione dei vecchi partiti della II Internazionale, spesso, per assolvere la missione tracciatagli da forze superiori di lavorare nelle file del proletariato per indurlo a desistere da ogni iniziativa rivoluzionaria, si traveste nelle forme di Partiti Socialisti di sinistra che si pongono fuori dei ruderi della vecchia Internazionale, troppo squalificata agli occhi delle masse. Questo movimento persegue ovunque la vecchia tattica ultraparlamentare e operaista, fiancheggiando la Federazione Sindacale Internazionale di Amsterdam, succursale della Lega delle Nazioni, che è l'Internazionale della contro-rivoluzione. A questa pratica si cerca di sovrapporre da qualche tempo l'accettazione formale dei principi della Internazionale Comunista e della Rivoluzione Russa cercando di ricondurre a secondarie ma insistenti obiezioni la critica alle direttive dell'una e dell'altra.

Negli ultimi tempi un grave pericolo si era delineato per la compagine della nuova Internazionale.

Molti di quei partiti socialdemocratici di sinistra, pur conservando quei caratteri che li destinano ad essere complici della borghesia e sabotatori del supremo sforzo proletario, così come i più canagliescamente reazionari dei partiti social-democratici di destra, anzi in maniera più insidiosa, si proponevano di insinuarsi nella III Internazionale per svalutarne il contenuto e il carattere.

Nello stesso tempo molti elementi di questa specie erano effettivamente entrati nelle file della III Internazionale come minoranze di partiti che avevano nella loro maggioranza adottato il programma comunista, ma non realizzata la separazione dai socialdemocratici.

Questa situazione rese necessaria la convocazione del secondo Congresso della Internazionale che, mentre il primo tenuto a Mosca nel marzo 1919 aveva stabilito le basi costitutive programmatiche, doveva provvedere alle necessità di organizzazione e al disciplinamento di tutti gli elementi che nella Internazionale intendevano entrare a far parte, per una compatta e sicura azione internazionale. Perciò fra tutti i problemi affrontati dal Congresso di Mosca, fra tutte le risoluzioni adottate, stanno in prima linea le tesi sulle condizioni di ammissione dei Partiti nella Internazionale, tesi che nel presente periodo devono in tutto il mondo essere tradotte in atto. Si trattava, dinanzi al pericolo della invasione dell'opportunismo nella III Internazionale, di stabilire dei criteri e delle norme precise per controllare il carattere di quei partiti che domandavano di aderire, o avevano già aderito alla Internazionale, ma che in realtà portavano in se stessi l'equivoco delle concezioni e della pratica socialdemocratica. Si tennero come punto di partenza quelle esperienze internazionali che noi abbiamo qui tratteggiate e si cercò di fissare i caratteri che un partito deve presentare nelle sue concezioni e nella sua pratica per dar garanzia di essere capace di azione rivoluzionaria e di non presentare il pericolo di agire nella fase critica rivoluzionaria come elemento di conservazione, o almeno di spezzarsi in un momento così grave in due opposte parti, di cui l'una si schieri dal lato del potere borghese tentando di risolvere la rivoluzione nell'equivoco di forme socialdemocratiche, l'altra rimanga disorientata e incapace di inquadrare e dirigere le masse nella realizzazione della dittatura proletaria.

Problema, dunque, internazionale per sua natura. Chi nega che esistano delle caratteristiche storiche che si ripetono in tutti i paesi, soprattutto dopo la guerra mondiale, e costituiscono le basi della dottrina e della pratica del movimento comunista volto dovunque ad uno stesso scopo supremo, la rivoluzione mondiale - nega la ragione d'essere della Internazionale, ripudia le sue finalità e, ove non ne esca, rivela di essere un esemplare di quel fenomeno opportunista, per cui si resta nelle file di essa al solo scopo di snaturarne il carattere essenziale.

Tutto ciò che è scritto nelle 21 condizioni deve avere valore internazionale. Tutte le particolarità proprie di ciascuna nazione, che nessuno contesta, dovevano restare e sono restate fuori delle condizioni d'ammissione. Se una di queste fosse inadatta ad uno o più paesi, vuol dire che erroneamente sarebbe stata scritta nel 'codice' internazionale dei 21 punti, e non bisognerebbe chiedere una trasgressione, ma la soppressione di essa.

Non esaminò forse il congresso, dopo la deliberazione delle condizioni di ammissione che sono di applicazione generale e internazionale, le differenze secondarie delle situazioni da paese a paese, consacrando i risultati di tale studio nelle tesi sui 'Compiti principali della Internazionale Comunista' tra le quali vi sono quelle di cui ciascuna si occupa di un dato paese?

È poi sciocco pensare che le 21 condizioni siano state ispirate alle speciali caratteristiche della situazione russa, e siano perciò inapplicabili in altri paesi! Esse non furono scritte dai russi. Furono proposte da Zinovieff, ed attraverso una discussione, che fu la più esauriente e soddisfacente del congresso, in contraddittorio cogli opportunisti tedeschi e francesi (e coll'avvocato dell'opportunismo italiano, Serrati), furono vagliate, emendate, modificate, completate, e soprattutto rese più aspre, dalle proposte di compagni d'ogni paese, ed anche italiani, accettate dalla unanimità del congresso.

Ma vi è di più. Le 21 condizioni non potevano esser dettate da preoccupazioni russe, perché non servono per la Russia, non devono applicarsi alla Russia, ma ad altri paesi. In Russia il partito aderente alla Internazionale è così bene organizzato da essere al sicuro dall'opportunismo. Le condizioni, quasi tutte, si riferiscono a partiti comunisti che ancora non hanno conquistato il potere (vedi quelle sull'azione illegale, il parlamentarismo, la lotta contro i bonzi sindacali, ecc. ecc.).

Gli avvenimenti posteriori al Congresso di Mosca dimostrano come l'applicazione delle 21 condizioni si riveli in ogni paese fattibile ed efficace, e come la supposizione che il Comitato Esecutivo di Mosca applichi non imparzialmente le condizioni stesse ad ogni paese, si riduca ad una insinuazione, in quanto in Germania, in Francia, in Svizzera, in Italia, le richieste dell'Esecutivo sono le medesime e rappresentano la energica ma fedele esecuzione dei deliberati del Congresso.

Anche un altro fenomeno suggestivo viene a riconfermare la bontà del metodo che il Congresso sanzionava. Ovunque la campagna contro il comunismo diventa la campagna contro le 'condizioni di Mosca', contro l'accentratrice disciplina internazionale, per l'autonomia dei partiti nazionali nel valutare le specifiche condizioni del loro paese; ma ovunque gli argomenti recati a sostegno di questa opposizione locale ad applicare le formule internazionali di Mosca consistono nei medesimi sofismi, dimostrando così che le 21 condizioni sono genialmente appropriate a tutti i paesi, avendo in tutti i paesi sollevato contro la loro esecuzione la crociata internazionale dell'opportunismo, anziché essere qui accettate, là respinte per ragioni meramente locali.

In contrapposto a ciò in ogni nazione la parte sana e cosciente del movimento rivoluzionario, riconoscendo in esse una formidabile arma di chiarificazione e di dispersione d'ogni equivoco, si batte concorde per le 21 condizioni. Esse dunque hanno mirabilmente servito a polarizzare, pro o contro, i comunisti capaci di disciplina internazionale e di combattività rivoluzionaria, e gli opportunisti che si riempiono la bocca di frasi di adesione ai principi comunisti, ma stillano il fiele delle impotenti obiezioni disfattiste contro la saldezza severa dell'organizzazione internazionale, contro le sue prescrizioni, contro gli uomini che ne stanno a capo, coi quali si può, ove se ne abbia l'animo, altamente e serenamente discutere, ma contro i quali chi invelenisce rivela di essere chiamato a passare nei ranghi ignobili degli agenti della borghesia.

Il significato della applicazione delle 21 condizioni è il risanamento della Internazionale nella divisione tra comunisti e social-democratici - base fondamentale per la soluzione di tutti gli altri ardui problemi della rivoluzione; è il taglio netto in quei partiti che ancora portano nel seno l'equivoco, la sconfessione delle tendenze che si contrappongono ai principi e al metodo comunista. Chi ciò non intende, e a ciò si oppone, passa con tale atto nelle file di coloro che devono essere scacciati dalla Internazionale.

In un ulteriore capitoletto si ripercorre il cammino del partito socialista in Italia per mostrare come sia immeritata la rinomanza che esso si è fatta per non aver aderito alla guerra imperialistica (senza però sabotarla) e per aver dato la propria adesione alla III Internazionale all'atto della sua costituzione. È proprio facendosi forte di questi meriti usurpati che il centrismo provvede al salvataggio del riformismo sotto il pretesto di assicurare l'unità e l'efficienza del partito per la rivoluzione e, ancor più, per il post-rivoluzione. I due successivi capitoletti possono leggersi come efficace sintesi del corso di avvenimenti illustrato sia nei vol. I e II di questa Storia, sia nel cap. II del presente volume.

5) Le esperienze storiche della lotta di classe in Italia.

Venendo ora ad esaminare più direttamente le questioni che riguardano il movimento socialista italiano, ci proponiamo di dimostrare che dai precedenti e dalle esperienze proprie del nostro partito si devono trarre le medesime conclusioni a cui ci hanno condotto le indicazioni della situazione internazionale.

Il movimento delle tendenze e la soluzione dei problemi tattici nel Partito Socialista Italiano prima della guerra presentavano notevoli differenze con quanto avveniva in molti altri partiti della II Internazionale.

Fino al 1911 anche il partito italiano scendeva precipitosamente sulla china del riformismo e della collaborazione di classe, verso la partecipazione ministeriale. Una corrente di sinistra esisteva però nelle sue file: essa fu tra l'altro galvanizzata dal pericolo che il Partito si compromettesse definitivamente con l'adesione alla impresa guerresca in Libia (e questa era, al tempo stesso, una nube foriera della tempesta bellica che si addensava sull'Europa e che la politica italiana precipitò nei Balcani).

Al Congresso di Reggio Emilia nel 1912 l'indirizzo riformista e possibilista veniva battuto dalla Frazione 'Intransigente rivoluzionaria', che otteneva la espulsione dei deputati che avevano compiuto atti di riconoscimento del regime borghese monarchico e di adesione alla guerra di Tripoli. Assorbito nella tempestosa discussione di queste espulsioni il Congresso, dopo l'appello nominale, dava per approvato l'ordine del giorno Lerda nel quale era condensato l'atteggiamento teorico e tattico della frazione rivoluzionaria. Tra le altre cose era affermata la incompatibilità della permanenza nel partito di coloro che ammettevano la partecipazione al potere in regime borghese.

Questa formula non venne però applicata.

I riformisti possibilisti del Partito si dividevano allora in due correnti: i riformisti di destra, Bissolatiani, che sostenevano l'immediata partecipazione al potere in un ministero democratico; e i riformisti di sinistra, Turatiani, che non negavano per principio una simile tattica, dichiarando però che nella situazione contingente di allora non era il caso di ricorrervi, che bisognava invece seguire quell'atteggiamento intransigente sostenuto per ragioni teoriche dalla sinistra del Partito. Furono soltanto i primi ad essere allontanati.

