38. Padania e dintorni (5)
Le manifestazioni politiche della piccola e media borghesia sulla spinta della riorganizzazione incessante del capitale

Democrazia del clan di Asterix

Tutti sanno che l'unica maniera per riavere i soldi dal debitore insolvente e nullatenente è fargli ulteriori prestiti controllando affinché li faccia fruttare. Tutti sanno che la politica degli Stati e delle grandi Banche dei paesi sviluppati è finanziare le possibilità di consumo delle popolazioni degli altri paesi. Ma nella mente del leghista è profondamente radicato il meccanismo economico spicciolo, tanto che non può assolutamente vedere i meccanismi e le cifre globali. Ed è magnifico sentire ancora Miglio che fonda il parallelo tra le leggi del libero mercato e la democrazia. Il suo modello è quello capitalistico mercantile, in cui il libero produttore si presenta sul mercato per una libera transazione con il suo simile. L'eventuale accordo è una joint-venture che dura finché dura il contratto, cioè la convenienza.

"Ecco la radice del neofederalismo. La sua vittoria è la vittoria del contratto sul patto politico, sullo ius publicum europaeum dell'Europa statalista. E' l'affermazione di una pluralità di sovranità contro l'idea della sovranità assoluta. E' un'idea molto democratica, perché fondata sulla libera volontà di stare insieme. E' un nuovo diritto pubblico, fondato sul contratto, sulla pattualità di tutti i rapporti, sull'eliminazione dell'eternità del patto: si sta insieme per trent'anni, cinquant'anni, poi si ridiscute tutto. ma per quel periodo l'accordo va rispettato. E' chiaro che il fatto di stare con chi si vuole, per il tempo che si vuole, non può che favorire la convivenza. Naturalmente, possiamo stare solo con chi ci accetta" (64).

E dalle altezze filosofiche scendono, in modo molto pratico, i simpatici economisti della Lega, Gnutti e Pagliarini, a spiegarci che la secessione produce enti giuridici separati, che proprio in quanto tali possono liberamente mettersi d'accordo su come far fluire capitali e prodotti tra diverse regioni associate in un patto mercantile. Insomma, si dovrebbe fare addirittura una secessione per ottenere qualcosa che già esiste e che si chiama ripartizione del reddito. Lo Stato, forse meglio di qualunque autonomista dato che ha una visione d'insieme, lo fa già e ne abbiamo un esempio funzionalissimo nei Länder tedeschi. Gnutti e Pagliarini sono imprenditori, e questa concezione pacioccona dell'economia corrisponde al loro punto di vista immediato che dipende banalmente dall'attività svolta. Da quando l'umanità ha superato sia il Medioevo che il capitalismo mercantilista, da quando cioè il Capitale ha separato totalmente produttori di valori di scambio e prodotti con valore d'uso, processo produttivo razionale e mercato anarchico, ogni concezione che parta dall'ottica del singolo imprenditore è necessariamente fasulla. Chiunque torni a ragionare secondo schemi di una società che non esiste più regredisce alle forme passate, ed è proprio quel che succede.

Eppure anche Bossi e i suoi economisti, nonostante le teorie autonomistiche, sono costretti a parlare di globalizzazione. Nessuno sa bene che cosa sia, ma il Capitale globale ha imposto il concetto con tale forza che ormai non si parla d'altro. La globalizzazione naturalmente esiste, e anche l'autorevole Economist cerca di spiegare che non è niente di speciale, solo un modo di funzionare del capitalismo maturo (65). Esiste e viene utilizzata come spauracchio per sostenere qualunque politica economica: come qualcuno raccoglie la sua sfida per giustificare governi superdirigisti, così qualcun altro propone soluzioni autonomistiche proprio per rispondere alla sfida della globalizzazione. La realtà è che, nella futura e più spietata concorrenza, la dominazione reale del Capitale getterà in una condizione terribile chiunque si troverà schiacciato fra i tre grandi agglomerati capitalistici, America, Europa e Asia; ecco perché ritorna l'amore per la democrazia casalinga. La globalizzazione è vecchia almeno come la prima Compagnia delle Indie ed è da allora che l'ha fatta finita con la democrazia mercantile invocata dai leghisti. Ma il lamento autonomistico ci interessa moltissimo, perché siamo solo all'inizio e vedremo le manifestazioni della dispiegata virulenza globalizzatrice non appena qualcuno degli elementi importanti dei tre poli incomincerà a cedere, senza che gli strumenti classici di salvataggio come il Fondo Monetario Internazionale e le catene bancarie per prestiti d'emergenza possano intervenire efficacemente. Vale a dire senza che ognuno dei concorrenti possa fare qualcos'altro che dire: mors tua vita mea.

