29. Come un logaritmo giallo (1)
Ovvero: irrazionalità e immediatismo dell'economia politica

Immunodeficienza capitalistica acquisita

Nella nostra lettera n. 27 intitolata Il 18 brumaio del partito che non c'è, dicemmo che i comportamenti della borghesia italiana di fronte alla crisi avrebbero dato luogo ad una politica in qualche modo esemplare.

Che significa esemplare? In questa penisola storicamente esposta a tutte le correnti della politica internazionale, non era possibile cavarsela con un semplice raffreddore di fronte a problemi gravissimi che stanno coinvolgendo il mondo intero. La malattia sarebbe stata più grave e avrebbe coinvolto profondamente l'organismo economico e politico provocando la formazione di anticorpi più robusti del solito nel tentativo di fronteggiare il pericolo mortale dell'accumulazione zero. La risposta italiana poteva essere, come in altre occasioni, un battistrada per altri paesi più importanti.

Fuori di metafora, abbiamo semplicemente constatato alcune spettacolari conferme del marxismo cercando di applicarne coerentemente il metodo: la società capitalistica si sviluppa e invecchia secondo una dinamica inesorabile e, invecchiando, affina le armi per combattere le sue contraddizioni. Il suo guaio è che, facendolo, non fa che rendere tali contraddizioni ancora più terribili.

Se, con Marx, diciamo che non esiste una crisi permanente del capitalismo che sia deducibile dalle sue permanenti contraddizioni, dobbiamo anche aggiungere, sempre con Marx, che il capitalismo stesso non è eterno e che anzi è una società transitoria come tutte quelle che l'hanno preceduto. La crisi è un formidabile rivitalizzatore dei cicli capitalistici, i quali rappresentano l'oscillare degli aggiustamenti necessari per tendere all'equilibrio. Le crisi erano in passato acute e risolutive. I diagrammi che le rappresentavano avevano dei grandi picchi sopra e sotto lo zero e ogni risalita rappresentava un balzo in avanti verso maggior produzione e accumulazione.

Oggi le crisi non sono più acute come un tempo perché il maturare della società capitalistica provoca variazioni percentualmente meno importanti che in passato. Questo vale sia per i tassi di crescita che per i loro riflessi sociali. Riprendendo Engels dicemmo che la crisi, ravvicinando i cicli e attutendo l'ampiezza di oscillazione delle grandezze, si cronicizza. Di qui un inizio di spiegazione materiale per il comportamento della borghesia e del proletariato di fronte alle attuali difficoltà di accumulazione, alla crisi industriale e finanziaria, alla disoccupazione e al calo dei consumi.

Il malato assuefatto non reagisce più ai farmaci come un tempo, gli anticorpi escogitati dall'organismo lo portano sempre più verso l'immunodeficienza e la catastrofe.

Un anno di conferme

Ci aspettavamo dunque una politica esemplare a partire dal modo in cui sarebbero state poste le questioni del rilancio dell'economia in rapporto al controllo sociale. E siccome siamo nel paese in cui il capitalismo è nato e ha fatto tutti i suoi esperimenti sociali fino all'attuale fascismo, facemmo un'analisi veloce di alcuni fenomeni già in atto, collegandoli sia fra loro che con la costante del fascismo: il controllo centrale dell'economia, della forza lavoro e delle sottoclassi sociali rovinate dalla crisi.

Uno dei fenomeni, il controllo della forza lavoro, aveva già avuto un'espressione scritta nel protocollo tra governo, industria e sindacato siglato nel '92, sul quale dicemmo:

"Il protocollo del 31 luglio è di cristallina impostazione keynesiana, esso tende a livellare i salari al basso, risparmiare sugli 'eccessi' nei settori privato e pubblico, demolire ampi settori di piccola borghesia sopravvivente su traffici poco produttivi, e utilizzare le risorse così racimolate per investire in vista di nuovi posti di lavoro a basso costo.

Il protocollo del 31 luglio è il coronamento, per quanto perfettibile dal punto di vista borghese, della spinta materiale ormai in moto da tempo, proveniente dagli Stati Uniti del dopo-Reagan, non digerita dall'Inghilterra post tatcheriana, perfettamente applicata dalla Germania unificata" (1).

A distanza di un anno la borghesia italica ci porge su di un piatto d'argento il progetto contenuto nel protocollo del '92, perfezionato e firmato dalle tre maggiori componenti sociali: governo, industria, sindacato. A saperlo leggere con occhi marxisti e nel contesto internazionale, esso si rivela una vera e propria capitolazione economica e ideologica di fronte al materialismo dialettico del marxismo.

Ma prima di analizzare il documento dobbiamo vedere che cosa nel frattempo è successo nel mondo e in che modo è attinente ai temi della nostra precedente analisi. Economia, democrazia e fascismo sono argomenti collegati.

La democrazia è il migliore involucro per lo sfruttamento capitalistico, dice Lenin, ma la democrazia rappresenta anche un intralcio al funzionamento di sistemi complessi, dalle ferrovie agli eserciti, all'economia di un paese. I sistemi complessi hanno bisogno di flussi di informazioni precise e inequivocabili, il loro governo necessita di centralità e univocità di controllo. Se la democrazia rappresenta il migliore involucro per lo sfruttamento in quanto mistifica un dato reale, quello della dittatura di classe, rendendolo meno evidente, essa è anche un lusso che non sempre la borghesia può permettersi. Essendo assolutamente inutile e ininfluente sul comportamento reale del sistema, la democrazia viene mantenuta solo in quanto mistificazione, ma siccome essa costa in tutti i sensi, viene mantenuta più facilmente quando le cose vanno bene. Quando la crisi elimina margini di manovra economici, anche dal punto di vista sociale gli effetti si fanno sentire e la democrazia ne risente.