Tuttavia il Partito continuava la sua evoluzione a sinistra nel successivo Congresso di Ancona dell'Aprile 1914 estendendo la tattica intransigente alle elezioni amministrative e ai ballottaggi, ed affermando la incompatibilità dei massoni col Partito Socialista. Questi precedenti, che valsero a porre il Partito in una situazione più vantaggiosa dinanzi al divampare della guerra europea, non saranno certamente da noi misconosciuti. Essi erano l'indizio sicuro di un orientamento sempre migliore del Partito nel senso del marxismo rivoluzionario, e rappresentavano il risultato di una critica delle ideologie democratiche e del pericolo che il pensiero socialista fosse assorbito da queste, mentre la lotta di classe si sarebbe sempre più illanguidita in un'opera di conservazione riformistica degli istituti del capitalismo.

Nello stesso tempo il partito andava prendendo una posizione abbastanza chiara di fronte alla questione del nazionalismo e dell'imperialismo sollevata dalla guerra di Libia ed anche di fronte alla concezione del nazionalismo democratico, attraverso la critica delle continue esaltazioni fatte dai partiti democratici delle tradizioni del risorgimento nazionale e attraverso l'opposizione all'irredentismo antiaustriaco.

Noi crediamo che date le esperienze storiche di quell'epoca il Partito Italiano fosse abbastanza innanzi nella critica degli errori revisionisti e democratici dilaganti nella maggioranza della II Internazionale, ed ai quali si deve l'attitudine di questa dinanzi allo scoppio della guerra europea.

Tuttavia la posizione presa in tale circostanza dal Partito Socialista Italiano non deriva soltanto da queste ragioni. Occorre tener presente che l'Italia non fu travolta improvvisamente dalla guerra, ma visse un periodo di 9 mesi di neutralità, durante il quale il campo borghese era diviso fra i partigiani dell'uno e dell'altro aggruppamento mondiale degli Stati in conflitto. L'intervento in guerra apparve cosi evidentemente come una iniziativa del governo borghese italiano, che a questo non fu possibile crearsi il noto alibi della difesa nazionale. Nonostante tutto questo, è certo che, se la minoranza riformista del Partito avesse potuto seguire le sue tendenze, avrebbe tenuto un atteggiamento ben diverso da quello che le fu imposto, attraverso grandi sforzi, dalla maggioranza intransigente del Partito. Da qualche capo riformista venne il tentativo di proporre l'astensione invece del voto contrario ai crediti di guerra in Parlamento. In una relazione ufficiale della Direzione del Partito del 30 settembre 1917 firmata da Lazzari è stampato che 'riuscimmo a convocare, nonostante la decisa opposizione di qualche nostro compagno, la conferenza di Zimmerwald del 6-8 settembre 1915'. Oggi naturalmente tutti vantano una decisa opposizione… alla guerra.

Gli elementi riformisti del Partito fecero ogni sforzo per far prevalere la tesi del fatto compiuto, dell'opera di croce rossa civile che il Partito doveva limitarsi ad assolvere durante il periodo delle ostilità; attraverso la loro influenza e predominanza nel gruppo parlamentare, nelle grandi amministrazioni, nei sindacati economici, mentre facevano continue manifestazioni semipatriottiche dissenzienti dall'indirizzo del Partito, premettero sempre sulla Direzione, che lasciava loro troppa autonomia, conducendola a rettificare il suo tiro verso destra.

Già dal principio del 1917 si organizzava nel Partito una corrente di opposizione alla politica della Direzione compendiata nella formula famosa: 'né aderire né sabotare la guerra'.

Ma la Direzione era sempre più influenzata dalla struttura fondamentalmente social-democratica del Partito che, secondo i caratteri tradizionali della II Internazionale, era rappresentato in realtà dai leaders parlamentari e sindacali. Tutti gli atti e i manifesti erano firmati da tre organismi: Direzione del Partito, Gruppo parlamentare, Confederazione del Lavoro. In uno di questi, datato da Milano, 12 aprile 1917, possono leggersi le stupefacenti affermazioni che il carattere imperialistico della guerra mondiale era stato cambiato dal fatto della rivoluzione russa (interpretata come una rivoluzione democratica in guerra con gli Imperi Centrali), e dall'intervento dell'America di Wilson 'in coerenza al primo messaggio' per affrettare la pace; essendosi trasformata l'Intesa imperialistica in 'un'alleanza di Stati dominati dallo spirito rinnovatore e democratico Russo-Americano!'. Poco dopo in un secondo convegno a Milano il Partito, preso da una fobia che lo coglie a decorso ciclico, cioè la previsione di un colpo di Stato rivoluzionario di fazioni borghesi, lancia un programma d'azione ridicolmente riformistico, che ancora oggi l'estrema destra vanta logicamente come espressione del proprio pensiero.

Ma, tralasciando molte altre cose, contentiamoci di ricordare quanto avvenne allorquando, dopo la disfatta dell'ottobre 1917, il territorio nazionale veniva invaso largamente dagli eserciti tedeschi. I parlamentari socialisti moltiplicarono le manifestazioni patriottiche, esaltarono la difesa della patria, non solo nel celebre discorso Turati, ma altresì nelle dichiarazioni fatte a nome del partito da Prampolini. Senza l'energica azione della sinistra del partito, od anche se la situazione militare si fosse di poco aggravata, la più gran parte del gruppo parlamentare avrebbe defezionato e partecipato a un Ministero di difesa nazionale. Questo evento, contro il quale allora noi lottammo disperatamente, avrebbe invece, come giustamente dice il compagno Trotsky nel suo libro Terrorismo e Comunismo, rappresentato una condizione favorevole per lo sviluppo del movimento rivoluzionario in Italia.

Il Partito Socialista Italiano usciva dunque dalla guerra con una grande rinomanza internazionale, ma con una critica situazione interna, per la quale le sue migliori energie erano destinate ad esaurirsi in continui conflitti tra le due opposte mentalità che vivevano nel suo seno. Era uno dei migliori partiti della vecchia Internazionale, ma questo fatto, che voleva dir molto nel 1914, voleva dir ben poco all'aprirsi del travagliato periodo del dopoguerra nel quale dovunque si concretavano i nuovi partiti Comunisti per raggrupparsi nella nuova Internazionale.

Nel Congresso tenuto in fine del 1918 il partito avvertì la necessità di scindersi sul problema della difesa della patria, ma la Frazione massimalista che questa necessità sosteneva fu ancora una volta troppo debole e si lasciò giocare dai capi della destra.

Il partito portò così attraverso la guerra la sua vecchia struttura e la sua abitudine e attitudine ad agire soltanto in una pratica conforme alle antiche condizioni di vita normale del capitalismo per sempre sconvolte dalla guerra.

Esso rimase sostanzialmente un 'Partito del Lavoro' e la sua direzione estremista, nel primo travagliato periodo di dopoguerra, si ridusse ad un comitato di agitazione politica che, quando si trattava di svolgere una qualunque azione, doveva venire a patti con la ingombrante impalcatura parlamentare e sindacale, e finiva col soggiacere al peso morto delle tradizioni per cui il compito del partito, malgrado le minacce rivoluzionarie, si riduceva a quello di acquietare e risolvere le spontanee agitazioni che la crisi del dopoguerra suscitava tra le masse proletarie.

La revisione dei valori socialisti nel senso rivoluzionario determinata dai riflessi della rivoluzione russa non poteva non trovare in Italia un terreno particolarmente favorevole, ed infatti così nel partito come nel proletariato si diffuse rapidamente, se pure in forma di coscienza poco precisa, l'entusiasmo per la rivoluzione russa e per le parole d'ordine che essa lanciava nel mondo: dittatura proletaria, sistema dei Soviet.

Quasi a provare che in realtà il movimento socialista italiano conservava tutte le caratteristiche di quello degli altri partiti tradizionali, si determinò nello stesso tempo nel suo seno una larga e vivacissima corrente avversa al programma massimalista e alle realizzazioni comuniste della Rivoluzione russa.

Questa corrente resisteva con tutte le sue forze all'accettazione del programma Comunista e all'adesione alla III Internazionale, consacrate la prima in una decisione della Direzione del Partito del Novembre 1918, la seconda in un deliberato del Marzo 1919. L'opposizione a questo indirizzo raccolse non solo tutta la corrente riformista, ma anche la destra dell'antica Frazione intransigente rivoluzionaria, rappresentata nella Direzione dal compagno Lazzari, la quale intendeva attenersi al vecchio programma del 1892, ispirato a criteri socialdemocratici, anche se interpretato nel senso di una rigorosa intransigenza.

Le manifestazioni di un indirizzo avverso a quello del comunismo internazionale furono frequentissime ed evidenti, e si estrinsecarono in discorsi parlamentari, in vivaci polemiche sui giornali e giornaletti riformisti tra cui la rivista di Turati, la Critica Sociale, e in tutto un atteggiamento contrastante a quello del partito assunto dalla Confederazione del Lavoro, mentre la tattica del gruppo parlamentare non solo non presentava accentuazioni in senso rivoluzionario, ma volgeva verso un larvato appoggio al ministero Nitti, costituito da elementi borghesi che erano stati in massima avversi all'intervento in guerra. Per tornare alla Confederazione, che aveva stipulato col partito un patto d'alleanza secondo il quale si riservava la direzione dei movimenti economici lasciandogli quella dei movimenti politici, questa, che non ha mai abbandonato il proprio intendimento di funzionare come un vero partito del lavoro, elaborava in un suo convegno tutto un programma schiettamente politico socialdemocratico, spargendo tra le masse direttive anti-massimaliste, annunziando una sua agitazione per la Costituente e per altri postulati riformistici.

Giova aggiungere che rimonta a quest'epoca l'appoggio del compagno Serrati alla politica confederale, e le sue riserve ai principi comunisti possono rintracciarsi in vari articoli che egli scriveva sotto pseudonimi nell'Avanti! allorché era ancora in prigione a Torino, dichiarandosi per la tesi della Costituente.

Tuttavia Serrati apparve come il capo della frazione Massimalista quando questa si misurò nel congresso di Bologna (ottobre 1919) colle tendenze di destra.

È noto il risultato del congresso. La frazione Massimalista raccoglieva una stragrande maggioranza contro la mozione dei centristi (Lazzari) su cui la destra riformista concentrava abilmente i propri voti e contro una piccola minoranza astensionista. Il programma del partito veniva cambiato, l'adesione alla III Internazionale veniva solennemente riconfermata, ma il partito conservava integralmente la sua unità con l'affermazione che la minoranza di destra avrebbe accettato la totale disciplina nell'azione al programma comunista e rivoluzionario.

Tutta la posteriore azione del partito si imperniò su questo equivoco iniziale, di pretendere di sanare con la disciplina l'incompatibilità tra opposte concezioni programmatiche, ciò che è nel più stridente contrasto così con il concetto marxista del partito che col significato ed il valore del rinnovarsi del movimento proletario nella III Internazionale.

