30. Dieci anni (3)

Certificati capitalistici di buona condotta

Il problema delle correzioni è fondamentale per quanto riguarda la politica capitalistica nell'epoca dell'imperialismo. Esse si trasformano sempre in un déjà vu rispetto al passato post 1929, perché non ci sono più novità nei meccanismi di correzione del capitalismo. Oggi è facile parlare della Russia, dell'Est Europeo e delle difficoltà di accumulazione del capitalismo in tutto il mondo. Meno facile è stato farlo nel 1984. C'erano riviste specializzate come Fortune che al crollo del Muro inneggiavano ancora: "Capitalisti di tutto il mondo unitevi, si è aperta l'era della pacchia, mezzo miliardo di consumatori vi attende". Certo, se scrivessimo adesso il Quaderno n. 1 saremmo un po' più scafati, vorrei vedere dopo dieci anni, ma non avremmo da aggiungere che della cronaca, non delle osservazioni fondamentali.

Quando brindammo con un po' di ironia alla Grande Germania come elemento di unificazione del proletariato europeo, non potevamo sapere che l'unificazione sarebbe avvenuta di lì a poco, e nemmeno che sarebbe proceduta così speditamente, ma perdio, abbiamo brindato e abbiamo scritto sui nostri volantini che si apriva una situazione ottima per la lotta di classe. Siamo troppo ottimisti? Il fatto è che non si tratta di aspettarci la rivoluzione per la settimana prossima, si tratta di vedere se tutto questo po' po' di roba ha un riflesso anche sui rapporti sociali. Non c'è nessun dubbio, rispondiamo di sì. Nessuno di noi è così cieco da non vedere che mancano le condizioni perché si verifichi il precipitare della situazione sociale. Manca per esempio non tanto la crisi, la disoccupazione, l'incertezza per l'avvenire, quanto la spinta al superamento di questa condizione, ma sappiamo che, se è sbagliato dire che ci sono le condizioni per la rivoluzione e manca soltanto il partito, è corretto affermare che l'indispensabile organo di direzione nasce e si sviluppa nelle condizioni generali favorevoli, quando cioè tutta la società non ce la fa più a vivere nelle antiche condizioni, neppure i capitalisti.

Diceva Marx che le merci sono artiglierie in grado di demolire qualsiasi barriera, qualsiasi muraglia cinese. L'integrazione del mercato mondiale più volte citata non significa che si crea un unico mostruoso capitalismo mondiale, ma che si crea un mercato mondiale sempre più integrato dai reciproci legami dei paesi capitalistici i quali sopravvivono con i loro interessi egoistici che diventano sempre più virulenti. Ma integrazione del mercato mondiale significa legame economico tra popolazioni, quindi estremo contrasto all'esplodere degli interessi che, nei momenti di difficoltà, sono sempre più sentiti. Liberare la strada alle merci e ai capitali significa unire cinicamente la posizione critica di chi ha eccedenze da smaltire con quella più critica ancora di chi ha bisogni da soddisfare e non può; di chi scoppia a causa di capitali in esubero e chi ne ha vitale bisogno. Si tratta di situazioni apparentemente complementari che, risolvibili sulla carta, risultano il più delle volte pure chimere, programmi di sviluppo che portano solo a indebitamento di intere popolazioni e alla fame. Come non vedere che tutto questo avrà dei riflessi sociali diretti?

Noi abbiamo molta fiducia - al di là di aspetti che sembrano dimostrare il contrario come la xenofobia, l'insofferenza tra regioni, l'egoismo e l'edonismo imbecilli che sembrano aver vinto sulle più elementari regole della convivenza sociale - nell'omogeneità della prospettiva che unisce tutto il proletariato almeno europeo. Passata l'ubriacatura di "libertà" cui gli orientali erano stati portati dal plumbeo regime stalinista, i problemi reali uniranno più che dividere - uniranno proletari e divideranno borghesi - a partire dal cuore dell'Europa, quando il gigante tedesco sarà unificato sul serio (e non impiegherà molti anni).

L'unificazione dei mercati e delle popolazioni, l'espandersi dei nodi in cui gli scambi mondiali rappresentano il sistema nervoso del capitalismo, provocherà l'acutizzarsi della sensibilità ai cambiamenti. Ricordiamo che i dieci anni passati sono anche dieci anni di diktat del Fondo Monetario Internazionale ai paesi che si avvicinavano al credito internazionale tramite la Banca Mondiale. Ma i cani da guardia del capitalismo pretendono il tesserino di buona condotta. Se vuoi far parte del sistema devi avere certe caratteristiche; devi intanto essere solvibile, cioè dimostrare di saper estrarre tanto plusvalore al tuo proletariato (o tante materie prime dalle tue miniere, se sono ancora tue); devi dimostrare che la tua solvibilità non sarà frutto di un deficit nella spesa, nodo che prima o poi verrà al pettine; devi avere strumenti economici e monetari per manovrare all'interno con efficacia; devi dimostrare di saper mantenere un controllo sociale senza provocare rivolte che destabilizzino l'intero sistema.

L'imperativo della pace sociale

I dieci anni che sono passati sono anche dieci anni di estorsione di plusvalore assoluto da masse che non sempre l'hanno sopportato, sono quindi anche dieci anni di rivolte e di sangue, non sempre con l'obiettivo chiaro del governo o del capitalismo, anzi, quasi mai. Ritardo della lotta di classe? E quando mai? La degenerazione violenta e il caos istituzionale che colpisce la maggior parte dei paesi del mondo non è forse una manifestazione della lotta di classe? C'è forse bisogno di vedere un proletario in tuta e un borghese con cilindro che si sparano nel cortile di una fabbrica per giustificare l'etichetta di lotta di classe? La degenerazione sociale è lotta di classe nel passaggio dal potenziale all'attuale perché rompe il ciclo pacifico dell'estrazione e della realizzazione del plusvalore. Ricordiamo, con Trotzky, che nessuna rivoluzione è possibile quando alla classe dominante gira tutto per il verso giusto: le sue fabbriche, la sua amministrazione, la sua polizia, i suoi tribunali, il suo esercito; il suo Stato, insomma.

Oggi più che mai i disagi di una popolazione possono nascere dalla politica economica di paesi agli antipodi, senza che sia visibile un collegamento diretto. Ma attraverso gli organismi mondiali preposti allo sviluppo, cioè meno metaforicamente al piazzamento di capitali che non saprebbero dove andare a valorizzarsi, il collegamento si vede, eccome. L'Italia non è Haiti, ma quando Moody's (29) ci abbassa il rating di qualche terzo di punto, state tranquilli che questo vuol dire stangata economica. Vedete per esempio le motivazioni della stangata da 90.000 miliardi che il governo Amato ha recentemente fatto approvare. Si era mai sentito parlare in passato di ciò? Il fenomeno avveniva, ma passava inosservato. Oggi è evidente ed esasperato. Solo che qui si rinuncia a qualche articolo superfluo di consumo, per ora, mentre in Marocco, Tunisia, Egitto, Venezuela, c'è stata l'eliminazione dei prezzi politici del pane e ci sono stati migliaia di morti negli scontri con l'esercito e la polizia.

Quando nel mondo aumentano le macchine, le produzioni automatizzate, in ultima analisi la composizione organica del capitale, va tutto bene se l'aumentata scala della produzione trova uno sbocco sui mercati compensando il diminuito saggio del profitto con la massa. Per questo non si può vendere poco con basso saggio di profitto. Se il mercato s'impaluda bisogna che, volenti o nolenti, certi rami della produzione abbassino la composizione organica del capitale in modo che salga il saggio di profitto. Settori ad alta composizione organica devono convivere con settori a bassa composizione se si vuole che il saggio medio di profitto sia "ragionevole".

Nell'Occidente sviluppato e nel Giappone non si può tornare indietro dal macchinismo e dall'alta composizione organica del capitale nella produzione; anche se localmente vi sono dei fenomeni del genere, essi non sono la regola. Ciò significa che altrove intere popolazioni sono condannate a fornire manodopera per quelle lavorazioni che si possono ancora fare con una composizione organica bassa, o addirittura nulla, come succede con certo lavoro a domicilio dove anche i bambini lavorano su macchine che la famiglia ha dovuto acquistare con enormi sacrifici. Queste sono situazioni esplosive, strettamente legate all'andamento dell'economia mondiale, come ricorda Marx a proposito dei tessitori della Slesia, episodio trasportato anche in un celebre dramma teatrale (30).

Centinaia di milioni di persone vivono con la spada di Damocle sospesa sul capo. Bastano piccole variazioni negli scambi internazionali, piccoli spostamenti di produzioni dai paesi importanti, piccole variazioni sui prezzi delle materie prime per squassare le deboli economie dei paesi marginali. Si tratta più o meno delle stesse persone che vivono l'incubo della fame ogni volta che il FMI abbassa improvvisamente per i motivi suddetti il rating al loro governo. Ma non c'è bisogno di ricorrere sempre all'immagine del Terzo Mondo affamato per affermare che la lotta di classe non è morta. Le manifestazioni del settembre '92 qui da noi dimostrano, con l'enorme tensione di cui erano cariche, che non c'è più uno spazio rivendicativo come negli anni '60 e '70, che lo scontro è potenzialmente globale, che i sindacati non sanno più garantire un controllo effettivo, cioè un controllo basato sulla fiducia che un tempo riscuotevano. Essi si sono staccati completamente e definitivamente dal proletariato. Lo controllano, certo, e con determinazione, ma come la polizia controlla la vita pubblica.

Lotta di classe potenziale e attuale

Il sindacato è il nuovo ministero del lavoro e della previdenza sociale, il suo mestiere è mettere impiegati e funzionari allo sportello o dietro scrivanie manageriali. Abbiamo visto per qualche giorno migliaia di operai che lottavano contro lo Stato e anche contro i sindacati. Non avevano rivendicazioni da fare, non chiedevano neppure il ritiro del protocollo del luglio che era sentito più o meno come una delle leggi dello Stato, delle quali nessuno si occupa quando escono sulla Gazzetta Ufficiale. La trasformazione del controllo "interno" del sindacato in controllo "esterno", è un potenziale non meno esplosivo e carico di prospettive della fame immediata delle masse dei paesi poveri. Oggi non dobbiamo più fare a pugni con i sindacalisti stalinisti che ci impedivano di parlare nelle assemblee, perché essi giungono alle riunioni dall'esterno, come funzionari dello Stato. Abbiamo già avuto la verifica pratica di come la gente ascolta stupita i nostri discorsi che per ora sembrano discorsi di marziani caduti dallo spazio sulla Terra. Ma la risposta del burocrate non viene più dall'interno dell'assemblea, essa suona piuttosto come l'intimazione del questore quando la piazza si scalda. Se non è una situazione magnifica questa...

