39. Il comunismo non è un'idea ma una forza materiale che anticipa il futuro (1)

Il testo che segue è la trascrizione delle registrazioni effettuate durante l'incontro del 14 giugno scorso a Roma (1). Il tema era stato proposto in alcune riunioni che si erano tenute precedentemente e in seguito è stato oggetto di approfondimenti nel contesto di un lavoro sul comunismo già iniziato da tempo e inserito nel programma di pubblicazioni.

La riunione del 14 si è articolata in quattro tempi: al mattino, una introduzione generale, un richiamo alle costanti del nostro lavoro e la relazione sul tema centrale; al pomeriggio le domande degli intervenuti e le risposte. Tralasciamo, in questa Lettera, la parte dell'introduzione che, rispondendo all'esigenza manifestata da alcuni compagni presenti, inquadrava a grandi linee la grave crisi economica partita dall'Asia. Per noi tutto ciò che succede nel mondo capitalistico è sempre in tema col comunismo, tuttavia, siccome siamo costretti ad affrontare una cosa per volta, abbiamo tagliato questa parte rimandando le osservazioni sulla crisi, utili al lavoro complessivo, alla prossima Lettera n. 40, che tratterà della cosiddetta globalizzazione dell'economia.

Si sono rivelati indispensabili anche alcuni tagli a causa della lunghezza del testo originale, mentre abbiamo sviluppato con qualche riga in più alcuni argomenti che nella riunione erano stati appena sfiorati, e cioè quelli sugli "iperuranici", sulla lettera di Marx al padre, sulle determinazioni del partito e sulla semplificazione dei rapporti capitalistici.

Per il resto abbiamo mantenuto tale e quale la struttura della riunione, anche per quanto riguarda domande e risposte, in modo da trasmettere, nei limiti del possibile, gli aspetti della discussione che per noi non è mai dibattito fra tesi in contrasto ma ricerca e militanza comune. A questo proposito il lettore noterà, e ne tenga conto per valutare quanto sia difficile oggi parlare di comunismo, che le domande seguite alle relazioni sono quasi del tutto "fuori tema". Nonostante il nostro appello perché ciò non si verificasse sia stato più radicale di quanto qui non appaia, è evidente che la pulsione verso l'immediatezza sindacale e attivistica è più potente che non quella verso il comunismo. Questo non è solo un errore, è l'autentica tragedia che vivono da settant'anni tutti i veri comunisti.

1. Come si marcia verso la società nuova

Il tema dell'incontro odierno sembrerebbe poco adatto ad essere introdotto con alcune considerazioni sull'attualità, sulla crisi che da una decina di mesi congela le nuove economie dell'Asia, rischia di propagarsi al Giappone e mette in pericolo molte certezze sulla salute dell'economia mondiale. Va da sé che il nostro modo di affrontare l'attualità non ha nulla a che fare con i rotocalchi e che abbiamo sempre in mente, come linea guida, il metodo utilizzato negli articoli della serie "Sul Filo del Tempo", dove l'oggi non era che un momento del passaggio fra la condizione di ieri e quella di domani.

Uno studio specifico sulla crisi iniziata in Asia e sul cosiddetto capitalismo globale sarà oggetto di una prossima Lettera ai compagni. Qui vogliamo però anticipare un paio di punti per dimostrare che i marxisti non possono parlare di comunismo senza parlare, nello stesso tempo, della dinamica e delle forze materiali che lo rendono possibile. Chiunque conosca appena un po' degli scritti di Marx, sa che egli aveva dichiarato guerra ad ogni concezione che facesse del comunismo un oggetto di speculazione filosofica, un'utopia, un modello da raggiungere, un prodotto del pensiero di qualche riformatore del mondo alle cui idee gli uomini dovrebbero adeguarsi in quanto buone, o generose, o giuste.