Gli avvenimenti posteriori al congresso di Bologna confermano come la funzione del Partito Socialista nella vita politica italiana rimanesse la medesima. La chiarificazione dei principi comunisti e la loro diffusione con la propaganda tra le masse si svolsero in modo caotico, ostacolate dalla costante opposizione e dall'ostruzionismo svolto dalla destra del partito. Come di regola questa continuò ad avere una parte preponderante in tutti i mezzi d'azione del partito, che conservarono quindi le loro tradizionali caratteristiche. Le elezioni generali politiche del novembre 1919 riportarono i riformisti alla direzione del gruppo parlamentare, anche se apparentemente essi non vi avevano la maggioranza numerica. Nessuna seria azione venne intrapresa per togliere dalle mani dei riformisti il timone delle grandi organizzazioni sindacali. Ai massimalisti, tra i quali figuravano molti comunisti per occasione e per arrivismo personale, rimaneva la Direzione del partito, ma quale opera rivoluzionaria questa poteva svolgere non avendo la possibilità di controllare seriamente l'opera delle organizzazioni sindacali e delle rappresentanze elettive?

Resta ai comunisti gran parte della stampa di partito, ma quale efficacia ha questa, quando il vincolo unitario la costringe ad avallare quotidianamente tutta l'opera minimalistica dei politicanti e dei capi sindacali iscritti al partito?

In tutti gli episodi culminanti della lotta di classe, prima e dopo il Congresso di Bologna, quando la crisi economica trascinava le masse operaie in vaste agitazioni, l'opera del partito rivelò sempre le stesse incertezze, le stesse esitazioni, determinate dallo scontrarsi di due tattiche opposte, durante le diatribe tra le quali le azioni si esaurivano e si spegnavano tra la delusione e il dispetto della masse.

In questi episodi non solamente la corrente di destra era sicura di far prevalere il proprio gioco, ma aveva dopo la possibilità di svalutare la tendenza massimalista approfittando del contrasto esistente tra le sue affermazioni verbali e i risultati che traeva dall'azione.

Ricordiamo i grandi scioperi di molte categorie e specie dei pubblici servizi, i moti contro il caro viveri e lo sciopero del 20-21 luglio 1919, l'agitazione dei metallurgici piemontesi nell'aprile 1920 e quella generale metallurgica del settembre, tutti episodi nei quali quelle caratteristiche si ripeterono con evidenza. La conseguenza fu che le grandi masse proletarie andarono progressivamente perdendo la fiducia nel partito, ed in parte si volsero al movimento anarchico ed alla sindacalista Unione Sindacale, a cui mancava però la possibilità di incanalarle in una vasta preparazione rivoluzionaria, che solo i metodi del movimento internazionale comunista possono assicurare.

Il partito socialista italiano dette cosi prova della sua impotenza rivoluzionaria, e la borghesia imparò gradualmente a non temerne le minacce, intraprendendo una audace controffensiva ideale e materiale contro la 'invasione del bolscevismo'.

Il capitoletto dedicato alla situazione politica in Italia si sofferma non tanto sulla critica delle obiezioni dei riformisti alle prospettive di rivoluzione proletaria quanto sulla valutazione di esse come sintomi infallibili di una opposizione di fatto all'affermarsi della rivoluzione, e sulla dimostrazione del ruolo oggettivo svolto dal massimalismo a favore della socialdemocrazia e contro la preparazione rivoluzionaria. Al centrismo massimalista non si rivolge quindi il banale ma comune rimprovero "di aver perduto le occasioni rivoluzionarie", ma l'accusa ben più fondata di aver lasciato la classe operaia, "all'indomani di ciascuna di esse, più disorientata, smarrita e sfiduciata nei suoi organi direttivi". Finché "la borghesia e il suo governo potranno neutralizzare le tendenze rivoluzionarie con la loro politica verso la destra del partito e con l'interposta influenza di questa", l'esistenza di uno scisma nel PSI nascosto dietro la facciata dell'unità costituisce "la miglior garanzia di conservazione borghese". Di qui la necessità, per le sorti della rivoluzione, di un taglio radicale sia dalla destra sia dal centro che la protegge e nello stesso tempo ne è protetto (e si noti come il giudizio sulle vere responsabilità riformiste e massimaliste nei confronti del moto di occupazione delle fabbriche collimi esattamente con quello da noi formulato a posteriori nel paragr. 5 del capitolo II, più sopra).

6) L'attuale situazione politica in Italia.

Attraverso gli avvenimenti che abbiamo accennati andò sempre più diffondendosi fra gli elementi di sinistra del partito nei quali si elaborava una migliore coscienza comunista la necessità di un rinnovamento profondo della politica del partito così come era uscita dal Congresso di Bologna.

Manifestazioni di questa tendenza si ebbero, oltre che da parte dei comunisti astensionisti, dal movimento formatosi intorno ai comunisti torinesi dell'Ordine Nuovo, da parte della gioventù socialista e di gruppi sparsi in tutto il partito, di cui una prima affermazione concreta si ebbe al Convegno di Milano nell'aprile 1920 su un ordine del giorno Misiano, mentre dissensi si accentuavano nel lavoro parlamentare e in quello delle organizzazioni.

Il punto di vista della sinistra italiana trovò valido appoggio nelle decisioni prese al Congresso di Mosca. Questo si occupò a fondo della questione sulla base di un vasto materiale di informazioni sostanzialmente corroborato dalle relazioni e proposte di quattro su cinque dei delegati italiani e contro la vana opposizione del solo Serrati.

Su queste basi si fondano il lavoro della attuale nostra Frazione comunista, il suo giudizio sulle deficienze del movimento italiano e le sue proposte per il rinnovamento di esso.

Noi affermiamo che i molteplici difetti della azione proletaria in Italia derivano dal fatto che, appunto per l'atteggiamento che il partito ha potuto tenere durante la guerra, è stato da noi paralizzato quel processo attraverso cui si giunge alla costituzione di un partito di classe rivoluzionario che abbia quei caratteri da noi ampiamente svolti più sopra. Noi affermiamo che la destra attuale del nostro partito, molto più estesa di quello che numericamente non appaia, ha precisamente gli stessi caratteri di quel movimento social-democratico che in altri paesi ha rappresentato il gerente della controrivoluzione.

Oggi si è in Italia nella prima fase in cui la socialdemocrazia tenta di assorbire il movimento di avanguardia e di monopolizzare la direzione delle masse. In questo periodo le manifestazioni social-democratiche si riducono alla critica del metodo rivoluzionario, a mezzo di argomenti e di obiezioni comuni ai riformisti di tutti i paesi. Ma appunto la natura di tali critiche, e l'abile politica opportunista che ad esse si accompagna finche il movimento social-democratico ha la possibilità di non differenziarsi da quello della III Internazionale, ci confermano che sono questi elementi che domani, quando l'esplosione rivoluzionaria non si potrà più trattenere e la separazione avverrà violentemente, si manifesteranno come gli alleati della controrivoluzione.

Questa corrente riformista contesta non solo la necessità, ma la possibilità stessa della rivoluzione mondiale, falsificando i concetti marxisti con l'affermare che quando l'ingranaggio economico del capitalismo è rovinato e immiserito, mancano le condizioni per lo svilupparsi degli ordinamenti socialisti. Il riformismo negava anche che le condizioni della rivoluzione esistessero alla vigilia della guerra per le ragioni perfettamente opposte, ossia per la ricchezza e la floridezza del capitalismo!

Nel concetto marxista della rivoluzione le condizioni economiche per la possibilità di una economia socialista sono contenute in certi elementi del sistema capitalistico che esistono da molto tempo e che la guerra non ha certo distrutti: la diffusione dei sistemi di produzione basati sulla moderna tecnica industriale e la loro superiorità rispetto a processi che si svolgono in unità produttive meno complesse. Le condizioni politiche che risiedono nel grado di coscienza e di forza del proletariato si raggiungono pel fatto che lo sviluppo del sistema capitalistico determina profondi urti e contraddizioni, crisi complesse nelle quali le condizioni di disagio delle masse le spingono a trovare la via per infrangere gli attuali rapporti di produzione. L'attuale situazione del dopoguerra, in Italia come negli altri paesi progrediti più o meno ma entrati nella piena epoca capitalistica, contiene le condizioni economiche per l'inizio della costruzione di un apparato comunista della produzione, e sviluppa le condizioni politiche spingendo il proletariato verso la formazione di quella capacità a dirigere la macchina sociale che la classe dominante va sempre più perdendo.

I riformisti affermano che il proletariato italiano non potrebbe assumere il potere nel cuore di un mondo capitalistico che lo soffocherebbe col blocco economico e lo schiaccerebbe con l'azione militare. A ciò si risponde, oltre che col mostrare come sia artificiale la esagerazione di tutte le difficoltà, col fatto che la rivoluzione italiana si inserirà nella rivoluzione mondiale rappresentando il punto di passaggio di essa dall'oriente all'occidente, e forse integrando la sua comparsa in tutto il centro d'Europa, poiché se una situazione è specifica della rivoluzione russa, essa consiste nelle condizioni geografiche che hanno permesso di recluderla per tre anni al di là di una insormontabile barriera che oggi si rivela ormai impotente a contenerla. Ma più che confutare le obiezioni dei riformisti interessa valutarle come sintomi infallibili della loro opposizione di fatto all'affermarsi della rivoluzione allorché essa si manifesterà.

Alla previsione di una inevitabile crisi rivoluzionaria i riformisti nostrani contrappongono quella di certi diversi sviluppi che in realtà sono completamente illusori ed utopistici, e avanzano proposte non meno caratteristiche dei controrivoluzionari di ogni paese.

È notevole come una parte degli stessi riformisti italiani escluda la possibilità di tracciare una soluzione che non sia l'aspettazione negativa del dissolvimento borghese. Questo sarà forse, molto forse, un elemento innocuo del riformismo. Il grosso della frazione che si è adunata a Reggio Emilia ha invece tracciato il suo programma politico di azione nell'andata al potere, senza uso della violenza e senza uscire dalle forme democratiche. La impossibilità che una tale prospettiva si realizzi al di fuori di questo dilemma: o si va al potere contro il consenso della borghesia, ed allora bisogna prepararsi a strapparle le unghie e i denti poiché anche chi non può più governare può efficacemente sabotare il governo altrui; o si va col consenso della borghesia e senza quindi intaccare tutto il suo apparato di difesa, e allora non si potrà operare contro i suoi interessi, ma solo indicarle le soluzioni più intelligenti per farli sopravvivere evitando quella rivoluzione a cui si sarà avversi ed impreparati.

È una prospettiva che non vale la pena di essere discussa poiché oltre che alla logica ed alla dottrina marxista contraddice assolutamente alle esperienze da noi universalmente dimostrate. Interessa occuparsi di un simile programma per ricordare come il perseguire un obiettivo assurdo, storicamente sia caratteristico dell'opportunismo socialdemocratico e prepari una situazione in cui, quando il dirompere della crisi disperderà la possibilità di quell'obiettivo, esso sopravvivrà soltanto nel programma di governare con la borghesia e per la borghesia, alleandosi ad essa nell'azione contro il proletariato rivoluzionario.

