Boero Giovanni

Mancano i dati biografici.

Verso la fine dell'800 è attivo in campo internazionale come socialista. Partecipa come tale fino alla guerra mondiale a tutti i più importanti moti proletari.

Nell'agosto del 1917 esplode a Torino una sommossa popolare "contro i pescecani profittatori di guerra". La parola d'ordine è "sciopero generale per bloccare la guerra". La sommossa è preceduta da mesi di agitazione contro la guerra e contro le condizioni proletarie da parte di militanti che si auto-organizzano all'interno dei sindacati e del PSI, insofferenti verso la parola d'ordine ambigua del partito (nè aderire nè sabotare). Si tratta dei cosiddetti "rigidi" fra i quali emerge Giovanni Boero (altri militanti sono: Francesco Barberis, Luigi Gilodi, Maria Giudice, Pietro Rabezzana, Elvira Zocca).

Diventa segretario dela sezione torinese del PSI (presumibilmente nel 1918).

E' a Parigi quando il proletariato francese accoglie una delegazione dei Soviet capeggiata da Zinoviev.

Nel 1920 è delegato al Congresso di Bologna del PSI, dove si deliea la spaccatua fra la Frazione Comunista e il resto del partito: 

I discorsi del torinese Giovanni Boero e del fiorentino Virgilio Verdaro sono a loro volta importanti ad esplicita dimostrazione che la corrente di sinistra, piccola o grande che fosse numericamente, era ben lontana dal rimanere circoscritta al famoso, o meglio ancora famigerato, Mezzogiorno, e disponeva di una rete nazionale con punti di forza anche in aree ad altissima concentrazione proletaria. Il valoroso compagno Boero rivendica a nome della Frazione la necessità non solo di modificare il programma di Genova, chiedendo a tutti i congressisti di proclamare francamente se intendono "seguirlo [il nuovo programma formulato nel modo più netto ed esplicito] fino alla fine, o se lo accettano pro forma per poi tradirlo al primo avvenimento", ma anche di mutare nome: "oggi apparteniamo al partito comunista, e il Partito Socialista Italiano non può essere che una sezione del comunismo internazionale". L'oratore oppone le grandi possibilità dell'epoca storica aperta dalla rivoluzione russa a quelle, ridotte, che potevano giustificare una tattica meno audace, e, sulla scorta delle esperienze di Germania e Ungheria, mostra come in un simile ciclo storico l'unità tanto cara ai massimalisti rappresenti non un elemento di forza, ma una ragione di debolezza. Valendosi del bilancio pratico del proletariato torinese durante la guerra, egli mette in evidenza l'urgente necessità di svolgere un'attiva propaganda nell'esercito e dedicare maggiori energie che in passato all'agitazione in mezzo ai contadini. Fra le urla dei massimalisti, soliti ad assumere pose rivoluzionarie a carico del contadiname, il compagno osserva giustamente: "Si è detto che i nostri contadini non si trovano nelle condizioni di quelli di Russia, e che quindi non verranno a noi perché vogliono la terra divisa in proprietà. Così sarà se non diremo loro che queste piccole proprietà saranno più di danno che di vantaggio". Concludendo, l'oratore indica fra i grandi insegnamenti della rivoluzione russa quello di non aver esitato di fronte alla creazione di un "militarismo russo", e oppone la rivendicazione fondamentale della dittatura, del terrore e dell'organizzazione armata della classe operaia, al vile parlamentarismo in cui non solo la destra ma il centro massimalista affogano" (Da Storia della Sinistra vol. II).

Nel luglio del 1920 è deputato socialista alla Camera e in quanto tale viene aggredito dai fascisti insieme con Giuseppe Emanuele Modigliani, Alceste Della Seta, Giovanni Monici, Ettore Reina, Nullo Baldini, Francesco Barberis, Umberto Recalcati, Gino Baglioni e altri.

Entra nel PCd'I su posizioni consigliari-soviettiste. Rifiutando il modello bolscevico di partito e, non afferrando la concezione organica della Sinistra Comunista, tenta una mediazione fra Bordiga e Gramsci.

Emigra in Francia.

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