Il proletariato e Trieste

Ieri

Gli anziani della fine del secolo - sebbene lontani dal militarismo e dal nazionalismo nella loro ideologia di radicali avanzati e massoni, magari dormienti per il disgusto dell'affarismo carrierista dilagante all'ombra della filosofia delle logge - solevano ripeterci che per una Italia dalle ossa ancora poco calcificate una nuova guerra contro l'Austria sarebbe stata l'immancabile prova del fuoco.

I ginnasiali del principio di secolo furono travolti dalla retorica irredentista e dalle dimostrazioni contro l'Austria di Francesco Giuseppe, quando veniva negata la facoltà italiana a Trieste od ostacolato il monumento a Dante a Trento. La letteratura fa alla politica da serra calda, e talvolta le pianticelle che innaffiano le rugiade della retorica germogliano dal terreno della storia e si trapiantano al soffio dei venti della realtà. Gli interessi della nascente e non priva di vigore di classe borghesia italiana la determinavano e segnavano una strada che seppe prendere ma non tenere.

Sul capestro, sul capestro di Oberdan strozzeremo strozzerem l'imperator - o Trieste o Trieste del mio cor ti verremo, ti verremo a liberar...

Il sapore di rivoluzione e persino di regicidio, con l'eco dei colpi di Luccheni a Ginevra, rendeva sicuro il radicalismo borghese di sinistra di convogliare all'impresa nazionale le giovani forze proletarie, socialiste, anarchiche; un decennale lavorio di tipo massonico volse ad irretire i capi e i giovani intellettuali dei partiti estremi.

Ricordiamo ancora una volta che il movimento socialista italiano seppe reagire a questo incapsulamento, per opporvi la sana costruzione di una politica di classe autonoma che al momento giusto non sbagliò al grande bivio della storia, lasciò agli opportunisti e ai rinnegati, soli o quasi nelle file della organizzazione dei lavoratori, di dar braccio a quel compiersi dell'Italia borghese, e le oppose, compiuta o incompiuta, come classe, come Stato, come reggimento monarchico scomunicato, come possibile repubblica volteriana o biancofioresca, la linea politica marxista della rottura delle sue forze in pace o in guerra nazionale, in bonaccia o in convulsione sociale.

I marxisti non avevano mai ignorato i termini delle "questioni nazionali". Tra le forme della produzione hanno il loro posto quelle relazioni organizzative che dipendono dalle concomitanze di razza e di lingua. La tendenza a identificare con le unità nazionali i limiti della organizzazione territoriale dello Stato ha avuto parte importantissima nel formarsi del capitalismo, e tutti i passi di crescenza di questo nemico, di cui è impossibile l'infanticidio, interessano in sommo grado la rivoluzione.

Ma i marxisti, come stabilirono che i vari eroi nazionali e irredentisti ebbero il reale compito rivoluzionario di portare avanti la vittoria della borghesia affarista, rendendosi conto solo della sovrastruttura poetica delle loro imprese, diagnosticarono che, nella fase imperialista di diffusione del capitalismo, il principio di nazionalità era tenuto sempre in caldo per poterlo agitare a fini di classe e soprattutto al fine di scombussolare l'autonomia vigorosa del movimento operaio, ma era disinvoltamente calpestato ogni volta che facesse comodo alle imprese economiche borghesi di soggiogare una provincia di confine, uno spazio vitale, o un disgraziato e colorato popolo d'oltremare.

Il pregiudizio nazionale, dunque, avrebbe dovuto servire di barriera alle iniziative proletarie di classe, ma non poneva nessun ostacolo alle rapine capitalistiche.

Ad uno svolto che tutt'al più possiamo porre al 1870 era dunque puro disfattismo ogni "rinvio" della battaglia proletaria a dopo il raggiungimento di fini nazionali etnici o irredentisti, il blocco tra lavoratori e borghesi della stessa lingua per una liberazione nazionale, la formazione di partiti "socialisti nazionali" come ve ne erano in Polonia o Boemia; e sarebbe grave errore di lettura marxista fare confusione su questo punto invocando il Manifesto, dove dice che i comunisti appoggiano in dati paesi i partiti operai che pongono la condizione della emancipazione nazionale.