Adunque esiste in Italia la corrente specificamente socialdemocratica. Essa non fa neppure un mistero di voler realizzare il suo programma impegnando a questo tutto il partito, di voler restare nella III Internazionale, ma per indurla a retrocedere dalle posizioni raggiunte.

E il pericolo più grande sta nel fatto dell'esistenza di una frazione di centro del partito che si dimostra insensibile a queste indicazioni della situazione, e che pretende di essere coerente ai principi fondamentali del comunismo e della III Internazionale quando afferma di voler conservare l'unità del partito.

Dopo quanto abbiamo ampiamente premesso è superfluo passare in rassegna tutte le obiezioni degli unitari, essendo evidente che esse contraddicono ai risultati della esperienza rivoluzionaria comunista in riguardo alle caratteristiche dello sviluppo rivoluzionario, al compito del partito comunista e al contegno delle correnti socialdemocratiche opportunistiche, tutte questioni da noi qui richiamate e che dovrebbero essere tra comunisti materia pacifica.

Così l'affermare che la scissione del partito avverrà in un momento critico, ma che non occorre precipitarla oggi, significa rinunziare alla caratteristica fondamentale del partito politico di classe che dev'essere quella di prevedere e di provvedere per le situazioni che si preparano, rinunziare alla sua omogeneità programmatica che sola gli dà la possibilità di una efficace preparazione ideale e materiale delle lotte proletarie.

Accampare poi come un pericolo la prospettiva di perdere le posizioni detenute dall'attuale partito, nei sindacati, nelle cooperative, nei comuni, nel parlamento, significa nulla intendere della differenza tra il valore che simili mezzi di azione hanno nella vecchia funzione gradualistica propria dei partiti della II Internazionale, e nella loro dinamica utilizzazione per i fini del comunismo; significa fare di quegli organismi e di quelle attività particolari fini a se stessi e non mezzi ed occasioni per un lavoro di preparazione rivoluzionaria, significa lasciare tutti quegli elementi alla funzione conservatrice e sterile tradizionale per paura di poterne utilizzare troppo pochi per la causa della rivoluzione.

Anticipare le preoccupazioni della ricostruzione economica rispetto a quelle della conquista politica del potere e della sua difesa dalle molteplici insidie della controrivoluzione significa ancora non avere la coscienza degli sviluppi rivoluzionari propria dell'Internazionale Comunista, e cadere nel grossolano equivoco delle realizzazioni economiche prospettate nella necessaria loro gradualità come uno schermo per dissimulare la necessità che il potere politico passi tutto in una volta da una classe all'altra, ricadere nella più volgare insidia del riformismo.

Che diremo dell'asserzione che in Italia non vi sono socialdemocratici né riformisti? Essa cade dinanzi alla nostra esposizione precedente come la più fallace delle affermazioni gratuite. Ove anche fosse possibile sostenere che non vi sono social-patrioti, il che nemmeno è vero, neppure la prima affermazione, per le ragioni da noi già dette, risulterebbe minimamente fondata.

E ci si attribuisce ancora, con argomentare risibile, l'opinione che i riformisti del partito e della Confederazione del Lavoro abbiano, nei vari episodi da noi ricordati, impedita la rivoluzione, che senza di essi sarebbe già cosa fatta! Con queste e simili sciocchezze si vorrebbe dipingere i comunisti come volontaristi, miracolisti della rivoluzione.

La nostra interpretazione del determinismo marxista ci conduce invece a stabilire ben altrimenti così la funzione dei comunisti come quella dei socialdemocratici nello sviluppo rivoluzionario. Né la volontà dei primi crea il fatto rivoluzionario, o ne stabilisce a priori il giorno e l'ora, né quella dei secondi può impedire e soffocare lo scoppio supremo quando tutte quelle condizioni che sono superiori alla volontà umana lo determinano.

I comunisti hanno la funzione di prospettare alle masse la inevitabilità della rivoluzione, e quindi su tale base possono e devono attraverso la preparazione ideale e materiale accumulare le condizioni per cui aumentino le probabilità di vittoria del proletariato, e questo si presenti alla lotta suprema più agguerrito, con il partito di classe pronto a dirigerlo, e tecnicamente preparato a tutte le esigenze dell'azione rivoluzionaria. I riformisti e i socialdemocratici invece, affermando alle masse la evitabilità o la impossibilità della rivoluzione, le lasciano impreparate a quella crisi suprema che l'opera loro non può evitare, e quando essa si determina non solo il proletariato per la opera loro passata è in condizioni che lo condurranno più facilmente ad essere sconfitto dalla forza borghese, ma essi stessi passano a dare a questa forza il loro sostegno.

Quale opera esercita un partito in cui gli uni e gli altri sono mescolati? Quella di ritardare l'inizio di una sicura preparazione rivoluzionaria e di paralizzare l'opera della sinistra, mentre quella della destra si svolge nelle migliori condizioni in quanto consiste non nella elaborazione riformistica che le circostanze storiche rendono irrealizzabile, ma nella resistenza passiva alle tendenze rivoluzionarie, che tende a mutarsi, quando ogni altro mezzo fallisce, in resistenza attiva.

Se il metodo social-democratico, nella sua ampia e persistente applicazione nel mondo capitalistico dell'anteguerra costituì indubbiamente un coefficiente ritardatore della crisi rivoluzionaria e prolungatore della possibilità di funzionare del sistema borghese - e di questo era in ciò d'altronde una necessaria fase -, nell'ambiente sociale del dopoguerra quell'influenza è resa impossibile e quel metodo non ha altra applicazione positiva che nella difesa aperta del potere borghese, e assolve direttamente il compito che prima indirettamente assolveva.

Ma se il movimento comunista prima della guerra poteva concepirsi con funzioni prevalentemente di critica di propaganda di proselitismo, oggi esso agisce in una situazione nella quale il problema rivoluzionario è nella sua piena maturità ed appare come problema di azione, come direzione di una guerra vera e propria tra la classe lavoratrice e il potere borghese.

Quale sia stata l'influenza del partito socialista italiano, negli ultimi episodi della lotta di classe, si giudica dunque non colla superficiale espressione di aver perduto le occasioni rivoluzionarie, ma colla constatazione inconfutabile che all'indomani di ciascuna di esse, invece di aversi migliori condizioni di preparazione del proletariato, questo si trovava più disorientato smarrito e sfiduciato dei suoi organi direttivi.

Così è avvenuto nell'ultimo vasto episodio dell'occupazione delle fabbriche. Si fa una colpa alla Direzione massimalista del Partito di non aver accettato una certa proposta della Confederazione del Lavoro di affidarle il movimento, di non aver voluto o saputo fare la rivoluzione, e non si vede che in questo sta la condanna della tesi unitaria, secondo cui un partito come l'attuale può essere capace di azione rivoluzionaria pel solo fatto di essere diretto da comunisti, tollerando la presenza dei non comunisti e gli attuali rapporti con i sindacati da loro diretti.

Ma quella proposta sta a dimostrare l'abisso che corre tra la concezione comunista dei rapporti tra partito e sindacati, e la condizione in cui ci troviamo in Italia; la fallacia della famosa tesi della disciplina dei non comunisti al partito. Questo deve poter disporre della possibilità di dirigere le masse nell'azione sindacale attraverso la disciplina incondizionata dei suoi membri che le dirigono, disciplina fondata sugli stessi intendimenti programmatici; inquantoché questi dirigenti possono dare il loro contributo alle decisioni del partito come membri di esso, ma non possono rifiutarsi di applicarle all'azione dei sindacati. Naturalmente quando esiste un profondo dissenso programmatico i dirigenti sindacali anziché sostenere nel sindacato la decisione del partito, fanno sì che questo deliberi in modo autonomo, e si assicurano nei suoi organi la maggioranza per la loro tesi che è in minoranza nel partito. Viene così in evidenza come sia utopistico disciplinare l'azione di quelli che dissentono dal programma rivoluzionario e che si formano dei punti di appoggio fuori del partito, dandogli l'illusione di disporre dei sindacati e di altri organismi, ma preparando situazioni come quella del famoso convegno di Milano della Confederazione, in cui il partito viene battuto nel sindacato ad opera dei suoi aderenti. L'offerta di ritirarsi e cedere alla direzione del partito il movimento e le organizzazioni non sana certamente l'indisciplina; essendo indispensabile poter contare sui dirigenti tecnici dei sindacati che unici possono diramare efficacemente ordini di movimento.

L'obiezione che non si poteva pretendere da costoro una azione contraria alla propria coscienza, si riduce alla confessione che, per il partito, avere i sindacati attraverso uomini che militano in una sua minoranza avversa al suo indirizzo programmatico è la stessa cosa che non averli, che non poter nemmeno cominciare a prepararne il funzionamento come coefficienti rivoluzionari. L'ultima agitazione prova dunque come non sia possibile azione rivoluzionaria sulle basi equivoche della attuale equivoca unità, attraverso la quale il partito nulla ha potuto fare per impedire la soluzione riformista e collaborazionista di quella agitazione; e la Direzione del partito non ha potuto trovare altra utile conseguenza che la constatazione della necessità di sanare gli errori del Congresso di Bologna, di separare le due anime conviventi nel partito.

Dopo che Giolitti ha potuto dallo scioglimento di questa crisi trarre argomento a dichiarare che non esiste in Italia movimento rivoluzionario, si afferma ancora, e da pretesi comunisti, che della scissione da noi invocata la borghesia trarrà vantaggio e compiacenza, incoraggiamento ad una più cruda reazione.

La borghesia italiana ed il suo destro capo di governo non hanno che a compiacersi di una constatazione di fatto, che anche un eventuale collettivo rimbambimento del partito tradotto nella onanistica forma di un voto di congresso non potrebbe cancellare: il partito proletario italiano è ridotto alla inazione dallo scisma che esiste nelle sue file e che è la migliore garanzia di conservazione borghese finché la borghesia ed il suo governo potranno neutralizzare le tendenze rivoluzionarie colla loro politica verso la destra del partito, e l'interposta influenza di questa.

L'approvazione e il consenso della stampa borghese seguono quindi logicamente l'opera della tendenza unitaria, e la compiacenza borghese cadrà per sempre dinanzi al fatto che la divisione del partito toglierà definitivamente ogni speranza nel grande colpo di scena, nella suprema risorsa della entrata in un ministero borghese dei capi parlamentari del partito proletario in una situazione decisiva; in quanto la parte rivoluzionaria del proletariato, liberandosi dagli elementi collaborazionisti e spingendoli verso la borghesia, ricostituirà la struttura dei suoi organismi di azione al di fuori di quell'antica insidia su cui la borghesia calcola come sulla sua ultima ratio.

La confutazione di tali obiezioni unitarie ha un solo efficace valore critico: dimostrare che esse sono di tal natura che coloro che le accampano perdono ogni diritto a dirsi e a chiamarsi comunisti, ad inserirsi nel grande movimento di pensiero, di critica, di organizzazione, di preparazione e di battaglia che innalza in tutto il mondo la invincibile bandiera del Comunismo.