Il nocciolo su cui tutta la grande costruzione di Marx si impernia è costituito da tre elementi fondamentali: primo, lo sviluppo delle forze produttive; secondo, il modo di produzione che storicamente ad esso corrisponde e che ad un certo punto diventa un impiccio allo sviluppo ulteriore; terzo, la costituzione in classe della forza antagonista che è destinata a produrre e sancire il cambiamento sociale. Quest'ultimo punto ha un corollario altrettanto fondamentale: in certi momenti la classe è portata a superare la sua condizione puramente anagrafica, statistica; supera la sua condizione di classe all'interno e al servizio di una determinata società per giungere alla condizione di classe per sé, di classe che agisce per la sua propria emancipazione. Per un comunista questo è l'abbiccì, perché il proletariato, essendo l'ultima classe possibile, emancipa l'umanità intera emancipando sé stesso. I borghesi ovviamente escludono il discorso di classe, ma quel che è interessante notare è che la potente concezione marxista sulla dinamica generale del percorso umano in relazione alla natura sta filtrando anche nella scienza borghese. Superando la filosofia come interpretazione del mondo e unificando la scienza, la borghesia capitola ideologicamente di fronte al marxismo. Questa, per la Sinistra, è una delle dimostrazioni che il partito storico lavora in continuazione, è sempre presente. Per la Sinistra, questo convergere dell'umanità sui temi della teoria di Marx, se pure non cosciente, è la condizione materiale che rende possibile la fusione, l'armonizzazione del partito storico, che non muore mai, con il partito formale, che invece ha un'esistenza tribolata. Come un qualsiasi organismo, il partito formale nasce, vive, raggiunge grandi vertici o si abbassa a tradimenti tragici, infine muore lasciando insegnamenti e moniti per la nuova fase in cui rinascerà, necessariamente superando la forma precedente. Ma è attraverso l'organamento in partito politico che la classe diventa rivoluzionaria. Oppure non è nulla, come dice Marx.

Le conseguenze di questo schema sono arcinote anche se per lo più disattese: il partito storico della rivoluzione poggia sulle potenzialità della classe proletaria, ma tale potenzialità può tradursi in un processo formale (partito, organizzazione, rapporto con masse di uomini organizzati) solo in qualche momento della storia e peraltro in modo per nulla scontato. Se le condizioni "potenziali" per la rivoluzione comunista in Occidente sono mature almeno dal tempo della Comune di Parigi, sono mancate le condizioni "cinetiche" adatte. In qualche occasione tali condizioni della classe sono definite "soggettive", in quanto la dinamica rivoluzionaria deve fare assegnamento sulle persone fisiche in lotta. Quindi, il vero problema è che quando non vi è movimento di numeri significativi di uomini verso il cambiamento, significa che non si è potuto saldare il partito storico con quello formale. Vale a dire che esisteva magari l'organizzazione di grandi masse con interessi omogenei ed esisteva il partito politico, ma questo non era il rappresentante del programma futuro, della società futura (Manifesto), bensì un agente della sua stessa conservazione all'interno della società così com'è.

Per non fare grossolani errori di valutazione sulla dinamica sociale, dobbiamo prima di tutto individuare quali sono le potenzialità, quale può essere il processo di saldatura fra il partito storico e il partito formale, come quest'ultimo rappresenta effettivamente il futuro del movimento che muove l'umanità intera. Nella scorsa Lettera sul feticcio dei mercati, ponemmo al centro di tutte le nostre considerazioni l'osservazione di Marx secondo cui, nel mondo del Capitale, tutto va bene fin quando vi è garanzia di estorsione di plusvalore. Questa garanzia può essere anche data da un'ipoteca sull'estorsione futura di plusvalore, e allora può accrescersi la speculazione, il valore fittizio del capitale finanziario, il valore degli immobili, la quota di valore che finisce alla rendita, l'idea che vi possa essere davvero quella che gli stessi borghesi chiamano economia casinò.

Boom individuale e ristagno sociale

Il meccanismo della crisi capitalistica è sempre lo stesso, anche se i borghesi vi hanno visto di volta in volta cause specifiche diverse: offerta esuberante, flessione della domanda, tensione dei prezzi nel campo delle materie prime e dei semilavorati, problemi monetari ecc. In realtà sappiamo che si tratta sempre della formazione-realizzazione del plusvalore nel ciclo produttivo. Ma dal 1929 in poi è indubbio che la preminenza del capitale finanziario (da prestito) ha posto il problema della crisi in modo, per così dire, orientato: non si tratta più di crisi dovute ad una causa scatenante qualsiasi durante un ciclo di accumulazione, ma di crisi dovute all'impossibilità di garantire in qualche modo i "rendimenti" futuri dei capitali. Questo vedremo di dimostrarlo, ma già abbiamo una potente traccia in Marx, quella che abbiamo adoperato nella nostra scorsa Lettera sui mercati e, indirettamente, anche in quella sulla Padania, quando affrontammo il problema dell'assetto territoriale delle strutture capitalistiche nell'epoca della centralizzazione massima del Capitale, quindi della sua finanziarizzazione.

