Quale rivoluzione in Iran? (3)
I comunisti e la soluzione rivoluzionaria dei problemi sociali arretrati

Quale rivoluzione in Iran?

La Persia dell'inizio secolo era formalmente uno Stato indipendente, ma l'Impero britannico con sempre più insistenza allungava le mani su di esso, territorio ancora al di fuori del mercato mondiale che il dominio capitalistico stava formando a tappe forzate. Lo sviluppo capitalistico avvenne esclusivamente come penetrazione dall'esterno, non fu il risultato spontaneo della crescita di forme economiche autoctone. Fu con la classica duplice forma descritta da Lenin, che l'imperialismo cominciò ad operare in Persia: rapinando da un lato le materie prime ed importando, dall'altro, capitali in cerca di valorizzazione, lavoro morto da valorizzare tramite l'unione con il lavoro vivo operaio. Negli anni '20, con i capitali inglesi vennero costruite le prime industrie moderne in Iran: sorsero così le prime grandi raffinerie di Abadan e si avviò la costruzione della ferrovia transiraniana.

La formazione dell'Iran moderno proseguì parallelamente in campo politico; gli Inglesi stessi avviarono questo processo, favorendo la presa del potere da parte di Reza Khan. Reza condusse un'implacabile guerra contro le tribù nomadi, la cui struttura sociale, basata sul potere di uno sceicco locale, costituì l'ostacolo maggiore alla moderna unità statale. La sanguinosa lotta condusse in alcuni anni alla distruzione di qualunque indipendenza politica delle tribù: Arabi, Turkman Sahra, ecc. vennero resi sedentari ed inquadrati nella nuova divisione amministrativa dello Stato, articolata in dieci ostan, ciascuno suddiviso in circoscrizioni e comuni. Analoga politica venne svolta nei confronti dei Curdi, il cui capo Simko fu fatto uccidere da Reza, dopo un primo periodo di aiuti concessi alla sua lotta, in funzione antiturca.

Ma se Reza fu il sanguinario "padre" dell'Iran moderno, questa sua opera poté svolgersi solo nella misura in cui ad essa si assicurò il beneplacito dell'imperialismo straniero: prova ne sia che quanto Reza tentò di allontanarsi dal soffocante abbraccio inglese avvicinandosi alla Germania e facendo di questa il principale partner economico dell'Iran, l'invasione anglo-americana del paese lo depose manu militari, ponendo sul trono Reza figlio (1941).

Come in tutto il resto del pianeta, il dopoguerra fu caratterizzato in Iran dal rapido sostituirsi dell'imperialismo americano al decadente imperialismo britannico. Il nuovo dominio economico e politico sul paese favorì, con la ripresa del ciclo dell'accumulazione mondiale, l'ulteriore sviluppo capitalistico del paese.

Lo sfruttamento intensivo delle risorse petrolifere contribuì naturalmente allo sviluppo capitalistico, specie con l'assunzione del controllo diretto sulle attività estrattive. La natura di questo tipo di sviluppo non aveva più nulla a che fare con l'accumulazione originaria del capitale. I sovrapprofitti delle grandi compagnie petrolifere erano tramutati in rendita per lo Stato iraniano, il quale si trovava a disporre di una enorme quantità di capitale finanziario utilizzabile per le attività capitalistiche interne.

In questo modo si accentuava enormemente l'impostazione dell'alto dello sviluppo capitalistico dell'Iran. Non ci troviamo di fronte ad un mercato potenziale che rende possibile lo sviluppo della produzione e dell'industria, ma ad una massa di capitale che è già in grado di promuovere uno sviluppo altrimenti impossibile. Questo fenomeno, che è comune a tutti i paesi in cui siano giunti in modo massiccio capitali d'investimento dall'estero, fu esaltato dallo sfruttamento di una riserva come il petrolio, essenziale per i paesi di vecchio capitalismo, enormi consumatori di energia.

Le implicazioni di questo fenomeno furono enormi. Non solo i paesi come l'Iran riuscirono così a raggiungere livelli di sviluppo capitalistici tali da sviluppare nello stesso tempo un forte e giovane proletariato, ma, essendo la rendita non altro che plusvalore dirottato, risultò che lo sviluppo del capitalismo e quindi del proletariato fuori delle metropoli fu pagato in questo caso dal proletariato delle metropoli imperialistiche. Infatti fu il proletariato dell'Occidente a pagare la rendita petrolifera, dato che le grandi compagnie non rinunciarono affatto ai loro sovrapprofitti e scaricarono il costo aggiuntivo sui prezzi internazionali. Negli anni immediatamente successivi alla crisi le maggiori compagnie del petrolio denunciarono un massiccio aumento degli utili: il commercio e la raffinazione rappresentano infatti un "valore aggiunto" rispetto alla materia prima e la tendenza generale è quella di sommarlo come percentuale di prezzo della stessa materia prima. Tutto ciò si ripercosse notevolmente sulla situazione di quella aristocrazia operaia tradizionalmente beneficiaria delle briciole rimanenti dallo sfruttamento di aree più o meno coloniali. Il proletariato metropolitano venne coinvolto al pari del suo fratello nascente nell'integrazione capitalistica mondiale. La cosiddetta crisi petrolifera diede un duro colpo alle basi materiali dell'egoismo storico della vecchia classe operaia, contribuendo al suo risveglio futuro. Gli effetti della crisi petrolifera si sommarono a quelli della più generale crisi che nel 1975 sfociò in un precipizio di tutte le curve dello sviluppo al di sotto della linea dello zero per i paesi più importanti. Proprio in questi paesi i margini per la sovvenzione dei contributi al welfare state si restrinsero sempre più, mentre nei paesi "emergenti" che incominciavano a produrre secondo il moderno capitalismo, l'intenso sfruttamento del proletariato locale da una parte accrebbe la base produttiva e quindi la "ricchezza", dall'altra accrebbe il numero dei proletari parallelamente alla loro esigenza di lotta e organizzazione.