Non saremo noi a piangere su questo, l'umanità non ha per meta la democrazia bensì il proprio affrancamento dall'assurdità capitalistica. Se qualche borghese ha notato che c'è un rapporto diretto fra democrazia e benessere, ci è fin troppo facile rinfacciargli il suo idealismo: non è la democrazia che provoca il benessere, ma è il livello raggiunto dalle forze produttive che può permettersi il lusso dell'involucro "migliore" allo sfruttamento.

In tutto il mondo la democrazia non è attualmente in grande salute. Mai se ne è parlato tanto e ciò è significativo, dato che la lingua batte dove il dente duole. Imporre la democrazia con le armi non sembra un esercizio tanto democratico: il solo fatto che invece succeda significa che qualcosa non va. Alla scala più vasta possiamo ricordare che con le armi si è imposta la democrazia con la Seconda Guerra Mondiale, ma tutti sanno che l'obiettivo non era certo il ristabilimento delle chiacchiere parlamentari. Uno dei massimi alleati vincitori non era affatto democratico, anche se aveva affossato la teoria marxista in nome della democrazia e gli altri si affaccendavano a disegnare le future costituzioni da imporre ai vinti a somiglianza delle proprie.

In Italia e in genere nell'Occidente capitalistico le operazioni che tendono a rafforzare gli esecutivi di fronte al parlamento sono velate da esigenze di facciata. Amato, quando era capo del governo aveva chiesto senza tanti complimenti poteri speciali per tre anni in campo economico e non aveva ricevuto troppa opposizione. Il progetto fu bloccato dall'attuale capo del governo Ciampi, allora governatore della Banca Centrale, con la motivazione della non sostenibilità di fronte al Paese.

Ma Ciampi è divenuto nel frattempo capo del governo su nomina del capo dello Stato. Egli si è insediato saltando per la prima volta la consultazione dei rappresentanti del popolo, invocando, ancora per la prima volta dalla guerra, l'articolo della Costituzione che gli permette di esautorare il Parlamento nella nomina dei ministri. Sfruttando la crisi di "legittimità" dello stesso Parlamento, la borghesia ha imposto attraverso un esecutivo di "tecnici" il suo programma economico e, quando le forze sociali (industria e sindacato) hanno tentennato di fronte ad esso, le ha sedute d'imperio attorno a un tavolo obbligandole a firmare.

Ogni qual volta il Parlamento ha tentato di intromettersi nel programma governativo, il tecnico Ciampi ha ricordato che tale programma non era suscettibile di modifica da parte di chicchessìa e i rappresentanti del popolo sono stati ricacciati di forza sui loro scranni a dilettarsi di chiacchiere utili solo a continuare quell'opera di autodemolizione di cui abbiamo parlato nella lettera scorsa. Quando le potenti corporazioni dei commercianti hanno tentato di imporre l'eliminazione della minimum tax l'esecutivo ha risposto con il proposito di sostituirla con qualcosa di più serio ed efficace; quando la corporazione delle grandi famiglie capitalistiche ha tentato di pilotare il controllo delle privatizzazioni verso di sé, lo stesso esecutivo non ha esitato a sconfessare il ministro dell'industria, portavoce di tali esigenze, e ad appoggiare il presidente dell'IRI fautore di un capitalismo senza capitalisti. Su questo argomento ritorneremo più avanti.

Libero mercato delle frottole

Il fenomeno accennato non è semplicemente italiano. L'integrazione del capitalismo mondiale acuisce la concorrenza fra gli Stati e i provvedimenti che si rendono necessari in uno di essi diventano immediatamente necessari per tutto il sistema capitalistico. Dimostrammo che la deregulation americana del tempo di Reagan non era altro che un adeguarsi al dettato delle nuove esigenze di controllo sull'economia (2). Citammo Mattei che dimostrava come l'intervento dello Stato fosse necessario per ristabilire meccanismi di libero mercato dove la tendenza naturale del capitalismo portava monopolio (3), ma è evidente a tutti che il massimo ente antitrust è americano ed è un ente governativo. La deregulation è una forma di re-regulation e dimostrammo che l'intervento dello Stato per tentare di equilibrare gli squilibri insiti nel capitalismo è un fenomeno irreversibile.

L'essenza del capitalismo non è il libero mercato ma il monopolio, a cominciare da quello di classe sui mezzi di produzione. La concorrenza per il singolo capitalista è un ideale che egli chiama libero mercato, ma egli passa l'esistenza nel cercare di eliminarla e di imporsi. Vede come il fumo negli occhi l'intervento dello Stato, ma questa debole ideologia cade non appena ha bisogno dello Stato per uscire dalla crisi in cui si trova o per abbattere lo strapotere di un avversario divenuto monopolista. È persin banale ricordare che l'America liberista insorge per ottenere dallo Stato protezione al GATT per i propri prodotti in crisi, come quelli agricoli, ma insorge nello stesso tempo per impedire che i concorrenti blocchino lo strapotere mondiale del suo cinema e delle sue canzonette, fonte di introiti eccezionali ma anche di rincoglionimento da schiavizzazione. E lo Stato provvede, non può fare diversamente, con buona pace della libertà e della concorrenza come ideali. Muore ogni parvenza di liberismo, l'unica libertà che trionfa è quella di raccontar frottole su di esso.

