Rompere con il capitalismo
Le basi materiali della cosiddetta questione giovanile

L'esaltazione borghese dell'individuo e il suo annientamento sociale

"Avevo vent'anni. Non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita".

Violenta, superba, categorica, "vera", questa frase è piaciuta molto ed è diventata famosa come specchio del rifiuto, indice della ribellione, bandiera della gioventù tribolata e scontenta. La scrive Paul Nizan nel 1931 all'inizio di un romanzo-denuncia. Si riferisce a una sua esperienza personale avvenuta nel 1926, quando, stufo dell'Ecole Normale Supérieure di Parigi e disgustato dall'ambiente intellettuale, si trasferisce in Arabia come precettore in una ricca famiglia inglese.

La frase e il suo autore sono emblematici per il discorso che faremo qui di seguito, dato che tratteremo del rifiuto e della ribellione dei giovani. Il fatto è che il rifiuto spesso si trasforma in una fuga, mentre la vera ribellione non può, dato che ha per oggetto un antagonista che essa deve neutralizzare o distruggere. Insomma, la ribellione è meno sensibile al compromesso.

Il rifiuto dei "grandi rottami putrescenti" non impedisce a Nizan di tornare a Parigi per insegnare filosofia e fare politica all'interno del mondo putrescente. Contraddizione? Giustamente egli dice: "Nulla sapevamo di quanto sarebbe stato necessario sapere e la cultura era troppo complessa per permetterci di capire altro che le rughe superficiali."

Nel 1927 la tragedia dell'Internazionale comunista era già consumata, la controrivoluzione stalinista già in atto dall'Europa alla Cina, ma Nizan si iscrive al Partito Comunista Francese dei Cachin e dei Souvarine, veri reazionari "popolari". Ha 22 anni. L'epilogo è segnato dalle premesse: sopravviene il disgusto anche per il partito stalinista, dal quale esce nel '39. Si attira con questo le accuse infamanti degli stalinisti, la congiura del silenzio. Poi la morte in guerra a 35 anni, scrittore sconosciuto.

I giovani come Nizan giungono faticosamente al rifiuto degli effetti di questa società, ma non riescono a compiere il salto verso la vera ribellione sociale. Perché?

"Non permetterò a nessuno..." è una frase che fa effetto, ma purtroppo non è sostenuta da altro che da sé stessa. Dietro c'è soltanto la verità terribile di quel "nulla sapevamo di quanto sarebbe stato necessario sapere" e certamente non si può renderne responsabile l'autore. L'orgoglioso e individualistico rifiuto si spegne nella controrivoluzione che tutto avvolge e macina. Senza la possibilità di conoscere perché l'Internazionale era fallita, non si poteva far altro che difendere con le unghie e con i denti la rivoluzione anche di fronte agli attacchi congiunti staliniani e fascisti o tuffarsi nell'ambiente disponibile e questo ambiente era ciò che la controrivoluzione offriva, sia a "destra" che a "sinistra".

Il generoso sforzo di giovani come Nizan trova anche i suoi apologeti ingenerosi. Il compagno di università Jean Paul Sartre riabilita interessatamente e tardivamente il morto in chiave esistenzialistica e anticomunista in una celebre Prefazione di una sessantina di pagine. Se il giovane ferma a metà strada la sua ribellione finisce in mano allo sciacallaggio politico. Sciacallaggio di classe in tutti i sensi: Sartre scrive una bella prefazione, coinvolgente, letterariamente a posto, contro il comunismo, quindi "valida" anche per l'oggi che scorre. Non se ne esce con mezze misure. Il percorso rivoluzionario individuale deve avere la stessa caratteristica che Marx attribuisce alla vera rivoluzione sociale: il suo primo presupposto è di criticare continuamente sé stessa, non fermarsi mai a metà.

La critica per la mancanza di democrazia può essere un movente dello scontro politico, ma la realizzazione della democrazia rimane entro i confini del mondo borghese e capitalistico, così come la critica per una scuola che non funziona non può fermarsi alla realizzazione della scuola che funziona per la borghesia. Non c'è altra condizione per la vittoria rivoluzionaria.

Ai livelli più alti, la critica della società borghese non può risolversi in un miglioramento della società stessa, ma in un suo superamento. E' qui che si scopre l'enorme differenza che separa i rivoluzionari da tutto il resto: il superamento della società borghese non può essere realizzato con strumenti messi a disposizione dalla stessa società borghese.

La lotta espressa dal disagio dei giovani trova il suo limite negli strumenti che adotta, negli appoggi che suscita. Deve darsi strumenti diversi da quelli che si trovano intorno già pronti; deve potersi sviluppare senza l'abbraccio mortifero di sciacalli interessati che la incanalano soltanto nell'alveo elettoralesco e parlamentare.

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Quasi quotidianamente l'immagine felice della gioventù che la pubblicità televisiva o l'idea borghese del mondo vorrebbero trasmettere è messa in crisi da piccoli e grandi fatti di cronaca.

Gli episodi di violenza dei giovani e contro i giovani, nelle scuole e negli stadi; i drammi delle droghe (alcool, alcaloidi e televisione da sindrome imitativa); i dati della disoccupazione; quelli della cultura dell'edonismo e della discoteca; quelli della criminalità diffusa e del suicidio giovanile (dagli anonimi studenti - specie in Giappone dove il capitalismo ha distorto in particolar modo il senso sociale - e la funzione dell'individuo, ai più noti personaggi come Kurt Cobain). Tutto sembra voler turbare il sonno dei benpensanti e di chi governa che vorrebbero una società un po' meno turbolenta e più controllabile.

Nella maggior parte dei casi il manifestarsi di questi fenomeni è attribuito a una incapacità congenita o a una mancata educazione dei giovani a operare "scelte mature e responsabili", insomma a una carente coscienza civica. Il tutto è accompagnato e guarnito da dati statistici, rilevamenti e indagini destinati soltanto a permettere la fatturazione a chi li esegue.

Figurarsi allora cosa capita quando, ciclicamente e a scadenze sempre più ravvicinate, questi giovani iniziano a muoversi a centinaia di migliaia come è successo nuovamente nel corso del 1994, prima in Francia e poi in Italia; quando tra le rivendicazioni dei vari "diritti" incominciano a filtrare chiari sintomi di insofferenza verso le strutture politiche, culturali, economiche, scolastiche e famigliari della società in cui i giovani vivono.

Tutti gli aspetti fenomenici del "problema giovani", tutti i dati pazientemente suddivisi, conteggiati ed accumulati sembrano cortocircuitare tra le mani degli analisti che, per non perdere faccia e prestigio, non possono far altro che ballare al nuovo ritmo imposto dal rollio dell'iceberg di cui non riescono, nonostante tutto, a cogliere altro che l'immagine dell'infima parte emersa. E allora tutti all'opera di nuovo a interpretare e a inquadrare il "fenomeno" giovanile per farlo rientrare nelle logiche borghesi, farlo corrispondere alle strategie dei partiti e dei gruppi d'interesse di cui questi signori sono espressione.

Così in fase di successo elettorale delle "destre" si son potuti vedere i portavoce dei partiti democratici e progressisti, dei sindacati e dei media di parte avversa alle nuove coalizioni borghesi, esaltare, gonfiare e strumentalizzare oltre ogni misura gli ingenui, e troppo spesso monotoni, slogan contro il governo telecratico di Berlusconi, contro la riforma della scuola proposta da un suo ministro e più in generale contro tutti i babau dell'ultima ora (che, come il leghista Bossi, possono diventare, per gli stessi partiti e sindacati, gli alleati della successiva mezz'ora) o a favore di improbabili magistrati giustizieri alla Di Pietro.

Al contrario di quanto si è solitamente portati a pensare, i comunisti non si interessano affatto ai movimenti giovanili per quanto essi dicono di sé stessi. Il radicalismo verbale è una costante giovanile, ma non è indice del grado di potenziale sovvertitore di un movimento.

Non è quindi per distacco o per elitarismo operaista (gli studenti non possono avere una "coscienza di classe") che occorre affrontare il problema da angolazioni che non provengano dallo stesso movimento o dal suo interessato ambiente circostante. La "coscienza" che ogni movimento ha di sé stesso interessa ai marxisti come ultima cosa, mentre affascina al massimo grado il canagliume politico, che nei giovani e in ogni generoso movimento spontaneo spera di trovare un allargamento della base elettorale e una riserva di manodopera gratuita di supporto alle lobby dei traffici parlamentari.

Ciò di cui i marxisti devono e vogliono parlare è invece costituito dall'immensa parte invisibile dell'iceberg di cui gli slogan, le manifestazioni e le proteste non sono altro che la manifestazione ultima, così come lo sono anche tanti altri comportamenti di fatto, e non riconducibili a manifestazione di coscienza, che scaturiscono dalla condizione giovanile: l'abbandono della famiglia, l'autodistruttività di certe sfide, la musica rock vissuta come spasmo vitale, le esplosioni collettive di rabbia e violenza, il desiderio di convivere col prossimo in modi diversi da quelli proposti dalla famiglia e dalle istituzioni, l'occupazione di stabili e scuole, la pirateria informatica esercitata dagli hacker sulle autostrade elettroniche come atto liberatorio dalla proprietà, gli espropri condotti dai casseur di ogni nazionalità nei confronti di supermercati, banche e gioiellerie.

Il marxista conosce il determinismo che sta dietro ai motivi della spinta giovanile ad agire, a uscire periodicamente nelle strade in centinaia di migliaia, a occupare istituti scolastici e stazioni ferroviarie, oggi scavalcando anche quegli "angry young men", talvolta già un po' attempati, che con i Centri sociali pensavano di essere arrivati a chissà quale estremismo politico e culturale. I motivi reali del "movimento" sono molto più profondi e radicali che non quelli apparenti, come la richiesta della cacciata di un governo debole per sostituirlo con uno più forte e stabile (magari con la motivazione che non bisogna spaventare i mercati finanziari: ah, la cosmica imbecillità dei nuovi opportunisti!); o come il rifiuto di una riforma scolastica in cambio di un'altra che può essere di poco diversa (ma non migliore); o come gli slogan dell'antifascismo, terribili da sentire in bocca a gente che dovrebbe aver capito, almeno per effetto generazionale, che il "partigiano" ha combattuto per un imperialismo contro un altro, cosa che c'entra con la democrazia ma non con la rivoluzione e con il marxismo.