Tanto per fare un esempio, mentre negli Stati Uniti la crescita del prodotto lordo negli anni '70 è stata mediamente del 2,9% annuo, in Iran è stata, grazie al petrolio, nel triennio 1973-75, del 40% annuo.

La rendita petrolifera ha significato un incentivo notevole al mercato interno; è stata lubrificante per il meccanismo dell'accumulazione, sotto la forma di investimenti diretti dello Stato o di sovvenzioni alla produzione e al commercio. Oltre che nell'acquisto di armamenti, lo Stato l'ha utilizzata in uno dei modi tipici dell'epoca imperialistica, diventando sempre più egli stesso anonimo capitalista, tentando di regolarizzare la crisi con l'intervento diretto nell'economia, con la diretta elargizione di capitale ai settori che più possono sperare in una sua valorizzazione. Fenomeno vecchio come il capitalismo, d'altronde, se Marx scriveva nel Capitale:

"La sorgente incantata donde il capitale primitivo scaturiva per arrivare direttamente agli imprenditori sotto forma di anticipazione o anche di dono gratuito, fu spesso il tesoro pubblico".

Ovviamente il ricomparire costante delle crisi conferma l'inutilità di tali sforzi.

In Iran la piccola produzione artigianale venne via via soppiantata dalla media industria e, specialmente a partire dagli anni '70, dallo sviluppo di grandi complessi industriali, mentre alla tradizionale industria tessile artigianale (spesso modernizzata con l'intervento di capitali stranieri, come nel caso dei tappeti di Tabriz) si aggiunsero grosse fabbriche chimiche, elettrotecniche, siderurgiche, meccaniche.

Ma il più importante risultato raggiunto nella diffusione di rapporti economici capitalistici in Iran venne dalla riforma agraria che si sviluppò nel corso di tutti gli anni '60, fino all'inizio del decennio successivo.

Ancora al termine della II Guerra Mondiale, nelle campagne persiane vigeva un modo di produzione semifeudale: l'80%-90% della terra era di proprietà di latifondisti, di enti religiosi o della famiglia reale, che la assegnavano in coltivazione, in miriadi di piccolissimi appezzamenti, a contadini poveri, in cambio di una rendita in natura. I caratteri di tali rapporti di produzione erano ancora nettamente precapitalistici; tale piccolissima proprietà in concessione era in gran parte esclusa dal mercato della terra intesa come merce, ed anche i prodotti coltivati su di essa restavano al di fuori dello scambio mercantile. Per oltre metà della terra divisa in questi appezzamenti, la superficie media superava di poco l'ettaro ed era coltivata senza neppure l'ausilio di animali da lavoro.

Con la riforma agraria, lo Stato fissò la superficie massima di terra che poteva essere posseduta da un proprietario terriero (400 ha. o un villaggio), mentre tutta la proprietà eccedente veniva ceduta ai contadini, che la pagavano con rate estese su un arco quindicennale; la stessa terra rimasta di proprietà dei latifondisti veniva sottoposta, in seguito, all'obbligo di essere affittata, o venduta, o ceduta in base al diritto consuetudinario, od organizzata in cooperative con i contadini.

Come in tutti i paesi a nuovo capitalismo, anche quelli formatisi nella rivoluzione borghese anticoloniale, la riforma agraria in Iran fu un misto di intraprendenza capitalistica e di timidezza estrema verso le vecchie forme. Grandiosi progetti di riconversione rimasero isolati rispetto ad un lentissimo e doloroso riassetto proprietario dell'agricoltura. Ma nonostante tutto, più che l'impatto petrolifero, più che i termini stessi della riforma imposta senza scontentare troppo le classi legate alla corona, l'introduzione del capitalismo nelle campagne sconvolse i vecchi rapporti sociali.

La società iraniana era già pronta da tempo a simile sconvolgimento perché da sempre si trascinava contraddizioni stridenti fra città e campagna. Nel 1956 già il 31% della popolazione totale era inurbato e il 21% era impegnato in attività industriali e artigianali. Nelle città ben il 60% degli abitanti viveva di una qualche forma di salario e il restante 40% di commerci e traffici vari, mentre la burocrazia, l'esercito e l'apparato repressivo contribuivano a rendere numericamente poco importante l'agricoltura, che d'altra parte soffriva anch'essa di contraddizioni non meno stridenti.