E' venuto dunque a mancare uno dei presupposti della sicurezza sull’estorsione futura di plusvalore. "Futuro" per il capitalismo vuol dire tre, quattro, sei mesi al massimo, dato che, come abbiamo più volte ricordato, nessun capitalista oggi, o nessuna organizzazione capitalistica, può immaginare investimenti a 50 anni come succedeva nel secolo scorso. Se oggi si investe - per esempio - in buoni del tesoro pluridecennali, è solo perché si sa che questi stessi sono commerciabili come moneta corrente anche il giorno dopo. Ma nessun consiglio di amministrazione approva più investimenti in impianti se non si prevede che questi producano un ritorno a breve, nessuno pianta più alberi di mogano in India, come al tempo del capitalismo rampante.

La difficoltà di accumulazione nei paesi asiatici ha abbassato la soglia di rendimento dei capitali investiti, che sono poi in massima parte quelli dei fondi di investimento e assicurativi, collocati attraverso il sistema bancario. Ciò ha provocato lo spostamento di enormi masse di capitale verso luoghi più sicuri e ha lasciato le banche in gravi difficoltà. Il termine "enormi" non è un'iperbole gratuita. Si pensi che ogni giorno vengono compiute transazioni in valuta per un corrispondente di 1.500 miliardi di dollari, più di tutto il valore prodotto ex novo in un anno da un paese come l'Italia, o la Francia o l'Inghilterra. Questo movimento di capitali non è rappresentato solo da capitali industriali o speculativi, ma da risparmi (soprattutto americani) per le future pensioni, per l'assicurazione contro le malattie o per semplice investimento in attesa di futuri consumi. La massa totale dei fondi d'investimento non è nota, ma si stima che si aggiri intorno ai 10.000 miliardi di dollari. Ora, il dato non ci serve tanto per stabilire il tasso di finanziarizzazione del capitale mondiale (per far questo bisognerebbe aggiungere anche tutta la capitalizzazione in borsa, tolti gli investimenti produttivi, e ogni traffico basato su cambiali scontabili e su titoli di ogni genere), ma per notare quanto l'integrazione capitalistica mondiale abbia coinvolto non solo i capitalisti ma anche masse di uomini che capitalisti non sono. Chiunque sia in possesso della ricevuta di un risparmio gestito, anche se non è investitore diretto, è comunque azionista di qualche industria, tagliatore di cedole di buoni statali, prestatore di denaro a qualche sistema bancario.

L'integrazione capitalistica mondiale è anche un fatto di classe che dimostra da una parte l'alienazione totale del lavoro rispetto al suo fine (merce, denaro), dall'altra la socializzazione estrema della produzione mondiale, già analizzata da Marx, definita da Lenin come "capitalismo di transizione" ed ora grandeggiante.

I borghesi sono seriamente preoccupati da questi fenomeni che sfuggono sempre più alla loro comprensione e al loro controllo. Non sanno neppure più quali siano i veri parametri per stabilire se l'economia goda di buona salute oppure no. Se infatti il valore prodotto ex novo in un anno (PIL) si incrementa di pochi punti percentuali, è chiaro che, essendo esso la somma di tutti i salari e di tutti i profitti, l'economia dei paesi sviluppati è asfittica. Ma i capitalisti guardano agli utili e questi crescono. Come mai? Crescono gli utili individuali ma ristagna il prodotto complessivo, proprio come descrive Marx a proposito del passaggio dalla concentrazione alla centralizzazione dei capitali. La situazione è paradossale: il capitalista singolo è soddisfatto, mentre l'economista borghese, che guarda alla macroeconomia, è altamente perplesso, quando non impaurito. Il comunista sa che entrambi stanno lavorando contro sé stessi e per la società futura; è come se nel gran cantiere dello sviluppo delle forze produttive avessero messo il cartello dei lavori in corso rivolto al futuro: stiamo lavorando per voi. Essi non lo vedono, ma i marxisti, in quanto rappresentanti del futuro, sì. C'è infatti qualcosa che non va in una economia asfittica cui corrisponde una vigorosa ascesa delle forze produttive attraverso nuove tecnologie, nuovi metodi, nuovi materiali, nuova conoscenza.