Soprattutto il marxista ha gli strumenti teorici per spiegare ai giovani perché, rimanendo chiusi nell'ambito del proprio stereotipo giovanilistico e contestatario, essi non solo non potranno mai modificare la propria situazione di malessere e di disagio, ma nemmeno comprendere per esempio perché ci si possa trovare un giorno in trentamila entusiasti a occupare la stazione ferroviaria di una grande città e, pochi giorni dopo, in cento a far presenza in una piazza poco distante della stessa città, senza guida, senza meta, senza saper cosa fare se non osservare smarriti il proprio fallimento.

Sicuramente questo disagio e questo malessere, da cui tutte le proteste giovanili hanno preso il via negli ultimi anni, hanno a che fare con l'incertezza del futuro e delle condizioni di lavoro e non lavoro che si delineano all'orizzonte. Tale incertezza affonda le proprie radici in una condizione che troppo spesso la sociologia borghese definisce come patologica quando parla di alienazione, di separazione dell'individuo dal mondo che lo circonda, dalle attività che svolge, da ciò che è vitale nella specie e nella società.

È proprio il sopravvivere di una società che esalta apparentemente l'individuo, unico ed irripetibile, per poi schiacciarlo sotto il peso delle sue difficoltà economiche, lavorative, affettive e familiari, a provocare tanta parte della rabbia e delle frustrazioni da cui i movimenti giovanili prendono spunto.

Poiché per i comunisti i giovani non costituiscono solo un certo target di mercato cui vendere un voto politico inutile ed inflazionato, un nuovo tipo di jeans, un nuovo giornale, l'ultimo disco di un Tizio svegliatosi piuttosto arrabbiato o quello di un Caio più in pace col mondo; poiché per i comunisti i giovani rappresentano la continuità e il futuro della specie, essi affrontano il problema del malessere e dello scontento giovanile con gli strumenti che il metodo di Marx ha fornito, senza agitare specchietti per allodole, senza vendere facili promesse o illusorie scorciatoie verso altrettanto illusorie alternative entro questa società.

Per fare ciò non sarà pertanto utile citare una volta di più cifre e dati statistici riguardanti la disoccupazione giovanile a livello nazionale ed internazionale, oppure dissertare più o meno dottamente sul numero di coloro che abbandonano gli studi o il tetto famigliare ecc.

Sarà piuttosto utile soffermarci su quella che ai lettori più frettolosi potrebbe sembrare inizialmente come una digressione, ma è invece la base necessaria per definire quali siano le caratteristiche fondamentali del capitalismo, ovvero di quella forma sociale di produzione che in ultima analisi determina la quotidianità e le contraddizioni di chi ci vive. Quotidianità e contraddizioni dalle quali, invece, il sociologismo borghese vorrebbe partire per comprendere la realtà.

Questa in fondo è l'unica maniera per applicare il metodo marxista, metodo che nelle scienze fisiche la borghesia già applica dall'avvento della sua rivoluzione: si scende dal generale al particolare, dall'astrazione semplificatrice al concreto complesso. Tutti gli altri fanno il contrario, almeno nell'osservazione in campo sociale: partono dal concreto e complesso, da quello che vedono con i propri occhi per giungere a definire teorie generali. Per i marxisti tale teoria generale scientifica già esiste e di questa si servono per inquadrare fenomeni che sono, oltretutto, tutt'altro che nuovi, se non nella forma, sicuramente nella sostanza.

La sostanza del capitalismo

E allora, per iniziare, qual è per il marxismo la definizione esatta del capitalismo? La risposta va cercata in testi che, per la Sinistra Comunista, costituiscono un arco ininterrotto di lotta teorica e politica a partire dal 1844, testi estremamente "attuali" che permettono di comprendere, criticare ed aggredire la mefitica realtà di oggi e che in questa sede saranno abbondantemente utilizzati.

"Sarebbe ingenuo dire che il capitalismo è il sistema in cui vi è sfruttamento dell'uomo sull'uomo, sia perché lo sfruttamento vi è anche in altri modi produttivi come servitù e schiavismo, che capitalisti non erano, sia perché tali definizioni non devono stabilire il rapporto tra un singolo e l'altro singolo, ma interpretare lo svolgersi di tutta la dinamica sociale e i rapporti tra le classi. Anche la formula di sfruttamento di una classe da parte di un'altra, sebbene migliore non è completa".

"È forma capitalistica la separazione dei lavoratori dalle condizioni materiali del loro lavoro. Attuando tale separazione con mezzi violenti ed anche disumani, il capitalismo trasforma la produzione individuale in produzione sociale, ma lascia individuale la appropriazione dei prodotti. I liberi produttori espropriati dal capitalismo sono ridotti a proletari che non hanno alcuna riserva e vivono vendendo per moneta la loro forza di lavoro, realizzando con essa la compera di una parte dei prodotti per il proprio consumo personale, ossia la riproduzione della forza di lavoro".

Sono quindi due i caratteri fondamentali del capitalismo: socializzazione del lavoro umano e appropriazione individuale del prodotto, frutto del lavoro sociale. La socializzazione del lavoro avviene attraverso la separazione della stragrande maggioranza dei produttori dai mezzi del loro lavoro, dagli strumenti del loro lavoro, dal prodotto stesso del loro lavoro. Ossia chi lavora, il proletario, non è proprietario dei mezzi di produzione, non è proprietario dei materiali destinati alla produzione, è separato dalle finalità della produzione ed anche dal prodotto finale del ciclo di produzione.

La produzione sociale è pur sempre una grande conquista del capitalismo in confronto alle precedenti forme di produzione, ma resta il fatto che a tale produzione sociale si contrappone in ogni caso un'appropriazione individuale del prodotto del lavoro. "Tuttavia questa seconda parte della tesi nemmeno si può riferire ai beni capitali, che sono la parte maggiore, bensì ai soli beni di consumo diretto, che tutti concorrono ad acquistare, benché non certo in quantità uguale".

È questa una contraddizione attorno alla quale poi ruotano le ricorrenti crisi economiche con cui anche i giovani di oggi devono fare i conti attraverso il prolungamento artificioso dell'adolescenza anagrafica, la disoccupazione, il lavoro nero e sottopagato.

Socializzazione del lavoro, separazione dei produttori dallo stesso lavoro che compiono: qui sta il primo arcano di quella alienazione ed estraniazione sociale cui si accennava poc'anzi. All'interno dell'attuale forma di produzione, proprio perché il lavoratore presta la sua forza lavoro in cambio di un salario monetario, sarà interesse di coloro che sfruttano questo lavoro cercare di ottenerne la maggiore quantità possibile, quindi la maggior quantità di produzione, o, che è lo stesso, la maggior produttività da ogni singolo produttore.

È in questo tentativo costante da parte del capitale di estorcere più lavoro (pluslavoro, che in termini marxisti è l'equivalente di plusvalore) alla classe operaia attraverso l'utilizzo di macchine, l'aumento dei ritmi e l'allungamento dei tempi di lavoro che si cela l'inevitabilità della disoccupazione all'interno dei rapporti di produzione di tipo capitalistico. L'eliminazione di possibilità di lavoro non è un elemento soggettivo della società capitalistica; non è quindi un elemento che nell'ambito della società capitalistica possa rendersi reversibile, dato che non è pensabile una conseguente riduzione della giornata lavorativa. In un paese come l'Italia oggi lavorano circa venti milioni di persone su quaranta milioni in età di lavoro, ma solo quattro milioni sono impiegate nell'attività direttamente produttiva. Il rapporto è uno a dieci e ciò significa che l'intera società italiana si regge sul lavoro sociale di 0,8 ore di lavoro medie a testa, 48 minuti. Anche se i dati sono conosciuti, il problema non ha soluzione, perché essa va ricercata in un salto qualitativo in una società diversa dal capitalismo.

All'interno della logica capitalistica in certi momenti si potrà avere un ampliamento o una riduzione del numero di lavoratori occupati, ma sempre dovrà esistere una massa di lavoratori precedentemente espropriati, non solo dei mezzi di produzione e del prodotto del loro lavoro, ma anche del lavoro stesso. Tale massa è necessaria affinché possa gravare come un macigno su coloro che già lavorano per costringerli a produrre sempre di più in cambio un salario costante, se non addirittura diminuito. È nel timore di perdere questo posto di lavoro a vantaggio di altri che gli operai sono costretti alla concorrenza fra loro.

È tutta qui la logica dei "patti del lavoro" che ricorrono dal 1945 tra imprenditori e sindacati. In difesa del "posto di lavoro", magari nella più infame miniera ridotta a pericolo puro dalla concorrenza, si accettano abbassamenti del salario e in genere delle condizioni relative di vita. Si accettano gli equivalenti dei "Sabati fascisti", o i turni di notte estesi anche alle donne; si accettano deroghe alle stesse leggi con l'introduzione di nuove regole per dare ossigeno al capitalismo attraverso l'abbassamento del valore della forza lavoro (o innalzamento del profitto che ne consegue).

"La realizzazione del lavoro si presenta come annullamento in tal maniera che l'operaio viene annullato sino a morir di fame.[...] Già il lavoro stesso diventa un oggetto, di cui egli riesce a impadronirsi soltanto col più grande sforzo e con le più irregolari interruzioni [...] L'operaio diventa tanto più povero quanto maggiore è la ricchezza che produce, quanto più la sua produzione cresce di potenza e di estensione. L'operaio diventa una merce tanto più vile quanto più grande è la quantità di merce che produce. La svalorizzazione del mondo umano cresce in rapporto diretto con la valorizzazione del mondo delle cose".

Alla scala odierna, l'impoverimento relativo implicito nella legge marxista della miseria crescente, diventa assoluto. L'insieme delle masse proletarizzate del mondo vede al suo interno formarsi delle sacche dove si muore di fame non solo metaforicamente. Allora la nuova mappa della distribuzione della miseria e del plusvalore disegna anche la mappa della degenerazione sociale e della guerra civile. La gioventù trova così un nuovo impiego, quello del mercenario al soldo di nuovi interessi in formazione o al soldo di vecchi interessi aggrediti dalla concorrenza. Le sparatorie e i massacri apparentemente gratuiti, senza senso, che serpeggiano nel mondo sono l'espressione visibile della lotta tra le classi in mancanza di rivoluzione. Solo che i morti sono di una classe sola.

Più l'operaio produce, ovvero più il suo lavoro si trasforma in pluslavoro (cioè plusvalore) per il capitalista, meno vale la sua vita; ma questo valer di meno non è solo un fatto economico, salariale: "Il lavoro non produce soltanto merci; produce sé stesso e l'operaio come una merce, e proprio nella stessa proporzione in cui produce in generale le merci".

Ovvero l'operaio stesso con la sua forza-lavoro diventa una merce: producendo merci da cui è separato, vendendosi sul mercato del lavoro in cambio di un salario, non perde soltanto le finalità della propria attività lavorativa, ma anche quelle della propria vita e si vedrà più avanti perché.