La stessa cosa succede in Inghilterra, dove una feroce politica statale ha deregolamentato la precedente politica statale decidendo dall'alto quale indirizzo dare alla "nuova" economia, cioè pianificando statalmente il declino industriale britannico e la penetrazione estera nell'industria interna. O in Germania, dove le esigenze dell'economia hanno imposto l'espansione sia attraverso l'unificazione condotta dall'esecutivo di Khol in barba alla mitica indipendenza della Banca Centrale e alle opposizioni del Parlamento democratico, sia attraverso l'inglobamento di una massa umana di "profughi" che saranno un giorno ambasciatori di lingua tedesca nel seguire i canali di traffico nel circostante Lebensraum, il famigerato spazio vitale la cui negazione da parte alleata già provocò la scorsa guerra mondiale (4).

La Russia, come storicamente le si addice, è l'esempio più visibile di questo processo di demolizione dell'involucro democratico in nome della democrazia. È di nuovo saltato l'anello più debole del capitalismo mondiale. Massimo esempio di capitalismo statale, la Russia non aveva uno Stato in grado di controllare l'economia bene come nei "liberi" paesi d'Occidente. Quella che appariva come la massima dittatura era anche, paradossalmente, la massima espressione della democrazia capillare con il sistema degenerato dei Soviet che si ramificava in basso verso ogni angolo della società. Le votazioni democratiche erano la prassi quotidiana oltre che periodica e quindi erano capillari la chiacchiera, la carta bollata e l'inefficienza.

Il paradosso russo doveva saltare non appena fossero saltati i presupposti su cui si basava: la finzione che i due mercati, orientale e occidentale, fossero qualcosa di diverso l'uno dall'altro. Non appena si è affacciata la "grande confessione" che la nostra corrente aveva puntualmente previsto, è saltata anche l'immensa sovrastruttura che bloccava l'ulteriore maturare delle forze produttive (5).

Il capitalismo soffre di ogni chiusura nazionale. È nato con il commercio internazionale ed ha radici addirittura nella società mercantile antica. Lo sbocco naturale del capitalismo è il capitale creditizio, la società per azioni, la finanza internazionale e la rassicurante trasformazione del plusvalore in rendita. Il capitalismo russo aveva superato da tempo la fase della quantità, ma non poteva affrontare la nuova fase della qualità perché gli sbocchi erano monopolizzati dai vecchi capitalismi. Credito, finanza e commercio mondiali erano monopolizzati da Stati Uniti e Inghilterra. Il rapporto dell'URSS con il mercato e la finanza mondiali erano rappresentati quasi esclusivamente dalla possibilità di ottenere l'apertura di linee di credito tramite garanzia su oro, materie prime e semilavorati grezzi. Niente finanza propria, niente investimenti diretti in un senso o nell'altro, niente capacità propria di reperire capitali nel circuito internazionale, niente accumulazione di denaro capitale tramite l'interesse e la rendita (6).

Epica della Grande Confessione

La crisi russa è incominciata all'Ovest, dove la caduta dell'accumulazione ha distrutto l'unico canale che collegava l'economia alla finanza e al mercato internazionale. La diminuzione dei consumi di materie prime cui si sommava un minore introito per il conseguente crollo dei prezzi, il tentativo di recuperare sui prezzi politici all'interno del Comecon, il blocco quasi totale dei flussi privati di capitale verso l'Est hanno, se non direttamente provocato, certamente dato il colpo di grazia all'economia chiusa di quei paesi. Così la Perestroijka, le riforme eltsiniane, il dissolvimento dell'Unione e la guerra civile latente nelle repubbliche scaturiscono direttamente dallo schema marxista dell'accumulazione. L'economia russa troverebbe un suo sbocco solo nell'allargamento del ciclo accumulativo stesso: più mezzi di produzione, più operai, più consumi... e distruzione di tutto ciò attraverso le crisi per rinnovare il ciclo. Un'economia come quella dell'Europa orientale, la cui accumulazione si fondava quasi esclusivamente sulla sezione dei mezzi di produzione trascurando i consumi di massa che ne devono essere il complemento, deve necessariamente collassare quando la crisi mondiale colpisce più duramente proprio quella sezione.

La Perestroijka non rappresentò un evento attivo di riforma, bensì la constatazione passiva del dato di fatto che l'economia rispondeva ormai a parametri diversi da quelli stabiliti dagli uomini. Fallì come falliscono tutti i tentativi di igabbiare un movimento storico negli schemi della vecchia sovrastruttura. Gli uomini credettero di aver tempo di applicare la chiacchiera democratica e parlamentare all'incalzare degli eventi materiali e furono buttati fuori scena.

I due tentati "colpi di stato" fallirono perché il loro obiettivo era in contraddizione con le esigenze dell'economia. La dinamica di un colpo di stato esclude che si possa prendere il potere per il semplice fatto di impugnare le armi. Il colpo di stato asseconda tendenze in atto e finisce male chi sbaglia i calcoli sul movimento materiale che si propone di assecondare o sfruttare per prendere il potere. A meno che non si tratti di un paese assolutamente secondario e i golpisti siano appoggiati da una grande potenza.

Ma in Russia il colpo di stato non è neppure di Eltsin, come qualcuno più democratico di altri ha cercato di dimostrare. Eltsin è prigioniero di una dinamica che lo sovrasta di molte altezze, così come sovrasta i suoi immediati collaboratori e tutti coloro che si improvvisano osservatori dell'attualità senza andare troppo per il sottile per quanto riguarda le radici materiali dei fenomeni.