Maneggiare i dati della borghesia

C'è qualcosa che non va in un'economia che langue dal punto di vista del valore complessivo prodotto e si esalta nell'aumento strabiliante dei singoli profitti. Questo qualcosa che non va, da diversi anni, noi lo vediamo, con Marx, nell'ascesa della forza produttiva sociale che cozza contro la soffocante camicia di forza del modo di produzione capitalistico. La contraddizione fra l'altissima produttività locale e la bassissima produttività sociale è esplosiva come non mai. Si guardi per esempio il colosso economico e produttivo tedesco: ha il prodotto lordo più alto d'Europa e il sistema industriale più potente, tanto da essere tradizionalmente esportatore netto. Ha il sistema finanziario più solido, tanto che tramite la sua banca centrale detta legge all'intera Comunità Europea. Ha le industrie più automatizzate, moderne e meglio organizzate, vale a dire che estorce la massima quantità di plusvalore relativo. Tre delle cinque maggiori industrie chimico-farmaceutiche del mondo, Bayer, Basf e Hoechst sono tedesche, e la chimica è l'industria che meno richiede lavoro umano. Nel campo della meccanica, automobile compresa, non ha rivali (ricordiamo che l'automobile, mezzo di trasporto solo un po' meno antiquato della carrozza, è però costruita con le metodologie e la tecnica più avanzata che ci sia). Ebbene, la Germania ha una produttività generale molto bassa: con un PIL che è quasi il doppio di quello italiano (in Euro), e con una popolazione che è solo il 25% in più, secondo i parametri europei di compatibilità ha un prodotto pro capite uguale. In termini marxisti ciò significa che il prezzo di produzione generale in Germania è molto più alto che in Italia e che quindi la produttività generale del sistema è più bassa. Com'è possibile?

Riflettiamo un po': la Germania non ha una patologia "meridionale", a parte l'area dell'ex Germania Est, che non è neppure lontanamente paragonabile all'italico Sud (ha solo 8 milioni di abitanti, come la Sicilia); ha il sistema sociale meglio controllato rispetto a tanti altri paesi d'Europa; ha un territorio piatto, infinitamente più agevole per l'agricoltura e meno costoso per le infrastrutture (e piove regolarmente). Ma ha il 50% della popolazione occupata, mentre in Italia il tasso di occupazione è del 35%. Ciò significa che in Germania la caduta del saggio di profitto, dovuta ai settori con alta composizione organica di capitale, ha prodotto la sua controtendenza, che si è manifestata attraverso il mantenimento di ampie sfere della produzione con bassa composizione organica di capitale, mentre in Italia, per ragioni storiche non indagabili adesso, si è raggiunto lo stesso scopo con un minore ricorso alla manodopera, quindi ridistribuendo in maggior misura il plusvalore nella società. In parole povere mantenendo in qualche modo il 65% della popolazione a far niente.

Questo paragone fra due paesi con problemi di accumulazione diversi ma riconducibili entrambi alla formazione del plusvalore, ci serve a fare un altro paragone, quello con l'economia delle cosiddette tigri asiatiche, dove la modernità degli impianti e dei servizi è più alta di quella media occidentale e dove quindi la sovrappopolazione relativa è maggiore. In questo stesso paragone vediamo che c'è la spiegazione marxista della crisi asiatica, senza ricorrere a nebulose ipotesi sul comportamento delle banche, dei capitalisti o del Fondo Monetario Internazionale.

Infatti, è banale, ad alto rendimento, ad alta produttività, ad alta composizione organica di capitale, deve corrispondere un basso saggio di profitto e, se non vi è possibilità di mettere in atto una controtendenza, è la crisi. Non è vero che in Asia c'è un alto saggio generale di profitto. C'è un altissimo profitto d'impresa, quello che ha fatto muovere masse enormi di capitali in quella direzione, ma ogni marxista dovrebbe sapere che quello che ci interessa è il saggio sociale, non quello individuale (il conto di classe, come lo chiamava Bordiga).