È a partire da questa condizione di separazione completa del lavoratore dal suo lavoro, dal prodotto e dal fine del suo lavoro che il marxismo parla di alienazione. "Il prodotto del lavoro è il lavoro che si è fissato in un oggetto, è diventato una cosa, è l'oggettivazione del lavoro. La realizzazione del lavoro è la sua oggettivazione. Questa realizzazione del lavoro appare nello stadio dell'economia capitalistica come un annullamento dell'operaio, l'oggettivazione come perdita e asservimento dell'oggetto, l'appropriazione come estraniazione, come alienazione".

"E ora, in che consiste l'alienazione del lavoro? Consiste prima di tutto nel fatto che il lavoro è esterno all'operaio, cioè non appartiene al suo essere, e quindi nel suo lavoro egli non si afferma, ma si nega, si sente non soddisfatto, ma infelice, non sviluppa una libera energia fisica e spirituale, ma sfinisce il suo corpo e distrugge il suo spirito. Perciò l'operaio solo fuori del lavoro si sente presso di sé; e si sente fuori di sé nel lavoro. È a casa propria se non lavora; e se lavora non è a casa propria. Il suo lavoro quindi non è volontario, ma costretto, è un lavoro forzato. Non è quindi il soddisfacimento di un bisogno, ma soltanto un mezzo per soddisfare bisogni estranei. La sua estraneità si rivela chiaramente nel fatto che non appena vien meno la coazione fisica o qualsiasi altra coazione, il lavoro viene fuggito come la peste. Il lavoro esterno, il lavoro in cui l'uomo si aliena, è un lavoro di sacrificio di sé stessi, di mortificazione. [...] Non gli appartiene, ed egli, nel lavoro, non appartiene a sé stesso, ma a un altro".

L'alienazione giovanile nella società capitalistica

Il lavoro dovrebbe essere la principale attività della specie umana, quella che la distingue dalle altre specie animali. Il lavoro umano ha subìto nel tempo un'evoluzione diversa dall'istinto e contiene la possibilità di astrarre geometrie e forme che danno luogo a un progetto diverso dalla ripetitività istintiva genetica.

La domanda che sorge spontanea è questa: se l'unica cosa che distingue l'uomo dall'animale permettendogli di progettare l'ambiente e la realtà che lo circonda, come mai il lavoro stesso diventa, sotto il capitalismo, un'attività coatta, non libera, estraniata, continuamente rifuggita? E, peggio ancora, cosa dovrebbero dire oggi le giovani generazioni, che non solo sono vittime del lavoro alienato che opprimeva l'operaio di Marx, ma come tendenza storica nell'ambito del capitalismo sono tagliate fuori dal lavoro in tutto e per tutto? Essere separati dal lavoro significa essere separati dal proprio futuro, dato che non si può contare su di una vita autonoma sociale, significa vedere annichilite le proprie potenzialità, che rimangono sprecate, non utilizzate sia pure a fini capitalistici; significa quindi veder mortificate le proprie energie proprio nel momento in cui esse potrebbero esprimersi al grado di rendimento più alto.

Qui sta il nocciolo di tante manifestazioni e atteggiamenti giovanili che né i dati statistici né il moralismo né il ribellismo elevato a teoria possono cogliere e spiegare compiutamente. Le fughe da casa, i suicidi talvolta spiegati superficialmente (in Giappone come in Italia) con le difficoltà scolastiche, le risse allo stadio, l'uso di droghe e tutte le altre forme di nichilismo giovanile affondano le loro radici in questa forma suprema di alienazione dell'individuo dalla propria vita, del giovane dai modelli proposti dalla scuola e dalla famiglia, dal lavoro e dal non lavoro. In altre parole il motore primario dei movimenti giovanili non trova la sua ragione nel rifiuto di questo o quel governo, in questo o quel programma scolastico, ma più in generale nella perdita di senso reale della vita sotto la schiavitù capitalistica.

Ecco perché la politica giovanile, finché non si aprirà un'epoca rivoluzionaria, è destinata facilmente a scimmiottare ciò che esiste, coordinamenti come parlamentini, manifestazioni e occupazioni come "scioperi", ecc. Ecco perché nello stesso tempo molto spesso un elemento qualsiasi della "lotta" diventa il simbolo dello scontro, indipendentemente dalla sua importanza intrinseca: perché sotto l'agitarsi dovuto al disagio profondo vi sono spinte irriducibili a qualsiasi trattativa; mentre l'operaio può strappare un aumento di salario, il disagio del giovane studente o disoccupato non trova l'elemento "rivendicativo" a far da cuscinetto e si scaglia direttamente contro lo Stato. Si tratta però di un vantaggio politico facilmente mistificabile perché l'ideologia dominante si incarica di mettere a disposizione mille rivoli politici nell'alveo della società borghese.

Il giovane separato dal lavoro non può che volerlo mentre nello stesso tempo lo odia sia perché è fonte del suo disagio, sia perché vede da un esterno relativamente privilegiato (finché ha un minimo di libertà di sopravvivenza, genitori, lavori saltuari ecc.) coloro che dal lavoro sono schiavizzati. L'impatto giovanile con il lavoro è in genere traumatico perché non vi è ancora stata assuefazione allo sfruttamento. L'esaltazione dell'uomo attraverso l'esaltazione degli argomenti sessuali non è solo dovuta a questioni endocrine per via dell'età: è anche reazione alla vita bestiale del lavoratore che non ha più tempo per la sua propria vita. Di qui un rovesciamento di carattere sociale, pienamente descritto dal giovane Marx.

Nel momento in cui si consuma completamente la separazione tra l'attività tipica della specie (il lavoro) e ogni individuo, giovane o meno, della specie stessa, tutte quelle che non possono essere definite come attività tipicamente umane sembrano diventare le uniche attività non disumane possibili. "Ne viene quindi come conseguenza che l'uomo (l'operaio) si sente libero soltanto nelle sue funzioni animali, come il mangiare, il bere, il procreare e tutt'al più ancora l'abitare una casa e il vestirsi; e invece si sente nulla più che una bestia nelle sue funzioni umane. Ciò che è animale diventa umano, e ciò che è umano diventa animale. Certamente mangiare, bere e procreare sono anche funzioni schiettamente umane. Ma in quella astrazione, che le separa dalla restante cerchia dell'attività umana e le fa diventare scopi ultimi ed unici, sono funzioni animali".

Quelli che sono visti dalla morale e dalla scienza borghese come comportamenti deviati e dal ribellismo piccolo borghese come forme alternative di pratica sociale sono per i marxisti null'altro che il risultato di una società che non può far altro che continuare a schiacciare ogni attività umana che non sia finalizzata o che si opponga anche inconsciamente alla riproduzione delle sacre leggi del valore. Non si tratta quindi di una perdita di "valori" o di "cultura" da parte delle nuove generazioni, ma dell'abbrutimento delle condizioni di vita dell'intera specie umana più in generale e del proletariato in particolare.

Se si vuole evitare di cadere nella sacralizzazione borghese del singolo individuo, utile solamente a scaricare sulla mancanza di cultura e di chiarezza dei soggetti individuali i prodotti dell'agire collettivo di una forma sociale ben determinata dall'interesse capitalistico, occorre dire che questi problemi "giovanili" non possono essere affrontati e risolti in un contesto specificamente giovanilistico. Anzi, si potrebbe tranquillamente affermare che per il marxismo non esiste nemmeno una "questione giovanile". Ciò non tanto per sminuirne l'importanza o per negare l'esistenza di problemi specifici legati alla gioventù, quanto piuttosto per negare che partendo da una certa specificità (si pensi quante specifiche questioni potrebbero addurre un sociologo, una femminista o un riformista per risolvere i mali della società senza mai citare la necessità di criticare e distruggere i rapporti di classe legati al permanere del capitalismo) o da una propria "unica" condizione si possa addivenire a una coscienza in grado di spiegare la realtà e di prevederne gli sviluppi e le dinamiche successive.

L'estraniazione dell'individuo dalla specie

"La vita della specie, tanto nell'uomo quanto negli animali, consiste fisicamente anzitutto nel fatto che l'uomo (come l'animale) vive della natura inorganica, e quanto più universale è l'uomo dell'animale, tanto più universale è il regno della natura inorganica di cui egli vive. Le piante, gli animali, le pietre, l'aria, la luce, ecc. come costituiscono teoricamente una parte della coscienza umana [...] così costituiscono anche praticamente una parte della vita umana e dell'umana attività. L'uomo vive fisicamente soltanto di questi prodotti naturali, si presentino essi nella forma di nutrimento o di riscaldamento o di abbigliamento o di abitazione, ecc.

L'universalità dell'uomo appare praticamente proprio in quella universalità, che fa della intera natura il corpo inorganico dell'uomo, sia perché essa 1) è un mezzo immediato di sussistenza, sia perché 2) è la materia, l'oggetto e lo strumento della sua attività vitale [...] Che la vita fisica e spirituale dell'uomo sia congiunta con la natura, non significa altro che la natura è congiunta con sé stessa, perché l'uomo è una parte della natura".

"Poiché il lavoro estraniato rende estranea all'uomo 1) la natura e 2) l'uomo stesso, la sua propria funzione attiva, la sua attività vitale, rende estranea all'uomo la specie; fa della vita della specie un mezzo della vita individuale. In primo luogo il lavoro rende estranee la vita della specie e la vita individuale, in secondo luogo fa di quest'ultima nella sua astrazione uno scopo della prima, ugualmente nella sua forma astratta ed estraniata. Infatti il lavoro, l'attività vitale, la vita produttiva stessa appaiono all'uomo in primo luogo soltanto come un mezzo per la soddisfazione di un bisogno, del bisogno di conservare l'esistenza fisica. Ma la vita produttiva è la vita della specie. È la vita che produce la vita. In una determinata attività vitale sta interamente il carattere di una 'species', sta il suo carattere specifico; e l'attività libera e cosciente è il carattere dell'uomo. [...] Il lavoro estraniato rovescia il rapporto in quanto l'uomo, proprio perché è un essere cosciente, fa della sua attività vitale, della sua essenza soltanto un mezzo per la sua esistenza. [...] La vita stessa appare soltanto come mezzo di vita.[...] La creazione pratica di un mondo oggettivo, la trasformazione della natura inorganica è la riprova che l'uomo è un essere appartenente a una specie e dotato di coscienza, cioè è un essere che si comporta verso la specie come verso il suo proprio essere, o verso sé stesso come un essere appartenente a una specie. Certamente anche l'animale produce. Si fabbrica un nido, delle abitazioni, come fanno le api, i castori, le formiche, ecc. Solo che l'animale produce unicamente ciò che gli occorre immediatamente per sé o per i suoi nati; produce in modo unilaterale, mentre l'uomo produce in modo universale; produce solo sotto l'impero del bisogno fisico immediato, mentre l'uomo produce anche libero dal bisogno fisico, e produce veramente soltanto quando è libero da esso; l'animale riproduce soltanto sé stesso, mentre l'uomo riproduce l'intera natura; il prodotto dell'animale appartiene immediatamente al suo corpo fisico, mentre l'uomo si pone liberamente di fronte al suo prodotto".