Accanto a sacche di nomadismo, convivevano forme agricole evolute anche senza macchine e apporto di capitale come in molte delle società antiche, in cui la mano dell'uomo aveva reso artificialmente fertili da millenni terreni altrimenti sterili. In Iran nel 1956 il 40% delle terre coltivate erano irrigue, una situazione di per sé favorevole al passaggio da forme feudali a forme capitalistiche, in cui il capitale possa sfogare la sua migliore natura, che è quella di agire in modo concentrato e non esteso. Caratteristica della conduzione capitalistica della terra è infatti la coltura intensiva e i dati non fanno che confermare questo fatto. All'inizio degli anni '70 le cooperative di produzione coltivavano 190.000 ettari, mentre 400.000 ettari erano gestiti dalle Società Anonime agricole formate con capitali misti degli ex espropriati feudali e dello Stato attraverso crediti vari. 420.000 ettari, infine, erano condotti industrialmente secondo il piano cosiddetto dell'Agro Business, una concentrazione di capitali voluta dallo Stato in associazione con imprese finanziarie del mondo anglosassone. Certo, la terra così coltivata non rappresentava che un decimo dell'intera terra arabile, ma su di essa veniva applicato il 25% della manodopera agricola e veniva prodotto il 70% delle merci per il mercato agricolo. Nel 1973 l'agricoltura non rappresentava più che il 18% del prodotto lordo, di fronte al 20% rappresentato dal petrolio e al 22% dell'industria, mentre i "servizi", vero indice del capitalismo nato vecchio, si portavano via una quota del 40%.

Ma per i contadini e per le loro famiglie il capitalismo in agricoltura non rappresentò un beneficio. Mentre masse di braccianti ora dovevano fare i conti con nuovi padroni non certo meno assetati di forza-lavoro dei vecchi, altre masse di diseredati dovettero lasciare la terra per sempre.

Sulla totalità dei contadini, soltanto l'80% poté rimanere in qualche modo sulla terra, come proprietario, affittuario o salariato. Il 20% dovette definitivamente cambiare la propria condizione raggiungendo le città che si gonfiarono smisuratamente, specialmente Teheran.

Per tutti coloro che rimasero sulla terra, comunque, le cose non andarono meglio. L'ingresso massiccio del mercato capitalistico nel mondo addormentato dei rapporti di produzione semifeudali fu fonte di sconvolgimenti a catena, che anche in Iran scossero dalle fondamenta quell'universo di antichi rapporti patriarcali, nonostante che il capitale agrario fosse meno attivo e vivace di quello di altri paesi che avevano vissuto analoghe riforme, quali l'India o il Messico. Sugli affittuari vennero a pesare canoni d'affitto non minori della vecchia rendita in natura, con l'aggravante della qualità monetaria dei nuovi rapporti di dipendenza: ora il contadino doveva anche preoccuparsi di smerciare il prodotto, quindi pagare una tangente all'intermediario. La penetrazione della produzione industriale erose e distrusse inoltre la vecchia produzione individuale delle sementi, dei concimi e degli utensili di più largo consumo, facendo accrescere la tradizionale divaricazione tra prezzi agricoli e prezzi industriali: il piccolo contadino fu costretto dalla concorrenza dell'industria agraria ad acquistare molti dei suoi mezzi di lavoro (sementi ibride, concimi chimici, macchine ecc.). Con lo sconvolgimento delle colture tradizionali a favore di specie ad alto rendimento e colture per l'industria, calarono i prezzi agricoli, mentre il mercato distrusse l'antica solidarietà di villaggio.

Analogamente, sui piccoli proprietari gravavano tasse ed ipoteche per l'acquisto della terra, mentre i nuovi creditori (banche e Stato) si dimostravano più esosi e inflessibili dei vecchi usurai.

Come in tutti i paesi a nuovo capitalismo. lo sconvolgimento dei rapporti di produzione in agricoltura, accompagnato dall'inurbamento di milioni di persone, sconvolse anche l'equilibrio alimentare basato sulla produzione per l'autoconsumo e quindi, nonostante lo statistico aumento della produzione agraria, dal 1970 cessò l'autosufficienza alimentare nazionale e si dovette ricorrere a sempre più massicce importazioni.

Il risultato più travolgente e innovativo non fu quindi dovuto tanto alla riforma agraria quanto alla disponibilità di capitale che spingeva al cambiamento e che quindi produsse anche la timida riforma stessa. Con questo risulta ancora una volta che la borghesia non è affatto in grado di controllare i meccanismi del suo modo di produzione ma li subisce. Come in tutto il resto del cosiddetto Terzo Mondo, in Iran la borghesia non poté evitare che la base produttiva rimanesse esigua rispetto al resto della società che consuma plusvalore senza produrne, non poté quindi sviluppare una struttura industriale favorevole ad un grande sviluppo del proletariato e delle sue tradizioni di lotta. Dovette subito passare alla repressione senza passare dalla fase permissiva e quindi proibì lo sviluppo della rete sindacale.

L'effetto più vistoso dello sviluppo capitalistico fu un mostruoso inurbamento, ma senza che nel tessuto urbano crescesse parallelamente un diffuso tessuto industriale. L'industria rimase isolata in centri moderni ma sporadici e la lotta proletaria dovette scontrarsi con l'arretratezza sociale degli altri strati della popolazione. La lotta contro lo Scià vide una saldatura temporanea fra proletariato e altre classi "oppresse", ma questa saldatura venne meno non appena il risultato della lotta immediata si dissolse. Caduto lo Scià, il proletariato non poté dare il proprio indirizzo al movimento e dovette cedere il terreno ad altre forze.