Spasmodica battaglia per il centro

Bossi va dicendo che è merito suo e dei suoi fedeli se il movimento leghista è rimasto coerente alle premesse radicali della prima ora, riuscendo ad emergere dall'oscurità per diventare un movimento di massa e di governo. Per quanto si debba riconoscere che Bossi ha dimostrato un'abilità politica notevole districandosi tra le vecchie volpi della prima repubblica e il nuovo partito berlusconiano, ciò non è del tutto vero. Non è il nucleo politico leghista che ha fatto scaturire un movimento sociale, ma è il movimento sociale che ha trovato una sua espressione politica. Se non fosse così, un personaggio come Bossi non potrebbe esistere nel panorama politico italiano, che non ama i tori nelle cristallerie ma preferisce i serpenti nell'ovatta.

Vi sono quindi le premesse materiali affinché, nello scenario internazionale, i movimenti autonomistici aumentino il loro peso. Ciò non per una loro propria particolare virtù o capacità di formarsi per agire su forze sociali (medie classi e bassa borghesia) ma, al contrario, perché essi sono il risultato di un cambiamento già avvenuto. Essendo l'espressione determinata di una realtà sociale, i movimenti intermedisti e autonomisti ne raccolgono le istanze più radicali e in certi momenti storici le incanalano verso uno sbocco politico di vasta portata. Qualunque tinta assumano, essi non possono non essere fascisti, nel senso che, essendo una reazione agli effetti del capitalismo, ne vorrebbero un'edizione migliorata. E non esiste altra via per migliorare, cioè riformare, il capitalismo.

Tutti questi movimenti hanno in comune l'esaltazione della libertà e della potenza dell'Io e, nello stesso tempo, il suo annientamento in simbiosi con entità al di sopra di esso: il Condottiero, lo Stato (66).

Non sarebbe quindi per nulla strano se l'acuirsi dei fenomeni materiali soggiacenti alle reazioni di tutta la sovrastruttura facesse assumere alla Lega un peso sociale maggiore di quello elettorale, numerico, organizzativo e lo trasformasse in uno tra i possibili, diversi e molteplici fenomeni distruttivi, preludio di quei moti che hanno sempre anticipato, magari nella maniera più confusa e incomprensibile, il movimento decisivo delle classi rivoluzionarie. Non si capirebbe altrimenti perché mai un Marx, nemicissimo di Proudhon, lo tratti come il rappresentante di uno strato sociale riconosciuto come parte integrante di tutte le rivoluzioni a venire.

Oggi c'è grande agitazione in Italia intorno ad un "centro" politico che non riesce a precisarsi. E' quello il campo sul quale si scannano soprattutto le forze intermedie, ma tutto lo schieramento politico è necessariamente spinto dal meccanismo elettorale a differenziarsi il meno possibile e quindi a occupare l'area centrale. Bossi sa benissimo che la Lega deve contendere uno spazio che sta diventando troppo affollato e che i partiti tradizionali cercheranno di buttarla fuori (a destra, come si dice). Sembra ora che anche Forza Italia abbia capito il meccanismo, o meglio, che abbia ascoltato gli esperti dei suoi stessi istituti di sondaggio, i quali, tutti e da sempre, funzionano esclusivamente su estrapolazioni statistiche (67). E' matematicamente inevitabile, infatti, che ogni partito si somigli e finisca per rifiutare la collocazione classica (destra, centro, sinistra) in cui la storia precedente l'aveva relegato.

Da questo punto di vista l'attuale schermaglia tra Forza Italia e Lega su possibili alleanze non è per nulla strana, nonostante i passati fierissimi scontri e le accuse reciproche di alto tradimento. Queste sono sciocchezze, superabilissime nel momento in cui le componenti di classe esercitassero la minima pressione per una rappresentanza unitaria. Piuttosto sarebbe difficile per Berlusconi adattarsi al clima di Vandea che ne deriverebbe, mentre per Bossi sarebbe una pacchia: a questo punto il centro non servirebbe più a mediare tra le varie componenti politiche o a ricattare le maggioranze relative, ma piuttosto come potente grimaldello per scassinare la saldezza altrui e far valere le istanze dei propri rappresentati piccolo borghesi. Bossi non rivendica affatto una purezza ideologica ed ammette che la Lega è un serbatoio di voti ex altrui:

"Piuttosto di correre il rischio che il consenso elettorale dell'ex pentapartito finisse in gran parte nelle mani della Lega, fecero saltare il centro e con esso l'autostrada sulla quale avanzava la Lega che, in quanto movimento politico di liberazione, non può che viaggiare al centro dovendo rivolgersi a tutti i cittadini padani indipendentemente dalla loro fede ideologica di destra e di sinistra" (68).

Essendo un'espressione di classe reale, il centro non solo non era destinato a sparire con la vecchia DC, bensì a diffondersi dappertutto. Ciò non significa che le rappresentanze politiche delle frazioni borghesi possano fare a meno delle tradizionali suddivisioni parlamentari, ma in realtà vige più che mai il partito unico del Capitale. Se i calcoli elettorali hanno imposto due poli e un centro diluito in essi, non è detto che questa situazione sia definitiva. In effetti, se non fossero determinanti sia l'eredità del passato che l'ibrido meccanismo uscito dalle modifiche del metodo proporzionale, dalle elezioni uscirebbero degli insiemi un po' più somiglianti a quelli che abbiamo tentato di tracciare: e cioè un bipolarismo tra le forze nazional-sociali di destra e di sinistra e i rappresentanti delle non-classi, cioè la Lega e Forza Italia.