La disoccupazione giovanile, la difficoltà di inserimento nel mondo del lavoro, la discrepanza tra titoli di studio acquisiti e impieghi effettivamente offerti, il tutto accompagnato dalle chimere della fama, del successo e della carriera, fanno sì che spesso siano proprio i giovani in cerca di una prima occupazione a sperimentare sulla propria pelle le contraddizioni di una società in cui l'uomo è costretto a vivere separato dal suo lavoro e dal prodotto di tale lavoro, ovvero separato proprio da ciò che dovrebbe costituire la manifestazione specifica dell'umanità. E il lavoro viene parcellizzato, diviso in lavoro manuale e lavoro intellettuale, che a sua volta può essere scientifico, artistico, ecc.

Questa separazione che il capitalismo ha reso naturale, costituisce una distorsione di quella che dovrebbe essere la realtà della specie. Il prodotto intellettuale, scientifico o artistico, del ricercatore o dell'artista non è assolutamente mai separato dall'attività dell'intera società e quindi dal lavoro manuale e di oggettivazione; non la precede, ma la accompagna fin dai primordi della specie. È soltanto la necessità di mantenere svalorizzato il lavoro manuale, inteso come forza lavoro bruta necessaria alla valorizzazione del capitale, che fa sì che questa innaturale separazione sia esaltata e glorificata.

Il compito dei comunisti è proprio quello di dimostrare come la finalità specifica del comunismo sarà la ricomposizione totale dell'uomo nella specie e della specie nella natura; la ricomposizione totale del lavoro umano, manuale, artistico e scientifico, il cui prodotto sarà legato alle reali esigenze della specie e non semplicemente ai bisogni creati da una produzione infernale, sempre più dominata dalla necessità di realizzare il plusvalore, cioè vendere, cioè allargare smisuratamente la fascia dei consumatori e dei prodotti che interagiscano con il loro bisogni indotti.

"Il lavoro alienato fa dunque:3) dell'essere dell'uomo, come essere appartenente a una specie, tanto della natura quanto della sua specifica capacità spirituale, un essere a lui estraneo, un mezzo della sua esistenza individuale. Esso rende all'uomo estraneo il suo proprio corpo, tanto la natura esterna, quanto il suo essere spirituale, il suo essere umano. 4) Una conseguenza immediata del fatto che l'uomo è reso estraneo al prodotto del suo lavoro, della sua attività vitale, al suo essere generico, è l'estraniazione dell'uomo dall'uomo. Se l'uomo si contrappone a sé stesso, l'altro uomo si contrappone a lui. [...] Dunque nel rapporto del lavoro estraniato ogni uomo considera gli altri secondo il criterio e il rapporto in cui egli stesso si trova come lavoratore. [...] Col lavoro estraniato l'uomo costituisce quindi non soltanto il rapporto con l'oggetto e con l'atto della produzione come rapporto con forze estranee ed ostili; ma costituisce pure il rapporto in cui altri uomini stanno con la sua produzione e col suo prodotto, e il rapporto in cui egli sta con questi altri uomini. Come l'uomo fa della propria produzione il proprio annientamento, la propria punizione, come pure fa del proprio prodotto una perdita, cioè un prodotto che non gli appartiene, così pone in essere la signoria di colui che non produce, sulla produzione e sul prodotto. [...] Se il prodotto del lavoro mi è estraneo, mi sta di fronte come una potenza estranea, a chi mai appartiene?

Se un'attività che è mia non appartiene a me, ed è un'attività altrui, un'attività coatta, a chi mai appartiene? A un essere diverso da me. Ma chi è questo essere? [...] L'essere estraneo, a cui appartengono il lavoro e il prodotto del lavoro, che si serve del lavoro e gode del prodotto del lavoro, non può essere che l'uomo. [...] Dunque, col lavoro estraniato, alienato, l'operaio pone in essere il rapporto di un uomo che è estraneo e al di fuori del lavoro, con questo stesso lavoro. Il rapporto dell'operaio col lavoro pone in essere il rapporto del capitalista - o come altrimenti si voglia chiamare il padrone del lavoro - col lavoro. La proprietà privata è quindi il prodotto, il risultato, la conseguenza necessaria del lavoro alienato, del rapporto di estraneità che si stabilisce tra l'operaio, da un lato, e la natura e lui stesso dall'altro. La proprietà privata si ricava quindi mediante l'analisi del concetto del lavoro alienato, cioè dell'uomo alienato, del lavoro estraniato, della vita estraniata, dell'uomo estraniato [...] Quindi riconosciamo pure che salario e proprietà privata sono la stessa cosa, poiché il salario, nella misura in cui il prodotto, l'oggetto del lavoro, retribuisce il lavoro stesso, non è che una conseguenza necessaria dell'estraniazione del lavoro [...] Il salario è una conseguenza immediata del lavoro estraniato, e il lavoro estraniato è la causa immediata della proprietà privata. Con l'uno deve quindi cadere anche l'altra" .

È un Marx ventiseienne quello che scrive le pagine fin qui utilizzate ed è stupefacente la chiarezza con cui è colto e delineato tutto il processo di alienazione dell'uomo legato al permanere dei rapporti produttivi capitalistici. Ma, al di là del gigante Marx, spesso i movimenti e gli episodi di ribellione spontanei della gioventù percepiscono come soffocanti ed insopportabili le manifestazioni fenomeniche più odiose di questi rapporti dati tra le classi e soprattutto colgono con estrema chiarezza la manifesta contraddizione esistente nell'appropriazione privata del prodotto dell'agire sociale.

Quando dei giovani occupano degli stabili abbandonati per abitarli o usarli come sedi delle proprie attività ritenute a torto o a ragione "vitali", quando altri giovani abili con il computer entrano nelle reti informatiche "bucando" i sistemi protettivi delle banche dati per puro spirito di sfida, quando la sfida diventa taccheggio organizzato nei supermercati tanto da imporre strumenti amministrativi generalizzati per la gestione e il recupero percentuale delle perdite ecc., in qualche modo si infrange la regola del mondo legale sfiorando, inconsciamente o meno, la necessità di superare i limiti imposti dall'appropriazione privata allo sviluppo intellettivo e fisico della specie.

È ovvio che tali risposte di piccoli gruppi o individuali non hanno nulla di rivoluzionario in sé e di fatto non scalfiscono neppure superficialmente l'attuale struttura del dominio di classe; esattamente come i movimenti studenteschi cui si accennava all'inizio tutte queste iniziative devono trovare la capacità di criticarsi ed autosuperarsi ancor prima che di organizzarsi. Ma allo stesso tempo continuano a dimostrare che questa separazione dell'uomo dal prodotto del suo lavoro sociale (intellettuale o materiale che esso sia) dà vita continuamente a contraddizioni inevitabili ed insanabili, anche nelle giovani generazioni, spesso stigmatizzando la forma più becera ed odiosa di appropriazione privata del sapere della specie: quella legata al "diritto d'autore".

Contro la cultura e la scuola borghese

Spesso, come anche nell'autunno italiano si è visto, la prima forma di ribellione studentesca contro lo stato di cose presenti è quella della occupazione delle scuole.

E ogni volta si vedono scendere in campo i benpensanti, i bacchettoni, gli amanti dell'ordine, i riformisti, tutti quelli che vedono come fumo negli occhi ogni movimento spontaneo che non sia immediatamente riconducibile a un'azione precedentemente preparata dai partiti o dai sindacati. Essi rimproverano ai giovani e agli studenti di non essere ancora cresciuti culturalmente abbastanza per poter criticare la scuola e la società. Quasi fosse la cultura borghese a determinare la critica della società e della scuola borghesi.

I marxisti si son sempre battuti contro queste posizioni "cultura- liste" in cui non vedono altro che il tentativo perenne di rinviare qualsiasi fermento e qualsiasi lotta a un futuro lontano e indeterminato. Essi vedono che i personaggi pronti a dire agli studenti in agitazione: "Basta ragazzi, non esagerate, prima devono venire lo studio, la scuola, la cultura, poi magari potremo discutere d'altro..." sono anche gli stessi che dicono agli operai in lotta: "prima di avanzare richieste salariali e sindacali occorre aver compreso bene le difficoltà dell'economia nazionale, entro quali limiti e percentuali è necessario contenere la spesa pubblica, ecc...". Per il materialismo dialettico marxista non è possibile fare precedere una fase di chiarificazione delle idee a una fase di azione e di lotta anzi, è proprio il contrario.

Nel giovane Marx dei Manoscritti è già compreso il destino ineluttabile del proletariato inteso come affossatore del capitalismo, indipendentemente dal grado di cultura che gli operai avranno potuto raggiungere nella loro condizione di lavoratori estraniati dal lavoro, dal prodotto del loro lavoro e dalla loro umanità: "Dal rapporto del lavoro estraniato con la proprietà privata segue inoltre che l'emancipazione della società dalla proprietà privata, ecc., dalla schiavitù si esprime nella forma politica dell'emancipazione degli operai, non già come se si trattasse soltanto di questa emancipazione, ma perché in questa emancipazione è contenuta l'emancipazione universale dell'uomo; la quale è ivi contenuta perché nel rapporto dell'operaio con la produzione è incluso tutto intero l'asservimento dell'uomo, e tutti i rapporti di servaggio altro non sono che modificazioni e conseguenze del primo rapporto" .