Il primo tentativo di colpo di stato ha rafforzato il parlamento e ha eliminato Gorbaciov quale rappresentante del tentativo di riforma della vecchia politica. Il secondo tentativo di colpo di stato ha condotto il parlamento alla sua stessa rovina in nome della democrazia calpestata. Eltsin si trova proiettato come un fantoccio impotente dal sottosuolo economico alla guida di riforme economiche impossibili. La vera riforma c'è già stata. Essa è rappresentata dal crollo del capitalismo di stato russo, funzionale alla crescita quantitativa dell'apparato produttivo senza una corrispettiva crescita delle possibilità di consumo. Il cittadino russo disponeva di grandi quantità di "reddito", ma era carta straccia in quanto non poteva acquistare in proporzione, né il sistema del credito era così sviluppato da poter utilizzare in qualche modo produttivo il denaro risparmiato. La prossima stabilizzazione potrà avvenire soltanto sulla base di un nuovo e più efficiente dirigismo economico funzionale alla crescita qualitativa. Non di riforme si tratta, ma di mettere in sintonia la sovrastruttura governativa e burocratica con l'esplicarsi delle esigenze della legge del valore.

Gli osservatori occidentali fanno gli schizzinosi e dicono che le enormi ricchezze accumulate dagli speculatori sul disastro russo, le mafie, la degenerazione sociale, la violenza, la fame, la prostituzione sono una caricatura del capitalismo, non vero capitalismo. Prendono le distanze da fatti che conoscono fin troppo bene a casa loro. Caricatura? Niente di più sbagliato. Per quanto rozzi, i fenomeni della degenerazione sociale russa non sono per nulla diversi da quelli della degenerazione sociale occidentale. E sono infinitamente più limitati perché più giovani.

Il capitalismo russo avrà nei prossimi mesi o anni lo stesso compito del suo omologo americano o tedesco o giapponese: non "eliminare le regole" ma darsene delle nuove e più rigorose; non meno Stato e più mercato, ma più Stato affinché il mercato non muoia. In Russia il mercato c'è da quando esiste il capitalismo, compito dello Stato russo ora è quello di intervenire per dargli nuovamente una disciplina adatta alla nuova realtà internazionale. Se ci riuscirà.

Il lettore che ci conosce poco si chiederà se per caso non stiamo andando fuori tema. Si rassicuri. In Russia, per via delle sue smisurate dimensioni e delle sue caratteristiche storiche, sta avvenendo in modo epico ciò che più o meno in sordina sta avvenendo in Italia e nei principali paesi del mondo.

Costanti della sovrastruttura

La nostra tesi è: il maturare del capitalismo dà luogo a fenomeni irreversibili sulla base di un'unica legge, quella del valore. Su tale base fioriscono aspetti sovrastrutturali apparentemente diversissimi, quali la democrazia parlamentare, il fascismo, la democrazia sovietica, il presidenzialismo demagogico e anche la teocrazia fondamentalista. Ma sarebbe fatale, per la comprensione dei fenomeni, della dinamica che sovrastano e della prospettiva cui conducono, prescindere dalla legge del valore e quindi dall'unica costante comune a tutto il capitalismo in tutto il mondo. Ora tale legge ci dice che è necessario, nel processo di valorizzazione, controllare il fatto economico e limitare i suoi naturali aspetti anarchici. Ciò esclude il liberismo puro e storicamente impone la forma fascista in economia. Tale forma è irreversibile finché dura il capitalismo (7).

Ma tale forma ha dei caratteri anch'essi costanti a dispetto dell'apparenza. Fallito e decorso il periodo riformista della Seconda Internazionale, le sue istanze riformiste sono state dialetticamente realizzate dallo Stato fascista. Le assicurazioni sociali, le leggi sul lavoro, la tutela degli anziani e dei bambini con le loro madri, l'integrazione delle funzioni sindacali nell'economia ecc. sono state introdotte per la prima volta in Italia e in seguito hanno fatto parte di tutti i programmi governativi, da quello nazista a quello roosveltiano, da quello peronista a quello stalinista (8).

Abbiamo mostrato nella Lettera 27 quale interessante identità vi sia fra le proposizioni contenute nel Programma Fascista del 1919 e quelle attualissime dei rappresentanti del cosiddetto cambiamento in Italia. Ciò è strano solo per i non materialisti perché essi giudicano gli attori del dramma sociale affidandosi a ciò che dicono di sé stessi e non sui fatti materiali che li muovono.

Tutti vogliono demolire lo Stato assistenziale, ma non fanno altro che riproporlo in forma rafforzata. Anche negli Stati Uniti sembrava che si volesse demolire quel poco che c'era, ma le esigenze economiche hanno catapultato alla Casa Bianca un presidente che si fa portavoce di un nuovo New Deal, anche se le ripetizioni, dovrebbe essere ormai noto, si traducono in misera farsa.

Le nostre costanti sono dunque date dalle esigenze di valorizzazione del capitale. Adottando il metodo scientifico esse sono poche e ben individuabili. Esse si contrappongono in modo netto alla miriade di distinzioni che il moralismo idealistico inventa quando affronta i fatti sociali, confondendo cause ed effetti, struttura economica e funzioni sociali nate da questa. Ovviamente, parlando di effetti della legge del valore sulla sovrastruttura politica e sociale, tralasciamo ogni approfondimento della legge stessa, che in fondo è l'unica costante vera. Ci soffermeremo su di essa solo dove se ne presenti l'occasione durante il discorso e solo per brevi accenni. Dobbiamo dare qui per scontato che la legge e le sue implicazioni siano conosciute. Intenderemo quindi per costante non la legge del valore ma l'elemento sovrastrutturale comune a tutti i sistemi capitalistici nazionali nell'epoca del capitalismo maturo.