Da quanto precede si desumono i compiti del prossimo Congresso, che sostanzialmente si riassumono nei punti elencati nella Mozione intesa a "dar nascita al Partito comunista, organo indispensabile alla lotta rivoluzionaria delle classi lavoratrici italiane, smascherando innanzi ad esso ed all'Internazionale i disfattisti aperti e subdoli della emancipazione proletaria" e così salvando tutto quanto v'era di meglio nei precedenti sviluppi della lotta di classe e nelle tradizioni dello stesso partito.

7) I compiti del Congresso Nazionale.

Dalla constatazione e dalla critica esauriente di così gravi deficienze deve desumersi il programma che i comunisti in Italia devono prefiggersi. Della realizzazione di tutto un simile programma di azione i risultati del presente Congresso Nazionale possono darci soltanto i sicuri fondamenti, restando ai comunisti italiani il compito severo di un vastissimo e tenace lavoro posteriore al Congresso.

Dalla deliberazione del Congresso si può però attendersi un sistema di provvedimenti che si compendi nella risoluzione da noi presentata e che si riporti alle decisioni principali del Congresso Internazionale di Mosca, rappresentando l'applicazione di esse alla situazione italiana.

Anzitutto il Partito deve confermare la sua adesione alla III Internazionale con la completa accettazione senza riserva alcuna delle ventuno condizioni di ammissione, con la chiara coscienza che esse gli prefiggono una vasta e laboriosa opera avvenire.

Il Partito deve darsi un programma comunista che senza inutile sfoggio dottrinale compendi in modo efficace, sicuro e chiarissimo quei principi che devono formare il credo dei comunisti, la linea direttiva del loro pensiero politico, prospettati nel loro valore categorico ed esclusivo in modo che essi non possano esser sinceramente sottoscritti da chi non ne condivida intimamente lo spirito, ma solo riconosca certe formule, figurandosele come una ipotesi improbabile.

Il nome del Partito deve essere cambiato in quello di Partito Comunista.

La parabola ignominiosamente descritta dal movimento che internazionalmente aveva adottato il nome di socialista ed il sorgere di una nuova organizzazione internazionale che a quello si contrappone in una irriducibile antitesi storica, hanno reso necessario il ritorno al classico appellativo che Marx ed Engels dettero al loro manifesto del 1847 il cui contenuto sopravvive trionfalmente alle tempeste della storia.

L'obiettare che il Partito Italiano fu meno intaccato dal processo di degenerazione che corruppe gli altri partiti socialisti, non è un argomento serio quando sia dimostrato che non per questo il partito italiano non ha conservato in sé i caratteri essenziali che determinarono quel dissolvimento. Inoltre si tratta di una categorica condizione dell'Internazionale.

Ma soprattutto dal congresso deve uscire la separazione definitiva dei comunisti dai socialdemocratici. Nella nostra mozione un simile processo è prospettato, a logica conseguenza degli argomenti da noi qui recati, come la esclusione dal Partito di tutta la frazione di Concentrazione, ed in genere di tutte le persone e gli aggruppamenti che attraverso la votazione di questo Congresso respingessero i principi e il programma comunista e l'accettazione dell'impegno di rispettare completamente e tradurre in atto le condizioni di ammissione alla Internazionale.

Questa operazione non si svolgerà con un tale meccanismo che se la nostra mozione avrà la maggioranza dei voti.

Ma il formarsi di una numerosa frazione che, mentre rivendica la adesione alle direttive comuniste, rifiuta disperatamente il distacco dalla destra, viene a modificare la situazione, ma viene anche a chiarificarla, viene a spostare sempre più a sinistra la linea che separa i due partiti ancora conviventi nel partito attuale.

Il compito di questo congresso si risolve nel dar nascita al Partito Comunista, organo indispensabile alla lotta rivoluzionaria delle classi lavoratrici italiane, smascherando dinanzi ad esse e dinanzi alla Internazionale i disfattisti aperti e subdoli della emancipazione proletaria.

Nella realizzazione di questi importantissimi capisaldi noi non siamo mossi soltanto da quella disciplina internazionale entusiasticamente accettata che mai dovrebbe far apparire come esecuzione di una imposizione gravosa l'obbedienza alle decisioni del supremo organismo comunista mondiale, ma noi siamo spinti esattamente sulla stessa via e alle stesse mète dalla libera convinzione collettiva che si riassume nel nostro orientamento teorico e tattico, ed anche nel contributo che il movimento comunista italiano può, deve e vuole recare alla elaborazione delle soluzioni dei grandi problemi che la Internazionale rivoluzionaria ha dinanzi.

Ed è anche in questo l'unico modo di utilizzare quanto di meglio vi è nei precedenti dello svolgimento della lotta di classe in Italia, e di rispettare altresì le tradizioni del nostro passato; quelle affermazioni e quelle conquiste che soltanto sono rinnegate e disonorate da quelli che non sanno trarne, coll'intelletto e col cuore, l'incentivo a procedere innanzi nella via delle incessanti rettifiche dei passati errori, delle coraggiose correzioni di indirizzi rivelatisi fallaci, verso le più ampie prospettive, i più ardui doveri, la più sicura trionfale avanzata della rivoluzione comunista.

Gli ultimi tre capitoletti riguardano la riorganizzazione interna del Partito in base a criteri di rigorosa centralizzazione, di massima omogeneità e di strettissima disciplina; la precisazione dei compiti tattici del Partito nel campo della propaganda, della preparazione materiale allo sbocco rivoluzionario, dell'intervento nelle lotte operaie e negli organismi economici immediati nella prospettiva di una loro conquista, dell'attività elettorale e parlamentare; e, infine, il programma di azione del partito comunista - non più soltanto propulsore della lotta rivoluzionaria, ma difensore e guida dello Stato operaio - dopo la conquista del potere, con particolare riguardo alla difesa armata contro gli attacchi delle borghesie internazionali, al problema meridionale e alla questione agraria, nello spirito e secondo i dettami delle tesi del II Congresso. Diamo tutti insieme i tre capitoletti, riservandoci di ritornarvi sopra nei capitoli successivi, in quanto in base ad essi agì con estrema coerenza il Partito Comunista d'Italia fin dalla sua nascita.

8) La riorganizzazione interna del Partito.

La divisione dell'attuale partito nelle due parti socialdemocratica e comunista non è sufficiente a garantire la compattezza e l'omogeneità del Partito Comunista: la scissione non può impedire che nuclei di opportunisti passino nascostamente nelle sue file.

Una revisione che succeda immediatamente alla costituzione del Partito Comunista, il quale non sorge ex novo ma risulta formato di gruppi organici preesistenti alla sua formazione, renderà possibile la completa epurazione della sua compagine.

Allora soltanto il partito potrà incominciare a funzionare aprendo le sue sezioni alle iscrizioni dei nuovi aderenti. Questi devono però essere sottoposti ad un periodo di candidatura durante il quale, privi di ogni diretto intervento nelle deliberazioni e lontani da ogni posto di responsabilità, saranno invigilati con cura particolare e posti alla prova della loro fede e della loro dedizione alla causa proletaria.

Candidatura e revisione periodica, avvicendandosi e completandosi, faranno si che il Partito Comunista risulti nell'avvenire omogeneo, agile, libero dell'enorme ventraia di abulici, di timorosi, di opportunisti che oggi deforma ed appesantisce il partito socialista.

In un partito così riorganizzato la disciplina concretamente potrà divenire legge e norma di agire.

Non può parlarsi di disciplina dove si raggruppano mentalità varie e contrastanti: qui vi può essere solo dominio degli uni sugli altri; qui bisogna ricorrere alla sottile distinzione fra disciplina di pensiero e disciplina di azione.

Il Partito Comunista, al quale si aderisce per libera elezione, accettandone per principio le condizioni e le tesi, richiede a tutti i suoi membri la più rigida osservanza delle sue deliberazioni e delle deliberazioni dell'Internazionale di Mosca. Azione e pensiero sono due forme di attività che ugualmente concorrono alla lotta rivoluzionaria; se pure di caso in caso, poste di fronte ad episodi e fatti contingenti, le volontà individuali potranno suggerire soluzioni diverse, allorché la maggioranza avrà deliberato, la minoranza dovrà accettare ed eseguire astenendosi da ogni manifestazione, anche solo di parola, che non potrebbe non indebolire l'azione di assieme del partito.

Il Partito Comunista è costituito su una base di accentramento che si manifesta sia nella sua organizzazione come nel suo funzionamento. Così le federazioni provinciali, dalla loro forma attuale di organismi autonomi ed elettivi, verranno trasformate in centri di azione dipendenti direttamente dal Comitato Centrale il quale ne nominerà i segretari. La stampa, periodica e non periodica, e tutte le imprese editrici del partito, verranno sottoposte ad un rigoroso controllo che si esplicherà all'inizio con la nomina e la sostituzione dei direttori e redattori.

Questo accentramento non può però risolversi soltanto in una meccanica sostituzione della volontà del C.C. alle volontà singole ed individuali: ma si verificherà tanto più quanto più il C.C. avrà la capacità di creare una mentalità, una forma di giudizio, una volontà ugualmente diffusa nel Partito. E ciò può raggiungersi coll'abitudine di discutere e commentare in manifesti e pubblici appelli tutti gli avvenimenti mostrando quale posizione debbano assumere di fronte ad essi i comunisti e come essi rientrino nel quadro generale della lotta rivoluzionaria.

Come il regime capitalistico non distingue alla stregua dello sfruttamento l'uomo dalla donna, il giovane dall'adulto, così il Partito Comunista inquadra in un unico solido organismo tutti i comunisti convinti, senza differenza di età e di sesso. Il C.C. del Partito esplicherà quindi il suo potere di direzione anche sulla Federazione Giovanile la quale continua ad esistere come organismo separato, in considerazione dei compiti complementari ch'essa può eseguire.

Ma nel campo politico non vi è possibilità di divisione e di autonomia: come strumento di azione il Partito Comunista afferma in ogni momento la necessità della più stretta unità di movimento.

9) I compiti tattici del Partito Comunista in Italia.

Propaganda. Se la rivoluzione proletaria trova in Italia le premesse materiali del suo verificarsi e del suo sviluppo, altrettanto non può dirsi delle sue premesse spirituali.

Il Partito Socialista, perseguendo i suoi scopi di pura organizzazione di sempre più vaste masse, non ha mai considerato nella sua propaganda i problemi pratici e concreti della rivoluzione, e le risoluzioni che per essi suggeriscono i principi comunisti.

Ma il Partito Comunista, che si organizza in vista della conquista del potere da parte del proletariato, deve preoccuparsi di porre dinanzi alle masse le questioni che si presenteranno immediatamente all'indomani della rivoluzione alla loro capacità organizzativa.

E mentre tra la folla lavoratrice la propaganda continuerà ad esplicarsi in grande parte nella forma dei comizi, fra gli iscritti al partito un'opera metodica di cultura coopererà alla costituzione di una élite capace e istruita. La organizzazione di conferenze e di scuole di cultura è uno dei compiti immediati più importanti del Partito Comunista che creando in ogni centro proletario sezioni del Proletcult darà alla sua attività educatrice quel carattere internazionale che deve contraddistinguere ogni azione del partito di classe del proletariato.