Nel 1844-45 Engels continuava lo stesso discorso, scrivendo: "Se gli autori socialisti attribuiscono al proletariato questo ruolo storico mondiale, non è [...] perché considerino i proletari degli dei. È piuttosto il contrario. Proprio perché nel proletariato pienamente sviluppato è praticamente compiuta l'astrazione di ogni umanità, perfino dell'apparenza dell'umanità; proprio perché nelle condizioni di vita del proletariato si condensano nella forma più inumana tutte le condizioni di vita della società attuale; proprio perché in lui l'uomo si è perduto ma, nello stesso tempo, non solo ha acquisito la coscienza teorica di questa perdita, ma è anche direttamente costretto a ribellarsi contro questa inumanità dal bisogno ormai ineluttabile, insofferente di ogni palliativo, assolutamente imperioso espressione pratica della necessità; proprio perciò il proletariato può e deve liberarsi. Ma non può liberarsi senza sopprimere le sue stesse condizioni di esistenza. Non può sopprimere le sue condizioni di esistenza senza sopprimere tutte le inumane condizioni di esistenza della società attuale, che si condensano nella sua situazione [...]. Non si tratta di ciò che questo o quel proletario, o perfino l'intero proletariato s'immagina di volta in volta come il suo fine. Si tratta di ciò che esso è, e di ciò che sarà storicamente costretto a fare in conformità a questo essere. Il suo fine e la sua azione storica gli sono irrevocabilmente prefissati nelle sue condizioni di vita, come nell'intera organizzazione della presente società borghese". È solo per questo motivo che i comunisti possono dichiarare: "La conoscenza non ci viene direttamente dai borghesi, come vorrebbero certuni: ci viene dalla lotta della nostra classe, non è una sfera particolare della nostra attività che assorbiamo passivamente dalla classe avversa; no, è qualcosa di vibrante e passionale, che il proletariato ha strappato al suo nemico di classe".

Ecco spiegato il motivo per cui ai marxisti non interessa tanto quanto i movimenti spontanei di lotta dicono di sé quanto piuttosto ciò che questi movimenti nella sostanza possono essere portati a fare dalle condizioni in cui vengono a trovarsi. Sia comunque ben chiaro: un conto è parlare del ruolo storico del proletariato, un conto è parlare delle agitazioni studentesche e giovanili. I giovani di per sé non costituiscono una classe; sono più vicini a una categoria sociologico-mercantile utile a fornire nuove nicchie di mercato per beni di consumo prodotti su larga scala, piuttosto che a una classe portatrice di una reale istanza di liberazione per l'umanità. Non a caso fu per primo il business statunitense degli anni '50 a intravedere nei giovani un nuovo potenziale esercito di consumatori da vezzeggiare e blandire.

Per quanto sia cambiata negli ultimi cinquant'anni la composizione e provenienza sociale di chi accede alla scuola superiore, gli studenti non costituiscono una categoria dalle ben definite caratteristiche economiche e politiche. Essi non sono inseriti nel mondo della produzione, quindi non entrano in conflitto né individualmente né collettivamente con un capitalista o con la classe dei capitalisti per la definizione del confine fra lavoro necessario alla riproduzione di sé stessi e della propria prole e pluslavoro o plusvalore che viene alienato. Alla base della loro esistenza non vi sono le ragioni materiali che danno origine alla lotta di classe. Quando "scioperano" essi non bloccano alcun ciclo produttivo e non possono quindi far derivare dall'unione immediata l'organizzazione generale di carattere sindacale e politico. Non esistono per gli studenti le premesse oggettive per la maturazione della cosiddetta coscienza di classe.

Per gli studenti, quando entrano in lotta, esiste solo il salto politico verso determinati tipi di scontro con l'avversario. Se la polarizzazione sociale non permette altro, lo scontro sarà sul terreno democratico e rivendicativo dei "diritti" (allo studio, all'assemblea, al giornaletto, alle tasse non troppo alte ecc.) e ne deriverà una coesione sufficiente a riprodurre il gioco parlamentare dei dibattiti e delle discussioni su tesi varie. In caso di alta tensione sociale, invece, la coesione derivata sarà molto più alta, ma si produrrà per altre vie: il movimento degli studenti non potrà rimanere unitario e seguirà le stesse determinazioni che muovono le classi. Vi saranno quindi due coesioni contrapposte: studenti compatti nello schieramento borghese e studenti compatti in quello rivoluzionario.

Normalmente è più difficile per lo studente che per l'operaio acquisire fino in fondo una coscienza dei motivi reali che causano il suo scontento. Egli sarà portato a schierarsi come individuo nella lotta a fianco di una classe o di un'altra, mentre all'operaio ciò succede solo quando nella cabina elettorale vota per rappresentanti della stessa classe borghese divisi in partiti diversi, mai nella lotta per i propri interessi, quando agisce con la sua classe. Quando la classe operaia si muove nei momenti decisivi, gli individui sparsi, i crumiri, i disertori, sono ininfluenti sul risultato finale. Gli studenti non hanno disertori in quanto studenti, essi appartengono effettivamente a classi diverse, anche se alla fine, come in tutti gli strati della società, non si schiereranno precisamente secondo la provenienza di classe.

Paradossalmente è proprio l'ambiguità della posizione studentesca che può rendere importante la gioventù nella battaglia dei comunisti e del proletariato contro il mortifero assetto sociale capitalistico.

Quando le forze sociali si schierano in difesa di opposti interessi, tra gli studenti la polarizzazione su fronti opposti è più immediata. Gli studenti sono in buona posizione per essere anticipatori di movimenti sociali e spesso lo sono. All'avvento del fascismo, il movimento dannunziano era espressione ambigua delle tendenze fra gli schieramenti, ma la forza del proletariato, vincente in Russia e ancora teso verso un futuro non del tutto deciso dalla controrivoluzione, aveva un forte ascendente sugli studenti e sui giovani.

"Lo spiritualismo dannunziano sente come poco la società attuale sia moralizzabile ed 'eroicizzabile', se non nelle vergini forze che erompono dal proletariato: esso non sa andare più oltre del saluto che leva a questi fermenti del domani. Quanto a noi comunisti e marxisti, noi conosciamo delle quistioni di necessità e di migliore rendimento nelle vie da prendere nello svolgersi della storia. Se queste rispondono ai canoni dell'Etica e dell'Estetica, non ci importa per nulla. La nostra dialettica ci spinge ad esaltare oggi il valore del ribelle, anche crudele, anche incolto, per rompere le barriere del divenire dell'umanità verso forme più pacifiche, armoniche e coscienti della convivenza dei singoli."

La gioventù può essere una forza viva della rivoluzione, ma è necessario che tra i giovani abbia la possibilità di formarsi una tendenza politica che faciliti la spaccatura di classe e spinga la parte rivoluzionaria verso il proletariato. La Sinistra riteneva possibile, ancora nel 1924, che questo avvenisse contro il fascismo da parte degli intellettuali e dei giovani non proletari ma nemmeno antiproletari: "Un movimento come quello dannunziano potrebbe avere una funzione opposta e simmetrica a quella del fascismo [...] Questo gruppo potrebbe, dopo aver tentato invano per vie opposte di perseguire quella ipotetica funzione indipendente nella vita politica della 'intelligenza', essere spinto dalle sue simpatie per le forze del lavoro a gettarsi al seguito di un proletariato movente alla riscossa."

Per giungere a questa possibilità è importante che i giovani non subiscano fino in fondo l'abbraccio soffocante della cultura borghese, soprattutto di quella che la scuola propone loro nel vano tentativo di domarne le energie e i moti spontanei di ribellione. Sappiamo che, nel 1924, non fu possibile per il proletariato muoversi verso la riscossa di cui parla l'articolo citato e quindi il movimento dannunziano si confuse con il fascismo. In Russia la giovane "intelligenza" abbandonò il populismo e seguì entusiasticamente il proletariato e la sua rivoluzione, mentre i vecchi intellettuali si trastullarono con la democrazia e il governo provvisorio.

La rivoluzione non è una questione di preparazione e di "cultura", ma di istinto di classe. La gioventù non proletaria non ha e non può avere un istinto di classe, ma sa mettersi bene al servizio di altre classi, anche se spesso preferisce quelle vincitrici. Il proletariato ha bisogno anche di forze giovani provenienti dalla 'intelligenza'. Non sa che farsene della loro cultura in generale, ma troverà in esse strumenti attivi per la generalizzazione del movimento attraverso tutti i mezzi di cui dispone. In fondo la rivoluzione proletaria rappresenta il futuro e il futuro è dei giovani, non dei vecchi.

Fin dal 1912 la posizione della Sinistra Comunista italiana sulla questione della "cultura" è molto precisa: "Il punto di vista rivoluzionario sul problema dell'educazione ci divide necessariamente da tutte le teorie borghesi, clericali o ultrademocratiche, che la società moderna applica nell'educare i giovani, con quel costante insuccesso che nessun marxista vorrà negare, Essendo la scuola nelle mani della classe economicamente dominante, essa tende a formare le coscienze dei giovani secondo i dogmi fondamentali che saranno poi l'ostacolo maggiore alla propaganda rivoluzionaria. Le idee religiose e metafisiche, i pregiudizi sociali su cui si impernia la cultura borghese costituiscono uno strato di pensieri difficilissimo a rompersi dalla critica posteriore. Mano a mano che il capitalismo si afferma, e che il suo dominio sugli intellettuali e sugli insegnanti diviene più ferreo, si vede la scienza ufficiale rinnegare le conclusioni rivoluzionarie del metodo positivo e ritornarsene per vie contorte a quei dogmi che permettono di esaltare l'attuale società, dogmi che nulla hanno da invidiare a quelli dei preti. La scuola diviene un'arma terribile di conservazione e di reazione [...] Questo ci permette di asserire che non è con qualche riforma della scuola che si potranno educare le masse e prepararle ai loro destini. (Quindi) lo scopo del movimento giovanile è di contrapporre alla scuola dei borghesi un organismo che formi le coscienze dei giovani proletari nel senso rivoluzionario [...] Convinti da buoni deterministi che il proletariato educa se stesso a essere l'erede della fracida filosofia borghese ed il costruttore della società futura e che questa educazione non gli scende dai sommi maestri che la democrazia tanto strombazza, ma gli viene dalle leggi economiche della sua azione di classe, noi diciamo audacemente che la sua educazione si fa non tanto sui libri, quanto sul campo dell'azione. Pur non trascurando la cultura teorica dei giovani, noi crediamo che la loro coscienza debba svilupparsi nella lotta di classe che non ha bisogno di preparazioni filosofiche ma scaturisce viva e irresistibile dalle loro condizioni materiali."