Per lo sviluppo del capitalismo i blocchi statali si cristallizzano intorno a determinati centri nazionali, che come Stati unitari erano in formazione fin dai tempi preborghesi. Ma questo è nelle grandi linee non un processo di sminuzzamento bensì di agglomerazione.

Profondamente è dunque controrivoluzionaria la ideologia piccolo-borghese secondo cui, per dare slancio alle rivendicazioni di classe in Europa, conveniva attendere la liberazione di ogni nazionalità "oppressa", la soluzione di ogni problema etnico marginale ai grandi Stati. Tutti questi "oppressi" nella lingua, nelle università, nelle carriere borghesi, soprattutto in quella più "cannaruta" delle deleghe elettorali, avrebbero vietato in eterno agli operai di accorgersi dello sfruttamento padronale, dell'oppressione sociale.

La confusione dei linguaggi è indubbiamente anche un fatto materiale e tecnico, ma è soprattutto ai borghesi e alle loro squadre di cantastorie che dà fastidio supremo: non fa impressione a noi internazionalisti moderni, e ai lavoratori piegati alle imprese negriere del capitale ricordare il primo degli scioperi: quello della torre di Babele. Questo ostacolo cadrà colle altre infamie della Babele moderna capitalista. Al filisteo borghese una cosa pare soprattutto incivile: che non si capiscano da tutti ed al volo gli ordini del "principale".

Vari cavalli di battaglia erano nelle scuderie del "petitborgismo" europeo. Uno di questi era l'Impero austro-ungarico, considerato non alla pagina con la civiltà capitalistica. Ma vi era di più: l'Impero ottomano feudale ed asiatico che si permetteva di tenersi solidamente al di sopra dei Dardanelli. Né va dimenticato l'Impero zarista, che aveva sotto cento nazionalità, se pure gli altri due non raggiungevano la dozzina. Ma per i bisogni della letteratura - una dama piuttosto di buoni e multipli appetiti in fatto di amori - i vari Imperi erano stati tante volte usati un contro l'altro a presidio dei molti tesori della civiltà bianca: la corona di Santo Stefano aveva salvato dai Califfi la cristianità, la Turchia era stata un buon alleato in Crimea (e la spassosa cronaca di questa crociata democratica con relativi bersaglieri può leggersi in Marx), la Russia un buon punto di appoggio per la "liberazione" dei Balcani nel 1912. Il "principio di nazionalità" si presta bellamente a tutte le plastiche della arruffianata chirurgia diplomatica, specie nelle zone in cui, come nei disgraziati Balcani, non sono tracciabili sulla carta geografica i confini etnici linguistici e nazionali, i villaggi turco, greco, serbo e bulgaro, con i preti del caso, stanno a un passo tra loro, e mai l'odio, la guerra e la forza sistemeranno quei terreni sul piano della nazionalità. Queste zone abbondano in Europa: la democrazia oggi vincitrice le tratta col sistema ultra-liberale della deportazione forzata in massa. Al fantasma letterario della libertà di lingua e di unione razziale si aggiunge quello della libertà di residenza, e con essi dilegua in nebbia.

L'istrionismo, che fin da allora ben poteva dirsi popolardemocratico (trovate se potete qualche cosa di più peripatetico dell'aggettivo democratico: va con Satana e con Cristo, col liberale e col sociale, col parlamento e con la dittatura) guazzò come volle nel succedersi delle guerre che si addensarono sul torbido cielo balcanico. Nella prima guerra anti-turca si allearono Grecia, Serbia e Bulgaria in nome di tutti i loro irredenti. Ma quando la Turchia fu battuta la spartizione del bottino non andò de plano, i bulgari furono retrocessi da mammole democratiche a bruti imperialisti e gli altri ritolsero loro molte conquiste. I grossi bestioni da Berlino, Vienna e Pietroburgo occhiavano le vie di sbocco adriatiche ed egee, l'imperialismo da Parigi e da Londra si metteva sul chi vive. Il la era stato dato proprio dall'Italia con una prima lezione democratica alla vecchia Turchia, nella guerra libica del 1912, con cui si cominciò a costruire gloriosamente l'Impero. Il "fondatore" era allora in gattabuia per antimilitarismo.