Nel 1976 la popolazione urbana era già il 47% della popolazione totale, ma il proletariato vero e proprio rappresentava una piccola minoranza. Soprattutto, al di là del dato numerico, esso non era forte politicamente, non era in grado di fare valere il suo peso specifico, ben superiore a quello delle altre classi.

Nella capitale Teheran, si ammassarono sette milioni di abitanti, ma la maggior parte dediti ad attività non produttive. Nell'intero paese dilagò lo stesso fenomeno, per cui una sovrappopolazione relativa valutabile attorno al 40% della popolazione attiva si riversò sulle città, vivendo di attività insignificanti spesso legate al bazar.

Lotta proletaria e lotta di popolo

Come in ogni latitudine e longitudine, le lotte del proletariato iraniano nella fase di sviluppo capitalistico di questi ultimi 30 anni, sono state la risposta naturale alle condizioni di supersfruttamento che conduce ad una altrettanto naturale capacità di organizzazione e di coordinamento delle forze.

L'esemplare condotta di questa lotta non poteva che essere il prodotto di condizioni mature per lo scontro tra i proletari come classe contro i proprietari industriali visti come borghesi. Anche se il fatto non è certamente frutto della coscienza individuale di ogni proletario, in Iran, come in altri paesi che vivono momenti di sviluppo simili, il proletariato ha dimostrato di essere in grado di lottare per sé dando vita a quelle forme organizzative immediate, sindacati, soviet, consigli ecc., che rappresentano il salto qualitativo dalla reazione isolata dell'operaio di una fabbrica contro l'azione del proprio capitalista, alla reazione di tutti gli operai contro la classe dei capitalisti. Questo fatto materiale, questa reazione classica di una classe contro l'altra, anche se limitata al fatto economico, ha per noi più importanza di tutta la spettacolare lotta politica popolare, pur durissima e sanguinosa, per il rovesciamento dello Scià.

Questa formidabile capacità di risposta unitaria al supersfruttamento capitalistico è purtroppo andata dissolvendosi nella più generale lotta popolare contro la monarchia. Il proletariato ha lottato, alla fine, come componente del "popolo", e quindi per gli obiettivi che il popolo aveva. Sul suo terreno, nella fabbrica, ha dimostrato di lottare esprimendo finalità diverse, organizzazioni diverse, metodi diversi da quelli della folla generica, manifestandosi come componente effettivamente diversa da tutte la altre nella società, e per questo in un primo tempo isolata e abbandonata dalle attenzioni delle componenti immediatiste e populiste. Il proletariato non ha fatto altro che continuare una lotta che per lui era già in corso e nessuno degli strombazzati "protagonisti" poteva capire la differenza della sua azione. Mentre la società iraniana nel suo insieme stentava a trovare uno sbocco alla situazione caotica in cui si susseguivano manifestazioni di massa e massacri, affannosi tentativi politici e il dissolversi dei poteri borghesi, blocco delle attività economiche e pronunciamenti militari, sono stati gli scioperi e la chiusura dei pozzi e delle raffinerie a dare il colpo decisivo per far cadere la monarchia; anche se non ha potuto offrire frutti utili ai fini rivoluzionari sul momento, è stata la lotta del proletariato l'elemento decisivo affinché il "popolo" vincesse lo scontro nella cosiddetta rivoluzione iraniana. Ma tale lotta non era frutto di una improvvisa vampata: essa era iniziata prima della sollevazione popolare. Aveva interessato solo marginalmente le organizzazioni piccolo borghesi radicaleggianti: essa non era per la democrazia, ma per la difesa delle condizioni di vita e di lavoro di chi la stava conducendo.

Non vi erano in effetti interessi comuni tra i proletari e il resto della popolazione. Se anche la questione non era coscientemente espressa, che importava ai proletari di essere sfruttati dalla monarchia o dalla repubblica? Che importava ai democratici se il proletariato era sfruttato? Non vivevano essi forse alle sue spalle? Che importava all'immenso bazar di Teheran se in fabbrica si lavorava 12 ore? Non stava forse di più il mercante di fronte al suo desco per guadagnare forse anche meno? E l'artigiano con alcuni lavoranti, per questo considerato industriale dalla statistica ufficiale, non aveva da rimetterci se i suoi operai avessero lavorato meno e preteso più soldi? La frattura all'interno di quello che sembrava un omogeneo movimento popolare contro la monarchia era nei fatti prima che si manifestasse apertamente alla fine della "rivoluzione", nonostante la lotta delle diverse componenti procedesse parallela, apparentemente per gli stessi fini. Ma in fondo il proletariato conduceva la battaglia solo contingentemente contro lo stesso obiettivo degli altri: esso era automaticamente portato ad andare oltre, per questo non poteva fermarsi a metà strada. Il suo destino in quella situazione era quello di sconfiggere tutti o rimanere sconfitto. Purtroppo la prima ipotesi mancava di alcuni presupposti fondamentali per realizzarsi.