Hanno qualcosa da perdere

Siccome pesano di più le determinanti sociali che i calcoli per i seggi, è ovvio che il Polo di destra è continuamente in crisi per l'impossibilità di conciliare un partito come Forza Italia con le altre componenti. In effetti non è il Polo che è in crisi, è Forza Italia, a causa delle sue contraddizioni. Uscendo dalla coalizione, la Lega è libera in quel centro che tutti vorrebbero occupare ma che neanche vecchi volponi come Cossiga e Segni riescono a tenere. Il fatto è che la Lega è l'unico partito di classe esistente, mentre gli aspiranti centristi sono dei ragionieri dell'elettoralismo a capo di raggruppamenti artificiosi.

Anche l'analisi di classe centrista della Lega non è un'invenzione di Bossi. Essa si esprime con il linguaggio simil-classista che gli strati sociali intermedi hanno assimilato dalla retorica "popolare" dei partiti della vecchia corporazione di potere cattolico-staliniana. Questo linguaggio morto traspare nella comunicazione del capo anche se mimetizzato dall'idioma colorito di quest'ultimo e rappresenta una bella prova della subordinazione alla più potente classe da cui ci si vorrebbe emancipare.

Quando questo linguaggio si fa vettore di una istintiva quanto genericissima difesa della libertà (che si identifica sempre con la proprietà), produce un'intesa immediata con la base militante, che ovviamente non chiede altro che capire vecchie cose banali, come ha sempre fatto, pensando che siano novità solo perché nuovo è il disagio. Berlusconi cerca di banalizzare più che può, ma non potrà mai scendere a livello di Bossi perché è un capitalista televisivo e sa che cosa sia la perdita d'immagine. Ma in difficoltà di comunicazione sono soprattutto gli altri politici, che, essendo in rapporto con il loro partito tramite il meccanismo del centralismo democratico, devono seguire le vecchie regole e abbozzare vaghe parvenze programmatiche in quello che dicono. E' vero che alla fine riescono soltanto a macinare luoghi comuni sulla democrazia, l'Europa e i mercati, e la comunicazione col centro che si prepara è loro negata. Ma facciamo descrivere a Bossi l'avvento della rivoluzione al centro:

"L'alterazione strutturale è un'altra caratteristica pre-rivoluzionaria presente quando si ha un'alterazione delle relazioni tra le classi [...] a causa della trasformazione in un paese post-industriale con il conseguente ampliamento della classe media. Un processo che ha costretto i partiti che più basavano il loro consenso elettorale sulle ideologie di classe ad annacquare la loro identità, al punto da sembrare tutti uguali o comunque poco diversi. L'alterazione delle relazioni tra le classi è stata da noi più radicale rispetto agli altri paesi post-industriali [...] Può essere assai pericoloso reprimere l'istinto della proprietà. E' quello che l'Italia sta facendo, imponendo tasse sempre più pesanti per mantenere lo Stato. In questo modo i Padani vengono espropriati della maggior parte delle ricchezze prodotte [...]. La storia ci ha insegnato che un popolo che ha goduto di un aumento del proprio benessere in un determinato periodo si aspetta di poterne godere anche in futuro. Se invece si spezza il trend positivo e le aspettative di benessere vengono deluse, allora si scatena la reazione della gente contro il governo"(69).

Ciò che i leghisti esprimono come spinta elementare, sta addirittura alla base della legge della miseria crescente di Marx. Se per l'operaio la differenza crescente fra salario e plusvalore prodotto dà la misura del crescente sfruttamento e quindi della crescente miseria relativa, per l'intera società vale una generalizzazione legata al divario tra i bisogni in una certa epoca e la loro possibilità di soddisfazione:

"Benché i godimenti dell'operaio siano aumentati, la soddisfazione sociale che essi procurano è diminuita in confronto con gli accresciuti godimenti del capitalista, che sono inaccessibili all'operaio, in confronto con il grado di sviluppo della società in generale. I nostri bisogni e i nostri godimenti sorgono dalla società; noi li misuriamo quindi sulla base della società e non li misuriamo sulla base dei mezzi materiali per la loro soddisfazione. Poiché sono di natura sociale, essi sono di natura relativa" (70).