Nessuno può negare che la miracolosa capitalistica Cina, dai tassi di crescita a due cifre fino all'anno scorso, ha una produttività locale elevatissima e riesce ad estorcere plusvalore sia relativo che assoluto in quantità ormai sconosciute in Occidente. Ma non c'è confronto possibile con le antiche accumulazioni primitive dell'Europa, che fanno ormai parte di un passato che non può tornare. Ed è proprio per questo che la Cina deve fare i conti con almeno duecento milioni di disoccupati. L'economista borghese, accecato dai numeri, vede un radioso futuro dove noi vediamo contraddizioni catastrofiche. Non agognava forse l'Eldorado capitalistico nella nuova Russia? Era ed è esaltato dalla presunta vittoria del capitalismo sul comunismo. Ebbene, è stato servito La nuova società non è un'idea, un'utopia: essa spinge per distruggere lo stato di cose presente, come è già ben descritto negli scritti giovanili di Marx, e di distruzione se ne vede parecchia in giro. Come aspettavamo al varco, pazienti, gli esaltatori del mercato vergine che si apriva all'Est ("mezzo miliardo di nuovi consumatori!" - gridavano), adesso aspettiamo al varco gli esaltatori delle nuove città cinesi di vetro e di acciaio: non è per nulla azzardato prevedere che molti grattacieli resteranno vuoti, assediati da una massa di esclusi. L'Asia è una polveriera, non un polmone di ossigeno per il capitalismo asfittico. Figuriamoci le altre aree.

Ridimensionati trionfi

Ma al rivoluzionario comunista non bastano le disgrazie del capitalismo, la sua crisi senescente, il suo encefalogramma piatto: la sua indagine deve comprendere lo stato della forza soggettiva della rivoluzione, lo stato del proletariato e del suo partito. E' qui che il comunista ha grossi problemi se non è saldo nei princìpi. La situazione sotto gli occhi di tutti è materialisticamente determinata ed egli sa che nessuna "buona volontà" al mondo potrà capovolgerla. Egli sa che non si fanno le rivoluzioni né i partiti, ma che rivoluzioni e partiti si dirigono e che per dirigere rivoluzioni e partiti occorrono le risorse adatte. E risorse adatte significa dottrina adatta, partito adatto. Qui sta il pericolo, dove l'impazienza può minare la fermezza scientifica e far abbracciare l'illusione che vi siano scorciatoie, espedienti, pensamenti vari, che possano far diventare la situazione diversa da quella che è.

La situazione sarà diversa, ma non dipenderà dalla volontà di qualche individuo o gruppo spazientito. E' per questo che bisogna tener d'occhio lo sviluppo delle forze produttive, il rapporto fra la ricchezza complessiva prodotta e il profitto del singolo capitalista. Quest'ultimo, inebriato dal suo proprio successo, trionfante sul concorrente annientato e sul proletario asservito, teorizzerà la sconfitta del marxismo proprio mentre quest'ultimo celebra la sua vittoria dottrinale. Il comunista povero in dottrina, demoralizzato dal trionfo fasullo del nemico, propenderà per disperati espedienti senza storia invece di godere in pieno la vittoria teorica e mettersi in armonia col partito storico, unica vera garanzia per il successo del partito formale.

Il capitalismo si salva ristrutturandosi, diciamo così, attraverso le crisi. Ma se le crisi non sono più in grado, come nel secolo scorso, di distruggere abbastanza capitali (lo sciupìo massimo è già la massima distruzione di capitale potenziale), di eliminare abbastanza capitalisti (sono già stati eliminati); se non sono più malattie acute che partono da un settore o da un'area per diffondersi come un'epidemia (la centralizzazione integra i settori diversi); se diventano una malattia cronica che interessa il globo intero (come già intravide Engels), la faccenda si fa molto interessante per noi. Fino alla Prima Guerra Mondiale la crisi di un settore o di un paese o di un intera area del mondo significava salvezza per un'altra area perché i capitali si spostavano, andavano ad investirsi dove più alta era l'aspettativa di pay-back, di ritorno utile. Con la grande crisi degli anni '30 i problemi si sono mondializzati. Ora l'aspettativa si fa sempre più sfumata, la certezza sparisce nell'economia-casinò.

Stiamo assistendo da un po' di anni al fatto che i capitali si spostano freneticamente senza che vi sia nulla di materiale a garantire la sicurezza nell’estorsione presente e futura del plusvalore. Le nostre formule sono inesorabili. E' infatti evidente che se si trae da Marx ogni conseguenza possibile, il capitalismo troverebbe la sua vita eterna solo in un aumento continuo di tutti i parametri che regolano la sua esistenza: il numero dei capitalisti o il numero delle fabbriche; il numero degli operai e la quantità del salario complessivo; la massa degli investimenti e la possibilità di utilizzare gli impianti al 100%; la quantità di merci e la possibilità di un loro consumo. Ma non è, né può essere, così.