La società iraniana era stata rivoluzionata dall'estensione del capitalismo, ma la borghesia nazionale, arrivata tardi sulla scena, aveva esaurito il suo slancio all'epoca di Mossadeq. Riusciva ancora a produrre una demagogia antimperialista, abbandonata da Reza e ripresa dalla repubblica islamica, ma non era più in grado di portare a termine all'interno del paese i suoi stessi compiti contro i residui delle società passate, contro l'oscurantismo religioso, contro i signori delle campagne e del bazar. Solo il proletariato avrebbe potuto lottare per portare a termine questi compiti, anche se non suoi propri, ma avrebbe dovuto essere in grado, nello stesso tempo, di sconfiggere la borghesia. Il primo passo verso questo obiettivo era la formazione di una organizzazione autonoma di classe di tipo sindacale. Il secondo passo, più arduo, ma strettamente collegato al primo, sarebbe stata la formazione di un'organizzazione politica rivoluzionaria, il partito di classe.

Interrotto il formarsi delle organizzazioni intermedie di tipo sindacale, quindi il confluire della lotta specifica proletaria nella lotta generale popolare (ovviamente per ragioni obiettive, non certo per decisione degli operai organizzati) non poteva che interrompersi il cammino verso l'organizzazione politica, il ristabilimento delle non indifferenti tradizioni rivoluzionarie che, negli anni '20, avevano toccato la Persia ed erano state travolte dalla controrivoluzione mondiale.

Queste furono le ragioni per cui rifiutammo di considerare la rivolta antimonarchica come una vera rivoluzione e mettemmo in guardia contro i pericoli che tale illusione poteva comportare. Il termine rivoluzione non può essere usato a casaccio dai marxisti: esso sta a significare un rovesciamento dell'ordine esistente in un nuovo ordine sociale, nulla di tutto ciò era in corso in Iran.

È normale che un notevole sviluppo capitalistico comporti uno sfruttamento intensivo del proletariato: l'Iran non poteva rappresentare un'eccezione. Sotto la nuova repubblica l'orario di lavoro fu prolungato fino a 12-14 ore quotidiane, mentre i salari subirono un abbassamento vicino alla pura sopravvivenza. La stessa produttività, oltre alla durata del lavoro, fu mantenuta altissima aumentando i ritmi e l'utilizzo degli impianti con l'istituzione di più turni.

La rivolta e le sue origini

Al di là delle proprie contraddizioni interne, la borghesia iraniana, che fosse rappresentata da Reza Khan o da suo figlio o da Bani Sadr, o dal pretume islamico, non poteva che sostenersi sullo sfruttamento intensivo della classe operaia come in qualsiasi parte del mondo, per questo il nuovo "regolamento islamico del lavoro" previde orari di 60 ore settimanali con punte di 14 ore giornaliere ed estese la "possibilità" di lavoro anche per i ragazzi al di sotto dei 14 anni. Ovviamente la guerra non fece che peggiorare la situazione ed oggi il proletariato iraniano si trova in una delle più tragiche situazioni che nella sua storia abbia conosciuto.

Ma non esistono situazioni storiche senza via d'uscita.

Il regime islamico ha fatto la sua prova e non può più rappresentare illusioni di sorta. Il campo viene liberato da ogni possibile confusione: alla prossima occasione di scontro borghesia e proletariato dovranno fronteggiarsi direttamente e lo storico dispiegarsi delle forze potrà manifestarsi nel suo classico processo: organizzazione economica, generalizzazione di questa a tutta la classe, lotta politica contro il capitale.

Il proletariato persiano non manca di una notevole tradizione di lotta e di organizzazione politica. Nel 1905-1906 si conoscono i primi tentativi di organizzazione intorno a basi marxiste in Azerbaigian. Nel 1920 la classe operaia esprime per la prima volta il proprio partito. È in quell'anno, infatti, che nasce il Partito Comunista di Persia (bolscevico), il cui programma ricalca i temi dell'Internazionale allora al suo apice. Attivo nelle fabbriche, presente alle riunioni periodiche della III Internazionale, il partito sarà sconfitto negli anni successivi dalla violenta repressione di Reza Khan e la generale sconfitta internazionale del proletariato non permetterà che rimanga una traccia a rappresentare la continuità attraverso gli anni. Il secondo dopoguerra vide importanti episodi che dimostrarono la inesauribile combattività della classe operaia, dai grandiosi scioperi del '46 con oceaniche manifestazioni di piazza, agli scioperi durissimi del '63 repressi sanguinosamente, agli scioperi nel settore petrolifero dei primi anni '70 fino all'ultimo ciclo di lotte 1978-79 che furono determinanti per la caduta della monarchia. Il contributo in vite umane fu sempre massiccio e non per questo la classe operaia si dimostrò sopraffatta. La vera sconfitta derivò dall'impossibilità di dar vita ad una organizzazione autonoma di classe, sia pure non ancora a livello di partito politico.

In questo modo il proletariato si trovò spesso a lottare a fianco della borghesia nazionale in difesa di interessi non suoi, contro l'imperialismo anglo-americano, specie durante il governo di Mossadeq.

Questa mancanza di indirizzo autonomo del proletariato contribuì, non meno che altrove, alla proliferazione di organizzazioni che al proletariato si rifacevano, ma erano portavoce di politiche estranee alla classe operaia.

Altre formazioni politiche si rifecero a ciò che la situazione offriva, cioè il populismo terzomondista, il frontismo maoista, il combattentismo islamico, un poco di trotzkismo degenere.