I socialisti in Italia opposero vigorosamente questa guerra di conquista, e ciò li preparò a non cadere nell'incanto della guerra irredentista 1915 con tutta la sua orchestra di democratiche seduzioni. Purtroppo nel 1914 tutti i partiti socialisti di Europa avevano trovato qualche terra da liberare e qualche punto cardinale verso il quale far viaggiare la civiltà democratica sulla bocca del cannone, ed erano caduti nel tradimento e nell'unione nazionale.

La guerra scoppiò dalla "piccola Serbia" attaccata dall'Austria per aver organizzato l'attentato di Sarajevo. Una prima sbornia demonazionaldifesista fu fatta in onore del libero popolo serbo, e la coppa fu degnamente levata da quel campione di tutte le libertà che era Nicola di Russia. Non vogliamo seguire la storia delle guerre e delle loro giustificazioni, ci vorrebbe un volume. Sia a titolo di onore ricordato il piccolo partito socialista serbo che si levò contro la guerra, e al suo sporco interno regime di cortigiani e di sciabolisti usciti da una catena di delitti, e di borghesi venditori di porci, rifiutò l'appoggio alla richiesta di difesa nazionale, malgrado la potenza e la violenza dell'invasione militare.

Oggi

La Prima Grande Guerra dette Trieste all'Italia, alla grande Italia, e creò nel Regno S.H.S. la grande Serbia, mentre i rispettivi partiti nazionalisti e militaristi tripudiavano del trionfo ottenuto con l'abile maneggio del ciarlatanismo demopopolare. Da una parte e dall'altra i partiti operai non avevano creduto alle menzogne irredentiste e avevano rifiutato di battersi perché l'Austria perdesse Trieste e Zagabria. Respinsero ugualmente in nome del sano internazionalismo il nascente odio tra i due Stati nel conflitto attorno a Fiume, che subito rese nemici i due alleati di ieri, i due campioni delle guerre per la libertà; pronti a scambiarsi accuse di oppressione etnica e nazionale.

Sappiamo bene le accuse italiane di panslavismo agli Jugoslavi, che nelle carte delle loro aspirazioni varcavano Isonzo e Natisone includendo Udine e il Friuli. I giovani non ignorano il piano sabaudo e fascista di annessione di Lubiana, di soggezione della Croazia. I drammatici scioglimenti dei conflitti militari costringono l'etnografia, femmina volubile, a danzare i suoi valzer da tutte le parti.

Trieste è oggi in pericolo, per la borghesia italiana. Il proletariato che per Trieste, in una pagina della sua storia, non volle la guerra, non può in questa situazione basare la sua politica sull'accusa alla borghesia di perdere un lembo di nazione per i suoi trascorsi fascisti di ieri, per la sua inconsistente arte governamentale di oggi. La questione non si pone così. E', come sempre è stata, una questione internazionale legata alla lotta degli imperialismi. Al tempo della triplice disse Guglielmo: chi toccherà Trieste incontrerà la spada della Germania! E' possibile che se la Germania avesse vinto con Hitler le questioni sui confini giulii e tridentini sarebbero state ancora più aspre di oggi. Testa di canale verso il cuore dell'Europa, Trieste interessa il modernissimo imperialismo e i piani americani di controllo. Su questo scacchiere strategico le marionette dei governi di Roma e Belgrado disputano a vuoto sulle linee di demarcazione tra Italiani e Sloveni. Nella zona A e nella zona B, da Gorizia a Trieste a Capodistria a Pola a Fiume, le sedi dei due gruppi etnici sono inseparabili; in genere le campagne, slovene talvolta al cento per cento, contornano centri di città e cittadine prevalentemente o totalmente italiane. Dalle due parti si maneggiano statistiche false o si compilerebbero liste false per la soluzione che tanto piaceva a Mussolini: l'eventuale plebiscito; o le famosissime "libere elezioni" sotto la garanzia di truppe di occupazione di dieci altre lingue...