Conviene sottolineare ancora una volta la tesi centrale di questo nostro incontro: ovunque rivolgiamo la nostra attenzione, vediamo fenomeni che all'interno del capitalismo sono spinti al limite e che rispondono meglio che nel passato all'illustrazione che ne fecero sia Marx, per quanto riguarda il Capitale, sia Bordiga per quanto riguarda le forme estreme di esso.

Tutto ciò non ci serve solo per dire: il marxismo è vivo, avevamo ragione ecc., ma per capire se dopo il disastro organizzativo di dieci anni fa esistono le condizioni materiali che spingano i compagni ad una unità di pensiero e di azione, al superamento delle forme che ha preso la loro sopravvivenza politica.

Su questo punto non dovrebbe esservi bisogno di particolari spiegazioni, ma non si sa mai, dato che circolano proposte di aggregazione, di dialogo e di dibattito e che le code di paglia vedono cose del genere tutte le volte che si parla della necessità dell'organizzazione, del partito. Abbiamo ripetuto a sufficienza che necessità non significa obbligo volontaristico di fondare partitini a raffica. Quando parlavamo della necessità di una rivista per tutti i compagni, già dieci anni fa, non intendevamo di certo proporre di metterci a tavolino e incominciare a scriverla e pubblicarla. Infatti siamo ancora senza rivista. La questione travalica la nostra stessa ferma opposizione a fare pasticci aggregativi. Si tratta invece di studiare le condizioni materiali di cui si parlava prima e vedere a che punto è la marxista contraddizione fra la forza produttiva sociale e i rapporti di produzione. La condizione rivoluzionaria, e quindi anche quella della formazione del partito, è che tale contraddizione passi dallo stato latente, come è detto anche nel linguaggio delle formule che abbiamo visto prima, allo stato attuale, in grado di muovere la società intera, scrollare le classi dai legami che le invischiano in un'unica melma. Nella nostra Lettera su quel 18 Brumaio di cui avrebbe bisogno la borghesia italiana, si studia il fenomeno dal punto di vista del rapporto fra struttura e sovrastruttura e, almeno nelle intenzioni, si contribuisce alla comprensione del rapporto fra lo stato latente delle contraddizioni e il passaggio allo stato di forza reale che muove le classi.

E' indubbio che l'integrazione degli interessi capitalistici in rapporti sempre più dipendenti fra gli Stati e, nello stesso tempo, sempre più antagonistici proprio per questo, prende la forma fenomenica dell'iperbole finanziaria, riflesso della circolazione dei capitali in frenetica ricerca di valorizzazione.

Ora, da una parte constatiamo nei fatti che i disastri finanziari come quelli che abbiamo descritto provocano degli effetti piuttosto blandi sul corso dell'economia mondiale, a differenza che nel passato. Dall'altra il mostruoso sistema finanziario che copre con una rete l'intero globo, è la forma più evidente dello stadio di sviluppo dei rapporti di produzione, dunque l'elemento più importante, l'indice principale della rottura fra il potenziale e l'attuale.

Il capitalismo e la sua "freccia del tempo"

Dobbiamo districarci in questo apparente nonsenso, anche se è un'impresa tutt'altro che semplice. Diciamo che stiamo prendendo appunti per il lavoro futuro; che, mentre mettiamo mano ai semilavorati presi in eredità, ne produciamo per l'applicazione delle energie dei giovani che ci seguiranno.

Ricorreremo a un'immagine presa a prestito dalla degenerata scuola austriaca secondinternazionalista, ma molto efficace per spiegare un assunto di Marx: più la società capitalistica progredisce, più si sviluppa il credito e più c'è bisogno di capitale da prestito, più l'interesse diventa una componente fondamentale della società.

Gli austriaci in questione dicevano che il progresso consiste nello spostamento del lavoro dalla produzione diretta a quella indiretta con una sfasatura temporale crescente fra l'applicazione della forza lavoro e l'ottenimento del prodotto. Non c'è niente di misterioso in ciò, trattandosi di constatare un reale dato di fatto: per mangiare un pezzo di pane, posso strappare le spighe sul campo, macinarle fra due pietre trovate sul posto e cuocere la farina in una buca nel terreno usando la paglia; in questo modo ho una produzione diretta. Oppure posso anticipare lavoro per fabbricare falciatrici meccaniche e forni elettrici con cui fare pane e distribuirlo tramite una catena di supermercati; ho in tal modo una produzione indiretta. Marx liquida la faccenda parlando semplicemente del bisogno di anticipi di capitale, per cui il capitale da prestito diventa una merce sui generis e l'interesse il suo prezzo. Ma lo stesso Marx insiste molto sulla parabola percorsa dall'interesse e, in un appunto, si prefigge di studiare appositamente il meccanismo dei pagamenti e delle compensazioni tramite titoli di credito che sostituiscono il denaro.

Esattamente come la rendita, l'interesse è una quota di plusvalore che viene sottratta al profitto d'impresa. Se lo sviluppo del capitalismo traduce il profitto in sempre più rendita e se parallelamente aumenta l'importanza del credito per la necessità di anticipi sempre maggiori, nel capitalismo moderno il capitale finanziario sottomette l'industria. Banale ma non troppo, e vediamo perché.

La storia del capitalismo, la freccia del tempo del suo sviluppo irreversibile, porta al rovesciamento di alcune sue caratteristiche. Per esempio il mercato mondiale, che da prodotto dell'industria moderna ne diventa un fattore una volta che si è sviluppato. Oppure la banca centrale che, da ente emettitore di moneta cartacea garantita da oro, diventa ente controllore della moneta creata spontaneamente nella società. Così il credito e il mondo dei titoli di tutti i generi che, da elementi necessari allo sviluppo della produzione, diventano elementi che sfruttano il mondo della produzione per il loro proprio sviluppo autonomo, lo sviluppo del mondo finanziario.

Questa osservazione è importante perché dimostra come i capitalisti o i governi borghesi non abbiano più controllo sui meccanismi produttivi della società. I grandi gruppi industriali sono delle enormi macchine finanziarie che ormai utilizzano la produzione quasi come un espediente per giustificare sé stesse. I grandi gruppi americani, giapponesi, tedeschi, sono finiti sui giornali a causa di attività finanziarie "diversificate" rispetto ai loro compiti tradizionali e il più delle volte a causa di perdite colossali in campo speculativo.

La produzione indiretta che i socialdemocratici austriaci del primo '900 vedevano grandeggiare nel futuro del capitalismo è giunta al suo limite storico. Il credito che serviva per sostenere le vaste reti produttive e distributive non può quasi più agire nella loro espansione ulteriore; e siamo giunti al punto in cui ormai in molti casi è troppo oneroso mantenerle, come dimostra per esempio il disastro economico che ha colpito le maggiori compagnie aeree americane.

In ultima analisi, non c'è contraddizione fra gli effetti relativamente modesti di crisi che possono assumere valori molto più grandi di quella del 1929 e il potenziale distruttivo accumulato da questa società. Nel 1929 vi era stata una classica crisi di sovrapproduzione in un contesto che era di equilibrio, per quanto oscillante, su valori normali. Oggi il valore normale è quello del vulcano della produzione che si riversa nella palude del mercato; la normalità è la situazione 1929 generalizzata al punto di non creare traumi. La Grande Depressione portò ad un numero enorme di disoccupati che dovettero mettersi in coda per una scodella di minestra elargita dallo Stato. Oggi in ognuno degli enti statali preposti al controllo del lavoro in Inghilterra, Francia e Italia, c'è un turnover di 300-400.000 disoccupati al mese e la società capitalistica ha imparato a non lasciarli nell'indigenza totale.

Critica rivoluzionaria dei sistemi dissipativi

Dal punto di vista fisico-cibernetico è come se il capitalismo, attraverso una esperienza empirica disastrosa, fosse giunto ad un suo massimo storico di entropia dovuto al grado elevato di sviluppo quantitativo delle sue fasi giovanili. Il metabolismo dei sistemi complessi diminuisce con la loro vecchiaia perché essi tendono ad un equilibrio mortifero. I sistemi poco squilibrati, cioè che evolvono poco, aumentano la propria entropia, cioè il disordine e la dissipazione dell'energia necessaria ai propri processi. Se io scambio un dollaro con una merce non ho ancora variato la quantità di informazione che c'è nel sistema, a meno che non sappia cosa fare del dollaro e della merce, fino a questo punto solo scambiati di posizione. Se io cambio un dollaro con un dollaro non ho combinato un bel niente, pur dissipando energia. Ma se io scambio un'informazione con un'altra, ho raddoppiato la quantità di informazione del sistema; gratis, perché la natura non funziona a partita doppia, come dice Amadeo. L'informazione (entropia negativa) è gratis e portatrice di novità, ma non può provenire dall'interno di un sistema in equilibrio, cioè che ha raggiunto il massimo di entropia, la morte termica. Il supplemento di informazione può solo provenire dall'esterno del sistema, cioè dal "rumore bianco", l'insieme di tutti i disturbi, il caos, come lo chiamano alcune correnti scientifiche attuali. Ecco perché le rivoluzioni sono incompatibili con il sistema da cui nascono: esse non possono fare a meno di distruggerlo, altrimenti ricadrebbero nel suo equilibrio. Riformismi e opportunismi di ogni tipo sono rigeneratori del vecchio equilibrio, quindi controrivoluzionari per eccellenza.

Il capitalismo non ha in sé l'informazione necessaria al suo ulteriore sviluppo perché dovrebbe negarsi. Senza sviluppo il capitalismo muore. Per non morire trova una via drogata allo sviluppo: il debito pubblico, poi il finanziamento in deficit, il riciclo senza fine dei capitali attraverso titoli su titoli in cui la logica si perde (il dollaro contro dollaro di poc'anzi), infine il tentativo centrale del controllo monetario. Ma soprattutto una spasmodica ricerca dei mezzi per uscire dalla limitatezza dei confini nazionali, per uscire da quella che non è una "probabilità" di morte entropica ma una certezza (31).

E' per questo che molti episodi della politica estera sono incomprensibili dal punto di vista di una diplomazia che si nutre di soggettività, ma diventano comprensibilissimi non appena li si osserva dal punto di vista degli interessi materiali sul tappeto in un mondo di capitalismo in coma.

Alcuni esempi li abbiamo già fatti, ma prendiamo di nuovo la Guerra del Golfo. E' forse spiegabile con le classiche argomentazioni? No. La "guerra imperialistica" fra USA e Iraq è un nonsenso. La guerra per il petrolio anche. E così pure la crociata contro la spietata dittatura di Saddam. In ogni definizione classica, l'abbiamo visto in lavori precedenti, c'è qualcosa che la rende assurda.