Ciò che viene individuato da Bossi come "alterazione strutturale delle classi" è un grande aumento della fascia sociale intermedia, quella che più ha puntato sulla soddisfazione degli attuali bisogni sociali e non ha nessuna intenzione di tornare indietro. Gli interessi di questo strato possono combaciare con quelli della grande borghesia soltanto quando questa è in grado di far piovere su di esso le briciole del profitto, esattamente come fa con l'aristocrazia operaia. E' per questi motivi che il leghismo non può accettare l'omologazione e diventa un fenomeno diverso da quelli soliti della politica nostrana, non assimilabile per esempio al più appariscente apparato berlusconiano. Infatti nessun partito elettoralistico tradizionale conosciuto avrebbe operato una rottura come quella operata dalla Lega (il cosiddetto ribaltone) sapendo di perdere con certezza ogni possibilità di alleanze nell'immediato futuro. Nessun partito tradizionale, come nel caso delle ultime elezioni, avrebbe corso il pericolo reale di perdere fino a ottanta seggi passando così da un centinaio a una ventina. E questo per il rifiuto di alleanze o patti di desistenza. In campo elettorale nessuno si sente più legato a questioni di coerenza o di principio, basta rastrellare più voti possibile. Anche Rifondazione Comunista esiste come partito parlamentare perché c'è stato un patto di desistenza con il PDS.

Uno strano partito

Alle ultime elezioni Bossi dovette lottare contro i suoi e anche arginare una sfacciata interferenza di Berlusconi, il quale, prevedendo il crollo elettorale, aveva letteralmente comprato diversi leghisti che non se la sentivano di mollare il cadreghino. La spietata espulsione di tutti coloro che non si erano allineati dimostrò in quell'occasione che la Lega stava uscendo dalla logica corrente e rappresentava un elemento di disturbo per la tipica alleanza degli strati piccolo-borghesi con la borghesia. Si stavano accentuando le oscillazioni del moto pendolare delle classi di mezzo tra le due grandi classi antagoniste e la loro autogiustificazione teorica si avvicinava sempre più al populismo-economismo riscontrato da Marx in Proudhon. Ma con una differenza: la Lega era un partito in formazione e non disdegnava per nulla il movimento sociale in quanto movimento politico. Stava diventando un movimento che, se faceva ridere i polli per i suoi aspetti folcloristici, incominciava a far vedere i sorci verdi per quel che si apprestava ad essere nella sua realtà organizzata.

La forza del sotterraneo disagio sociale degli strati intermedi si era manifestata infine con l'affermazione elettorale: invece di perdere settanta od ottanta seggi, come previsto in base alla meccanica dei regolamenti, patti di desistenza e residui proporzionali, la Lega aveva aumentato i voti (4,5 milioni contando tutti i movimenti autonomisti) e perso quindi soltanto una cinquantina di seggi. Nello stesso tempo, come partito ormai maturo, aveva selezionato spietatamente i suoi militanti con l'interessante criterio del cedimento da essi dimostrato nei confronti del parlamentarismo corporativo e della politica tradizionale.

Nessun elemento della Lega era cosciente del fatto che, come già notava Marx, un movimento politico dimostra la sua vitalità solo se riesce a superare le tappe raggiunte, solo se le brucia una volta che esse siano diventate patrimonio comune. Gli intellettuali che all'inizio si erano avvicinati alla Lega non avevano capito ciò: l'avevano abbandonata precipitosamente non appena si era fatto chiaro che non era posto da chiacchiere ma da ruvida militanza anonima. I leghisti avevano incominciato con le scritte sui muri che invitavano i "terroni" ad andarsene. Poi avevano maturato l'avversione per Roma Ladrona e le sue tasse. Poi avevano sfondato col federalismo facendolo entrare nel lessico di tutti i partiti. Ora che persino il centralista Fini parlava di federalismo, la Lega aveva incominciato a parlare di secessione. I fessi vi vedono un'incoerenza, ma se incoerenza c'è questa è di certo con la politica amata dai fessi: la Lega non c'entra con quello che dice di essere e lo stesso Bossi ha spiegato mille volte che la secessione è un simbolo indipendente dalla sua realizzazione (71).

In parlamento la Lega ha votato spesso, anzi quasi sempre, a favore delle maggioranze e dell'economia così come sono. Né si è sottratta a pastrocchi come quello del voto su Previti. Nello stesso tempo si è scagliata contro il cretinismo parlamentare con metodi goliardici, quindi più cretini ancora. Ha giocato alla politica tradizionale di corridoio con Berlusconi e D'Alema, dimostrando di non essere per nulla al di fuori delle solite determinanti democratiche, salvo poi dire che li stava prendendo in giro. Ha anche utilizzato tutto l'armamentario pseudo-psicologico per poter entrare nei telegiornali e nei talk-show. Il folklore leghista, Alberto da Giussano, il corollario etnico fasullo, le ampolline di acqua sorgiva portate in processione sul magico Po, tutto questo fa parte della meschinità sociale e il partito della classe più meschina non poteva esserne esente. Ma chi ne è esente? Chiunque entri in una libreria noterà immediatamente che cosa oggi vende di più: esoterismo universale e astrologia personale, cucina delle suore e diete delle attricette, romanzi degli storici e storia dei romanzieri, fantasy degli scienziati e scienza dei mistici. Una volta i sinistri amavano andare alla ricerca di "affreschi sociali", se guardavano col grandangolo, e di "spaccati sociali", se guardavano col microscopio: ebbene, insieme con la televisione-Barnum e l'economia-casinò, con la Lega avrebbero entrambi: essa non è responsabile di essere quello che è, dato che svolge al meglio la sua principale funzione, quella di essere specchio sociale. Anche Forza Italia rispecchia elementi che esistono nella società, ma mentre Berlusconi, come la pubblicità, spinge una serafica Italia virtuale ad acquistare i suoi prodotti politici preconfezionati, Bossi è spinto da una Italia assai reale e imbufalita ad escogitare un prodotto politico che sia recepito come unica salvaguardia di interessi concreti minacciati.