Il gioco diplomatico degli imperialismi in questo settore, per una serie di circostanze originali, non può da nessuna parte celare la sua indecenza. Se la Jugoslavia fosse rimasta ligia alla Russia si sarebbe ingaggiato un tiro alla corda semplice e chiaro: un brandello ad Oriente, non senza Italiani, sarebbe andato con Belgrado, un brandello ad Ovest, con Sloveni e Croati, con Roma, molto probabilmente un brandello misto centrale, con Trieste il porto e i cantieri, sotto un controllo doppiamente straniero, oggetto di ulteriore contesa tra i due gruppi dominanti il mondo. Ma la situazione si è complicata pel dissidio tra Mosca e il regime di Tito, che per eufemismo si può chiamare nazionalmilitare anziché brigantesco, avendo origini poco diverse da quelle, da pugnalate di alcova, del regno Karageorgevic. Democrazia popolare non significa nulla, e la attuino anche i capibanda di guerriglia non meglio identificati politicamente, ma socialismo! comunismo! Nei rapporti sociali tra le classi, nel gioco delle forze di produzione, che cosa è cambiato nella Repubblica Jugoslava da quando Tiro era figlio prediletto di Mosca, e dopo la sconfessione? Niente, un accidente di niente. E del resto che cosa cambiò quando in ventiquattro ore si venne a sapere da Belgrado, prima, che il governo si schierava contro l'Asse, poi che passava a suo favore (aprile 1941)? Sono i campi di forza dei grandi potenziali imperiali che determinano tali mutamenti, non contrasti sociali e politici locali, e ciò perché quei potenziali derivano da tutto il complesso delle forze produttive e sociali nel mondo, dall'interesse della classe capitalistica e dalle violente reazioni che le contraddizioni economiche sollevano contro di lei.

Sicuri che a Roma ci sarebbe stato un regime direttamente soggetto ad essi, i tre grandi Stati borghesi occidentali erano pronti a garantire che con pieno rispetto di tutte le libertà gli Slavi potevano stare sotto l'Italia, sempre meglio che sotto colui che era allora lo sporco dittatore Tito. Di qui la tripartita promessa di dare Trieste all'Italia, malgrado il trattato di pace la escludesse, ma di qui anche il dissenso del quarto grande, la Russia, da quel labile impegno. Da Mosca e dai partiti italiani che ne dipendono si era pronti ad assicurare che anziché sotto il governo nero fondiario e monopolista di Roma, una minoranza italiana avrebbe gioito nelle braccia della libera democrazia popolare belgradese.

Di colpo la democrazia popolare confortata dall'adesione delle masse operaie e contadine liberate si trasforma nella "cricca di Tito" di cui le varie Unità, dopo la condanna del Cominform. Ciò spiega il fatto così poco, come il parlare di "cricca di Stalin" spiega il crollo della rivoluzione bolscevica.

Con la stessa facilità e lo stesso tipo di procedimento, in cui le masse entrano solo come vittime ingannate, col quale i noleggiatori alleati di resistenze congedarono il capobanda Mihailovitch e presero Tito (allora con un compromesso tra stati maggiori americani inglesi e russi), oggi Tito ha vagliata la utilità di noleggiarsi ad un solo dei due gruppi in dissidio. Si ignora assolutamente quali precedenti marxisti e comunisti avessero in primo tempo orientato costui verso Mosca, probabilmente proprio il fatto di avere in materia di movimento proletario una assoluta verginità: "jamais couché avec". In ogni modo il suo organismo militare-statale si sta ora noleggiando ai capitalisti occidentali; le masse, nonché le stelle, stanno a guardare. Il che si spiega solo col fatto che si tratta nei due casi e nei due sensi di un sistema organizzato fuori, sopra, contro le masse lavoratrici, la cui iniziativa è stata paralizzata dal morbo dell'opportunismo partigianesco.

Ed ecco che gli stessi partiti, la stessa stampa, di qua e di là, cambiano di colpo la loro scienza geografico-storico-linguistico-etnografica in riguardo al problema!