E' ormai assodato che l'Iraq ha ricevuto dagli USA il tacito permesso di invadere il Kuwait. Il Kuwait viene invaso e inizia una fase di negoziato che fallisce anche perché condotta ad un livello surreale. Il mondo si schiera contro l'invasore e 53 nazioni invadono l'Iraq, fermandosi sui confini per dare tempo a Saddam di decimare le forze ribelli sciite e curde. Saddam però rimane quello che era, a dispetto della tradizione americana della resa senza condizioni e della fabbricazione di governi di proprio gradimento.

Apparenza e realtà nella Guerra del Golfo

Ma guardiamo agli interessi reali. Secondo la teoria della rendita è il terreno peggiore che guida i prezzi delle merci prodotte o estratte dalla terra. Finché questo terreno è coltivato. La sua coltivazione dipende dai terreni migliori: se questi producono abbastanza i terreni peggiori escono dalla scena.

Dopo il 1973, con l'aumento strepitoso del prezzo del greggio, gli USA avevano investito molto per rigenerare i loro vecchi pozzi e per aprirne di nuovi in Alaska, in entrambi i casi "terreni" diventati di nuovo competitivi con i nuovi prezzi. Già l'aumento del '73 era sospetto per il fatto che colpiva i concorrenti degli Stati Uniti molto più di quanto colpisse gli USA stessi, quasi autosufficienti in campo energetico. Anche gli inglesi avevano problemi con il Brent del Mare del Nord, passato nel frattempo, in perfetta armonia con la teoria della rendita, al rango di greggio di riferimento al posto del meno costoso Arabian Light (32). Insomma, ogni dollaro di aumento al barile, ci fecero sapere le riviste economiche, avrebbe danneggiato nell'economia i paesi importatori per una certa cifra percentuale del Prodotto Interno Lordo. Gli USA invece avrebbero tratto un vantaggio. Paradossalmente l'Iraq aveva scatenato la guerra contro il Kuwait accusandolo di aver tradito gli accordi sull'estrazione. Questa doveva essere limitata allo scopo di non far crollare il prezzo, mentre il Kuwait pompava non solo oltre i limiti stabiliti, ma anche pescando nelle propaggini dei giacimenti irakeni.

Era comunque necessario capire quali forze e interessi si scontrassero davvero in Medio Oriente durante la Guerra del Golfo, perché noi non siamo indifferentisti, non ce la caviamo affatto con la frase "è una guerra imperialista fra un imperialismo grosso e uno piccolo "(sintesi autentica tratta da un giornale che si proclama internazionalista).

Risultò chiaro che, se gli interessi materiali erano ben individuabili da una analisi materialistica, essi erano però coperti da una cortina fumogena rappresentata dall'incertezza degli schieramenti politici e diplomatici. Ne traemmo la conclusione che i rapporti materiali erano più maturi dei rapporti politici interstatali. Invece di trarre la conclusione politica che Israele avrebbe aumentato il suo ruolo di gendarme americano nel Medio Oriente come sembrava, traemmo la conclusione contraria che lo avrebbe perso sempre più. Dicemmo anche che la spropositata coalizione anti-Saddam non era affatto una coalizione, ma un insieme di avversari che o cercavano di trarre un profitto immediato dalla situazione (Siria, Egitto), o cercavano di controllare da vicino il concorrente americano affinché non riuscisse a colpire davvero le loro economie (Italia, Germania, Giappone con la Francia che sosteneva un ruolo a sé).

Dopo le considerazioni sul crack borsistico e quelle sulla fine del Muro di Berlino, quelle sulla Guerra del Golfo ci diedero ulteriore motivo di rafforzare il nostro ottimismo: davvero gli avvenimenti non erano sotto stretto controllo della borghesia se la guerra, non la solita schermaglia ma la guerra frontale, totale, non poteva essere spiegata con robuste quanto classiche argomentazioni manichee: da una parte il Male, dall'altra il Bene. Non che non lo si sia fatto, anzi, l'apparato propagandistico non è mai stato così totalizzante, ma non ci ha creduto nessuno. La guerra ha continuato ad essere una cosa misteriosa per i più, compresi probabilmente gli stessi Stati Maggiori di Washington e di Baghdad.

Ottimismo da parte nostra - dicevamo - perché la guerra ha sollevato una ventata di violenza in centinaia di milioni di oppressi che hanno reclamato la guerra antimperialista; ottimismo perché si è toccato con mano che la borghesia occidentale ha difficoltà enormi a coinvolgere la gioventù in una guerra, sia per l'abitudine ad un mondo senza senso in cui la guerra sarebbe considerata una cosa senza senso in più, sia per la paura di rimetterci la pelle e rinunciare al paradiso edonistico capitalista, per quanto illusorio e frustrante.

Il giovane euroamericano manifestante contro la guerra e il giovane afroasiatico manifestante per la guerra sembrano separati da un abisso, è evidente. Ma tra i due c'è un nesso ben più importante dell'apparente separazione. Da una parte nessuna rivoluzione può vincere se non si disgrega il fronte interno della borghesia, e il primo sintomo di disgregazione è l'impossibilità di contare sulla truppa. Dall'altra ogni rivoluzione vince quando si afferma la disposizione delle masse all'attacco. E' innegabile: per quanto esili, questi due elementi li abbiamo intravisti, anche se truppa e masse sono per ora divise da una barriera di incomunicabilità pratica e gli obiettivi sono distanti dalla rivoluzione.

Natura della guerra imperialistica

La serie di Marx nella successione dei vari paesi alla guida dell'imperialismo antico e moderno, Venezia, Portogallo, Spagna, Olanda, Inghilterra e Stati Uniti si interrompe. Dopo gli Stati Uniti, ricordammo nel nostro primo Quaderno, non c'è più nessuno. Potrebbe esserci una coalizione di Stati contro gli Stati Uniti in una guerra eventuale, ma ogni coalizione di Stati porta in seno il suo contrario, perché è frutto di unione tra concorrenti per vincere un concorrente più forte. Quando viene a mancare il motivo che le ha create, le coalizioni si dissolvono e possono addirittura trasformarsi in nuovi schieramenti contrapposti. La Russia non è più il Nemico. Gli Stati Uniti restano l'unica potenza mondiale, senza successori, senza nemici del suo rango. La dialettica ci insegna che in un mondo bipolare, non può dissolversi un imperialismo senza che ciò determini qualche effetto sull'altro imperialismo. E, come abbiamo detto, la successione è interrotta. Non si fermerà certamente per questo la storia, ma gli effetti sono incalcolabili. Ci chiediamo se tutti i compagni hanno notato l'inversione di tendenza che ha colpito gli Stati Uniti da qualche anno a questa parte. Dal 1979-80 le loro esportazioni sono aumentate di una volta e mezza, mentre le importazioni sono triplicate. Da paese esportatore netto sono diventati importatori netti con uno sbilancio che varia da 150 a 200 miliardi di dollari ogni anno. Di conseguenza la bilancia dei pagamenti va in negativo e da esportatori di capitali, diventano importatori di capitali. Anche la guerra incomincia ad avere segno negativo nel gigantesco business americano: mentre ancora la Guerra del Vietnam rappresentava un buon lubrificante per l'industria degli armamenti, la Guerra del Golfo ha dimostrato di essere, al contrario, un peso economico che doveva essere scaricato sugli alleati e gli USA hanno spudoratamente battuto cassa come dei questuanti per una guerra che interessava solo a loro e a qualche tribù-Stato araba.

Lo Zio Sam ansima, e si vede.

Bisogna vedere che cosa può succedere in queste condizioni. Sistemata la questione di chi sono i veri concorrenti economici degli Stati Uniti, scomparso dalla scena per ora l'imperialismo russo, i crocevia degli interessi e i teatri degli scontri non sono cambiati.

Il motivo è nella conformazione geopolitica del mondo attuale, che non può cambiare più di tanto. Dal punto di vista geologico i tempi del cambiamento non interessano certo la storia dell'uomo come lo conosciamo noi. Dal punto di vista della geografia politica è difficile che cambi qualcosa di significativo. I grandi paesi hanno confini antichi e consistenza nazionale sufficientemente salda. I loro interessi economici, strategici, tattici, non possono prescindere dalla conformazione geologica dei continenti, dai mari, dalle montagne, dai fiumi, dalle sedi stradali e ferroviarie, dalle città che hanno permeato il paesaggio da secoli. La tecnologia moderna non ha cambiato questo aspetto della concorrenza fra Stati. Cambiano le velocità, i mezzi, le comunicazioni, ma il territorio su cui si scontrano infine le forze materiali è sempre lo stesso.

Tutto questo significa che aveva ragione il vecchio Engels quando indossava per un momento la divisa da generale: le questioni si risolvono in Europa. Tra Stati Uniti, Germania e Giappone, il terreno di scontro decisivo è sempre l'Europa Centrale. Le determinanti delle prossime guerre sono già presenti nei fatti di oggi. In generale possiamo dire che con la Prima Guerra Mondiale il capitalismo ha esaurito ogni possibilità di cambiare. Questo vale per la serie storica dei rapporti di classe: prima repressione delle organizzazioni operaie, poi tolleranza, infine integrazione; ma vale anche per la serie storica dei rapporti fra Stati: con l'entrata in guerra degli Stati Uniti nel 1917, si compiva la lunga marcia di questo imperialismo alla conquista del mondo; prima le Americhe, poi il Pacifico, infine l'Europa. La Seconda Guerra Mondiale non è stata che il tentativo di conclusione, differito nel tempo, della Prima. Tentativo di conclusione. E' evidente che se l'imperialismo riuscisse a concludere i risultati delle sue guerre, diventerebbe un Superimperialismo senza nemici e con possibilità infinite di evitare la rivoluzione.

Se le determinanti delle prossime guerre generali saranno sempre le stesse, significa che la guerra imperialista non ha il potere in sé di modificare queste determinanti. Le guerre precedenti modificavano profondamente i rapporti tra gli Stati e anche tra le classi. Gli eserciti antichi o quelli feudali, fino a quelli della Rivoluzione Francese, quelli di Napoleone e quelli di Bismarck, quando entravano in guerra erano portatori di un cambiamento sicuro. Nella storia, dice Marx, la guerra è già sviluppata prima della pace. Questo significa che la guerra pre-imperialistica ha una funzione progressiva, per quanto il termine evochi qualcosa di graduale e non sia il migliore dal nostro punto di vista.