La prima costante è il controllo centralizzato dell'economia. Non esiste più Stato al mondo che non controlli totalmente l'economia interna e non tuteli con vigore le proprie merci sul mercato estero.

La seconda costante è il sostegno al sistema produttivo interno. Esso si realizza sia attraverso politiche di investimenti diretti dello Stato sia attraverso l'indirizzo di risorse per gli investimenti privati. Ne deriva anche il sostegno dei consumi attraverso interventi che mirano ad evitare che salari troppo bassi o persone senza reddito facciano precipitare la domanda al di sotto di limiti coerenti con l'offerta.

La terza costante è la necessità di tenere sotto controllo gli effetti sociali dell'andamento economico. Questo avviene sia in congiuntura favorevole che sfavorevole: quindi tendenza storica ad inglobare il sindacato nella logica della responsabilità verso l'economia nazionale.

All'interno delle forme di dominio citate poco fa, sono ovviamente applicate varie "scuole" del pensiero economico borghese, ma si traducono tutte nella pratica attività statale intorno alle citate costanti. Esistono brillanti teorie e modelli di tutti i generi, ma non sono applicabili. Anche la cosiddetta reaganomics, che passava per un rigurgito di liberismo, non poteva fare a meno di agire attraverso l'azione dello Stato, azione ormai indispensabile e irreversibile.

Politica dei redditi e costo del lavoro

Dicevamo all'inizio che nella precedente Lettera sulla situazione italiana ci si attendeva dal nuovo esecutivo una politica economica e sociale in qualche modo esemplare.

Da due anni era in corso la discussione tra Sindacati e Industria sul cosiddetto costo del lavoro. Le "parti" non riuscivano a mettersi d'accordo. La prova generale del luglio 1992 non era andata bene per la CGIL: dopo aver firmato un protocollo d'intesa sulla riduzione del costo del lavoro e su di una serie d'interventi nell'economia, il segretario generale Trentin aveva dato le dimissioni per salvare la faccia di fronte agli iscritti inferociti. La "verifica" non era più pilotabile dai vertici come un tempo. Nel settembre successivo si riempirono le piazze e maturò spontaneamente una tensione mai vista contro i vertici sindacali. Non volarono soltanto le botte e i proverbiali bulloni: si consolidò la sfiducia cui seguì un'ondata di disdette dei tesserati che, aggiunte a quelle dei licenziati e cassintegrati, provocò il tracollo amministrativo delle organizzazioni. La sinistra sindacale "autoconvocata" raccolse in parte la rabbia operaia ma, vile com'è e senza un programma realmente diverso da quello dei vertici, non seppe che farsene.

Un lungo tentativo di recupero durato quasi un anno portò la CGIL ad appoggiare, prima di nascosto, poi apertamente, le frange "autoconvocate", con un gran lavorìo delle sinistre ufficiali e, alla fine, con manifestazioni congiunte. A questo punto i sindacati erano pronti, ma vi erano ancora resistenze industriali. Il nuovo governo si scelse come ministro del lavoro il vecchio compilatore della legge 300 sui "diritti dei lavoratori". Il testo dell'accordo fu cambiato con pesanti interventi da parte governativa e alla fine lo stesso governo impose alla Confindustria di firmare.

Il nuovo documento non rappresenta un accordo sindacale ed è veramente esemplare. Non potevamo pretendere nulla di meglio per illustrare le nostre tesi marxiste. Si intitola: Protocollo sulla politica dei redditi e dell'occupazione, sugli assetti contrattuali, sulle politiche del lavoro e sul sostegno al sistema produttivo.

Il limite insuperabile della formula volgare

Nel Terzo Libro del Capitale la Settima Sezione si intitola I redditi e le loro fonti. Ogni politica dei redditi che la borghesia possa escogitare, per noi marxisti dovrà quindi partire dalle fonti del reddito. Senza le sue fonti, il reddito non esiste. Che cosa è il reddito? si chiede Marx. Siccome la Settima Sezione del Terzo libro è nelle ultime pagine di tutta l'opera sul Capitale, la risposta non è che un riassunto lapidario di quel che precede. La formula trinitaria del reddito è data da: Capitale-profitto; terra-rendita; lavoro-salario.

Seguiamo Marx e questo capolavoro di protocollo che un'altra trinità, governo-industria-sindacati, ci mette a disposizione. Come fa la borghesia ad imbastire una legge sulla politica dei redditi e mettere in pratica gli intenti firmati con i sindacati se le fonti della ricchezza annualmente disponibile appartengono a sfere del tutto separate, diverse, senza la minima analogia? Un profitto, nota Marx, può venire dall'onorario di un notaio, la rendita della terra può avere attinenza con le carote e il lavoro può produrre musica.

Non sembra che si possano in quel modo individuare elementi quantitativi misurabili per varare una seria politica dei redditi e per contenere il costo del lavoro; anche perché basta variare l'esempio per avere un'immagine del tutto diversa del "reddito e delle sue fonti": il profitto di Agnelli, la rendita di Berlusconi e il lavoro di Cipputi (9).