Il partito Tudeh (cioè "masse"), come diretta filiazione dello stalinismo in Iran, ebbe sempre una politica riformista e pacifista, assumendosi il compito di frenare il movimento proletario, in cambio di migliori rapporti politici ed economici con l'URSS. Questo partito rappresentò sempre gli interessi moscoviti precipitando via via nel più becero pacifismo sociale, com'è tradizione dei figli ultradegeneri della degenerata Internazionale staliniana, fino alla capitolazione di fronte alla stessa repubblica islamica (che giustamente l'ha ripagato con la repressione più dura).

Nel 1946, allorché l'URSS, sotto le pressioni degli anglo-americani che le imponevano il rispetto degli accordi di Yalta, abbandonò al loro destino le repubbliche democratiche sorte nel Kurdistan ed in Azerbaigian, il Tudeh si allineò immediatamente a Mosca. Analogamente, negli stessi anni, sabotò la nascita e la diffusione di organismi proletari nel Khuzistan ed accettò di andare al governo proprio quando si rese necessario contenere e reprimere i grandi scioperi di Abadan e di Isfahan che avevano imposto la riduzione dell'orario lavorativo a 8 ore e la regolamentazione del lavoro minorile. In tal modo i risultati delle lotte furono presto cancellati dalla borghesia. Né gli scioperi degli anni '70, né la lotta contro lo Scià hanno alterato la natura controrivoluzionaria del Tudeh. La sclerosi di questo partito, incapace di adattarsi ai cambiamenti di situazione, si tradurrà fortunatamente in una perdita di influenza sugli operai. Tanto si dimostrerà aperto e dichiarato il suo ruolo di pacificazione sociale, preoccupato solo di rimanere a galla nella generale confusione sociale.

Vi è reazione perché vi è stata vera azione di classe

Il movimento contro la dinastia Pahlavi ha origine dunque in un intreccio esplosivo tra l'impatto del capitalismo su antiche strutture, il legame che questo crea con il capitalismo mondiale in crisi, i colpiti interessi di strati privilegiati della popolazione e, soprattutto, la situazione di altri strati più vasti condotti alla condizione di "senza riserve", sia in veste di proletari salariati, sia in quella di diseredati espulsi dalle cosiddette possibilità di reddito.

Il proletariato iraniano, forte numericamente ma non ancora in grado di esprimere una sua organizzazione autonoma generalizzata, né sul piano sindacale né su quello politico, non ha potuto intervenire nelle lotte contro lo Scià alla testa del movimento unificandolo. La rivolta ha espresso così due tendenze distinte che non si sono saldate, né lo potevano. Due tendenze che, se da un lato non hanno permesso di gettare tutta la forza delle classi diseredate in una lotta antiborghese, hanno però sancito la differenza sostanziale tra il proletariato e qualsiasi altro gruppo sociale della popolazione iraniana. La separazione che ad un certo punto si è verificata tra la lotta dei proletari e quella del "popolo" è stata disastrosa per il risultato immediato (cioè ha permesso il sopravvento delle forze arretrate della società), ma ha reso evidente il dato storicamente positivo di un proletariato che non si fa trascinare nella lotta al servizio di altre classi.

Il proletariato, apparentemente sconfitto nella successione degli eventi che conosciamo, ha accumulato un potenziale preziosissimo per le future battaglie contro la borghesia che ritorna a dominare e a far guerra (non solo esterna alle frontiere) sotto l'egida di Khomeini e del suo governo islamico.

La storia non ritorna indietro. La guerra tra l'Iran e l'Iraq mette bene in evidenza l'incompatibilità del regime islamico con la moderna conduzione statale. La guerra dell'epoca moderna riflette al più alto grado l'assetto sociale ed economico di un paese. Le masse umane spedite al massacro nelle paludi intorno allo Shatt el Arab denunciano un apparato industriale non più in grado di sopperire alle esigenze della battaglia moderna. Le paludi sono scelte come terreno di contrattacco proprio per evitare lo scontro con i mezzi corazzati dell'avversario, per ristabilire in qualche modo la priorità del fante appiedato che non può avvantaggiarsi della copertura d'artiglieria o aerea.

Ma le masse umane non sono rinnovabili al ritmo dei prodotti industriali che il nemico riesce ancora a mettere in campo. L'anacronismo del regime iraniano sarà sempre più intollerabile per una borghesia che aveva gustato profitti giganteschi con l'occidentalizzazione voluta dalla monarchia e da sé stessa: questa guerra fornisce più cimiteri che profitti.

La borghesia ha accettato Khomeini solo per paura della rivoluzione.

Se i religiosi sciiti poterono mettersi alla testa delle masse e guidare la rivolta contro lo Scià  fu per un intreccio di ragioni sociali obiettive, ma se poterono rimanervi e consolidare il loro potere fu solo perché la borghesia sentiva che il proletariato era l'unica vera forza in grado di mettere in pericolo il suo dominio.

Noi sappiamo che questa paura era esagerata, non essendo il proletariato ancora in grado di esprimere un suo organo unitario per la rivoluzione, ma la borghesia non fa certo i nostri stessi ragionamenti: tutto ciò che mette in discussione il suo dominio, anche solo in prospettiva, scatena le sue armi di difesa e di reazione.