Tutta la propaganda comunista deve tendere ad una netta differenziazione dei principi comunisti da quelli sostenuti da altre scuole sorte in seno al proletariato: riformisti, sindacalisti, anarchici.

La propaganda comunista, dimostrando come solo colla tattica e coi metodi comunisti si possa realizzare l'espropriazione degli sfruttatori, deve tendere a staccare la massa ignorante ed illusa dai capi che la guidano per vie vane e seminate di errori.

Preparazione materiale. Ma il proletariato non può infrangere il sistema di rapporti capitalistici di produzione da cui deriva il suo sfruttamento senza l'abbattimento violento del potere borghese.

La lotta di classe è ormai mutata in guerra civile.

L'illegalità è ormai la forma abituale di azione anche della classe dirigente, che, spezzando e negando i principi della legalità democratica colla guerra, ricorre per conservare e difendere il suo dominio alle leggi eccezionali: illegalità elevata a principio.

Il proletariato in questo scoscendimento del regime borghese non può non organizzare la propria forza, non costituire i propri quadri.

Contro ogni deprecazione e nonostante ogni negazione la lotta sta ormai per risolversi in conflitto armato tra le masse lavoratrici ed il potere dello stato borghese.

In vista di ciò il partito comunista, mentre s'impegna a curare la propria preparazione materiale, pone come suo compito essenziale la propaganda rivoluzionaria tra le file dell'esercito. Questo è già permeato di spirito rivoluzionario e la tabe della dissoluzione ne mina l'organismo; il crollo della potenza borghese coinciderà con lo sfasciarsi della sua forza armata.

I sindacati e rapporti colla C.G.d.L. e cogli altri organismi sindacali. I sindacati, sorti e sviluppati come garanzia ai lavoratori della conquista del pane, si sono dimostrati inadatti alla lotta rivoluzionaria non solo, ma financo alla creazione di competenze e capacità direttive fra le masse operaie.

Ciò nonostante il partito socialista è stato finora legato alla C.G.L. da un patto di alleanza che poneva i due organismi su di un piede di uguaglianza. Ciò, facendo gravare sul partito il peso enorme della volontà dei funzionari sindacali, ne ha inceppato l'azione sottomettendola ai fini riformistici da essi perseguiti.

Una potenza rivoluzionaria non può costituirsi con formule giuridiche di riconoscimento bilaterale; il partito comunista non può quindi vincolarsi a nessun organismo sindacale con patti di alleanza.

Nel campo politico il sindacato rappresenta una coscienza meno precisa e sicura sulla quale il partito deve cercare di raggiungere un effettivo potere di direzione.

La costituzione dei Consigli di Azienda organizzati allo scopo del controllo sulla produzione può offrire il mezzo al partito comunista di porsi in più diretto rapporto colla massa, di spezzare le tradizionali gerarchie dei funzionari sindacali, di rinnovare ad ogni istante i quadri dei dirigenti.

La contemporanea costituzione dei gruppi comunisti di azienda e dei gruppi comunisti dei sindacati dà al partito comunista la possibilità di conquistare la maggioranza degli organi economici proletari, ed attraverso ad essi la dirigenza della C.G.d.L.

Il partito comunista porrà ogni sforzo per far aderire a questa tutte le organizzazioni che ancora si trovano al di fuori dei suoi ranghi: l'unità proletaria costituisce una condizione di successo della lotta rivoluzionaria.

Quindi non soltanto il Partito Comunista non costituirà una nuova organizzazione nazionale sindacale, invitando i proletari che lo seguono ad abbandonare la Confederazione Generale del Lavoro, ma rivolgerà un cordiale appello all'Unione Sindacale Italiana, al Sindacato Ferrovieri, perché entrino nella Confederazione.

Si dovrà condurre una campagna per pervenire, malgrado le insidie contenute nell'attuale statuto confederale, a guadagnarne la maggioranza, formando una compatta opposizione comunista ai dirigenti fino dal prossimo Congresso, coll'obiettivo di assicurare al rivoluzionari comunisti il controllo del movimento operaio italiano.

10) Programma di azione del Partito comunista dopo la conquista del potere.

Poiché il problema della conquista integrale del potere non si era mai presentato in Italia al partito socialista, questo non ha mai sentito l'urgenza di tracciarsi un programma d'azione dopo la conquista del potere. Ciò invece deve sollecitamente fare il Partito Comunista che si organizza appunto in vista dell'ultima decisiva battaglia.

Infatti il compito del Partito Comunista non cessa con la conquista del potere da parte del proletariato ma si muta soltanto: da propulsore della lotta rivoluzionaria esso diviene difensore e guida dello Stato operaio.

Distrutto l'apparecchio statale della dominazione borghese il proletariato organizzerà il suo Stato nella forma della dittatura proletaria, basando la rappresentanza elettiva sulla sola classe produttrice nella forma tipica dei Consigli dei Lavoratori.

Lo Stato operaio costituito dovrà tosto apprestare la sua difesa armata contro gli attacchi delle borghesie internazionali, ed in questa opera di preparazione militare dovranno risolversi i particolari problemi imposti dalla irregolare distribuzione in Italia dei centri industriali, cittadelle rivoluzionarie, e dalle vaste regioni malamente fornite di centri urbani operai.

Il problema meridionale, insoluto dallo Stato borghese, dominerà l'attività iniziale dello Stato dei Consigli intrecciandosi al problema militare, al problema agrario, al problema commerciale.

La questione industriale porrà di fronte allo Stato operaio il problema delle industrie artificiosamente create dal capitalismo italiano per speculazione e la necessità della loro abolizione. Ciò provocherà ampi spostamenti di masse lavoratrici ed il fenomeno del ritorno alla campagna delle falangi di lavoratori che l'improvviso espandersi dell'industria in conseguenza della guerra ha attratto alla città.

Ma su ogni altra cosa la questione agraria richiederà in Italia, paese agricolo, tutta l'attenzione e la cura dello Stato dei Consigli.

Dovrà essere chiarito che senza nessuna infrazione ai principi ed al programma marxista, la soluzione della questione agraria presenta aspetti diversissimi da quelli della questione industriale.

Nella grande industria moderna esiste la specializzazione tecnica, la divisione del lavoro, la produzione collettiva e il processo rivoluzionario trasferisce la proprietà dei prodotti dalla persona del capitalista alla collettività.

Un processo analogo è possibile nella agricoltura solo quando l'impianto tecnico delle aziende sia così progredito ed industrializzato da aver creato grandi unità comprendenti numerosi lavoratori agricoli, contraddistinti da speciali funzioni tecniche.

Allorché la tecnica agraria sia ancora così arretrata da far sopravvivere l'esercizio individuale o familiare della terra in cui ogni contadino compie sulla stessa piccola superficie cento successive funzioni nelle varie fasi della coltura, questa fondamentale caratteristica non deve essere nascosta dalla sovrapposizione di una vasta proprietà nel senso giuridico, che, pur assegnando ad un sol proprietario rurale la possibilità di sfruttare molte famiglie di contadini, non costituisca una grande azienda nel senso marxista della parola.

In questo secondo caso parlare di immediata superiorità della produzione collettiva rispetto a quella individuale non significa invocare un principio comunista, ma capovolgere la valutazione marxista del problema.

Questi elementari dati sono quelli da cui parte la valutazione comunista e rivoluzionaria del problema agrario.

Il partito comunista deve trattare la questione agraria tracciando la propria linea di condotta in modo da tendere ad attrarre a sé la parte povera della popolazione agricola, rendendola solidale alla classe operaia rivoluzionaria.

L'esistenza di un sistema di leghe di contadini, di cooperative e di affittanze collettive; il ritorno alla terra delle masse attratte dai campi alle fabbriche in questi ultimi anni di industria raddoppiata e pervasa già di spirito rivoluzionario; la tradizione fra i lavoratori della terra di vasti e larghi movimenti di sciopero, non scevri di urti e di violenze; sono elementi che favoriranno l'azione dello Stato Comunista nei suoi primi tentativi di dare un assetto nuovo alla produzione agricola.

Tale azione deve mirare in un primo tempo a spezzare e disperdere ogni forma di proprietà capitalistica impedendo ogni ritorno offensivo della classe espropriata. In un tempo successivo soltanto, superato ogni pericolo controrivoluzionario, il problema agrario avrà la sua soluzione definitiva, diretta alla maggiore e più redditizia produzione.

Queste ed altre molte questioni (istruzione, assistenza, ecc.) costituenti il programma d'azione dopo la presa di possesso del potere, verranno poste all'ordine del giorno dei prossimi Congressi del Partito Comunista il quale, omogeneo e compatto, pervaso da una sola coscienza e da un solo entusiasmo, potrà loro dare la soluzione migliore, che non scostandosi dagli insegnamenti marxistici e dalle deliberazioni dell'Internazionale, si adatteranno alle condizioni ed alle necessità particolari dell'ambiente italiano.

Abbiamo riprodotto integralmente la Relazione Bordiga-Terracini, non solo per riscattare dall'oblio uno strumento di battaglia politica e di formazione teorica che conserva a tutt'oggi un valore fondamentale, ma anche perché sulla sua traccia si mossero, conservandone il vasto respiro e la visione internazionale, gli interventi degli stessi Bordiga e Terracini a Livorno. È caratteristico di questo documento (come della Mozione e del Programma) il fatto di basarsi dichiaratamente su principi ritenuti non solo permanenti, ma confermati in tale invarianza da bilanci storici di natura non individuale né locale: sono questi principi e questi bilanci ad imporre la costituzione del partito, a determinarne l'indirizzo, a definirne la struttura; la giustificazione della sua nascita non si cerca entro i confini geografici di un paese o entro i limiti temporali di un'epoca; la si cerca in un insieme di costanti nella storia delle lotte di classe, che la dottrina ha scoperto ed elevato una volta per tutte a dignità di leggi. Queste leggi, o, se si preferisce, questi principi permettono di orientarsi nelle "speciali condizioni" dei singoli paesi tenendone il debito conto nell'applicazione pratica dei postulati tattici generali, ma non ne sono determinati: come il partito non è che la sezione geograficamente nazionale di un organismo programmaticamente e storicamente internazionale, così il suo programma è solo formalmente suo proprio, non essendo in realtà che la traduzione in un dato linguaggio di principi non legati a nessuna particolare nazionalità e a nessun particolare idioma.

Non è dunque un caso né che il partito di Livorno non si chiami "italiano", né che il suo Programma non accenni neppure en passant alla sua... patria anagrafica, e che tanto la sua Mozione costitutiva, quanto la Relazione esplicativa affrontino bensì l'analisi dei caratteri essenziali della situazione in Italia, ma per giungere alla più precisa applicazione ad essa di criteri tattici e organizzativi generali e permanenti, non per arrivare a questi ultimi sulla base dei dati raccolti grazie a tale analisi. Il PCd'I nasce programmaticamente chiuso appunto per potersi aprire verso l'esterno senza perdere i suoi connotati e, nei limiti in cui la situazione oggettiva lo permette, agendo come fattore e non soltanto come prodotto della storia. Nascere esattamente all'opposto, cioè programmaticamente aperto, quindi votato a subire le situazioni lasciandosene dettare non solo le grandi direttive tattiche, ma il programma, i principi, addirittura i fini, potrà il partito "nuovo" di Togliatti e, prima ancora, di Gramsci; eclettico appunto perché nazionale; non soltanto nuovo rispetto alle sue origini, ma da rinnovarsi di continuo come tira il vento della congiuntura storica; e, per tutti questi motivi, partito di riforme, mai di rivoluzione.