La guerra imperialistica, al contrario, ha una funzione conservatrice dello stato di cose esistente. Certamente vi sono state guerre in passato che scoppiavano per la difesa di un ordine esistente, ma tutte le guerre importanti avevano l'altra faccia della medaglia: se un esercito difendeva l'ordine esistente, significa che un altro esercito lo metteva in discussione e la storia, invece di rimanere immobile, avanzava. Oggi l'imperialismo ha compiuto il capolavoro di sconvolgere le dimensioni spaziali della medaglia, ridotta ormai ad una sola faccia. Nella guerra imperialistica gli eserciti di entrambe le parti non mettono in discussione nulla rispetto alla storia. La guerra odierna scoppia solo in difesa dell'ordine esistente, per sua natura, in quanto i contendenti si ritrovano in guerra per meccanismi che non sono più dovuti a cambiamenti storici qualitativi.

La pace imperialistica è la continuazione della guerra con altri mezzi

Quando si parla di guerra bisogna ricordare che già Von Clausewitz aveva avuto difficoltà a trattare l'argomento senza usare la dialettica, di qui lo "strano modo di ragionare" su cui Marx ed Engels si scambiavano impressioni nel loro carteggio. La guerra, dice Clausewitz, è la continuazione della politica con altri mezzi (33). Però poi l'autore giunge alla conclusione che, in fondo, anche la pace non è che la continuazione della guerra con altri mezzi. Non è solo una questione di lana caprina, cioè non si tratta solo di vedere da dove si comincia, se dalla pace o dalla guerra. Il grande polemologo idealista si era accorto che la guerra sua contemporanea stava cambiando di natura. La concorrenza tra Francia e Inghilterra portava le guerre napoleoniche verso la guerra imperialistica. Non era ancora tale perché c'era ancora da fare i conti con le dinastie continentali, rimasugli di un passato feudale che non sarebbe più ritornato. Ma l'osservazione è giusta: tra Stati come la Francia e l'Inghilterra, la concorrenza, cioè la guerra (a cannonate o a suon di merci e di capitali) è la condizione normale; la pace è l'aspetto diplomatico dello scontro. Dopo la guerra franco prussiana che portò infine la Germania all'unità nazionale, la Francia, schiacciata fra Germania e Inghilterra, non poteva che avere il ruolo di terreno di passaggio per gli opposti eserciti. Non parliamo dell'Italia, caso un po' speciale, che questo ruolo ricopre da quindici secoli.

Non c'è niente da fare: per il capitalismo non vi sono più possibili disegni strategici. Possono cambiare i particolari del grande wargame mondiale, ma, come si è accorto chiunque abbia giocato un paio di volte a Risiko, le armate hanno passaggi obbligati e la Terza eventuale Guerra Mondiale rappresenterà il proseguimento della Prima e della Seconda. Nessuna guerra mondiale può risolvere i problemi della precedente. La guerra mondiale ha, per il capitalismo, il significato esclusivo di continuare il ciclo di accumulazione. La differenza apparente fra la guerra guerreggiata e lo schema teorico della guerra come l'intendiamo noi, è dovuto soltanto all'apparato ideologico che ce la dipinge, non alla sostanza. Nel nostro testo Il proletariato e Trieste (34) si dice chiaramente: il nazionalismo non esiste più. Tutto ciò che sotto il sole si traveste da nazionalismo guerrafondaio o difesista non è in realtà che appendice degli scontri fra i grandi imperialismi. Se allora esisteva ancora in aree coloniali il problema della rivoluzione nazionale, oggi anche questo problema è risolto una volta per tutte. La questione militare diventa questione squisitamente di classe, essendosi sgombrato il terreno da un mucchio di elementi che ne offuscavano il percorso.

La concezione di classe della nostra questione militare non ha nulla a che fare con le supersemplificazioni che abbiamo sentito a questo proposito. Abbiamo visto che i nostri schemi, le nostre formulazioni dell'economia riconducono i fattori di questa a fattori di classe. Ma ciò non giustifica nessuno a rendere soggettivo il rapporto fra l'economia e le classi, fra l'azione di queste ultime e le organizzazioni che le rappresentano, i governi, i sindacati, gli eserciti ecc.

Aumento quantitativo impossibile

E' stato detto che la Guerra del Golfo rappresentò un attacco inaudito alle condizioni di esistenza delle masse oppresse arabe, al proletariato di quelle aree, quindi una manifestazione controrivoluzionaria del governo degli Stati Uniti. In senso generale può essere vero, nel senso che l'azione dell'imperialismo ha certamente degli effetti sulla vita di centinaia di milioni di persone attualmente impossibilitate ad avere una casa, un pasto sicuro, un medico che le curi e tutte queste cose che mobilitano il buon cuore dei benpensanti, disposti magari ad adottare il "negretto", ma incapaci di pensare alla vita di un miliardo di suoi fratelli.

Se facciamo la fotografia di cui abbiamo parlato, la Guerra del Golfo si presenta certamente come uno scontro fra l'imperialismo americano e quello minore, rampante, della borghesia irachena in cerca di egemonia locale; si presenta certamente come un episodio fra i tanti in cui gli Stati Uniti ingannano il loro avversario facendogli credere (e facendo credere al mondo) che sta intorbidandogli l'acqua bevendo a valle del ruscello; nella foto si vedono certamente le masse arabe insorgere con un potenziale antimperialista notevole; si vede anche certamente una coalizione mai vista di paesi grandi e piccoli nell'azione di soffocamento del focolaio medio orientale.

Ma, chiedemmo in una delle nostre Lettere sul Golfo, si può impostare un discorso teorico, scientifico, su tutto ciò? Si può pensare che davvero il movente della guerra sia stato quello di schiacciare Saddam Hussein? E perché allora gli hanno permesso con un trucco di invadere il Kuwait? E perché allora (ma non lo sapevamo ancora) si sono fermati e hanno lasciato che il mostro di turno massacrasse Sciiti e Curdi? Oppure: si può pensare che l'immensa macchina militare americana e alleata si sia messa in moto per spegnere i focolai di rivolta delle masse oppresse del Medio Oriente? E perché allora non hanno condotto la guerra in quel senso, approfittando dell'occasione per schiacciare i governi che fomentavano la rivolta, compreso quello della diaspora palestinese che appoggiava l'invasione?

Solo con una analisi della dinamica dei fatti, degli effettivi schieramenti materiali, delle condizioni precedenti e di quelle possibili successive, si può dare una interpretazione corretta degli avvenimenti, magari prevederli. Non è evidente oggi che gli Stati Uniti sono presenti in prima persona nel crocevia mondiale del petrolio? Era dagli anni '40 che ci tenevano e che tentavano. Non c'erano mai riusciti e oggi possono tenere per la gola i paesi concorrenti che sono senza petrolio. Vedremo che fine farà Israele, ora che il tutore americano può fare a meno di utilizzare i suoi servizi essendo presente di persona.

Chi ha visto un potenziale rivoluzionario diretto nelle armate di Saddam Hussein e nell'entusiasmo anti-imperialista che esse hanno suscitato sul momento, chi ha visto nell'intervento americano un'azione controrivoluzionaria diretta non solo ha sbagliato tempo di un secolo e mezzo, scambiando Saddam con Mehemet Alì, ma ha sbagliato il soggetto dell'analisi, scambiando per rivoluzione, controrivoluzione o guerra imperialista un episodio di polizia mondiale perfettamente inserito nella politica in corso tra i massimi imperialismi in concorrenza fra loro.

Non possiamo essere più indietro dell'idealista Clausewitz in questo inizio 1993, in cui la politica fra gli Stati ci indica chiaramente quale potrebbe essere il suo riflesso militare ovunque esso si manifesti. Eppure sembra un discorso da marziani, contro cui vengono scagliati i veramente solidi argomenti "marxisti" tratti dalla cronaca dei mezzi d'informazione. Ma è proprio difficile capire il nesso fra preparazione materiale e guerra guerreggiata? Prendiamo ad esempio il bellissimo articolo di Amadeo Sua maestà l'acciaio, scritto nel 1950. Gli Alleati discutevano sull'opportunità di riarmare la Germania contro il "pericolo comunista" dopo averla distrutta e saccheggiata per due volte. Amadeo tiene conto delle interruzioni di produzione di acciaio dovute alle sconfitte, poi proietta le cifre calcolando una progressione ipotetica, cioè senza le interruzioni di produzione, come se non ci fossero state le due guerre mondiali e le due spogliazioni del dopoguerra. Ogni uomo del 1950 avrebbe prodotto, ogni anno, dieci volte il suo peso in acciaio. Non stiamo a calcolare, su una curva progressiva, quanto acciaio si produrrebbe oggi, 1993, ma è certo che l'osservazione di Amadeo rimane valida: l'ipotetica produzione sarebbe impossibile. Ci deve essere una interruzione, crisi o guerra che sia. Aggiungiamo all'acciaio il cemento, il petrolio, le fibre tessili, la plastica, il legname, il rame, l'energia, tutto ciò che può rappresentare un indice di progresso economico. Anche in questo caso il responso delle cifre sarebbe: impossibile. La società della produzione quantitativa ha un limite nella sua stessa natura, nel suo modo di essere. Produce e distrugge. Se non ce la fa a distruggere attraverso il normale consumo, intervengono la crisi e la guerra. I rapporti sociali scaturiscono da questo tipo di dati, non dal pensiero dei singoli uomini e nemmeno dalla somma di miliardi di pensieri. La guerra lo stesso.

Sviluppo del credito e trapasso al comunismo

Non c'è tempo per utilizzare come esempio la Yugoslavia, che si presta benissimo a considerazioni del tipo che abbiamo appena fatto. Ma chiediamoci per il momento: che cosa c'è dietro al crollo balcanico, alla guerra civile senza fronti, al sostegno anglo americano della Serbia mascherato da intervento umanitario in Croazia e in Bosnia, se non l'eterna questione balcanica che contrapponeva un tempo Inghilterra, Germania e Russia e che oggi si ripresenta semplificata con la contrapposizione USA-Germania (35)?

Che cosa c'è dietro la ridicola invasione "umanitaria" della Somalia che produrrà certamente uno scontro fra gli interessi degli Stati Uniti e quelli di altre nazioni, come l'Italia, non solo presenti dall'epoca coloniale, che sarebbe il meno, ma ben interessate a mantenere sgombro il Corno d'Africa dall'ingombrante presenza americana?

Come si vede, già una sgrossatura geopolitica e storica dei problemi fa intravedere ben altro che quel che si trova sui giornali o alla Tv, e che il più delle volte viene utilizzato come "fonte" per le analisi "scientifiche" dei rivoluzionari. Non importa se ci ripetiamo. Serve per ribadire questa nostra collettiva disgrazia che è la perdita di un metodo critico e scientifico nel nostro lavoro. Perdita che è anche alla base della terribile frammentazione e incompatibilità fra le frange che si richiamano al marxismo. Non esiste discussione o incompatibilità fra matematici che devono formalizzare una serie di dati o fra ingegneri che devono calcolare la resistenza di un pilastro. Al massimo può nascere discussione sulla migliore definizione dei risultati raggiunti, sulle conoscenze future, ma mai su quelle acquisite. La discussione e l'incompatibilità fra marxisti deriva sempre da una non comprensione (da una parte, dall'altra o da entrambe) dei dati acquisiti; quindi, a maggior ragione, in una impossibilità addirittura di sapere come impostare la discussione sulle conoscenze future.