La borghesia, unita ai rappresentanti del commercio e della produzione artigianale del bazar, non aveva nessun interesse nella vittoria del pretume col suo stuolo di osservanti fanatizzati, ma il terrore della rivoluzione la spinse all'alleanza.

Lo Scià  aveva fatto qualche tentativo di mettere a tacere gli ayatollah, ma non era certo della tempra di un Ataturk o di un Mehemet Alì e non vi era riuscito. La flaccida borghesia iraniana aveva dovuto digerire il diritto di veto dei preti nelle attività legislative, come i commercianti del bazar avevano dovuto continuare a versare la "congrua legale" e le offerte "volontarie" per la purificazione dei traffici che comportano usura secondo la consuetudine islamica.

Tutti gli immediatisti dell'arco politico iraniano e quelli all'estero non compresero affatto che la borghesia storicamente sta contro il proletariato a costo di allearsi con residuati del passato e confusero il populismo travolgente della rivolta con una rivoluzione, solo perché venivano temporaneamente lesi gli interessi borghesi. Ma l'aspetto principale del passaggio dal governo dittatoriale dello Scià , a quello altrettanto dittatoriale della Repubblica Islamica attraverso il breve interregno della piccola borghesia ingenua e titubante, è stato quello della continuità del dominio borghese. La prova sta nel comportamento delle forze al potere nei confronti della classe operaia, subito messa a tacere e violentemente attaccata dalla milizia bianca. Sta nel comportamento dell'esercito, ritiratosi nei suoi quartieri dopo gli sfoghi "rivoluzionari" e postosi in una specie di attesa mentre il governo islamico si incarica dei compiti ingrati del boia. Ancora oggi non sfugge neppure ai giornali occidentali che nella guerra contro l'Iraq l'esercito combatte risparmiando al massimo le sue forze e i suoi mezzi, preferendo lasciare che i mullah mandino al massacro masse fanatizzate ma praticamente inermi. Ciò può significare che le forze armate rifiutano di essere completamente controllate dal regime in vista di possibili rovesci di questo, anche per mano loro.

Come di consueto, l'esercito rappresenta un elemento importantissimo nell'altalena del potere quando questo non è più saldamente in mano ad una precisa componente sociale. All'inizio del febbraio 1979 l'esercito reprime duramente le manifestazioni contro Baktiar, ministro dello Scià , ma il 9 dello stesso mese annuncia la propria "neutralità nei conflitti interni per il potere" (l'aviazione appoggia direttamente Bazargan, uomo di Khomeini), decretando praticamente l'avvento della Repubblica Islamica. Il referendum di marzo sancirà con il 99% dei voti la fine del regime precedente, mentre verrà iniziata l'eliminazione di tutte le opposizioni. Democrazia elettorale e repressione spietata: non poteva esservi migliore esordio per la borghesia sotto la nuova veste islamica, ma dietro di essa vi sono le armi dell'esercito: nulla vieta di vedere un ritorno alla "normalità" sotto l'auspicio delle stesse armi.

Dopo le elezioni il proletariato continua la propria lotta, ma alla fine è costretto a soccombere.

Il Tudeh, l'unica organizzazione che abbia una qualche influenza nelle fabbriche e specialmente fra i 67.000 salariati dell'industria petrolifera, segue la sua strada opportunistica e tenta di ingraziarsi il nuovo regime (che peraltro lo ripaga con piombo e galera). Il proletariato non ha più nessuna possibilità concreta di intervenire nei fatti successivi con la sua voce autonoma. Sarà costretto ad uno sfruttamento ancora peggiore per fornire il plusvalore necessario a mantenere i militanti islamici ormai socialmente "garantiti" sia nella veste di guardia bianca, sia in quella di soldati nella guerra contro l'Iraq.

Eppure solo la lotta proletaria aveva reso possibile la caduta dello Scià , nonostante questa avvenisse attraverso una coalizione di forze che si sarebbero rivoltate contro la classe operaia stessa. Gli scioperi di Isfahan e di Tabriz, cui alla fine del 1978 si aggiunsero quelli dei campi petroliferi del Khuzistan, erano partiti con rivendicazioni economiche per il sostegno delle quali erano nati i primi shora, consigli operai di natura ibrida tra il sindacale e il politico.

Il governo Baktiar, conscio del pericolo rappresentato da queste lotte per il suo già traballante potere, si affrettò a concedere gli aumenti richiesti inizialmente, ma nel frattempo gli operai avevano maturato nuove rivendicazioni. Rifiutarono gli aumenti legandoli alla liberazione dei prigionieri politici, mentre scesero in lotta anche i metallurgici e i tessili. In una economia capitalisticamente semplificata come quella iraniana, sorta dagli investimenti concentrati in periodi recenti, gli scioperi significarono la paralisi totale. Entro dicembre erano fermi anche la grande raffineria di Abadan e tutti i cinque principali campi petroliferi, mentre una embrionale organizzazione operaia riusciva a far confluire il combustibile necessario alle famiglie degli scioperanti.

A riprova delle capacità di autoorganizzazione della lotta proletaria, gli shora si formano nelle fabbriche più importanti, fra i braccianti delle terre coltivate a prodotti materia prima per l'industria, come il cotone e il tabacco, in alcuni distaccamenti militari. In alcune fabbriche i capitalisti vengono allontanati, mentre scoppiano rivolte nelle caserme e gli ufficiali vengono processati e a volte fucilati, come i due generali giustiziati dagli avieri di Shiraz.