Per la nostra corrente, la rottura col passato e quindi con l'amalgama riformista e centrista del PSI aveva quindi il valore non di un episodio contingente, ma di una condizione di esistenza, di un principio vitale, e non solo non tollerava d'essere mercanteggiata per motivi di opportunità spicciola e di abilità manovriera, ma esigeva di non venire mai rimessa in discussione. La scissione chiudeva i conti col passato: riaprirli avrebbe significato considerare ipotetici i principi e variabile il programma. Quanti altri - in seno alla Frazione comunista - fossero coscienti della vastità di queste implicazioni, non interessa stabilire: certo ne era cosciente il manipolo dei nostri compagni; alla sua tenacia (qui sta il senso del suo rifiuto di sciogliersi come Frazione prima della chiusura del Congresso) si deve se il taglio avvenne il più possibile (nelle condizioni oggettive e quindi nella prospettiva reale dell'epoca) a sinistra. Ottenere qualcosa di più non dipendeva da noi; dipendeva da noi impedire che si ottenesse qualcosa di meno. Solo l'avvenire avrebbe detto se, e fino a quando, con ciò si evitasse il peggio, cioè lo snaturamento del partito e, come prevedeva il più coerente di tutti i riformisti, il "ritorno a Turati".

Nei paesi di antica tradizione democratica e parlamentare, il conseguimento della massima omogeneità teorica, programmatica e tattica, e del grado più alto possibile di centralizzazione e disciplina organizzativa, urtava contro ostacoli quasi insormontabili: lo stile e il metodo di lavoro andavano non solo modificati rispetto alle abitudini correnti nella II Internazionale, ma capovolti. Era questo un argomento di più a favore di un taglio il più possibile radicale col passato, a costo di restare in un primo tempo in assoluta minoranza: solo così si sarebbe poi risalita la china non solo e non tanto dell'inferiorità numerica, quanto di un seguito politico e organizzativo ancora modesto fra le grandi masse. Adottato un simile criterio come indispensabile ai fini della costituzione di un partito che non fosse soltanto una copia del PSI con etichetta diversa, non lo si doveva più revocare in dubbio, né misurarne gli effetti col metro della consistenza puramente numerica del nuovo organismo.

Soprattutto nei mesi e ancor più negli anni successivi, è questo che l'Internazionale stentò a capire, anche - sia detto a sua giustificazione - per non essersi resa conto di tutto il peso del costume e della tradizione socialdemocratica (o democratica pura e semplice) sul movimento operaio europeo. Oggi, gli stessi storici che deplorano il "settarismo", sul piano teorico, programmatico e tattico, della nostra corrente, salvano invece gli effetti del suo "organizzativismo" quando essa era alla direzione del partito, con l'argomento che così voleva per ferrea determinazione la controffensiva borghese in atto (25): non capiscono né che il rigore organizzativo era solo l'altra faccia del rigore dottrinario e politico, né che per il marxismo l'uno e l'altro hanno validità permanente, anche se è ovvio che le vicende alterne della storia possono conferir loro una dimensione più o meno globale.

Retrospettivamente, si deve riconoscere che il tentativo, splendidamente iniziato, nel giro di due o poco più anni venne interrotto prima che potesse dare tutti i suoi frutti. È partendo di lì, quindi, che bisognerà rimettersi in marcia.

5. - La Frazione e l'internazionale

Alle soglie di Livorno, comunque, l'accordo con la Internazionale era completo. Lo stesso Zinoviev che il 3 novembre, in sede di Esecutivo, dava per scontata una maggioranza comunista pari al 75-90% delle sezioni del PSI, nella seduta del 9 gennaio dichiarava: "è possibile che restiamo in minoranza", senza vedere in questa prospettiva nulla di particolarmente catastrofico (26). Alla stessa occasione risale la lettera del CE, firmata da Lenin, Trotsky, Zinoviev, Bucharin, Losovsky, Bela Kun, Varga, Rosmer e altri undici esponenti del comunismo internazionale e fatta pervenire telegraficamente alla direzione del PSI. Eccone il testo come lo riporta il resoconto stenografico (27):

"Compagni,

I tentativi fatti dai nostri rappresentanti Zinoviev e Bucharin per partecipare al vostro Congresso non hanno dato l'esito sperato, e certo non per colpa loro.

Poiché i compagni Serrati e Baratono, che volevano venire a conferire con noi, non sono più venuti (28) rivolgiamo a voi, con questo telegramma, i nostri fraterni auguri e vi comunichiamo quanto segue: abbiamo seguito con attenzione sui vostri giornali la lotta che si è svolta durante gli ultimi mesi tra le diverse tendenze del vostro Partito. Disgraziatamente l'azione della Frazione dei comunisti unitari è stata la realizzazione delle più sfavorevoli previsioni almeno per quanto si riferisce ai capi. In nome dell'unità coi riformisti, i capi degli unitari sono di fatto pronti a separarsi dai comunisti e quindi anche dall'Internazionale comunista.

L'Italia attraversa attualmente un periodo rivoluzionario, e da ciò dipende il fatto che i riformisti e i centristi di questo paese sembrano più a sinistra di quelli degli altri paesi. A noi di giorno in giorno appare più chiaro che la frazione costituita dal compagno Serrati è in realtà una frazione centrista, a cui soltanto le circostanze generali rivoluzionarie danno l'apparenza esteriore d'essere più a sinistra dei centristi degli altri paesi.

Prima di sapere quale sarà la maggioranza che si costituirà nel vostro congresso, il comitato esecutivo dichiara ufficialmente e in modo assolutamente categorico al Congresso stesso:

Le decisioni del II Congresso mondiale dell'Internazionale comunista obbligano ogni partito aderente a questa Internazionale a rompere coi riformisti. Chi si rifiuta di effettuare questa scissione viola una deliberazione essenziale dell'Internazionale comunista e con questo solo atto si pone fuori delle file dell'Internazionale stessa.

Tutti gli unitari del mondo non obbligheranno l'Internazionale comunista a credere che la redazione e gli ispiratori della rivista arciriformista Critica sociale sono favorevoli alla dittatura del proletariato e all'Internazionale comunista.

Nessuna diplomazia ci convincerà che la Frazione di concentrazione è favorevole alla rivoluzione proletaria. Coloro che vogliono far entrare i riformisti nell'Internazionale comunista vogliono in realtà la morte della rivoluzione proletaria. Essi non saranno mai dei nostri.

Il Partito comunista italiano deve essere in ogni modo creato. Noi non ne dubitiamo. E a questo partito andranno le simpatie dei proletari del mondo intero e il sostegno caloroso dell'Internazionale comunista.

Abbasso il riformismo! Viva il vero Partito comunista italiano!".

La lettera chiudeva un quadrimestre di polemiche e scambi epistolari, da cui Mosca aveva tratto la conclusione che nulla ormai avrebbe smosso i massimalisti da un atteggiamento di sudditanza alla destra nascosto dietro il paravento dell'unità, e che, viceversa, nulla avrebbe indebolito la decisione della Frazione comunista di costituire coûte que coûte il Partito. Se a convincere l'Esecutivo che il capitolo Serrati e C. doveva, almeno per il momento, ritenersi chiuso, non fosse bastata l'irosa polemica del direttore dell'Avanti! in tutto il corso degli ultimi mesi, parlavano nello stesso senso i rapporti degli "emissari" di Mosca in Italia, le cui relazioni anche personali con i dirigenti massimalisti erano ormai arrivati al punto di rottura, e l'ultimo dei quali, Christo Kabakčev, aveva avuto modo di conferire assai prima di Livorno con esponenti della Frazione (29) condividendone in pieno il giudizio sulle prospettive di "rinnovamento" del partito.

Il governo italiano poteva negare i visti a Zinoviev e Bucharin. Né la loro presenza, né una nuova "rivoltella alla tempia" sotto forma di telegramma-ultimatum, erano comunque necessarie per decidere l'esito del congresso. Tutto quanto siamo venuti esponendo dimostra infatti che, a differenza di Halle e Tours e su basi ben altrimenti solide, il dado era già stato irrevocabilmente tratto (30).

Note

(1) Dalla suddetta parte si fa leva su questa constatazione, perfino esagerandola, per "spiegare" l'"egemonia bordighiana" nella formazione e nei primi due anni di vita del PCd'I. A Milano, secondo la Ravera, Gramsci avrebbe constatato che "la frazione di Bordiga aveva un corpo robusto e ramificato in tutte [!] le province e città d'Italia, una organizzazione solida, un accentramento già costruito attorno a un centro - la persona di Bordiga - e una disciplina rigorosissima", mentre l'Ordine Nuovo era "una forza limitata a Torino, con poche diramazioni, non di organizzazione, ma di simpatie raccolte in Piemonte, in Liguria e in Lombardia". (La Frazione comunista al Convegno di Imola, Roma, Editori Riuniti, 1971, p. 30; cfr. anche la testimonianza di L. Polano, ivi, pp. 35-36).

(2) Cfr. il II volume della presente Storia, p. 614.

(3) Pseudonimo di N.M. Ljubarsky. Si veda la testimonianza di B. Fortichiari in Comunismo e revisionismo in Italia, Torino, Tenerello editore, 1978, pp. 57-58: opuscolo tuttavia da prendersi, in vari punti, con qualche riserva quanto ad esattezza storica.

(4) Anche qui, l'influenza politica schiacciante ottenuta si accompagnò al rifiuto di espedienti e manovre per conseguirla: "Gli astensionisti - scriverà A. Bordiga nell'articolo già citato del 1924, in piena campagna scandalistica sulla presunta sete di potere della Sinistra - non reclamarono negli organi direttivi una parte sproporzionata alle forze loro: i compagni che li dirigevano non avevano mai concepito la loro funzione politica come l'arrembaggio a cariche direttive. Nel lavoro di preparazione al convegno di Imola gli astensionisti, anzi, magari esageratamente, tennero a tenersi un poco al di fuori degli organi ufficiali della frazione conservando la loro organizzazione fino a Livorno. Tutta la rete di frazione era affidata al comp. Fortichiari, con cui eravamo sempre in accordo completo, ma che non era astensionista". Che la Frazione astensionista non abbia preteso alcuna rappresentanza privilegiata negli organi direttivi del PC d'I risulta pure dalla testimonianza dell'antibordighista O. Berti negli Appunti e ricordi 1919-1926, premessi agli Annali Feltrinelli 1966, pp. 64-65.