Energia potenziale e cinetica

Nel nostro primo Quaderno, il cui contenuto risale all'83, mostrammo un diagramma dell'andamento capitalistico sulla base della produzione industriale dei sei maggiori paesi industriali dal 1870 al 1982. Erano visibili le crisi e le riprese economiche, le oscillazioni favorevoli e le grandi depressioni del '29 e del '75, ma ciò che sottolineammo con forza fu soprattutto la sincronizzazione dei movimenti nel tempo e la convergenza del fascio di grafici verso una zona ristretta e "piatta" poco al di sopra dello zero. Da un punto di vista fisico la sincronia è sempre vista con apprensione. Tutti hanno sentito dire che quando un gruppo di soldati marciava su un ponte, si dava l'ordine di rompere la cadenza del passo per non creare vibrazioni sincroniche in grado di sgretolare gli archi. Anche se non fosse vero, nel senso che la maggior parte dei ponti forse resisterebbe benissimo, il principio è esatto. Per esempio i ponti sospesi vengono progettati in modo da evitare che le oscillazioni dovute a venti o terremoti entrino in risonanza. In economia succede la stessa cosa. Quando c’è una risonanza, quando c’è una oscillazione sincronica le cose vanno molto male: non è più possibile sfruttare la differenza tra settori e aree per ripartire con un nuovo ciclo di accumulazione. Immaginiamo che cosa succederebbe se tutto ad un tratto non vi fossero differenze, se cioè il capitale finanziario non potesse più fare le lucrose operazioni di routine tipo arbitraggio, cioè comprare titoli, merci o valute dove costano poco e rivenderle contestualmente dove si ricava molto. Eppure è l'arbitraggio che limita le differenze, facendo salire i prezzi dove sono bassi e facendoli abbassare dove sono alti. Sembrerebbe che il capitalismo lavori per sopprimere le differenze, inglobando man mano le aree del mondo non ancora sviluppate, e per certi versi è così, ma la concorrenza ha due facce. Mentre ognuno lavora normalmente per rimanere sul mercato (cioè rimanere "competitivo", che vuol dire rimanere nella media o, in altre parole, sopprimere la differenza) la tendenza dei più forti, abili o semplicemente fortunati, è quella di buttare fuori mercato i concorrenti, cioè di esaltare la differenza.

E' in questo ciclo infernale che si sviluppano le condizioni per la società futura. L’osservazione è già di Marx e di Engels, quando notano che è il capitalismo il primo espropriatore di capitalisti, il primo elemento materiale che sancisce la loro inutilità storica. Engels nell'Antidühring ci offre una eloquente sequenza della transizione materiale al comunismo prima ancora che la questione sia risolta da una rivoluzione e dalla conquista politica del potere. Certo, senza il fatto politico si tratta di una potenzialità, ma stabilito che questa è reale, l'unica incognita che rimane è il tempo in cui essa si tramuterà in fatto cinetico, attuale. Engels, verso la fine del secolo scorso, aveva notato che i cicli di crisi si avvicinano nel tempo e si abbassano di livello; era una conferma di quanto egli stesso aveva detto nella prefazione all'edizione inglese del Capitale, nel 1886, cioè che si andava verso la palude di una depressione cronica.

Se si osserva la storia del capitalismo da allora ad oggi senza il filtro della propaganda borghese, si vede che Engels non è stato affatto smentito. Egli basava la sua affermazione sul fatto che la forza produttiva avanzava con potenzialità geometriche, mentre il mercato a malapena progrediva con proporzione aritmetica. Questa è l'essenza del lavoro della Sinistra sul "vulcano della produzione" e sulla "palude del mercato". Ebbene, il vulcano della produzione si sfogò nella creazione di nuovi mercati con l'esplosione del colonialismo, e il ciclo favorevole susseguente precipitò l'Europa nella prima grande guerra imperialistica. Quest'ultima non risolse nessun problema, anzi, fu necessario il suo compimento, la Seconda Guerra Mondiale, che sancì la supremazia americana sul mondo. Ricordiamo che gli americani furono i più ferventi anticolonialisti, molto più pratici di tanti terzomondisti dell'epoca, dato che spazzarono via ogni possibilità di controllo delle aree coloniali da parte delle vecchie potenze europee. Ma spazzando la concorrenza unificarono il mondo, fatto positivo per noi. Certo, molto positivo anche per gli americani, che trovarono il modo di vivere alle spalle degli altri, ma deleterio per il futuro del capitalismo nel suo insieme. Facciamo attenzione, trovarono il modo di vivere alle spalle degli altri capitalismi, cioè sul proletariato mondiale, non su masse colonizzate non proletarie. Questo è il comunismo che lavora.