Ora che la Lega ha rappresentato al meglio le forze che la volevano, è costretta a non fermarsi o a sparire. La sua estetica rimane piuttosto rozza, la sua politica elementare ed eclettica; ma proprio perché è un turbine, un vortice in un fluido sociale, porrà dei problemi, come li pone in fisica la meteorologia, difficile da affrontare con la semplice dinamica dei fluidi. Il tipo di adesione militante e organizzata, atipica nel panorama politico italiano e internazionale, comincia ad essere notata dagli altri partiti i quali non possono farci niente e continuano a produrre aria fritta, paranoie da corridoio, mentre, tra i lazzi e i frizzi, la Lega ha organizzato una struttura paramilitare con ottomila uomini in uniforme. E addirittura qualcuno si chiede se tutta la carnevalata celtica e lo pseudomisticismo sull'Eridano non sia per caso un'abile manovra mimetica di forze eversive.

Tutti federalisti

In queste condizioni la Lega troverà sempre più difficile barcamenarsi fra il cretinismo parlamentare, la piazza e le organizzazioni parallele. Anche perché, nel frattempo, sono nati come i funghi compunti "veri federalisti" dell'ultima ora, che rifiutano le elementari parole di Bossi e rilanciano un'accademia federalista molto perbene, basata su di un lessico meno triviale. La Lega non potrà non scontrarsi con questo fenomeno che incomincia ad auto-alimentarsi facendo nascere appositi esperti. Certo è più raffinato parlare di "priorità del territorio" invece che di "Roma Ladrona", ed è più distinto dire che vi sono "contraddizioni fra il vecchio triangolo industriale Milano-Torino-Genova e le province periferiche senza una capitale riconosciuta" (72) invece di gridare al popolo delle salsicce alla brace e dei pintoni di merlot che "Agnelli e quelli di Roma sono culo e camicia, lavorano solo per fottere la Lega" (73).

L'accademia federalista perbene sfiora persino il materialismo storico quando sente l'esigenza di indagare sugli "effetti che hanno le condizioni storicamente predeterminate del territorio verso le richieste di sovranità locale" (74), e i suoi opinion maker, i facitori di opinioni altrui, non mancano di bacchettare gli ineleganti politici leghisti cercando di togliergli di mano questo nuovo argomento dimostratosi così fecondo: "E' un peccato che i dirigenti della Lega siano dei cialtroni, stanno rovinando un'idea che meriterebbe ben altre individualità" (75). Sono convinti di essere sempre stati federalisti, ma hanno letto Cattaneo in quella luce solo dopo che il bufalo Bossi è entrato in cristalleria. Non ce la fanno a darsi una primogenitura federalista: hanno tardato troppo a registrare ciò che sul terreno era già successo e che istinti più vispi hanno colto senza tante storie (76). E oltre tutto, ritardati come sono rispetto ad una attualità che pure dovrebbe stare alla base del loro esistenzialismo politico, vogliono ancora tempo per imbastire teorie compiute del federalismo "attuale", moderno. Va da sé che così dimostrano di essere irrimediabilmente superati dalle cose, perché partono sempre dal presupposto che le idee vengano prima dei fatti: "L'Europa del tempo della globalizzazione non può essere l'Europa Unita, la sublimazione dello Stato napoleonico su scala continentale. Sarebbe disastroso. Invece che con un'Europa unita finiremmo con cento Croazie. L'Europa possibile è quella flessibile, pragmatica, funzionale, che è ancora tutta da inventare" (77).

Capito? L'Europa è già disegnata molto pragmaticamente in distretti industriali dal Capitale, come Miglio intuisce, epperò è tutta da inventare. Tenta di reagire alla potenza economica di Stati centrali e napoleonicamente sublimati epperò non deve centralizzarsi e sublimarsi altrettanto napoleonicamente. Che pasticcio. Forse l'Europa deve aspettare che sia "pensata" e "costruita" dai ponzatori di professione una grande teoria unitaria, federalista ma antisecessionista, democratica ma senza i Bossi, liberista ma in grado di fare politiche super-statali per vincere la concorrenza altrui. Nel frattempo i "cialtroni", così inesteticamente istintivi, avranno reclutato altre diecimila camicie verdi, dimostrandoci di aver capito a naso ciò che fior di pretesi marxisti non hanno capito studiando sui sacri testi, cioè che le lotte sociali e i partiti politici non si inventano ma si dirigono: "Noi non facciamo la scissione, noi la prevediamo. Il movimento dei sindaci è nato nel Nordest e non in Sicilia. Ora tutti i sindaci dicono quello che noi dicevamo tre anni fa", dice Maroni ripetendo la lezione del capo (78).