(5) A buon diritto, rispondendo ad alcuni compagni i quali si chiedevano se il programma della Frazione dovesse ritenersi aprioristicamente fissato invece di essere posto a confronto e in discussione con altre possibili tesi "massimalistiche", un articolo del Comunista (La composizione della nostra frazione, n. II del 21/XI/1920) notava che il "manifesto-programma non è che la traduzione in italiano dei principi comunisti, delle risoluzioni dei due congressi della Terza Internazionale, delle 21 condizioni di ammissione dei partiti nel seno di questa; traduzione iniziata dallo stesso Congresso di Mosca, e completata in Italia da elementi che ne accettano in tutto i risultati al di sopra di alcune divergenze di tattica su cui vale incontroversa la disciplina per tutti".

(6) Si ammiri qui più che altrove la... dialettica dei Lepre-Levrero, che vedono in questa "tesi di Bordiga" (ma "indicazione anche dell'Internazionale") una "sottovalutazione delle possibilità di azione legale ancora esistenti in Italia", sia pure basata "sulla fiducia nell'imminenza di una rivoluzione" (op. cit, p. 39)!

(7) Nel già citato La composizione della nostra Frazione.

(8) "Tutto il lavoro di organizzazione fu fatto da Bordiga", scriverà Berti nel 1935, in piena campagna anti-Sinistra, ricordando le "intere notti" da lui passate a tavolino fra lo stupore di "quanti gli stavano intorno per la sua eccezionale capacità di lavoro e per la sua febbrile attività" (Il gruppo del "Soviet" nella formazione del PCI, in Stato Operaio, gennaio 1935, pp. 66-67). È vero che G. Berti appartiene alla categoria di coloro che spiegano la storia a base di fattori personali, addirittura sovrumani e... demoniaci (d'altronde, non aveva già Gramsci dato ragione di due anni di vita del PC d'I col fatto che... Bordiga, "per capacità generale e di lavoro, ne vale almeno tre"?): la sua testimonianza rispecchia però lo stile di vita e di lavoro che il partito nascente esigeva prima di tutto dai suoi dirigenti e che è ben documentato anche dal numero enorme di conferenze, riunioni, comizi tenuti in varie località di cui dà notizia ogni numero del settimanale.

(9) Cfr. il vol. II della presente Storia, pp. 656-657.

(10) Si tratta di un commento integrativo alle Tesi sulle condizioni di costituzione dei Soviet, riprodotte nel II vol. di questa Storia, pp. 184-186.

(11) Il resoconto dell'Avanti! aggiunge: "Il taglio netto che i comunisti invocano sarà per gli italiani un grande passo storico sulla via del progresso internazionale proletario e non sarà affatto un indebolimento del movimento rivoluzionario italiano".

(12) Terracini era stato delegato a rappresentare la sezione socialista torinese insieme a Gramsci e Parodi (quest'ultimo assai più vicino alle posizioni degli astensionisti che a quelle dell'Ordine Nuovo), dopo che nella sezione stessa - già dichiaratasi il 6-8 ottobre per la confluenza in un "blocco compatto, omogeneo e combattivo" di tutti gli "elementi che sinceramente sono comunisti" nella prospettiva della "creazione di un partito comunista" - le tre ali degli astensionisti, dei comunisti elezionisti e del gruppo di "educazione comunista" avevano fatto causa comune, e i tre erano stati eletti membri del comitato regionale piemontese. (Cfr. P. Spriano, Storia del Partito comunista italiano, vol. I, Da Bordiga a Gramsci, Torino 1967, pp. 101 e 89).

(13) Non ci si venga poi a dire che fin da allora Gramsci era in dubbio circa l'opportunità della scissione e prevedeva, come dirà nel 1924, che essa avrebbe rappresentato "il più grande trionfo della reazione". Quanto all'opinione sulla "fase socialdemocratica in Italia", ci vuole tutta la faccia di bronzo degli storici ufficiali per presentare l'ipotesi di una maggior vicinanza "alla fase della conquista del potere da parte del proletariato" come prova del... realismo pessimistico di Gramsci!

(14) Cfr. Comunismo, anno II, nr. 15-31/XI/1920, e Il Comunista, nr. II del 21/XI/1920.

(15) Di certo vi è soltanto che si discusse vivacemente sull'opportunità di accogliere nel nuovo partito determinate personalità socialiste, come Arturo Vella, e, prima ancora, di dare la parola a quest'ultimo in sede di convegno, e che alcune sezioni si opposero aspramente redarguite, a che la Frazione si sciogliesse a Livorno come stabilito dal CC. Il resto è pura chiacchiera e, quand'anche non lo fosse, è privo di ogni interesse per la storia. Che l'episodio non abbia lasciato nessuna traccia è dimostrato dall'affiatamento completo che caratterizza nel biennio successivo l'insieme del partito e, al vertice, l'accordo pieno fra i suoi componenti.

(16) Si veda pure l'articolo Il Convegno di Imola, di Giuseppe Berti, nel nr. XXI, del 9 XII/ 1920, de Il Soviet.

(17) A quest'ultimo va logicamente il plauso degli attuali storiografi: maliziosamente, alla fine della seconda guerra mondiale, egli esclamerà: "Finalmente il partito è più a destra di Graziadei!".

(18) Il concetto era stato ribadito anche nel "cappello" ad un articolo di N. Loverso su La cecità unitaria, apparso nel nr. VIII, del 2/1/1921, de Il Comunista. E poiché, dopo le chiare prese di posizione dell'Esecutivo della III Internazionale in appoggio alla tesi avversa ad ogni transazione coi "pasticci unitari", il Loverso auspicava un ritorno delle sezioni socialiste, vistesi ingannate, sul voto formalmente già dato, e il riconoscimento dell'"implacabile situazione" creatasi nel frattempo, la redazione aveva risposto con serena fermezza: "Se ci saranno dei compagni disposti a venire a noi, e se delle intere sezioni lo faranno, noi non ce ne dorremo certo. Però non avanziamo la pretesa che dappertutto si ridiscuta e si deliberi di nuovo sotto l'influenza delle considerazioni di cui parliamo. Vogliamo fare della propaganda e non dei ricatti, della organizzazione comunista e non del lavoro… elettorale. Ed intravediamo perciò una soluzione logica. Anche dove si è votato da tutte le sezioni, e qualunque ne sia stato l'esito, non deve cessare il lavoro intenso della nostra frazione e dei suoi comitati provinciali e locali. Si deve continuare e intensificare la propaganda comunista, l'organizzazione dei gruppi comunisti. Se ci sono dei buoni compagni, operai soprattutto, i quali - non per colpa loro, ma per effetto delle abili marachelle in cui i nostri avversari di tendenza si sono rivelati maestri - si sono convinti troppo tardi della bontà delle nostre argomentazioni e della nostra attitudine, ebbene, si accettino questi compagni nei gruppi comunisti, benché abbiano già votato per gli unitari, anche se non è possibile, per non sentire troppo alte strida dalle oche serratiane, ripetere le votazioni nelle sezioni. Così assicureremo altri buoni elementi al futuro partito comunista, la cui costituzione è il nostro obiettivo, al di sopra di ogni facile successo numerico imbastito da chi lotta con armi meno leali delle nostre".

(19) La previsione che a Livorno si sarebbe rimasti in minoranza, e la ferma decisione di fondare anche in tal caso il partito comunista, si trovano espresse anche in un articolo di Virgilio Verdaro, Tirando le somme, apparso ne L'Ordine Nuovo del 13/1/1921, e nella mozione votata al congresso provinciale campano (cfr. lo stesso Ordine Nuovo del 14), ad ulteriore testimonianza del pensiero concorde degli "astensionisti".

(20) Ripubblicata nel 1921 a cura del C.E. del P.C.d'I., Milano, (Reprint Feltrinelli s.d.).

(21) I corsivi sono nostri. Il testo della l7a delle Tesi sui Compiti dell'IC, di cui si parla poco dopo, si può leggere nel II volume della nostra Storia, p. 656, o nel citato volume a cura di A. Agosti, La Terza Internazionale etc., I, 1, pp. 233-234.

(22) È qui che marxisticamente si realizza quel "passaggio al concreto" che solo è possibile partendo dall'astratto e cosi giungendo (sia sul piano della teoria, sia sul piano della prassi) ad un concreto che non ha nulla dell'aleatorietà e quindi "astrattezza" del quotidiano, secondo la visione eclettica di coloro a sentire i quali la "tattica" si inventa, o meglio si "sceglie", di volta in volta sotto la spinta dei fatti bruti non "illuminati" da nessun principio. È perciò che, nella nostra costruzione, un cambiamento di indirizzo tattico non significa mai, né può mai significare, decadenza di un principio.

(23) Storia della Sinistra comunista, 1919-1920, cap. VIII, paragr. 6 e 7, pp. 426-438.

(24) È ovvio peraltro che non sarebbe possibile adesione al partito senza il riconoscimento - nelle grandi linee - della necessità della rivoluzione e della dittatura proletarie e, quindi, del rifiuto di ogni via pacifica, graduale, riformistica e nazionale al socialismo.

(25) Si veda in particolare R. Martinelli, cit., pp. 179-180.

(26) Il resoconto delle due sedute si legge rispettivamente nei numeri XV e XVI di Kommunistische Internationale, 1920-21, pp. 403 e 428. Che poi Mosca sperasse in una scissione, diciamo così, meno minoritaria, è probabile: ma il punto era un altro - la possibilità e, insieme, l'utilità immediata che cosi fosse.

(27) Resoconto stenografico del XVII Congresso nazionale del Partito Socialista Italiano (Livorno, 15-16-17-19-20 gennaio 1921), Milano, Società Editrice Avanti!, 1921 (più oltre citato come Resoconto...) pp. 18-19.

(28) Il visto d'entrata in Italia era stato negato a Zinoviev e Bucharin. Un incontro era stato effettivamente chiesto da Serrati, e Zinoviev l'aveva accettato, con lettera giunta in Italia il 25 novembre, pregando di fissare una data. L'incontro poi non avvenne, o perché le lettere arrivarono in ritardo, o perché, come si sostenne da altre parti, la Direzione sconsigliò un viaggio cosi lungo poco prima del Congresso e "senza neppure la sicurezza di tornare in tempo".

(29) Così risulta da una breve nota del nr. 26/XII/1920 de Il Comunista.

(30) Lo stesso Kabakčev (Die Gründung der Kommunistischen Partei Italiens, Amburgo 1921, pp. 51 e sgg.) e l'altro emissario, Mathias Ràkosi, tentarono ripetutamente - in incontri ai margini del Congresso - di convincere Serrati e altri esponenti dell'ala cosiddetta sinistra del massimalismo a recedere dalla loro posizione inflessibilmente "unitaria". Perfino Paul Levi, che pure avrebbe preferito una Livorno meno rigida, dovette riconoscere che le resistenze opposte dalla maggioranza ad una rottura aperta, pubblica e immediata con la destra erano inaccettabili: beninteso, a parer suo lo era altrettanto lo "scissionismo" della sinistra. Si vedano il Bericht über die Tätigkeit der Exekutive, gegeben auf dem III. Weltkongress der Kommunistischen Internationale, Moskau, Juni 1921, Amburgo, 1921, pp. 29 sgg. e il rapporto di Levi a Mosca, ora riprodotto in The Comintern: Historical Highlights, a cura di Drachkovitch e Lazitch, Londra-New York, 1966, pp. 275-282.

Archivio storico 1952 - 1970