Termineremo questa esposizione con un accenno alla necessità di conoscenze future a partire da un fenomeno ben conosciuto da Marx, ma non analizzato specificamente e oggi arrivato a dimensioni planetarie: il credito e la finanza.

In una lettera del 2 aprile 1858 a Engels, Marx anticipa la scaletta che pubblicherà nell'introduzione a Per la critica dell'economia politica: Capitale, proprietà fondiaria e lavoro salariato; Stato; commercio estero; mercato mondiale. Il libro sul Capitale doveva poi dividersi in quattro sezioni: Capitale in generale, concorrenza, credito, capitale azionario. Il credito, secondo le parole di Marx, rappresentava il superamento del capitale individuale che diveniva universale, mentre il capitale azionario rappresentava la forma più perfetta che trapassava nel comunismo. Se uno scienziato come Marx usò queste parole, non possiamo far finta di niente. Oggi che il credito e il capitale azionario sono giunti all'esasperazione storica, dobbiamo per forza calarci nel processo effettivo della riproduzione capitalistica, operare fino in fondo quel passaggio dall'astratto al concreto, dal semplice al complesso che Marx ricorda nel suo Metodo (36).

Smaterializzazione del Capitale e fallimento dei modelli economici borghesi

Nelle nostre Tesi di Napoli c'è un riferimento ai tentativi della borghesia di costruire modelli automatici per la conoscenza della realtà capitalistica. Erano i primi tentativi di far funzionare modelli economici complessi al computer. Questi modelli, come gli attuali, non hanno niente a che fare con le nostre formalizzazioni. Essi cercano di dare un aspetto formale alla realtà per interpretarla in modo matematico, ma non penetrano a fondo nella conoscenza di questa realtà. Il perché è evidente non appena li si studia: essi partono dal complesso e lo semplificano invece di partire dal semplice e verificarlo con il complesso in passaggi sistematici. Perciò tali modelli si ingolfano di statistica, di dati raccolti sul campo. Tali dati, per quanto raccolti minuziosamente, non possono mai rispecchiare la realtà, tantomeno la sua dinamica. Infatti tali modelli sono tutti falliti. Sono falliti perché in fondo non fanno che ripetere l'errore utopistico, errore senza più diritto di cittadinanza tra noi dopo Proudhon. E' utopistico prendere i dati della realtà e infilarli in un modello che scaturisce dalla nostra volontà o speranza di cambiare le cose in un certo modo. Il movimento reale si vendica, perché è esso che prepara le condizioni del cambiamento, non il modello che scaturisce da una speranza.

E in fondo questa speranza è quella di mantenere eterna una società che noi abbiamo dimostrato caduca. Ecco perché la nostra modellizzazione è il rovescio di quella borghese. Leggete la bella confessione che abbiamo citato nella Lettera n. 27 (37), lì si dimostra tutta l'impotenza della borghesia nel controllare la sua società. Essa, volendo costruire un modello reale dell'economia, cerca di districarsi con formulazioni ultracomplesse nel caos rappresentato dal reale; noi, partendo da determinazioni astratte del reale, ci avviciniamo, come dice Marx "alla rappresentazione del concreto per la via del pensiero". La borghesia vuole negare il comunismo come movimento reale, relegandolo nella testa di pochi pazzi che si beano di queste cose arcaiche; noi vogliamo dimostrare che il comunismo è il movimento reale che cambia lo stato di cose presente.

Prima del capitalismo il credito era un fatto esterno, autonomo e condizionante nei confronti del processo produttivo. L'usura era combattuta e gli Stati intervenivano per la riduzione forzosa dei tassi d'interesse al fine di evitare ogni limite all'espansione. Il capitale azionario non esisteva. Con il capitalismo il sistema creditizio viene a far parte strutturalmente del processo di produzione e di riproduzione. Oggi senza il credito il processo di accumulazione sarebbe bloccato, annichilito.

Nella teoria marxista della moneta il sistema creditizio è fondamentale. Infatti tale sistema non è più un elemento autonomo della società, che ormai si riproduce essenzialmente attraverso la produzione di merci, ma è un elemento integrante in quanto rappresenta uno sviluppo ulteriore dell'economia monetaria. La moneta di credito nasce dalla funzione della moneta come mezzo di pagamento universale, e il sistema del credito nasce dall'estensione sistematica dell'uso di tale mezzo. Il sistema del credito, osserva Marx, introduce una grande rivoluzione nei rapporti dell'uomo con il denaro, non solo perché lo universalizza, ma perché lo rende inutile. Il denaro in forma di oro si poteva tenere, ma il denaro come simbolo di fiducia in un suo valore arcano viene subito alienato non appena si incrini questa fiducia. La crisi provoca la corsa a cambiare il denaro in oggetti (oro o altro) e a confonderlo in essi, a distruggerlo, dato che alla fine l'oggetto rimane lo stesso ma il suo "valore" aumenta man mano che viene scambiato con denaro.

Produzione privata senza il controllo della proprietà privata: il capitalismo come bisca

Il sistema del credito è benefico per il capitalismo, ma tende a sfuggire ad ogni controllo perché privilegia le scritture contabili, rendendo il denaro inutile come oggetto materiale, tangibile. Esso accelera la circolazione del capitale perché rende operanti somme di capitali che separati non potevano operare a causa della loro limitatezza quantitativa. Infine sostituisce sempre più il denaro tangibile (a partire dal vecchio oro) con titoli di carta, cambiali, tutta la bizzarra moltitudine degli effetti inventati per appagare il frenetico bisogno di capitale per fare altro capitale.

Il sistema del credito non era molto diffuso ai tempi di Marx, almeno come lo intendiamo oggi, ma i suoi effetti erano già stati perfettamente individuati: esso rappresentava già l'inizio della spersonalizzazione crescente del Capitale che, con il sistema azionario, era un elemento importante per guardare con precisione oltre la società borghese.

La socializzazione del Capitale, resa aberrante dal capitalismo, ci mostra possibilità immense non appena applichiamo ai suoi effetti le nostre conoscenze sulla teoria del valore. Pensiamo per esempio al fatto che con il sistema del credito si può investire in una sfera della produzione capitale accumulato in un'altra sfera, dove magari c'erano condizioni meno favorevoli ad ottenere un certo saggio di profitto. Quindi il sistema del credito permette una effettiva perequazione dei saggi di profitto fra le varie sfere della produzione, mentre il sistema azionario, con le grandi centralizzazioni di capitale, ingloba sotto lo stesso capitale sfere diverse. Questo intreccio permette la formazione del prezzo di produzione che è un salto sociale importantissimo rispetto al valore individuale di una merce.

La spersonalizzazione del capitale, cioè la separazione di esso dal suo possessore diretto e la sua azione come capitale sociale, provoca anche una frattura fra il capitale e la responsabilità della sua gestione, cosa che sembra banalmente personalistica, ma che è alla base del parassitismo, della speculazione selvaggia, dell'affarismo sfrenato, della concezione dell'investimento come gioco d'azzardo. Marx chiama questo bel risultato "produzione privata senza il controllo della proprietà privata", ma nello stesso tempo annota le vere e proprie mutazioni dei caratteri capitalistici e abbina l'espansione del sistema creditizio alle condizioni di uscita dal capitalismo.

Tutto ciò è molto bello e molto conosciuto, ma purtroppo non è entrato nel lavoro quotidiano di compagni che non sono con noi, non è adoperato per dimostrare quale è la condizione attuale del capitalismo e che cosa potrà succedere in futuro. Uno può fremere di intellettuale emozione leggendo scritti di nostri ex che spiegano come siamo passati dal dominio formale del Capitale al dominio reale, che la cibernetica incorpora il cervello umano nel capitale e che quindi è inutile aspettare la rivoluzione perché essa è già in atto. Ma noi vogliamo sapere il significato della Guerra del Golfo, cosa succede in Yugoslavia e in Somalia, che cosa ha fatto scattare l'incendio di Los Angeles, che cosa si sta preparando nel laboratorio Italia e soprattutto quale è la strada che libera la rivoluzione in atto e ci toglie dai piedi il capitalismo. Il nostro ex ci guarda disgustato e sappiamo cosa pensa: siete dei concretisti, dei pragmatici. D'altra parte questo tizio simbolico ha un suo fratello complementare, l'attivista, che guarda alle nostre fatiche teoriche e ci compiange perché non andiamo verso le masse lanciando loro appelli alla ribellione e all'organizzazione. Per costui siamo degli attendisti.

Perbacco, se x mi critica dicendo che sono uguale a y, mentre y mi critica dicendo che sono uguale a x, è molto probabile che io sia diverso da entrambi, ma è sicuro che entrambi sbagliano. Gente così si seppellisce facilmente con i centotrentasei "Fili del tempo" di Amadeo e le centinaia di pagine di Marx in cui essi, al fine di una verifica sperimentale della teoria, spulciano minuziosamente la realtà, il primo con una divertente vivisezione della società italiana del dopoguerra, il secondo con una rassegna di dichiarazioni di ministri, rapporti sul commercio o sulle banche, commissioni d'inchiesta, ecc.

Ma il croupier ha la pistola puntata...

Se volete uno sviluppo dello studio di Marx sul sistema creditizio aderente alla realtà di oggi, avrete una delusione. Ma già vedete che esso può essere un argomento che si innesta bene sul lavoro a proposito dell'accumulazione. Infatti il nostro prossimo passo sarà la questione della trasformazione del valore in prezzi, il mercato mondiale e la transizione al non-capitalismo (scusate l'espressione, ma transizione al socialismo o al comunismo evoca staliniane memorie).

Possiamo oggi, per dare un'idea di ciò che potrà essere il lavoro ad ampio raggio su questi temi, basarci su di una serie storica di fatti precisi. Questi rappresentano bene ciò che Marx intendeva con "sistema creditizio come leva potente della transizione al modo di produzione del lavoro associato".

Partiamo dal 1970, anno in cui vi fu la prima svalutazione del dollaro. Essa fu decisa a causa della pressione speculativa sulla moneta americana e a causa delle difficoltà di esportazione. In effetti la tendenza verso il deficit commerciale aveva scatenato la speculazione dato che si prevedeva una caduta del dollaro. L'intervento degli speculatori peggiorò la tendenza e il governo americano dovette arrendersi. Anche perché ciò avrebbe salvaguardato le esportazioni evitando il deficit della bilancia commerciale.