"Dunque niente cultura? Anzi, quanta più se ne può avere. Ma lasciamola all'iniziativa individuale, che solo un vivo sentimento di battaglia può eccitare nei giovani [...] La necessità dello studio la proclama un congresso di maestri, non di scolari. Le dichiarazioni di incompetenza lasciamole ai consessi borghesi. Oggi tutti temono di essere incompetenti, e lasciano circolare sotto l'etichetta dei competenti e degli specialisti le più allegre corbellerie, e a gran delizia dell'intellettuale società borghese [...] Noi non difendiamo l'ignoranza. Anzi diciamo che un movimento socialista che raccolga i giovani mentre la borghesia comincia a sfruttarli, realizzando con la reciproca intesa il sentimento di difesa di classe vivissimo nell'età giovanile al di sopra del sentimento individualista, che la borghesia ha interesse a secondare nei proletari, avrà per conseguenza di eccitare nei giovani lavoratori il desiderio di affinare, anche nel senso istruttivo, la loro coscienza di classe. Ma quando coloro che si pretendono socialisti raccomandano direttamente la cultura come mezzo per l'emancipazione di classe commettono un errore madornale. Infatti tra le accuse che la critica marxista muove all'ordinamento presente, vi è quella che il monopolio della proprietà impedisce la diffusione dell'istruzione e rende impossibile condurre a un cero livello comune di cultura e di civiltà tutti gli uomini. Quindi il concedere che l'emancipazione proletaria avverrà quando le masse saranno colte nel senso intellettuale, equivale a rinnegare quella critica o a riconoscere l'impossibilità della trasformazione sociale. La democrazia dice al popolo: sei sfruttato perché ignorante; studia, educati, liberati dal prete e sarai libero. Il socialismo dice al proletariato: sei ignorante e vile perché sei sfruttato, sei sfruttato perché chini la testa al giogo; rivoltati e sarai libero, e potrai allora diventare civile."

"C'è una cosa che ci separa nettamente da tutte le idee stolte borghesi: noi non educhiamo il popolo nelle visioni di un passato ciarlatanescamente falsato dall'eloquenza democratica che vive di plagio continuo ai manualetti di storia e di letteratura da cinquanta centesimi e idealizzato a comodo modello del presente; ma cerchiamo di dare alla massa le fonti vive della sua autoeducazione nella visione netta di ciò che sono le sue condizioni di oggi e di ciò che potranno essere quelle di un domani di emancipazione, nella visione di una società che non ha la sua falsariga nel quadretto di nessuna città tradizionale del buon tempo antico, e neanche nelle fantasie degli utopisti, ma che vive oggi nella coscienza sicura che la massa dei calpestati acquista della sua forza e dei suoi logici ineluttabili destini. Tutto il ciarpame dei luoghi comuni patriottici e democratici noi lo buttiamo via senz'altro dalla nostra cultura modesta di propagandisti di un'idea che vive non del passato ma dell'avvenire."

"Il riformismo e la democrazia vedono il problema della cultura da un punto di vista capovolto. Nella cultura operaia essi scorgono la conseguenza parallela dell'emancipazione economica, il mezzo principale e la condizione necessaria di quella emancipazione. Quanto un simile concetto sia reazionario e antimarxista non occorrono molte parole a dimostrarlo. Se noi crediamo che l'ideologia di una classe sia conseguenza del posto che le è assegnato in una determinata epoca della storia dal sistema di produzione, non possiamo aspettare che la classe operaia sia educata per credere possibile la rivoluzione, perché ammetteremmo in pari tempo che la rivoluzione non avverrà mai. Questa pretesa preparazione culturale educativa del proletariato non è realizzabile nell'ambito della società attuale. Anzi l'azione della classe borghese compresa in essa la democrazia riformista educa le masse in senso precisamente antirivoluzionario, con un complesso di mezzi col quale nessuna istituzione socialista potrà mai lontanamente gareggiare. (Occorre quindi non correre) il rischio di diffondere, magari senza volerlo, quel criterio riformistico della necessità della cultura. Sarebbe un mezzo poderoso di addormentamento della massa, ed è infatti il mezzo con il quale la minoranza dominante persuade la classe sfruttata a lasciarle nelle mani le redini del potere. [...] Tutta la nostra propaganda e la nostra sobillazione cozzano quotidianamente contro la sfiducia che i lavoratori hanno nelle proprie forze e contro il pregiudizio della inferiorità e della incapacità alla conquista del potere; errori scaldati dalla democrazia borghese che vorrebbe l'abdicazione politica della massa nelle mani di pochi demagoghi. Ed è appunto il pericolo di favorire questo gioco tentato nell'interesse conservativo delle istituzioni presenti che ci fa diffidare delle esagerazioni dell'opera di cultura"

 

La menzogna interessata della libera individualità

L'altro abbraccio mortifero e soffocante al quale i giovani, lavoratori o studenti che siano, devono sfuggire, è quello dell'individualismo borghese tanto esaltato dalla cultura ufficiale quanto da quella sedicente "alternativa". L'individualismo, con le sue chimere di successo e realizzazione personale, non serve ad altro che a distruggere qualsiasi barlume di coscienza della necessità di una lotta comune a fianco di tutti gli sfruttati, affogandola nel sogno della realizzazione di sempre nuovi e fasulli bisogni. La fascia di età dei potenziali consumatori dei beni di consumo prodotti senza sosta dall'industria moderna tende ad abbassarsi costantemente; già tocca ai bambini essere l'oggetto di nuove e continue proposte di merci dozzinali quanto inutili, in un ciclo educativo di cui edonismo, ricchezza e soddisfazione di bisogni innaturali e inutili sembrano costituire i veri capisaldi teorici e gli autentici pilastri etici.

"Nell'ambito della proprietà privata [...] ogni uomo s'ingegna di procurare all'altro uomo un nuovo bisogno, per costringerlo a un nuovo sacrificio, per ridurlo a una nuova dipendenza e spingerlo a un nuovo modo di godimento e quindi di rovina economica. Ognuno cerca di creare al di sopra dell'altro una forza essenziale estranea per trovarvi la soddisfazione del proprio bisogno egoistico. Con la massa degli oggetti cresce quindi la sfera degli esseri estranei, ai quali l'uomo è soggiogato, ed ogni nuovo prodotto è un nuovo potenziamento del reciproco inganno e delle reciproche spogliazioni. L'uomo diventa tanto più povero come uomo, ha tanto più bisogno del denaro, per impadronirsi dell'essere ostile, e la potenza del suo denaro sta giusto in proporzione inversa alla massa della produzione; in altre parole, la sua miseria cresce nella misura in cui aumenta la potenza del denaro. Perciò il bisogno del denaro è il vero bisogno prodotto dall'economia politica, il solo bisogno che essa produce. La quantità del denaro diventa sempre più il suo unico attributo di potenza. [...] La sua vera misura è di essere smisurato e smoderato. Così si presenta la cosa anche dal punto di vista soggettivo: in parte l'estensione dei prodotti e dei bisogni si fa schiava, schiava ingegnosa e sempre calcolatrice di appetiti disumani, raffinati, innaturali e immaginari. [...] Ogni prodotto è un'esca con cui si vuol attrarre a sé ciò che costituisce l'essenza dell'altro, il suo denaro. [...] Ogni necessità è un'occasione per presentarsi al proprio prossimo sotto le più allettanti spoglie e dirgli: caro amico, io ti do quel che ti è necessario, ma tu conosci la conditio sine qua non, tu sai con quale inchiostro devi scrivere l'impegno che assumi con me; nel momento stesso in cui ti procuro un godimento, ti scortico. In parte questa estraniazione si rivela nel fatto che il raffinamento dei bisogni e dei loro mezzi, da un lato, produce un imbarbarimento animalesco e una completa, rozza, astratta semplificazione dei bisogni, dall'altro lato. [...] E così, come l'industria specula sul raffinamento dei bisogni, specula altrettanto sulla loro rozzezza: sulla loro rozzezza in quanto è prodotta ad arte, e di cui pertanto il vero godimento consiste nell'autostordimento, che è una soddisfazione del bisogno soltanto apparente, una forma di civiltà dentro la rozza barbarie del bisogno" .

È dalla dipendenza dal denaro che nasce ogni altra dipendenza; è dalla estraniazione dalla specie che nasce ogni individualismo vagheggiante soluzioni personali a problemi che personali non sono affatto; ed è dall'individualismo che sorge ogni alienazione e separazione dall'attività e dalla cultura della specie.

"La società presente in tutte le sue manifestazioni ha l'impronta dell'individualismo. Nonostante che le necessità della vita ed i mezzi di cui attualmente si dispone per soddisfarle (ossia i mezzi di produzione e di scambio) abbiano raggiunto un tale stadio da rendere necessaria una collaborazione sempre più intrecciata, la minoranza borghese ha interesse a conservare la costituzione individualistica della società, sebbene questa causi i disordini della produzione e l'insufficienza di questa ai bisogni della stragrande maggioranza. L'egoismo economico produce una morale (intendiamo per morale un sistema di norme proposte o imposte dalla minoranza dominante) di tipo egoistico, ammantata di quell'umanitarismo e di quella filantropia che non sono che arti subdole per celarne la vera essenza, mezzi di difesa contro gli strappi che a quella morale tenta di fare la maggioranza oppressa. Come la classe borghese vuole, per necessità della propria conservazione, il regime della libera concorrenza tra capitalisti, così avrebbe interesse a che la stessa concorrenza si svolgesse tra i salariati. Per quanto le è possibile la borghesia cerca quindi, col mezzo dell'educazione, che è suo monopolio, di riflettere sul proletariato la sua anima individualistica. È chiaro però che questa educazione agisce in senso opposto alle tendenze storiche dell'evoluzione sociale [...] Il concetto animalesco della concorrenza (lotta per la vita) viene attenuandosi mentre si delinea il principio di reciproco aiuto. Succede che la maggioranza sfruttata tende ad accelerare quell'evoluzione che la borghesia vorrebbe contrastare con la forza materiale e con l'educazione (freno morale). Aggiungeremo che è un pregiudizio credere che la borghesia domini per mezzo dell'ignoranza: essa domina per mezzo della cultura, della sua cultura".

Tutto ciò che è stato fino ad ora affermato rovescia completamente quella prospettiva educazionista e culturalista di cui sono piene le pagine dei giornali e i discorsi della sinistra democratoide e piccolo borghese. Ai giovani non serve studiare per poi capire: se tutti quelli che "studiano" capissero, a quest'ora non saremmo a discutere di difesa del marxismo e di rivoluzione anticapitalistica a venire. I giovani devono essere messi in grado di scoprire, toccare con mano i motivi reali del loro scontento e del loro disagio. I quali non vengono dall'interno dell'organismo e non hanno nulla di "esistenziale"; vengono dall'esterno, da un modo di produzione che ha fatto il suo tempo e che, sopravvivendo, diventa sempre più non-umano.