Serioso balletto di fesserie

Non abbiamo nessuna intenzione di dipingere la Lega più furba e intelligente di quanto sia e possa essere. Non è questo il punto. Ma la Lega è oggettivamente spinta da forze più grandi di lei a registrare processi già ben conosciuti e analizzati dal marxismo. Il movimento dei sindaci segue con anni di ritardo la Lega, e questo è un fatto; con ancora più ritardo alcuni rappresentanti della borghesia industriale si svegliano e aderiscono all'asettico movimento dei sindaci pensando di farne un possibile mediatore tra gli interessi locali e il potere centrale. Pensando all'insostituibilità dello Stato come unico garante istituzionale dei trasferimenti interni per le infrastrutture, l'industriale non capisce che la Lega se ne frega di questo tipo di razionalismo, non è nata per questo:

"Per noi imprenditori il concetto decisivo è quello di sistema, cioè di una rete politico culturale istituzionale che valorizzi il nostro lavoro [...] Il problema è che non si può realizzare questo sistema su scala italiana. Un'autostrada informatica la possiamo immaginare per il Triveneto, non certo per tutta l'Italia. Di qui nasce la richiesta di federalismo. Non possiamo continuare a vivacchiare giorno per giorno, abbiamo bisogno di consolidare i successi di questa fase di crescita dovuta in parte alla svalutazione della lira" (79).

Senza preoccuparsi di sapere o di far sapere all'industriale che forse un'autostrada informatica non è un oggetto fisico che si può posare sul Triveneto o sul triangolo industriale come una striscia di cemento e catrame, Bossi ridacchia di tutti gli improvvisati sistemisti. Sa bene che sono inoffensivi. Non sono le chiacchiere che muovono il mondo né le "brutte figure" degli antiestetici leghisti a bloccarlo: le autostrade informatiche esistevano vent'anni prima che le scoprissero i politici, così come esistevano i "distretti industriali" prima che li scoprissero gli economisti (80).

Bossi sa bene che le varie risposte federaliste alle istanze della Lega avrebbero dovuto, secondo una visione politica tradizionale, inglobarla nella logica riformista e coinvolgerla nel dibattito parlamentare, negli schieramenti, nella conta delle opinioni, nelle innumeri commissioni ecc. Ma i tentativi di riportare le spinte politiche autonomiste nell'alveo dello Stato totalitario, controllore generale del fatto economico, sono falliti. Non per niente il manifesto politico dei Cacciari-Carraro-Illy sottolinea il pericolo, prende le distanze, e ritorna ad un interclassismo che neanche più il PDS fa suo, essendo tanto preso dall'alta politica da dimenticare persino le istanze riformiste. Il nuovo organismo federalista battezzato poche settimane fa dice di sé stesso che "corrisponde agli interessi dei ceti produttivi", quindi è, manco a dirlo, per "forme di autogoverno finora impensabili, un’autonomia diffusa che è l’esatto opposto di ogni forma di autarchica chiusura localistica e municipalistica", un'autonomia persino "profondamente meridionalistica" (81).

Vi sono effettivamente sempre fenomeni "finora impensabili" per ogni piccolo-borghese che si accodi a ciò che succede intorno a lui. Se è in parte inevitabile che nella Lega sia confluito di tutto sull'onda del successo elettorale, in sostanza questo strano partito si è sottratto alle lusinghe della politica tradizionale buttando fuori a calci chi minacciava di omologarsi completamente al sistema dei partiti o anche solo parlamentava con l'avversario. Quando, per esempio, la signora Pivetti dimostrò di essere troppo legata alle componenti sociali cattoliche tradizionali, Bossi disse che il popolo leghista l'avrebbe rispedita al suo Papa "con i piedi in avanti"; nessuno che avesse tendenza all'intrallazzo politico è sopravvissuto a lungo nel partito. A parte la solita indignazione ipocrita per linguaggio da bettola, c'è grande scandalo per il delitto di lesa democrazia. Ma si capirà mai che il primo sintomo di vero e positivo cambiamento sarà, dovrà essere, un gigantesco sberleffo alla democrazia?

Barbari distruttori? Ce ne fossero!

Per ora la democrazia gioca brutti scherzi a coloro che proprio dai suoi meccanismi elettorali sono o emarginati e costretti ad un ruolo politico di comparse o elevati a elementi decisivi per costituire maggioranze. L'omologazione sociale comporta anche quella politica, e la distruzione del "centro" di cui parla Bossi è in effetti un processo spontaneo che produce un sovrappopolato campo di battaglia dove si consuma una batracomiomachia al giorno. Tale scenario è destinato a peggiorare, perché ogni volta che va in fermento il grande business mondiale per avvisaglie di crisi, la parola d'ordine è sempre la stessa:

"Sei un grande borghese? Gioisci. Sei piccolo? Fattela nei pantaloni" (2).