Il Capitale non consiste nella somma dei mezzi di produzione né in oro o denaro né in tutto ciò preso insieme. Il Capitale non è nulla se non viene messo in confronto con gli altri elementi che gli consentono di esistere. Il Capitale è la forma sociale determinata di uno dei fattori del processo di produzione di questa società. Il reddito da capitale tra l'altro si sdoppia in utile d'impresa e interesse: mentre l'utile d'impresa si presenta come premio dell'attività industriale, l'interesse appare immediatamente come prodotto proprio e caratteristico del Capitale. Intendendo infatti l'utile d'impresa come una specie di salario del capitalista, slegato dal capitale, vediamo che la formula trinitaria diventa capitale-interesse; terra-rendita; lavoro-salario; formula nella quale, nota Marx, "il profitto, la forma del plusvalore che caratterizza specificamente il modo di produzione capitalistico, è felicemente eliminato". Sdoppiare il profitto in utile d'impresa e interesse è corretto solo se si comprende che la fonte per entrambi è il plusvalore, altrimenti si finisce tra coloro che vedono una contrapposizione inesitente fra i ceti sociali tra i quali il plusvalore viene ripartito. Ciò vale anche per la classe che si appropria della rendita, un'altra quota di plusvalore destinata ai proprietari di immobili ecc.

Nella lotta fra classi e sottoclassi l'apparente scontro fra componenti della borghesia non deve mai far dimenticare che esso avviene per una concorrenza riguardo la ripartizione del plusvalore, ma che l'alleanza rimane ferrea quando si tratta di trovare i modi per aumentarne la creazione. La teoria ricorrente all'interno dell'opportunismo che vede ogni tanto risorgere proposte di alleanza fra "produttori" e "parassiti", riedizioni aggiornate del patto del lavoro per la ricostruzione, deve essere demolita con il ricorso alla "fonte dei redditi" che ci dà un'idea chiarissima dei rapporti di classe: da una parte chi crea plusvalore, dall'altra chi ne beneficia. Ogni altra distinzione può essere utile per precisare le componenti di classe, ma mai per stabilire dov'è la linea di demarcazione tra sfruttati e sfruttatori.

Anche il "lavoro" non è nulla se non viene rapportato al processo produttivo specifico in cui agisce insieme al Capitale. Il capitalista "lavora", a volte nello stesso ambiente dell'operaio. La produzione di musica ha un significato se ascoltata per il proprio piacere, tutt'altro significato se inserita in un processo produttivo di profittevoli tournée, dischi, colonne sonore ecc. E ciò vale anche per la terra che, lasciata selvaggia e incolta, non dà reddito, ma non lo dà neppure se, lavorata, serve solo a mantenere chi la lavora.

Non si riesce, con queste categorie, a sapere che cosa è veramente il reddito; come potrà la borghesia fare una politica dei redditi a suo vantaggio? Come potrà regolare il costo del lavoro senza che sapere che diavolo sia?

"L'economia volgare si limita, in realtà, a interpretare, sistematizzare e difendere in modo dottrinario le idee degli agenti, irretiti nei rapporti di produzione borghesi, di questa produzione", dice Marx nel capitolo citato. Il borghese si ferma al fatto di offrire denaro contro lavoro, di pagare un interesse nel caso di ricorso al credito, di acquistare sul mercato energia e materie prime, di pagare l'affitto o la terra su cui sorge la propria fabbrica, di licenziare se produce lo stesso con meno operai, di chiedere denaro allo Stato quando è in difficoltà, di chiedergli protezione contro la concorrenza straniera. Non gli viene neppure il dubbio che ognuna di queste operazioni, se isolata dalla dinamica complessiva del Capitale, mette in confronto degli incommensurabili. Quando ha fatto i suoi conti con grandezze che può toccare, "tutto gli si fa chiaro, ed egli non sente più il bisogno di continuare a rifletterci sopra. Infatti egli è così pervenuto appunto al 'razionale' della concezione borghese". "Reddito" per il borghese è così, prosaicamente, ciò che finisce in tasca a individui diversissimi sotto forma di denaro; la sua origine è per lui indifferente così, dal punto di vista scientifico, è una proposizione che vale zero. Idem per "costo del lavoro"; essa è un'espressione che contraddice sia il concetto di valore che quello di prezzo il quale non è altro che la forma socialmente determinata del valore. "'Prezzo del lavoro' è tanto irrazionale quanto un logaritmo giallo. Ma solo a questo punto l'economista volgare è pienamente soddisfatto, sia perché è arrivato alla profonda percezione del borghese di pagare denaro per lavoro, sia perché appunto la contraddizione fra la (sua) formula e il concetto del valore lo dispensa dall'obbligo di capire quest'ultimo".

Con queste premesse, che abbiamo necessariamente appena tratteggiato, si capisce bene che ogni proposito borghese si scontra con due problemi. Primo: siccome gli elementi della produzione attraverso cui si forma il plusvalore non sono cose ma rapporti sociali, per ottenere risultati bisognerebbe muovere i soggetti di questi rapporti sociali, cioè le classi e i loro rappresentanti, con tutto ciò che ne può derivare. Secondo: siccome la situazione che si tenta di superare, migliorandola, è già il risultato dell'agire di meccanismi non compresi (altrimenti non li si sarebbero lasciati agire liberamente), la soluzione dei problemi non può essere rappresentata da un cosciente riequilibrio tra le grandezze squilibrate ma dal solito riequilibrio spontaneo, anarchico, catastrofico, insomma dal perdurare della crisi degenerativa o dall'esplodere della crisi acuta.

Come marxisti non siamo d'accordo con le idilliache proposte che quasi venticinque anni fa avanzava il Club di Roma per fare uscire l'umanità dai problemi posti dal capitalismo senza uscire dal capitalismo. Questo organismo diceva allora che il sistema mondiale avrebbe comunque trovato un suo riequilibrio: si trattava di arrivarci in modo cosciente, razionale e indolore applicando un modello economico cui i governi si sarebbero dovuti adeguare, oppure di arrivarci in modo traumatico, distruttivo, doloroso, lasciando che gli aggiustamenti avvenissero spontaneamente.