Certamente anche la disumanizzazione capitalistica ha le sue radici in un modo di produzione basato su rapporti fra uomini e non fra marziani: ma è proprio per questo che è inutile aspettarsi la soluzione dalla coscienza, dall'individuo, dalla cultura o da qualche altro prodotto della disumanizzazione crescente. La soluzione non è nei dispensatori di cultura, non è nelle biblioteche e nella testa dei professori, anche se passa attraverso libri e cervelli, individui e folle, università e fabbriche, manufatti di cemento e spiriti filosofici, in un percorso continuo che occorre discernere, quello che Marx ha chiamato partito storico.

I giovani, come tutti, prima devono sbattere il muso contro i fatti materiali, poi, se avranno la possibilità di incrociare alcuni elementi del partito storico (e oggi saranno necessariamente pochi), scoprire che devono andare oltre quell'impronta individualistica ed egoistica che la società borghese tende a dare a ognuno attraverso la parcellizzazione del lavoro e dello studio; scoprire l'identità tra le posizioni tendenti a difendere la cultura scolastica come necessaria alla comprensione del mondo e quelle tendenti a spiegare la difficoltà a trovare lavoro con la scarsa cultura universitaria o la scarsa preparazione professionale.

Il fatto che si formino di continuo nuove istituzioni, non importa se private o pubbliche, destinate alla formazione continua (corsi postdiploma, lauree brevi, corsi di aggiornamento, ecc.) non rappresenta soltanto il tentativo di rinnovare e incrementare il giro d'affari legato al mercato della cultura e dell'istruzione, ma soprattutto la volontà di prolungare all'infinito il periodo di formazione di ogni individuo, sia per ritardarne l'ingresso in un mercato del lavoro ormai asfittico sia per continuare l'azione conservatrice e reazionaria connessa alla funzione dell'istruzione scolastica.

Lo sbocco produttivo, l'accesso al mercato del lavoro per migliaia e milioni di giovani dipenderà da ben altri fattori: non dalla formazione professionale o dal grado di istruzione, ma dall'andamento del mercato mondiale e del ciclo di produzione capitalistico, dall'andamento della crisi e dal consolidamento della prassi sindacale tendente alla responsabilità totale nei confronti di tutte le categorie capitalistiche, compresa la responsabilità della difesa del profitto attraverso l'abbassamento reale dei salari e l'ampliamento reale del tempo di lavoro.

Il giovane che incomincia a intravedere i nessi economici e sociali che provocano il malessere per il quale i suoi compagni scendono in piazza, occupano le scuole o sopportano le interminabili chiacchiere di piccoli politicanti che sono già corrotti peggio dei grandi, ha già compiuto un salto notevole verso la liberazione dall'ideologia dominante. Può avere o non avere "cultura" nella testa, ma le sue gambe incominciano a muoversi verso qualcosa che ritiene possibile, una società diversa.

Ecco, il giovane abbraccia la rivoluzione quando incomincia ad agire e a ragionare in base a categorie che non fanno più parte della società capitalistica. In fondo non è lui a scoprire il comunismo, è il comunismo che si impadronisce di lui perché il comunismo è il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente, compreso un certo modo di pensare e di agire.

Questo e solo questo è il processo attraverso cui si realizza sul serio quello che nel non tanto mitico Sessantotto era solo uno slogan demagogico: studenti e operai uniti nella lotta. Uniti nella lotta per che cosa? L'unica unione che può avvenire tra rappresentanti di classi diverse è quando ognuno di questi si sente ormai fuori dalla propria classe e proiettato verso un mondo senza classi. Ma ciò avviene solo sulla base politica. Il partito storico prepara questa condizione. E siccome la rivoluzione ha bisogno dell'organizzazione fisica, il partito che dirigerà la rivoluzione non avrà al suo interno operai e intellettuali, impiegati e disoccupati, ma solo rivoluzionari comunisti.

Studenti e operai possono essere uniti solo nella lotta anticapitalistica. Solo per questa via viene smascherata la demagogia di coloro che attraverso lo sbandieramento della "solidarietà" cercano di presentare come nemici dei giovani e dei disoccupati proprio quei proletari che rifiutano di cedere terreno a favore del profitto.

Abbiamo dovuto vedere anche questo: giovani studenti e disoccupati che manifestavano contro operai che rifiutavano il sabato lavorativo in cambio della promessa di una manciata di posti di lavoro. La certezza è che la promessa era destinata a rimanere tale. Qualche posto di lavoro in più da una parte, significa sempre molti posti di lavoro in meno dall'altra. Non occorre la cultura per capire questo. Una fabbrica nuova è più produttiva di una fabbrica vecchia, produce di più con meno dipendenti. Proprio per questo la si apre. Proprio per questo da qualche parte invece si chiude. Il saldo non può essere positivo, l'epoca della rivoluzione industriale è finita e i servizi non possono assorbire la forza lavoro "che rimane libera nella società".

Da qualche anno vi sono episodi isolati di rifiuto degli accordi sindacali. In questi casi, generalmente, i proletari hanno cercato di reagire all'aumento dello sfruttamento, diventando così nei fatti gli unici a difendere realmente anche gli interessi di coloro che il posto di lavoro ancora non hanno, rifiutando di cedere alla legge della concorrenza. Gli accordi che i sindacati hanno recentemente siglato con un gran numero si rappresentanti della grande e media industria, avallando straordinari selvaggi, sabati lavorativi e turni di notte insieme con ristrutturazioni che aumentano la produttività, non alleviano i problemi né dell'occupazione, né del supersfruttamento del lavoro nero, anzi, li aggravano.

La fabbrichetta clandestina recentemente scoperta, dove ragazze quasi bambine fabbricavano camicie in uno scantinato per poche lire, ricorda che certi termini del lessico marxista come "schiavitù del lavoro salariato", che in genere non vanno presi alla lettera, possono risultare addirittura eufemismi di fronte alla realtà. Il magistrato borghese che ha incriminato il capitalista clandestino ha scritto nella sua motivazione: "traduzione in schiavitù", alla lettera. Questo episodio, che riguarda solo una realtà scoperta di fronte a mille che continuano indisturbate, dimostra l'assoluta inutilità della responsabilità sindacale di fronte all'economia borghese; la legge della concorrenza è inesorabile: di fronte al "permesso" sindacale di sfruttare di più, cioè alla concessione al capitalista di essere più competitivo, vi sarà sempre un altro capitalista che cercherà ulteriori vie per la competitività, fino alla schiavitù vera e propria.

I giovani e i disoccupati che hanno manifestato contro gli operai "egoisti" (come nel recente episodio di Termoli) erano inconsapevolmente complici di questo meccanismo ed erano portati a questo dal fatto di non essere riusciti a rompere il cerchio infernale degli atti e dei ragionamenti in base alle categorie capitalistiche.

L'annoso problema delle parole d'ordine

Dal punto di vista marxista per il movimento giovanile non ci può essere una parola d'ordine specifica, una soluzione specifica dei propri problemi; anzi quella delle parole d'ordine settoriali e specifiche è proprio la strada priva di uscite che le forze della borghesia vorrebbero ogni volta fargli imboccare.

I giovani che siano portati a lottare per cambiare veramente la propria condizione sono costretti a scendere sul terreno immediatamente politico. Nel prendere atto del loro scontento devono rifiutare tutte quelle proposte che mirano a fargli scimmiottare la trattativa sindacale o il cretinismo parlamentare in vista di obiettivi limitati e fuorvianti, come, per esempio, quello della riforma della scuola.

Gli obiettivi giovanilisti finiscono con il sospingerli verso i lidi del corporativismo, inteso proprio come separazione netta degli interessi specifici ed egoistici di ogni settore sociale o di ogni individuo da quelli di tutti gli altri. Per questo i marxisti affermano invece che un possibile programma del movimento giovanile può consistere nel "sottrarre la formazione del carattere all'esclusiva influenza della società presente, vivere tutti insieme, giovani operai e no, respirando un'atmosfera diversa e migliore, tagliare i ponti che li uniscono ad ambienti non marxisti, recidere i legami per cui si infiltra nel sangue il veleno dell'egoismo, della concorrenza, sabotare, in una parola, questa società infame, scavando mine destinate a sconvolgerla nelle sue basi" .

Ma anche ciò non può derivare da una specifica condizione giovanile o studentesca, dalla elaborazione soggettiva di un modello di società antagonista legata all'interesse o alla visione particolare di un individuo o di una categoria.

"Marx ha detto che gli uomini fanno la loro storia, vecchia obiezione di rimasticatori scarsi. È certo che la fanno, colle mani coi piedi e con la bocca anche, e con le armi; materialmente la fanno, ma quello che noi neghiamo è che la facciano con la testa, ossia che siano a tanto di 'costruirla' (termine esoso e da imprenditore borghese) su di un modello, o progetto, tutto pensato. La fanno sì, ma non come credevano e sapevano di farla, né come prevedevano e desideravano. Ecco il punto. La dialettica sorge nel chiedere: questa impotenza, questo negato libero arbitrio umano, concerne l'individuo o concerne anche la società umana? La risposta marxista è qui classica. Il soggetto personale, e a più forte ragione nelle società a struttura individualista, è immerso nel massimo di quella impotenza a prevedere ed a guidare. In questa società, e soprattutto in quelle la cui ideologia è bolso liberalismo, più il singolo riveste un grado alto della gerarchia, più è una marionetta tratta dai fili deterministi. Anche la società come un tutto, e fino a quando è una società divisa in classi non possiede visione e direzione del proprio avvenire; in essa nel corso della storia gli interessi delle classi che si scontrano si rivestono di previsioni (profezie) e di ideologie in contrasto, ma non arrivano alla potenza di prevedere e di preparare il futuro. Quella sola classe, presente in questa società capitalista, che ha interesse alla abolizione della società divisa in classi, può aspirare alla capacità di lottare per tale fine e di averne nel suo seno una conoscenza ed una visione, e questa classe (il marxismo scoprì), è il moderno proletariato. Ma fino a che questa classe vive nella società capitalistica la visione cosciente del suo avvenire non può aversi in ciascun suo membro, e nemmeno nella sua totalità, ed è solo sciocco pretendere tale coscienza e volontà nella maggioranza di essa; questa idea non è che uno dei tantissimi derivati borghesi che intorbidano le menti dei proletari e che solo un seguito di generazioni potranno cancellare. Quindi un singolo non può assurgere alla visione della società comunista per effetto del riflesso delle sue convenienze ed interessi personali; questo sarebbe materialismo volgare. E nemmeno può concentrare in sé la visione della classe e il futuro della società umana se non come convergenza delle forze di classe. La contraddizione è che l'uno non può e la collettività neppure; e ciò condurrebbe alla impotenza eterna non solo di volere il futuro, ma di prevederlo. L'uscita dialettica da questa doppia tesi (che il proletariato può e non può, è la prima classe che tende alla società aclassista, ma non ha la luce che alla specie umana risplenderà dopo la morte delle classi) sta nel doppio passo contenuto nel Manifesto dei Comunisti. Primo tempo: partito. Secondo tempo: dittatura. Il proletariato massa amorfa si organizza in partito politico e assurge a classe. Solo facendo leva su questa prima conquista si organizza in classe dominante. Egli va alla abolizione delle classi con una dittatura di classe. Dialettica! La capacità di descrivere in anticipo e di affrettare il futuro comunista, dialetticamente non cercata né nel singolo né nell'universale, è trovata in questa formula che ne sintetizza il potenziale storico: il partito politico attore e soggetto della dittatura".