La paura di classe è una forza tremenda. In questa situazione ogni piccola spinta polarizzatrice potrebbe far crollare gli instabili equilibri attuali e rafforzare e unificare maggiormente il "leghismo", con i Bossi o senza. Se si sfascia Forza Italia, cioè la faccia "virtuale" della rappresentanza politica delle non-classi, il partito leghista, cioè la faccia "reale" di questa rappresentanza (che perciò si esprime con una militanza politica di massa), avrà già vinto; e allora vedremo le forze socialnazionaliste di governo ricorrere ad un totalitarismo di fronte cui le attuali accuse di "politica di regime" appariranno bazzecole. Se invece la politica piccolo-borghese minasse il polo social-nazionalista, attraverso gli innumeri canali trasversali che per sua natura forma e disfa di continuo, e vincesse un qualsiasi partito "di destra", allora vedremmo di nuovo l'invasione delle piazze al canto di "Bella ciao".

Siccome la storia ci ha insegnato che sull'onda del "movimento", qualunque esso sia, l'opportunismo trova linfa vitale infiltrandosi dappertutto, sappiamo in anticipo che nelle file proletarie alzerebbero la cresta coloro che inneggiano sempre a qualcosa di perduto, sia esso la democrazia, lo Stato centrale, la libertà, la pace, l'autonomia locale o qualche altro oggetto da crociata per cui essere partigiani, come abbiamo ben visto in questo ultimo mezzo secolo e in ultimo contro il "fascista" Berlusconi. I comunisti non hanno niente da perdere in questa società, solo cose da distruggere; e quando qualche rappresentanza delle classi non proletarie diventasse un elemento di grave crisi dello stato di cose presente, non potrebbero far altro che dire: benissimo, sta lavorando per noi.

Per esempio vi fu un tempo, dopo l'ultima guerra mondiale, in cui si parlò fra proletari di federalismo, di autodeterminazione, di liberà nazionale, di Stati Uniti d'Europa e naturalmente di pace, dopo l'immane carneficina che aveva provocato ottanta milioni di morti ammazzati. Ma erano argomenti venuti da altre classi, e sia Lenin che Trotzky avevano già messo in guardia molto tempo prima sul come affrontare questioni non nostre, anche se poste dalla storia come problema da risolvere. La Sinistra riprese tali questioni e cominciò col ribadire che sempre

"i comunisti più coscienti, la minoranza di avanguardia tra i lavoratori, sono in grado di intendere che sulla costituzione dello Stato non deve aversi altro obiettivo che quello della dittatura proletaria, dopo lo spezzamento delle presenti macchine di potere" (83).

Ma più che altro, soprattutto nella nostra epoca, non possono mai essere accettate soluzioni tattiche come espedienti per accelerare la formazione di situazioni rivoluzionarie, specie nel campo dei rapporti fra classi e fra Stati. Allora poteva sembrare che l'Unione Europea o, viceversa, l'autonomia locale, oppure la neutralità o il patto di difesa comune, potessero essere, secondo differenti punti di vista, soluzioni per evitare i massacri e le guerre, le crisi e la disoccupazione ecc. che i proletari avevano provato sulla loro pelle:

"Tale generoso scorcio di strategia rivoluzionaria, anche quando veniva da origini non sospette, traverso una serie di disastrose esperienze ha sempre dimostrato di cadere nel gioco delle insidie opportuniste, nella confusione tra le vere forze di classe e quelle equivoche che si accampano nelle frange di contatto tra il proletariato avanzato e la grande borghesia, nella conseguenza, completamente negativa, che sono stati proprio gli elementi più preparati e maturi nella teoria e nella milizia di partito a slittare verso la sostituzione al programma rivoluzionario di insidiosi miraggi piccolo borghesi, vuoti, addormentatori, disfattisti".

Aprile 1998

Note

(64) Da Ex uno plures cit.

(65) The Economist, "Schools Brief", otto articoli sulla globalizzazione pubblicati a partire dal 18 ottobre 1997. Lo studio termina, tra l'altro, con la constatazione che, nonostante i propositi generalizzati di liberalizzazione, gli Stati sono più forti che mai.

(66) La commistione di individualismo e totalitarismo populista socialisteggiante nella Lega è naturalmente una caricatura dei classici. Citiamo da Drieu La Rochelle: "Che cos'è dopo tutto il fascismo? E' il nome che prende nel nostro secolo l'esigenza eterna degli uomini. Vivere più in fretta e vivere con più forza [...] Essere fascista significa sapere che non si può fare altro che il socialismo [...] Consiste nel voler fare il socialismo senza sbraitare che lo si farà, ma al contrario nel farlo senza un programma astratto, realizzando tuttavia qualcosa ogni giorno" (citato in: Autori vari, Drieu La Rochelle, il mito dell'Europa, Edizioni del Solstizio, pag. 80). Anche il "celodurismo" leghista della prima ora è già stato abbondantemente sviscerato nei suoi meno caserecci precedenti (e forse più che nelle dotte opere sulla sociologia e psicologia del fascismo, nell'esilarante operetta di Carlo Emilio Gadda sulla sua estetica, intitolata Eros e Priapo, ediz. Garzanti).