La Russia rivoluzionaria è scesa al grado di spauracchio che può essere maneggiato da un conte Sforza per ricattare un Tito. Pur di fregare costui, e non avendolo potuto avere tra le mani in quanto il non imbecille avventuriero non prende biglietti per le kremlinesche Canosse, Mosca potrebbe inserirsi nella dichiarazione tripartita e dare la consegna ai vari partiti staliniani di sostenere che Trieste e magari Pola, Fiume e Zara devono stare con Roma, per la pregiudiziale "nazionale" che sta in cima ai pensieri e ai discorsi dei conformisti sotto ogni cielo.

Dall'altro canto i capitalisti occidentali, che non hanno convenuto ancora il prezzo dell'acquisto del nuovo satellite, potrebbero dovere offrirgli anche compensi territoriali, ed in tal caso la perfetta democrazia atlantica e parlamentare verrebbe con sussiego a riconoscere i diritti dell'irredentismo croato e sloveno contro gli appetiti italiani, e applicherebbe i classici canoni del diritto delle genti per dare a Trieste un nome slavo.

Tutte queste lezioni non sarebbero che utili al movimento di classe dei lavoratori se lo conducessero ad assimilare le direttive della sua azione autonoma, a stabilire che sempre le classi dominanti parlano di libertà, di indipendenza e di diritto nazionale a fini di oppressione sociale, e sempre deve essere respinto, da ogni lato e in ogni lingua, il loro invito a collaborare.

Non dovremmo vedere in Trieste tre facce del partito operaio: una filoitaliana e legata alla pregiudiziale irredentista contro cui tanto combatté il socialismo in Italia e nella Venezia Giulia; una decisamente filoslava e che propende per la unione a Tito entro i limiti più estesi, sotto l'enorme pretesto che a Belgrado sta al potere la classe operaia; la terza infine, la più sbalorditiva, la cominformista, che da un giorno all'altro ha mutata questa stessa consegna di appoggiare Tito nella consegna opposta, e utilizza con una sfacciataggine non inferiore a quella di Sforza, per questo nuovo indirizzo, la italianità della Giulia e l'appoggio che potrebbe tale Causa avere da Mosca!

La politica proletaria a Trieste non può essere che la fraternità internazionalista tra lavoratori di lingua italiana o slava, la ripulsa di ogni smanceria razziale e patriottica. Il vecchio socialismo triestino sentiva del riformismo socialdemocratico austriaco. Ma aveva fatto un buon lavoro di preparazione marxista: gli stessi Oberdorfer non poterono negare nei contraddittori coi comunisti della Terza Internazionale la solida base marxista del leninismo. In ogni modo nelle stesse lotte elettorali di prima della guerra si erano battuti contro il partito italiano: "ga fato più furor Giorgio Pittoni che Valentin Pitacco, quel bel macacco". Erano per questo austriacanti? Non era certo la loro consegna Trieste all'Austria, come non era Zagabria all'Austria quella dei socialisti internazionalisti serbi. Ognuno lottava contro gli imperialismi di casa sua, contro la propria borghesia. Sparita l'Austria non si fecero di nuovo irretire, i lavoratori triestini, nelle trappole di una antitesi nazionale. Il Partito Comunista di Livorno prese a Trieste la sezione politica, il giornale, la Camera del Lavoro. Compagni italiani e slavi vi lavoravano in tutto accordo. Gli stessi articoli, tradotti dal buon Srebrnic, andavano nelle due edizioni italiana e slovena. La generosa classe operaia di Trieste non meno dei lavoratori agricoli del contado vibrava di entusiasmo per la rivoluzione di Lenin, e per le stesse ragioni.

Le manovre politiche degli Sforza e dei Kardely devono fare agli operai e contadini giuliani lo stesso schifo. Deve stare ad infinita vergogna dei traditori del comunismo, se per istigazione di odio nazionale e per il gioco della infame e venale politica degli Stati borghesi, dei governi di quelli di secondo rango - che parlano di nazione solo per mettere la nazione all'incanto - è avvenuta divisione ed è perfino scorso sangue fraterno tra lavoratori triestini. E' in queste frange di incontro dei popoli, in queste zone bilingui, che l'internazionalismo proletario deve fare le sue prove rifiutando le bandiere di tutte le patrie per quella unica e rossa della rivoluzione sociale.

Da Battaglia comunista, n. 8 del 19 aprile 1950

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