La soluzione dei problemi della gioventù può pertanto realizzarsi soltanto all'interno di una più ampia ricomposizione della classe proletaria con suoi fini e quindi con e nel suo partito. Il che vuol dire ricomposizione della specie umana con la sua propria umanità.

"Il comunismo come soppressione positiva della proprietà privata intesa come autoestraniazione dell'uomo, e quindi come reale appropriazione dell'essenza dell'uomo mediante l'uomo e per l'uomo; perciò come ritorno dell'uomo per sé, dell'uomo come essere sociale, cioè umano, ritorno completo, fatto cosciente, maturato entro tutta la ricchezza dello svolgimento storico sino a oggi. Questo comunismo [...] è la vera risoluzione dell'antagonismo tra la natura e l'uomo, tra l'uomo e l'uomo, la vera risoluzione della contesa tra l'esistenza e l'essenza, tra l'oggettivazione e l'autoaffermazione, tra la libertà e la necessità, tra l'individuo e la specie. È la soluzione dell'enigma della storia, ed è consapevole di essere questa soluzione".

Un articolo del 1913 sui giovani e la cultura

Un programma: l'ambiente

Abbiamo lungamente combattuta l'opinione di quelli che intenderebbero dare al movimento giovanile socialista l'indirizzo di coltura. Abbiamo sostenuto che un tale indirizzo può corrispondere ad un'opera di preparazione democratica, ma non di preparazione rivoluzionaria.

Il nostro argomento teorico fondamentale è stato sempre quello che le opinioni politiche non sono frutto di idee astratte o di cognizioni filosofiche e scientifiche, ma dell'ambiente in cui si vive e delle necessità immediate di questo ambiente. E' la nostra tesi materialistica, nel senso in cui la intendeva Carlo Marx, contrapposta alle concezioni idealistiche di ogni natura e ben poco scossa dal revisionismo borghese e non borghese. Può non essere accettata da tutti i compagni, ma noi persistiamo a ritenere che al di fuori di essa non vi è possibilità di dare una base all'argine e alla mentalità socialista. Noi crediamo soprattutto che i fatti la vadano sempre più confermando, quando si sa esaminarli al di fuori delle falsificazioni della coltura borghese e senza trascendere a inutili schermaglie intellettualistiche.

L'ambiente proletario che è quello in cui sorge spontaneamente il socialismo, è, come ogni ambiente sociale, determinato e aumentato dalla comunanza di interessi economici. Nel riconoscere questa verità fondamentale, e nel farcene una guida costante per la risoluzione di ogni problema politico e sociale noi non abbiamo mai sognato di negare l'esistenza dei "sentimenti" e nemmeno quella delle "idealità" intendendo con questo termine la coscienza di uno scopo reale da raggiungere nell'interesse di tutti, ma che può in determinati momenti dell'azione esigere il sacrificio di alcuni (ci ripetiamo spesso, ma a ragion veduta). Anzi noi vediamo nell'opinione politica più un fatto di "sentimento" che un prodotto di coltura filosofica e scientifica. Solo noi mettiamo a base del sentimento socialista le condizioni economiche, invece di pretendere che il socialismo discenda ad occuparsi del problema economico per effetto dell' "istinto mutuato di giustizia" ecc.

Noi crediamo -ed è questo il punto importante! - che gli errori, le debolezze e i tradimenti di qualche compagno vanno attribuiti non a deficienze di coltura, ma all'essersi a poco a poco spostato dall'ambiente e all'aver perduto il "sentimento" socialista. Alle "conversioni" possono credere i preti, non noi.

Così pure al fatto che gli errori siano commessi non da individui rappresentativi, ma proprio da gruppi operai, non si rimedierà mai con la coltura, se non si provvede a dare a quei gruppi l'atmosfera dell'ambiente socialista.

I "colturisti" sono preoccupati del fatto che certe categorie di operai avendo conquistati alcuni privilegi cessano di essere socialisti nel senso vero della parola, e tradiscono la lotta di classe. Essi vorrebbero porre riparo a tale fatto deplorevolissimo, ma disgraziatamente logico, con la "coltura". Noi crediamo invece che bisogna evitare la formazione di questi ambienti di privilegio e portare gli operai a contatto delle altre categorie, farli vivere al di fuori del loro gruppo locale, ottenendo che così capiscano che occorre sacrificarsi non solo per il proprio sindacato, ma per tutti i loro compagni lavoratori sfruttati dalla borghesia. Questa non è un'opera di coltura, ma di "formazione di ambiente". Questa opera deve essere riservata al Partito Socialista, ed ecco perchè noi mettiamo la missione rivoluzionaria del partito molto al di sopra di qualla dei sindacati, a qualunque chiesiuola appartengano i segretari di questi ultimi.

Visto che con l'opera di cultura si vorrebbe rimediare alle defezioni , esaminiamo un po' meglio questi fenomeni dolorosi. Cominceremo col fare una distinzione tra socialisti operai e socialisti "intellettuali".

L'operaio diviene socialista quando prende a considerare la sua posizione di vittima non isolatamente, ma insieme a quella dei compagni di lavoro. Questo -l'abbiamo detto tante volte! - è conseguenza del suo stato di disagio economico a cui l'istinto di conservazione gli fa cercare un rimedio. Nel fare questi sforzi per il suo miglioramento, esso finisce col vedere che occorre colpire alla radice il presente regime economico e per fare ciò bisogna portare la lotta sul terreno politico dirigendola contro le istituzioni attuali.

E' evidente che quello stesso istinto di conservazione che lo ha spinto su questa strada, lo trattiene poi nel momento decisivo dell'azione rivoluzionaria, e molte volte l'operaio finisce coll'adattarsi alla condizione presente per tema di arrischiare troppo e di fare un cattivo guadagno. Ma quando certe particolari condizioni economiche esasperano il suo sentimento di ribelle, allora egli non esita più e si lancia nella lotta rivoluzionaria.

Ora il Partito Socialista proponendosi di affrettare tale processo vuole convincere l'operaio della necessità di svolgere quella lotta, unica possibile soluzione del problema sociale nell'interesse del proletariato. L'operaio solidamente convinto di questo è un buon socialista. Quale dunque sarà il metodo per effettuare tale convinzione? Quello della dimostrazione teorica, della coltura? Dovremo allora aspettare vari secoli ancora per "preparare" il proletariato!

No, perdio, la via della propaganda non è la teoria ma il sentimento, in quanto questo è il riflesso spontaneo dei bisogni materiali nel sistema nervoso degli uomini.

Occorre, se vogliamo vincere le riluttanze egoistiche dell'operaio, fargli vedere le condizioni di tutti i suoi simili, portarlo in un ambiente che gli parli della "classe" e del suo avvenire. Sotto l'influenza di tale ambiente egli non correrà rischio di diventare un rinnegato. E che non sia questa un'opera di coltura lo prova il caso degli intellettuali che "rinnegano" con grande facilità, malgrado la solidità teorica delle loro idee, a cui non potrebbero mai giungere gli operai.

Però il caso degli intellettuali è ben diverso. Essi vengono da un ambiente non socialista, per accidente, per istinto forse, più spesso per essersi urtati in qualche spigolo dell'ambiente che lasciano - quasi mai colla cosciente malafede di farsi un piedistallo politico, perchè questo vien dopo.

La convinzione vera, in generale, si forma poi, a contatto dell'ambiente operaio, per il confronto con quello che si è lasciato... L'opinione politica non è un atteggiamento di pensiero, ripetiamolo a costo di essere lapidati da idealisti, cultoristi, maniaci della "Filosofia" o della "Scienza". Conosco molti che in teoria sono socialisti e in politica forcaioli. Esiste forse anche qualche caso del ... viceversa! Siccome però l'intellettuale e l'operaio credono entrambi, molto spesso, alla superiorità politica dell'uomo più colto, così finiscono col trovarsi in due piani distinti, e l'operaio si abitua a credere che l'intellettuale sia un essere superiore, con possibilità di azione immensamente maggiori... finisce col farsene un idolo, e intanto lo manda fuori dell'ambiente operaio. Comincia così la logica parabola dei borghesi socialisti, riassorbiti dalla società borghese. E' un processo quasi necessario: il proletariato sottrae alla borghesia alcuni elementi rivoluzionari, evoluti, e li sfrutta contro di essa finchè questa non riesce a riprenderli nelle sue file. E' un passaggio continuo che non recherebbe gran danno al socialismo se quegli intellettuali, andandosene, non lasciassero dietro di loro un seguito di ammirazione personalistica negli operai.

Il nemico che ci vediamo contro in questi fenomeni, l'artefice delle defezioni operaie e non operaie dalle nostre file è sempre lo stesso: si chiama "individualismo". Esso è il riflesso dell'ambiente della società borghese. Esso ha le sue radici sul regime economico della proprietà privata e della concorrenza. E' un nemico che dobbiamo combattere. Sarà abbattuto quando si potrà instaurare il regime economico comunista, ma bisogna assalirlo anche oggi.

Tutto l'ambiente borghese conduce dunque all'individualismo. La nostra lotta socialista, anti-borghese, la nostra preparazione rivoluzionaria deve essere diretta nel senso di gettare le basi del nuovo ambiente .

Ecco in che cosa noi vediamo tutto un programma del movimento giovanile. Sottrarre la formazione del carattere all'esclusiva influenza della società presente, vivere tutti insieme, noi giovani operai o no, respirando un'atmosfera diversa e migliore, tagliare i ponti che ci uniscono ad ambienti non socialisti, recidere i legami per cui ci si infiltra nel sangue il veleno dell'egoismo, della concorrenza, sabotare , in una parola, questa società infame, creando oasi rivoluzionarie destinate un giorno ad invaderla tutta, scavando mine destinate a sconvolgerla nelle sue basi.

Ma l'articolo è già troppo lungo per svolgerne ora la parte "concreta". Ne parleremo un'altra volta.

L'Avanguardia n. 289 del 1 giugno 1913. Firmato: Amadeo Bordiga

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