(67) Vi sono almeno tre elementi puramente matematici che concorrono a formare un attrattore gravitazionale di centro: 1) l'adeguamento dei programmi elettorali dei partiti al centro della curva gaussiana sulle "preferenze" degli elettori; 2) l'interazione verticale tra elettori ed eletti, che nel tempo tende a smussarne le differenze e ad ampliare il centro della stessa curva; 3) il comportamento stocastico delle molecole elettorali individuali, che in senso orizzontale si influenzano a vicenda sulla base di informazione indifferenziata (i mass-media sono anch'essi interattivi) e producono due fenomeni collaterali: a) un'omologazione al centro delle "opinioni" e, contraddittoriamente, b) una polarizzazione sociale totalitaria di insofferenza verso le differenze, cioè verso le componenti minoritarie. Tutto ciò è stato sperimentato in modo del tutto asettico inserendo nei modelli parametri che non c'entrano nulla con la politica e dimostrando, almeno su questo piano, che la tendenza al centro è un fatto indipendente da ciò che pensano i vari capi politici in un sistema elettorale qualsiasi. Questi modelli naturalmente non tengono in nessun conto i processi storici ed economici che ci interessano, ma rivelano ugualmente interessanti automatismi di comportamento presenti nell'attuale società (cfr. anche i "Quaderni delle Scienze" nn. 81 e 98 intitolati Modelli matematici e Caso, probabilità e statistica, rispettivamente a pagg. 86 e 35).

(68) "Uniti per la Padania Libera", intervento di Umberto Bossi al III Congresso della Lega Nord, 15.2.97, pubblicato su La Padania.

(69) Ibid. La reazione della "gente" contro il governo è sempre vista da Bossi in senso distruttivo: "La Lega Nord è nata per la libertà di tutto il Nord, per mettere insieme la forza necessaria a battere gli altri; se non batti gli altri non cambia niente, resti schiavo. Il primo atto è sconfiggere gli altri... Quando a Roma lanciano i venetisti, i lombardisti o chi altri, sperano che si divida in qualche modo una potenza colossale, una forza della natura contro cui non c'è niente da fare" ("La Padania, immensa e forte come l'Oceano Pacifico", intervento di U. Bossi al parlamento padano, 14 giugno 1997).

(70) K. Marx, Lavoro salariato e Capitale, Editori Riuniti, pag. 53.

(71) Nonostante ciò, sono fioriti gli esercizi su scenari tra l'apocalittico e il comico, proiezioni del tutto mentali. Sulla rivista Limes si può leggere "Scene da una secessione" (n. 3 del 1996) dove si prospetta uno scenario jugoslavo, uno cecoslovacco, uno belga e uno sovietico.

(72) Ilvo Diamanti, sociologo alle Università di Padova e Urbino sulla rivista Limes ("Il Nord senza l'Italia?", n. 1 del 1996).

(73) Bossi in una nota trasmessa da Radio Radicale a fine febbraio 1998.

(74) Fondaz. Agnelli, "Il nostro progetto geopolitico", Limes n. 4 del 1994.

(75) Geminello Alvi, economista e pubblicista in una intervista a Limes ("La retorica europeista nel mondo americanizzato", n. 3 del 1996).

(76) Persino D'Alema fa autocritica e riconosce che il suo partito ha sbagliato per troppo centralismo e che deve ritornare ad una politica del territorio per riavere i militanti persi. Interessante anche la sua critica all'impostazione aziendalista del sindacato organizzato per consigli di fabbrica: "Non escluderei una sensibilizzazione di tutti i nostri iscritti per un ritorno all'organizzazione territoriale del sindacato come fu quella della CGIL storica" (Massimo D'Alema ad un convegno di quadri del PDS trasmesso da Radio Radicale il 2 marzo 1998).

(77) G. Alvi, Limes cit. n. 3 del 1996.

(78) Roberto Maroni, deputato della Lega ed ex ministro dell'Interno in "O federalismo subito o indipendenza", Limes n. 1 del 1996.

(79) Mario Carraro, presidente degli industriali veneti e partecipe al movimento "trasversale" dei sindaci di Venezia e Trieste per un federalismo democratico. "O federalismo subito o indipendenza", Limes n. 1 del 1996.

(80) Quando Internet fu lasciata dall'apparato militare americano alle università prima e ad un ristretto pubblico poi, ne fecero maggior uso gli utenti del mondo non sviluppato che quelli delle metropoli, i quali avevano già a disposizione mezzi sofisticati per comunicare. Per quanto riguarda i distretti industriali, Marx ne parla di continuo nel Capitale chiamandoli esattamente così.

(81) "Cacciari: così il mio movimento", La Repubblica del 13 genn. 1998.

(82) A. Bordiga, Deretano di piombo, cervello marxista, ora in Dialogato con Stalin, ed. Quad. Int.

(83) United States of Europa, in Prometeo n. 14 del 1950. Ora in Bussole impazzite, ed. Quad. Int. (anche la citazione successiva).

Fine

Lettere ai compagni