Un anno dopo, nel 1971, la bilancia commerciale finì ugualmente in deficit, per la prima volta dal 1893. Fu svalutato di nuovo il dollaro e, ad agosto, il dollaro fu dichiarato ufficialmente inconvertibile con l'oro. Ufficialmente, perché in pratica il dollaro era inconvertibile da un pezzo, come da ancora più tempo la sterlina. La convertibilità di sterlina e dollaro era del tutto virtuale, perché si basava sulla fiducia nelle due potenze (prima una poi l'altra, nella successione storica), non certo sull'esistenza fisica di oro in quantità sufficiente alla copertura totale. Da questo punto di vista il sistema monetario internazionale era già morto agli inizi del secolo. Comunque sia, anche alcuni teorici borghesi l'avevano previsto (per esempio Triffin, per molto tempo a capo del FMI), solo che gli Stati, non potendo attuare modifiche a mezzo di decisioni preventive, lo fecero a posteriori in stato di necessità, prendendo atto che qualcosa era successo. Che cosa esattamente non lo capirono neanche i pochi che avevano previsto il collasso del sistema monetario internazionale.

Era successo più o meno questo: l'Inghilterra era sparita dalla circolazione già dal '31 come garante, attraverso la sterlina, della circolazione monetaria per il commercio mondiale, dando luogo a quello che fu poi chiamato "il marasma monetario internazionale dell'interguerra". Ciò successe perché gli Stati Uniti non potettero subito, con il dollaro, prendere il posto dell'Inghilterra. La Seconda Guerra Mondiale impedì la soluzione del problema fino al 1944, quando con gli accordi di Bretton Woods fu ristabilita la convertibilità tra monete e tra queste e l'oro.

Ma già nel 1959 si delineò una divergenza storica di percorso fra l'Europa e gli Stati Uniti: la prima era in espansione e doveva fare una politica anti inflazionistica; i secondi erano in regressione (avevano una utilizzazione degli impianti intorno al 70%) e necessitavano di una politica inflazionistica.

...alla tempia dei giocatori

Gli Stati Uniti non potevano certo comportarsi come un paese qualsiasi: avevano circa tre milioni di soldati in giro per il mondo a occupare territori altrui e continuavano ad esportare capitali più di prima anche se non esportavano più le merci di prima. Con la Guerra del Vietnam (1961) gli USA entrarono in una situazione di deficit istituzionalizzato, e diedero una spiegazione curiosa del fallimento pratico di Bretton Woods: il sistema dei cambi fissi e la differenza storica tra i percorsi europeo e americano provocavano una deficienza strutturale di liquidità, cioè era impossibile mettere a disposizione dello sviluppo e degli scambi internazionali, la quantità sufficiente di moneta. L'unica moneta esistente in quantità sufficiente e sufficientemente garantita era il dollaro. Infatti questa moneta nazionale, per il fatto di circolare al di fuori degli USA ed essere praticamente inconvertibile, si adeguava alla quantità richiesta dai vari mercati rimanendo in essi, diventando cioè moneta internazionale in continua creazione (38). Rivendicando la propria funzione di fornitori di liquidità, gli USA fecero pagare al mondo la loro crisi rimandandola di una quindicina d'anni.

Nel 1970-71, comunque, la doppia svalutazione del dollaro e la dichiarata inconvertibilità ufficiale, fecero cadere la fiducia mondiale nel dollaro. I detentori di capitali si rivolsero in parte ad altre monete, ma soprattutto a qualcosa di palpabile che, non potendo essere soltanto l'oro, fu rendita, cioè materie prime, case, terreni, acciaio, rame ecc. con il risultato di creare una pressione sui prezzi, soprattutto delle materie prime, quindi una situazione inflazionistica, quindi un circolo vizioso che, con la caduta del dollaro, fece anche scoppiare la questione petrolifera.

Abbiamo visto che gli Stati Uniti sfruttarono questa situazione a loro favore (avevano materie prime e petrolio, mentre i loro concorrenti non ne avevano, ma qui tralasciamo questo aspetto perché ci interessa soprattutto la ricerca dei meccanismi attraverso cui il Capitale si internazionalizza e si spersonalizza sempre più). Alcuni prodotti minerari raddoppiarono di prezzo, il petrolio in poco tempo quadruplicò. In pratica il flusso di capitale che da tutti i paesi industriali andava ai paesi produttori di materie prime aumentò più del doppio. Questo Capitale più che raddoppiato proveniente da tutti i paesi, ritornava però solo in due: in massima parte negli Stati Uniti, il resto in Inghilterra. In questo modo si verificò un'altra divergenza storica di percorso: gli Stati Uniti passarono da esportatori di capitali a importatori netti, mentre paesi fino ad allora considerati del Terzo Mondo, diventarono non solo dei rentier, ma degli investitori netti all'estero e dei fornitori di denaro al sistema bancario internazionale.

Quello che ci preme dimostrare è che, quando l'accumulazione deve continuare ad ogni costo, si vengono inevitabilmente a creare condizioni artificiose per l'ampliamento del sistema del credito, anche quando ogni via "naturale" sembrerebbe essere preclusa. Il bisogno di Capitale è talmente forte in condizioni di difficile accumulazione che alla fine ogni ostacolo è superato per giungere allo scopo. Per questo il mondo sopportò la situazione americana nonostante fosse palese che vi era un danno immediato per tutti i paesi tranne che per gli USA.

Per dare un'idea del flusso di capitali che cambiò rotta con l'impennata dei prezzi delle materie prime, soffermiamoci un momento sul settore petrolifero. Prima del 1970 gli Stati Uniti producevano localmente l'80% del petrolio che consumavano ad un prezzo medio di 3,50 dollari al barile, mentre ne acquistavano all'estero il 20% ad un prezzo medio di 2,17 dollari. Questo stato di cose veniva mantenuto per ragioni politiche e strategiche: una potenza come gli Stati Uniti non poteva rinunciare alla produzione propria, dato anche che è la più grande consumatrice di energia pro capite del mondo (39). L'Europa e il Giappone, liberi da considerazioni strategiche, si rifornivano quasi al 100% all'estero ad un prezzo medio di 2 dollari. E' subito evidente il vantaggio di questi ultimi rispetto al concorrente americano, considerando che il costo dell'energia (capitale costante) incide mediamente del 15-20% sul costo dei prodotti industriali.

Origine dell'esplosione finanziaria mondiale

Ma è anche evidente che, quando nel 1974 il greggio raggiunse un prezzo di 10-11 dollari il barile, la situazione si rovesciò: gli Stati Uniti, oltre ad avere un forte margine interno sul consumo, avevano ora un enorme profitto dovuto al fatto che delle 7 grandi compagnie che commercializzavano il greggio 6 erano americane, e diveniva ora conveniente estrarre in Alaska sotto il permafrost artico. Soprattutto disponevano di un margine di concorrenzialità in campo energetico essenziale nei rapporti con l'Europa e il Giappone. La stessa situazione si riprodusse nel campo delle principali materie prime minerarie; non è un caso, per esempio, che di fronte alla ventilata nazionalizzazione delle miniere di rame cilene, il governo socialdemocratico di Allende venisse spazzato via (e il governo degli Stati Uniti non aveva certo bisogno dei suggerimenti della multinazionale ITT, bestia nera delle sinistre di allora).

Questa la base su cui si formò un immenso flusso di capitali nel mondo, molto diverso anche qualitativamente da quello che c'era prima. Proviamo a quantificare questo flusso per il 1974, anno finale della cosiddetta crisi e vediamo come la quantità si trasformi infine in qualità. In quell'anno furono prodotti e consumati nel mondo circa 19 miliardi di barili di greggio.

Ora, ponendo a 100 il prezzo di uno di questi barili giunto al consumatore sotto forma di prodotto finito, sappiamo che il suo prezzo greggio, cioè costo di ricerca, estrazione, pompaggio, trasporto, raffinazione, distribuzione, è 4,2, cioè venti volte di meno (l'estrazione dell'Arabian light nel 1974 costava 10 cents il barile, neanche una lira di oggi al litro). Se leggiamo queste cifre con la lente della teoria della rendita, ci rendiamo conto che il cosiddetto surplus petrolifero non è semplicemente capitale costante, che passa inalterato nel ciclo produttivo fino a conglobarsi nella merce finale, bensì sovrapprofitto dovuto a condizioni particolari, che sono essenzialmente tre e tutte dovute alla condizione di monopolio: rendita del proprietario del suolo, utile delle compagnie petrolifere, prelievo fiscale degli Stati.

Il passaggio da 2 a 10 dollari medi al barile produsse un aumento della sola rendita fondiaria, ma permise alle compagnie e agli Stati (gli utili e il prelievo fiscale sono grosso modo in percentuale) di riversare tutto l'aumento (rendita, utile, tasse) sul prodotto finito. 19 miliardi di barili che passano da un prezzo totale di 38 miliardi di dollari ad un nuovo prezzo di 190 miliardi, producono un flusso aggiuntivo di capitali verso i paesi produttori di 171 miliardi di dollari, ma uno sconvolgimento della catena fino al consumo di ben venti volte, cioè di 3.420 miliardi di dollari che, tanto per consentire il solito confronto sensibile, rappresentano circa il triplo dell'intero Prodotto Lordo nordamericano.

Ammettiamo pure che le Sette sorelle abbiano assottigliato gli utili, che gli Stati si siano accontentati di meno tasse e che altri elementi della catena abbiano dovuto fare altrettanto. Di quanto riduciamo la cifra complessiva? Dell'ammontare pari a un Prodotto Interno Lordo americano? Pari a due? Riduciamo di quanto si vuole, resta il fatto che i 171 miliardi di dollari aggiuntivi verso i paesi produttori sono un bruscolino di fronte agli effetti concatenati che si sono avuti a valle grazie ai nodi monopolistici che lungo il percorso furono in grado di rastrellare plusvalore. Ma i 171 miliardollari aggiuntivi da rendita pura produssero l'effetto più visibile: l'inversione storica del flusso di capitali da credito nella circolazione internazionale. Inversione da cui furono tagliati fuori i paesi più poveri i quali iniziarono un tracollo economico e sociale forse irreversibile.

Estrema pericolosità del "capitale diffuso"

Fu crisi dura, naturalmente, crisi con la quale il capitalismo ristrutturò i suoi consumi a partire da quelli del proletariato (ovvero diminuzione diretta e indiretta del salario), ma soprattutto fece esplodere il sistema del credito internazionale con una vera e propria "rivoluzione finanziaria". Il termine, inventato dagli stessi capitalisti, non è troppo fuori luogo. Tale "rivoluzione" consiste nella crescente impossibilità di effettuare un controllo sui movimenti monetari, impossibilità dovuta all'internazionalizzazione dei capitali, ma anche e soprattutto al fatto che il sistema del credito moderno si basa essenzialmente sulla circolazione e l'investimento velocissimo dei titoli che ne derivano, con decisioni da prendere non più ogni anno o mese, ma ogni ora, ogni minuto.