Nell'ambito del capitalismo, dove la produzione e la distribuzione sociale si scontrano con l'appropriazione privata del plusvalore, il tentativo di riequilibrio non può che seguire la seconda via.

Il Protocollo del 23 luglio dal punto di vista "sindacale"

Nel suo insieme si tratta di un documento piuttosto atipico nella pletorica produzione italiana di documenti e di accordi. Più che di un documento sindacale si tratta di un programma politico dello Stato Italiano. Ciò risulta confermato dal fatto che l'Esecutivo ha obbligato le "parti" a sedersi attorno ad un tavolo e firmare dopo un'infinita serie di indecisioni e di schermaglie tra loro. Dopo le esplosioni di rabbia dell'autunno '92, al proletariato è stato nascosto, con un'azione congiunta fra le "parti", il vero significato dell'accordo odierno. I firmatari hanno avuto buon gioco a causa della passività nelle fabbriche, dove ha votato in totale il 10% circa dei lavoratori con un risultato del 6% a favore dell'approvazione contro il 4% a sfavore.

L'unico giornale che ha pubblicato per intero il testo del 23 luglio è stato Il Sole - 24 Ore. Tutti gli altri giornali, la radio, la televisione, i sindacati e in genere tutti i commentatori, hanno sottolineato le novità che il documento contiene, ma si sono limitati, stranamente senza quasi eccezione, alla parte propriamente sindacale: contratti nazionali, contrattazione aziendale, eliminazione della "scala mobile", elezioni dei consigli di fabbrica, ecc. A questo tipo di atteggiamento si sono adeguati i commentatori dei vari gruppi di sinistra con i loro giornali.

Eppure la parte sindacale copre soltanto il 10% del documento e un altro 5% è dedicato alla legittimazione degli organismi eletti a negoziare. Sul giornale confindustriale, per esempio, occupa meno di quattro semicolonne su ventiquattro. Noi dedicheremo meno del 15% del nostro spazio a tale aspetto.

I contratti nazionali avevano durata triennale e ora la scadenza passerà a quattro anni: ma già prima tra la disdetta, le trattative e gli scioperi inconcludenti diluiti nel tempo, si perdeva comunque un anno in media se non di più.

La contrattazione integrativa aziendale verrà praticamente stabilita in sede di contratto nazionale e dovrà tener conto delle esigenze particolari delle singole aziende: ma già prima questo avveniva in base alla responsabilità che i vertici sindacali e la gerarchia verso il basso hanno sempre manifestato nei confronti delle realtà produttive.

Sparisce l'indennità di contingenza, sostituita da una verifica del potere d'acquisto del salario ogni due anni e da un meccanismo automatico che fa recuperare fino al 50% in caso di non contrattazione: ma sappiamo che anche prima, tra contingenza e aumenti contrattuali, il salario reale medio rimaneva pressoché costante e la maggiore possibilità di consumo derivava in ultima analisi dalla diminuzione storica del valore dei manufatti a tale scopo destinati.

Non siamo mai stati favorevoli all'indicizzazione dei salari e la voce "contingenza" ci interessa o meno solo in rapporto allo scontro fra le classi. Se ad essa si sostituisce la possibilità di una lotta consapevole per migliorare le condizioni di vita del proletariato, tanto meglio, anche se non è ovviamente questa la ragione per cui i sindacati hanno accettato l'abolizione degli automatismi salariali. Questo vale anche per la periodicità fissa dei contratti nazionali: siamo sempre stati contrari e, al posto della contrattazione integrativa anch'essa regolamentata, abbiamo sempre indicato come migliore soluzione la revocabilità in qualsiasi momento di ogni contratto. Insomma, è dannoso e autolesionista far dipendere la lotta di classe da regole statutarie firmate con un avversario che ha in mano tutte le leve ideologiche e pratiche per non osservarle.

Anche le leggi dello Stato devono essere sottoposte dal movimento operaio alla stessa regola critica. Marx fece l'esempio famoso: la lotta per le otto ore in una fabbrica è una lotta economica, mentre la lotta generale del proletariato per una legge sulle otto ore è una lotta politica. La legge 300 del '70 sui "diritti dei lavoratori" è una legge dello Stato per dare delle regole ai capitalisti che si intestardiscono a fare a meno di regole: non c'è stata né lotta economica né lotta politica per ottenerla, c'è stato, come si dice, "un accordo fra le parti", sindacati, partiti, governo e parlamento.

Come si vede da queste semplici posizioni che sono sempre state patrimonio dei comunisti autentici, risulta in un certo senso più coerente l'atteggiamento dei vertici sindacali che non quello della sinistra sindacale e di varie altre "sinistre". I vertici sindacali hanno mantenuto fede alla loro tradizionale responsabilità verso l'economia: hanno accettato di semplificare le regole attraverso cui si articola il rapporto tra l'opportunismo, l'industria e lo Stato, cercando di eliminare le turbolenze che si venivano a creare con le frange sindacaliste sia interne che esterne e cercando di razionalizzare la loro integrazione nel sistema borghese. Le "sinistre", invece, hanno tutte quante subìto tale logica stracciandosi le vesti con somma indignazione di fronte a un apparato sindacale che faceva il suo mestiere, si sono "opposte" mettendosi sullo stesso terreno con la ricerca di regole diverse magari a loro più favorevoli dal punto di vista elettorale in fabbrica, si sono arroccate nella difesa della contingenza o del vecchio assetto contrattuale o di qualche regola alternativa ma sostanzialmente uguale. Ma è così difficile capire che qualunque tipo di regola firmata con l'avversario ha la sua risoluzione ultima nella manifestazione dei rapporti reali di forza?