La rivoluzione che lavora

Per capire ciò che è successo negli anni recenti e tentare di anticipare i fenomeni futuri, dobbiamo badare alla grande tendenza generale. Per quanto sia difficile non farsi influenzare da singoli avvenimenti, sia pure grandiosi e tragici, un'astrazione dalla particolarità della cronaca è la sola garanzia che ci permetta di individuare la maturazione del capitalismo verso la sua fase senile, quella comatosa, quella con il metabolismo al limite della sopravvivenza. Ogni spiegazione dei fatti e ogni tentativo di indagine non può basarsi sulle passioni di ogni singolo militante, che vorrebbe la società futura (chiamata a volte comunismo) più vicino di quanto non sia. I nostri dati sono elementari, per nulla sofisticati; sono in fondo quelli del grande diagramma, iniziato dai nostri vecchi compagni quarant'anni fa e proiettato da noi ai giorni nostri. Lì abbiamo l'andamento del saggio di profitto, parametro fondamentale per la misura della vitalità del capitalismo. Lì abbiamo sotto agli occhi il trend nemico, come dicono gli economisti, ma anche un forte segno di quanto prema la società futura per nascere.

A forza di guardare in televisione e sulle patinate riviste le sfavillanti metropoli del capitalismo occidentale e orientale, i grattacieli che svettano sulle giungle circostanti (in senso sia urbano che botanico) molti hanno dimenticato quale sia l'essenza del capitalismo. Ci sono centinaia di milioni di uomini, forse miliardi, che non sono più contadini ma non sono neppure entrati nel ciclo produttivo. Il Cairo ha venti milioni di abitanti. Città del Messico ne ha venticinque milioni. Bombay ha forse trenta milioni di abitanti, nessuno lo sa di preciso. I nuovi distretti industriali e commerciali cinesi hanno già urbanizzato immense nuove aree su cui si stanno insediando centinaia di milioni di uomini e innumerevoli altri poli di attrazione di masse miserabili e disperate dell'Asia, dell'Africa e dell'America Latina marciano verso quei traguardi. Ma la maggior parte di questi uomini non producono. Vivono della produzione di pochi. Guai al capitalismo, dice Marx, quando invece di sfruttare i suoi schiavi dovesse mantenerli, come successe all'antica Roma prima di collassare.

Tutta questa premessa per dire che se oggi parliamo di argomenti che riguardano il comunismo, non intendiamo con questo parlare semplicemente di una società a venire e per di più chissà quando. Dobbiamo intendere, con Marx, la presenza del comunismo come una forza che plasma il futuro, ma già oggi, anche mentre non esiste una forza soggettiva rivoluzionaria. La dinamica del comunismo si esprime attraverso fatti molto materiali che possono essere individuati in tutto ciò che riguarda lo sviluppo della forza produttiva sociale e in ciò che le si oppone. La volta scorsa, parlando della Padania e di Bossi, abbiamo scritto sulle determinazioni materiali, sulle ragioni produttive, industriali, commerciali, che influenzano o addirittura determinano le politiche delle classi. Oggi ci occuperemo delle determinazioni che portano non ad una qualche politica particolare, ma ad un rovesciamento totale, o meglio ad un superamento positivo dell'economia e della politica, ad una società completamente nuova.

Note

(1) Questi incontri vedono riuniti i compagni e i lettori almeno una volta l'anno e sono una regola dal 1993. Scorrendo i temi all'indietro nel tempo: dall'incontro del 1997 è scaturita la Lettera Utopia, scienza e azione; a inizio e fine 1996 Il feticcio dei mercati e Militanti della rivoluzione; nel 1995 La questione italiana; nel 1994 Demoni pericolosi e, nel 1993, Dieci anni. Gli arretrati delle Lettere sono disponibili presso i Quaderni internazionalisti.

Lettere ai compagni