La crisi ha riportato gli effetti del boom della rendita ad una nuova normalità, ma il parossismo finanziario resta. Di fronte all'impossibilità di sapere chi come e quando può far crollare la moneta di uno Stato con la cosiddetta speculazione, lo Stato crea un deterrente, se può. Abbiamo visto che un paese come gli Stati Uniti manovra con facilità parità monetarie, crisi petrolifere, eccedenze commerciali altrui, tassi d'interesse ecc. Ma ora è estremamente vulnerabile verso la catena finanziaria che si estende orizzontalmente intorno al pianeta.

Non c'è più un bersaglio per una politica economica di ricatto perché tutto è diffuso, tutto può anche non essere deciso da un centro di potere. Basta che si formino reti di interessi convergenti ed ecco che da un punto qualsiasi del mondo può ingrossarsi un'ondata che nessuno Stato potrà fermare perché ormai ogni giorno si muove una marea così vasta di transazioni finanziarie e monetarie che nessuno Stato potrà più disporre di cifre sufficienti per operare contromanovre. Non è impossibile creare il deterrente di cui prima, ma è sempre più difficile. Ecco perché le manovre passano dalla diplomazia, alla guerra commerciale, alle invasioni militari la cui copertura di crociata per la democrazia e la libertà è sempre più spudoratamente falsa anche per gli stessi crociati.

Il Capitale si era liberato della sua caratteristica di semplice denaro ed era diventato Capitale sociale nel modo di produzione capitalistico; con ciò si era liberato dei suoi possessori personali per diventare Capitale anonimo; ora si libera dai vincoli degli Stati e diventa libero capitale internazionale, senza più vincoli, senza più leggi degli uomini. Nel 1929 c'erano circa 400.000 azionisti in tutti gli Stati Uniti. Una cifra enorme rispetto all'Europa di allora. Oggi gli azionisti nordamericani sono circa 50.000.000, sono cioè aumentati di 125 volte, senza contare i pensionati, che in un certo senso sono azionisti delle assicurazioni private, le quali investono anche a Wall Street.

La situazione è estremamente contraddittoria. Da una parte abbiamo una specie di democratizzazione dell'azionariato, un'estensione popolare mai vista; dall'altra centri di raccolta che sono sempre meno individuabili in persone o gruppi di persone, ma che funzionano con una centralizzazione massima degli strumenti. Da una parte c'è il privato cittadino che può interagire con il sistema tramite il suo personal computer nel salotto di casa, dall'altra c'è un sistema così gigantesco di gestione che nessun privato potrà mai controllare. Il sistema del credito quindi passa storicamente da una fase di contabilità ragionieristica ad una fase di indeterminatezza, in cui il fattore tempo e il fattore complessità giocano un ruolo molto simile a quello giocato nei sistemi naturali complessi (biologia, meteorologia, dinamica dei fluidi) che la scienza degenere attuale definisce indeterministici, cioè incomprensibili e imprevedibili per definizione.

L'uomo non sa ballare al ritmo del "chip"

Contrariamente a quanto pensano gli operatori o gli studiosi del problema, non è il mezzo, il computer, il terminale, il satellite, la rete, che provoca la rivoluzione finanziaria. E' al contrario l'ingigantirsi del sistema creditizio che ad un certo punto necessita di strumenti sofisticati perché il piccolo uomo è troppo limitato. Nessun capitalista avrebbe inventato e adottato la macchina tessitrice automatica se non fosse stato costretto dal mercato e dalla concorrenza. Il cosiddetto progresso non è congeniale al borghese; il modo di produzione borghese ne ha avuto bisogno e ha espropriato chi non si adeguava. Oggi è lo stesso.

Ma lo strumento, la macchina ha una caratteristica particolare, come nota già Marx nel Libro I del Capitale, nel famoso Capitolo Tredicesimo su macchine e grande industria: non è la macchina che si adatta all'uomo, è l'uomo che si deve adattare alla macchina. Come il telaio meccanico ha sconvolto la natura della produzione, così l'informatica sconvolge la natura della comunicazione. Quando la comunicazione si svolge alla velocità della luce, l'uomo si rivela irrimediabilmente lento. Lento ad interrogare parlamenti, lento a spostare truppe, lento a prendere decisioni, lento a capire che cosa gli capita tra capo e collo.

Nessuno meno di noi è propenso ad osannare la tecnologia borghese e tantomeno l'informatica, che più delle macchine meccaniche ha bisogno di essere disinfettata dalla metafisica dell'ideologia dominante, ma bisogna riconoscere che le reti senza centro sono un bel grattacapo per il dominio fisico di una classe sull'altra. Purtroppo per ora manifestano i loro limiti di controllo solo in campi non direttamente sociali. Nessun organismo borghese, nonostante la centralizzazione massima dei centri di raccolta dati, può ormai controllare, per esempio, il mercato delle valute. Abbiamo saputo dai giornali, quando c'è stato il terremoto sulle valute nel settembre '92, che giornalmente sulle reti telematiche vengono operati scambi di valute per un totale medio di un milione di miliardi di lire. Quando leggiamo che la Banca d'Italia interviene a difesa della lira acquistandone per una cinquantina di miliardi per volta, ci vien da ridere, come ridono sicuramente gli interessati che da un capo all'altro del mondo battono gli ordini sulle loro tastiere 24 ore su 24. Un milione di miliardi di lire sono ben più dei 4.000 miliardi giornalieri di valore aggiunto dell'intera nazione e basta che se ne mobiliti una frazione insignificante per abbattere qualsiasi moneta.

Secondo la Riserva Federale americana, di questi 365 milioni di miliardi di lire che vengono scambiati nel mondo ogni anno, solo il 5% viene scambiato per reali esigenze industriali; tutto il resto è pura transazione su pezzi di carta. Sono dati che abbiamo pescato qua e là sui giornali, bisognerà un giorno fare un lavoro organico su questi aspetti, anche alla luce della formalizzazione contenuta nel lavoro sull'accumulazione. Nel 1985 il mercato delle euro-obbligazioni aveva superato i mille miliardi di dollari con emissioni per 130-140 miliardi all'anno. Non abbiamo il dato odierno, ma abbiamo il dato sulle nuove emissioni: 300 miliardi di dollari all'anno. Tenere sempre presente l'ordine di grandezza, cioè una metà dell'economia statunitense in euro-obbligazioni. Questo mercato rappresenta, come gli eurodollari, la reazione naturale e spontanea del capitale internazionale alla regolamentazione in atto nei diversi sistemi nazionali. I diversi paesi, specie Stati Uniti, Europa e Giappone, non possono fare a meno di una regolamentazione dei capitali, i quali però si dimostrano completamente insofferenti ed esplodono all'estero attraverso l'esasperazione dei fenomeni già esistenti, come quello della rendita petrolifera, o del caffè, del rame, dello stagno, dell'olio di arachide ecc. C'è quindi una stridente contraddizione fra la necessità borghese di fascistizzare la società interna dei singoli paesi e la necessità del capitale di liberarsi dai vincoli, di internazionalizzarsi.

L'espediente di Hilferding

Nelle borse delle merci miliardi di dollari vengono spostati senza che si muova un barile di petrolio o un chicco di caffè. Crolla Bretton Woods, ma il riferimento alle quantità fisiche che prima erano rappresentate dall'oro deve rimanere perché non può esservi fiducia basata solo su dei pezzi di carta o su delle cifre segnate sulle memorie dei computer. Se si guarda bene al fenomeno vediamo che appare una ricorrenza: la disponibilità di liquido viene garantita di volta in volta nella storia dalla rendita immobiliare in Giappone, dal petrolio e dalle materie prime nel mondo, dall'apparato industrial militare americano, dalle fusioni di grandi industrie (ne parleremo dopo), insomma, da qualcosa di concreto. Se torniamo indietro troviamo addirittura una conferma del marxismo legata ad un episodio clamoroso nella storia della Germania. Quando nel 1923, a causa dell'iperinflazione, il dollaro quotava 4,2 trilioni di marchi tedeschi, e non c'era oro per garantire l'emissione di una nuova moneta, fu creata la Rentenbank la quale emise moneta con una copertura ipotecaria su tutti i terreni agricoli e industriali della Germania. Il ministro delle finanze Hans Luther consultò Rudolf Hilferding (quello del Capitale finanziario), suo predecessore, ed elaborò il piano che per la fine dell'anno rese disponibile il nuovo rentenmark, il marco a copertura immobiliare, di rendita.

Nonostante il riferimento all'oggetto della transazione, con queste operazioni si raggiunge il massimo grado possibile di astrazione del capitale, separando una volta per sempre il titolo dalla sua origine, cioè dalla sua garanzia. La ragione è evidente. L'oro è immediatamente tramutabile in possesso fisico, è immediatamente denaro, le terre tedesche no, il petrolio no, l'olio di arachidi no; che me ne faccio del terreno su cui sorge la Krupp, di mille barili di greggio, di una nave di arachidi? Viene separato il titolo dalla garanzia, quindi si raggiunge anche il massimo grado di indeterminatezza del capitale, la creazione automatica di base monetaria e un frenetico carosello sui cambi ufficiali e sui prezzi delle materie prime, con la differenza che queste ultime servono fisicamente alla produzione dopo essere servite da tramite ai bisogni della finanza.

Rifacciamoci per un momento all'articolo citato, Sua maestà l'Acciaio: è impensabile che cifre del genere, quantità così gigantesche di capitali che si muovono intorno al pianeta non abbiano un riflesso reale sui rapporti fra gli uomini e i paesi; una internazionalizzazione così spinta del capitale "astratto" e impersonale avrà pure una ripercussione materiale altrettanto esplosiva. Facciamo un collegamento anche con quanto abbiamo citato da Marx sulla impersonalità del Capitale (i riferimenti si trovano nei capitoli XXIII, XXVII e XXXVI del Libro III), quando dicevamo che lo sviluppo del credito è la forma specifica della morte del capitalismo, la forma di transizione ad un nuovo modo di produzione. Come si vede stiamo seguendo un percorso circolare con implicazioni enormi per il lavoro futuro.