I braccianti Turkman Sahra occupano le terre, uccidono i proprietari e incominciano a coltivarle sotto la direzione dei Consigli, che varano subito misure per la meccanizzazione. Ma ciò che più importa è la continuità delle lotte operaie del 1978-79 con tutta l'esperienza precedente, in barba alle repressioni, alle torture, agli internamenti, ai massacri.

Nonostante il proletariato non abbia una sua organizzazione politica, e un suo programma, nonostante non possegga neppure una organizzazione di tipo sindacale, per vent'anni assistiamo a ondate successive di scioperi che culminano con proteste di piazza nelle quali via via la parola d'ordine e la rivendicazione politica diventano più frequenti. Se il grido "Morte allo Scià" nasce dalle frustrazioni della piccola borghesia e dall'antagonismo sciita contro il "demone" capitalistico che corrompe la vecchia società, il proletariato con la sua lotta dimostra una volta in più che per esso la parola d'ordine non è soltanto "morte a Tizio o a Caio", ma morte "al sistema del salario". Al proletariato iraniano mancò e manca, come manca in campo internazionale, il fattore indispensabile per rendere cosciente tale parola d'ordine: il partito. Nel momento più alto della rivolta si scorge bene, scorrendo la cronaca, la differenza sostanziale, la rottura che corre fra la lotta del proletariato e la lotta delle altre componenti sociali. Mentre le altre classi annaspano nel turbinio generale, oscillano fra un polo e l'altro degli schieramenti, tra una continuità velata della monarchia e una "rivoluzione" purificatrice, fra una democrazia imparata nei colleges o alla Sorbona e le tentazioni militari della guardia al Trono detta degli "immortali", il proletariato prosegue la sua lotta, spinto, consigliato e obbligato dalle condizioni della propria esistenza materiale che impongono un certo cammino. Se questo cammino sarà interrotto o proseguito, la causa dovrà essere ricercata nella maturità mondiale della situazione, nelle condizioni particolari e contingenti sfavorevoli che si ricollegano a questa maturità generale, ma non potranno mai essere eliminate le determinanti che provocano il moto di classe. La rivolta iraniana è la prova manifesta della irriducibilità dei termini rivoluzionari, quindi della "ineluttabilità" della rivoluzione "vera", quella che renderà il capitalismo materia per studi storici.

In Iran erano presenti i fattori storici necessari per la maturazione ulteriore del movimento rivoluzionario. Non è un paradosso troppo spinto affermare che la Repubblica Islamica lavora anche per la Rivoluzione. Il campo viene sgombrato facilmente, durante grandi sedizioni, dagli elementi che confondono gli schieramenti, dagli ostacoli alla chiara definizione dei compiti storici di ognuno dei contendenti.

La prossima rivolta vedrà morire l'oscurantismo islamico, così come questo fece morire il mostruoso innesto tra il satrapismo asiatico e il capitalismo ultramoderno. La religione è un fatto sociale: la riforma agraria lasciò 1.750.000 famiglie senza terra mentre già milioni di diseredati andavano verso città che potevano offrire loro solo miseria e nuove frustrazioni.

Ricchezza sfrenata e corruzione incredibile si contrapponevano alla magra sopravvivenza di masse enormi, mentre le peggiori manifestazioni del modo di vita decadente occidentale andavano a cozzare violentemente contro i severi dettami del Profeta. La Moschea era l'unico punto di riferimento familiare per lo sbandato, per l'oppresso, per l'affamato. Se la borghesia ha inciampato in questo ostacolo, pianga sé stessa, che non è stata in grado di spazzare via questa condizione. Il proletariato non ha che da rallegrarsi, al di là del nero folklore komeinista, per l'ulteriore chiarimento nel suo percorso.

Tudeh, fedayin, mujahedin, trotzkisti, maoisti, hanno fatto la loro prova e già nell'emigrazione si sente la necessità di riprendere il discorso alle origini, di cercare, anche se con fatica e incertezze, il filo rosso della teoria rivoluzionaria, a cominciare dalla storia del partito, dell'Internazionale.

I consigli operai iraniani, al culmine della lotta, hanno anche raggiunto il loro limite. Né poteva essere altrimenti, senza lo sviluppo ulteriore della lotta stessa che rendesse possibile la formazione di una direzione politica coerente.

Proprio nel momento in cui perdevano la loro funzione primaria diventando democratici parlamentini inoffensivi, gli shora pretendevano di essere delle specie di soviet (così ancora oggi viene tradotto il loro nome in seno all'emigrazione), ma, giustamente, l'aria dominante all'esterno delle fabbriche in quella situazione non poteva che dominare anche all'interno. Le lunghe e sterili battaglie democratiche per le rappresentanze del Tudeh, dei populisti e della corrente religiosa, non potevano che portare alla "naturale" prevalenza di queste ultime. Così, mentre Bani Sadr esortava paternalisticamente a dimenticare la rivoluzione e a tirarsi su le maniche, gli shora diventavano "consigli islamici", con il compito di risolvere i problemi del lavoro attraverso una specie di azione cooperativa.

Quaderni di n+1: Quale rivoluzione in Iran?