Non a caso nella lettera precedente citammo un passo di uno dei nostri testi "Sul filo del tempo" del 1949 nel quale si escludeva che la democrazia e i risultati economici dell'azione sindacale fossero utili ai fini di classe. Le conquiste sindacali sono per loro natura effimere. Non è quindi la nuova regola stabilita da un contratto o l'aumento salariale che rappresentano un risultato classista, ma il modo di ottenerli, la non abdicazione del proletariato nella difesa quotidiana delle proprie condizioni di vita. Ciò è precisamente l'inverso che lo stabilire statuti e leggi cui attenersi nel periodo di pace tra una lotta e l'altra. Come è maledettamente difficile ricordare, quando ci si getta nell'attività fine a sé stessa, che il lavoro sindacale non è che l'esercitazione permanente della classe nella guerra il cui risultato finale deve essere la rivoluzione. E questo lo dice Marx, lo dice Lenin, non lo diciamo solo noi.

È forse grave che le organizzazioni sindacali cerchino di legittimare presso lo Stato la loro azione di controllo del proletariato? Chi sa qual'è la natura dei sindacati nell'epoca imperialistica dovrebbe trovarlo naturale. Si tratta piuttosto di denunciare questo dato di fatto storico e non contingente, invece di pretendere che i sindacati diventino ciò che non possono essere. Le organizzazioni sindacali sono inserite nei meccanismi dello Stato borghese da quando storicamente, cioè irreversibilmente, c'è stato il passaggio dalla proibizione violenta all'inglobamento legale, passando attraverso la tolleranza controllata. La forma sindacale può diventare diversa o sparire solo di fronte a fatti catastrofici nei rapporti fra le classi e compito dei comunisti è tenere viva questa esigenza e questa certezza, non illudere i proletari che si possa conquistare o cambiare il sindacato moderno, cioè la forma corporativa che è andata ancora oltre quella classica del fascismo con la formula tutta italiana di "sindacato di tutti i cittadini".

Quindi è l'inguaribile attivismo-sindacalismo che ha prodotto questo grande abbaglio dal quale cerchiamo di prendere le distanze, quello di vedere attraverso la lente sindacalmente angusta un documento squisitamente politico che tra l'altro non scaturisce neppure come folgorazione improvvisa dell'attuale governo di tecnici, ma era ben preannunciato dal protocollo dell'anno precedente oltre che dalla politica sindacale che si svolge in Italia da mezzo secolo.

I nostri compagni che svolgono o hanno svolto in passato attività sindacale anche come delegati, non hanno mai inteso i risultati contrattuali raggiunti, o quelli che ci si prefiggeva di raggiungere, come un traguardo che avesse un valore in sé, all'interno di questa società, ma hanno sempre dato la massima importanza alla dinamica di lotta necessaria per raggiungerli, alla chiarezza dei rapporti con le organizzazioni ufficiali e con il "padrone", alla dimostrazione che condizioni di lavoro, salario, disoccupazione, sono il risultato di ben precisi rapporti di produzione i cui effetti sono ineliminabili senza eliminare la causa che li produce.

Note

(1) Lettera ai compagni n. 27: "Il 18 brumaio del partito che non c'è", novembre 1992.

(2) Lettera ai compagni n. 25: "La crisi del sistema bancario americano", marzo 1991.

(3) Lettera n. 27 cit.

(4) Il 3 settembre 1993 è stato presentato a Bonn un documento di 110 pagine intitolato "Rapporto del Governo sul futuro dell'industria in Germania". In esso viene proposto: l'abbassamento dei salari; il prolungamento dell'orario di lavoro nel pubblico impiego; la flessibilità del lavoro nel settore privato; la deregolamentazione delle leggi sul lavoro; il taglio all'assistenza sociale. I disoccupati ufficiali in Germania sono 3,5 milioni e se ne prevedono altri 2,5 milioni entro due anni (cfr. Il Manifesto, 30 sett.1993).

(5) In molti articoli pubblicati dalla nostra corrente nel dopoguerra, nel dimostrare che non vi era nulla di socialista nell'economia dell'URSS, si era anche previsto l'abbandono della finzione marxista da parte dello Stato. Vedere per esempio "Ben altra offa si attende" in Il Programma Comunista n. 3 del 1957, dove si fa la previsione del rinnegamento di Lenin e non solo di Stalin.

(6) Cfr. il nostro Quaderno n. 4, "Il crollo del falso comunismo è incominciato all'Ovest", aprile 1992.

(7) Cfr. "Il ciclo storico del dominio politico della borghesia" (1947), ora in L'assalto del dubbio revisionista ai fondamenti della teoria rivoluzionaria marxista, ed. Quaderni Internazionalisti, maggio 1992.

(8) La differenza dello stalinismo non sta nel tipo di politica economica, burocrazia o controllo sociale, ma nelle origini: la rivoluzione bolscevica aveva il grande compito di gettare le basi del capitalismo e finché esso fosse esistito non poteva che essere capitalismo di stato.

(9) Pr i non italiani: Agnelli è il padrone della Fiat, Berlusconi è il massimo esponente della distribuzione del plusvalore nei servizi e negli immobili. Cipputi è il proletario "classico" di una vignetta satirica.

Lettere ai compagni