Un concentrato esplosivo

Proviamo a radunare cifre e considerazioni in sequenza e vedremo che la scena è piuttosto impressionante:

- tra il 1973 e il 1974 è quadruplicato il flusso diretto di capitali (quello indiretto per ora non è da noi quantificabile) verso il sistema finanziario;

- negli anni seguenti c'è stata una esplosione del credito per ovviare alla crisi e all'inflazione, per cui i prestiti internazionali dei paesi aderenti all'OCSE sono cresciuti dal 12 al 25% delle attività totali. Svizzera e Inghilterra da sole hanno rappresentato più della metà della crescita e gli USA sono passati dal 2,5 al 15%;

- nello stesso periodo abbiamo assistito ad un tuffo del Giappone fra i due grandi della finanza, tuffo che l'ha portato già nel 1985-86 a controllare più del 50% del mercato interbancario londinese e ad acquistare il 30% delle emissioni del tesoro americano (alla stessa data il Giappone "possedeva" il 20% dell'intero debito americano);

- il petrolio e le materie prime diventano beni speculativi alla grande come i titoli e le monete; il valore delle transazioni su pezzi di carta (options, swaps, futures, obbligazioni artificiali ecc.) superano di gran lunga il valore delle emissioni originarie;

- viene accordata la preferenza alla carta internazionale, sulla quale vi sono meno controlli. Il mercato delle euro-obbligazioni cresce dal 1966 al ritmo del 28,4% all'anno, con un tempo di raddoppio ogni due anni. Il mercato secondario (transazioni dopo l'emissione) ancora più velocemente (dal 1983 al 1984 c'è stato un aumento del 50%, 1500 miliardi di dollari solo in quell'anno);

- l'imponenza del mercato di carta non consente più la gestione "umana", reti di computer e terminali collegati in rete rendono possibile la mole delle transazioni, ma accelerano in modo esponenziale tutte le caratteristiche, positive e negative per il capitalismo, del sistema del credito. La terza borsa del mondo non è una borsa, ma una rete di terminali chiamata NASDAQ collegata via satellite;

- la circolazione minuta del denaro viene effettuata con le reti ATM, Bancomat, carte di credito, tessere magnetiche di tutti i tipi. In questo modo si elimina anche capillarmente la stagnazione di biglietti di banca perché i pagamenti possono essere immediati e i prelievi potenzialmente eliminati (e qui bisognerebbe introdurre qualche osservazione sui buoni-lavoro, vagheggiati dal socialismo utopistico del secolo scorso e analizzati da Marx);

- la difficoltà per le industrie con basso indice di solvibilità (rating) a trovare capitali fa nascere la junk bond, azione spazzatura, inventata dalla Drexel (poi fallita), vero monumento al capitale parassitario, versione elettronica dell'usuraio medievale. Essa produce una ulteriore esplosione finanziaria per via dell'alto rendimento ("la junk bond va a colmare un vuoto", dicono gli esperti, perché permette un allargamento del credito a coloro che non hanno mezzi per accedere al capitale bancario);

- si scopre che con l'emissione di titoli fasulli si può ricavare tanto danaro da acquisire il controllo di grandi aziende (take-over), utilizzate, una volta acquisite, per emettere obbligazioni garantite dal patrimonio aziendale;

- l'industria si butta sulla finanza comprando titoli invece di investire (in Giappone, dove questa attività è piuttosto diffusa, ha il nome specifico di zaiteku).

- si intensifica la concentrazione delle banche primarie e di quelle di investimento. Questo fenomeno ha seguito la crisi bancaria che gli esperti hanno chiamato "bagno di sangue". Si tratta della deregulation in campo bancario e ancora del solito fenomeno che, imposto con apposite leggi, non è altro che un adeguamento della sovrastruttura a ciò che già succede, una nuova regulation (vedere Lettera n. 25, La crisi del sistema bancario americano). D'altra parte i governi impongono la liberalizzazione dove la tradizione è dura a sparire, come in Inghilterra, dove il governo di fronte al varo del Big Bang (sistema in collegamento mondiale con reti attive 24 ore su 24 e transazioni non stop) ha imposto alla Borsa di eliminare le vecchie commissioni di controllo con la minaccia di trascinarle in tribunale per disobbedienza.

Lavoro a processo continuo

Come non ricavare da questo scenario un certo ottimismo per il futuro? Questo è materiale di guerra tra Stati che deve darci lo spunto per preparare il materiale per la guerra di classe. Infatti non è possibile eliminare dalla scena capitalistica la classica alternativa: o rivoluzione o guerra.

Concludiamo ritornando all'inizio. Questa esposizione non ha voluto essere uno studio particolare, né un rapporto su temi specifici come per esempio quello di questa mattina. Volevamo più che altro far notare ai compagni che il lavoro iniziato dal partito nei tempi migliori deve essere continuato. Nessuno dei piccoli gruppi esistenti può essere in grado di elaborare compiutamente una mole così complessa di lavoro. Solo un lavoro di grande respiro internazionale può rappresentare la vera continuazione di quello interrotto. La chiusura locale comporta la chiusura dell'orizzonte teorico, al di là di ogni buona volontà dei singoli.

Ci serve il contatto e la verifica permanente come vaccino alla chiusura. Il lavoro organico richiede la battaglia continua, non l'equilibrio stabile e immobile dei lettori di bibbie. Diversi osservatorii in diversi paesi possono rappresentare una apertura ancora migliore, perché c'è bisogno di uno scambio che superi la visuale imposta dalle singole aree nazionali o, ancora peggio, locali. Il localismo è stata una malattia mortale della Terza Internazionale e dei partiti che la componevano; lo scambio, l'osmosi che si può raggiungere solo con il lavoro comune è la condizione essenziale anche per una comunanza di linguaggio, quindi per una comunanza di metodo.

Si è parlato di divergenze tra noi, le abbiamo viste all'opera durante le discussioni. Meno male, è positivo, aiutano a chiarirsi le idee. Mettiamoci in testa che vedremo arrivar gente che non solo porterà divergenze, ma vere e proprie incompatibilità. La ricetta è conosciuta: il programma, l'adesione ad esso, la selezione organica. E' un problema, ma che facciamo? Gli esorcismi? Le espulsioni? Il partito senza divergenze non esiste e non può esistere, nemmeno dopo la rivoluzione. I programmi nascono da scontri dialettici non solo fra le classi e i partiti, ma anche all'interno dei partiti. Non avremmo il nostro patrimonio se la Sinistra non avesse avuto divergenze con l'Internazionale, non avremmo la quasi totalità della "letteratura" rivoluzionaria.

Le determinazioni materiali non le scegliamo noi, i problemi che la storia pone davanti ai rivoluzionari sono come i partiti e le rivoluzioni, non si inventano, si dirigono, si disciplinano, si risolvono.

Note

(29) Istituzione internazionale che calcola una specie di voto (rating) sulla solvibilità di enti e paesi. Tale voto (AAA, AAB, ABB ecc.) influisce sulle condizioni del credito internazionale.

(30) Gerhart Hauptmann, I Tessitori, dramma romantico sulla rivolta slesiana del 1844.

(31) Bordiga, in opposizione al metodo probabilista e indeterminista affermava: "Einstein (...) non si sarebbe contentato - se avesse pizzicato di politica - di dire: è solo molto probabile che la borghesia e la sua ideologia se ne vadano al diavolo". Engels non vedeva di buon occhio il secondo principio della termodinamica che, anche nella moderna teoria dell'informazione, si presta a speculazioni soggettivistiche. Comunque tale teoria afferma che un sistema chiuso deve passare da uno stato meno probabile (ordine) ad uno più probabile (disordine); solo l'apertura del sistema all'informazione (negentropia, entropia negativa) lo può portare ad un nuovo ordine.

(32) La teoria marxista della rendita di Marx dice appunto che il terreno "peggiore" guida il prezzo dei prodotti della terra, ma che il terreno "migliore", con la sua produttività, decide quale debba essere il terreno da lasciare incolto. Quando la produzione petrolifera era in mano all'Occidente e i paesi produttori non intascavano la rendita, il prezzo di riferimento era quello dell'Arabian Light. Dopo la crisi del 1974 tale prezzo è diventato quello del Brent, estratto nel Mare del Nord, il terreno "peggiore".

(33) La celebre definizione di Clausewitz si trova nel primo libro, primo capitolo, paragrafo 24, di cui è il titolo. Il rovesciamento citato non è immediatamente visibile nel testo perché Clausewitz ragiona in modo idealistico e non viene a capo della contraddizione fondamentale fra il processo che porta alla guerra e l'intelligenza che gli uomini ne hanno. Egli individua il problema e lo svolge nel libro ottavo, capitolo secondo: l'uomo obbedisce più alle idee e ai sentimenti che alla logica, quindi incomincia le guerre e non sa dove esse conducano; esse diventano un "prodotto bastardo" in cui il rigore logico "rappresenta solo uno strumento goffo ed incomodo dell'intelligenza". Il concetto base è la forma assoluta della guerra (distruzione e annientamento dell'avversario) e la teoria deve partire da ciò, anche se il pensiero umano tende a colorare la guerra di altre sfumature: "Sono le ultime guerre che hanno reso possibile alla teoria di adempiere a questo compito in modo efficace". Anche se Clausewitz non dice quasi nulla sulle cause materiali della guerra (scrive intorno al 1830), egli si accorge che la guerra moderna trasforma i militari da condottieri a tecnici e che la guerra stessa, "considerata dal suo punto di vista più elevato, si cambia in politica", cioè diventa un elemento costante della vita sociale. La guerra, che era nel primo libro "la continuazione della politica con altri mezzi", nell'ottavo libro "altro non è che la politica stessa".

(34) Raccolto in Fattori di razza e nazione ed. Quad. Int.

(35) E' in preparazione un lavoro sulla questione balcanica, frutto di alcune riunioni e probabilmente oggetto di un prossimo "Quaderno".

(36) Introduzione a per la critica dell'economia politica, III, "Il metodo dell'economia politica".

(37) Paragrafo Profeti e chierici dell'economia demente, pag. 16.

(38) Nel 1981 si calcolava che la xenovaluta (o eurodollaro) si era moltiplicata fino al valore di 1.800 miliardi di dollari, il 60% dell'intero Podotto Lordo americano. Oggi sembra che nessuno sappia quanti dollari non americani esistano in giro.

(39) Bisogna inoltre tener conto che negli USA vige il diritto anglosassone per cui il proprietario del suolo è anche proprietario del sottosuolo. I giacimenti però non seguono i confini delle proprietà, quindi c'è stata una corsa all'impianto di pozzi proprio sui confini per estrarre il greggio prima del vicino. La proliferazione di piccoli pozzi privati ne ha compromesso la produttività, tanto che, nel 1968, su un totale mondiale di 704.522 pozzi, 566.869 erano sul suolo statunitense con una produttività media di 1,9 tonnellate al giorno contro le 546 tonnellate al giorno del Medio Oriente.

Fine

Lettere ai compagni