Diritto di autodecisione?

[…] La sequenza storica per la "questione nazionale" comunque è agevole da individuare: 1) Marx ed Engels (irlandesi, polacchi e slavi, per sintetizzare); 2) Seconda Internazionale e polemica con le forze della futura Terza (Kautsky, Rosa Luxemburg e il Lenin dell'anti-Luxemburg e anti-Piatakov); 3) la Sinistra Comunista ( Fattori di razza e nazione ). Fin qui tutto corre liscio, ma è proprio in Fattori che si dimostra come la sequenza non possa essere interrotta né al '20 né al '50, e come la maturazione delle aree geostoriche comporti importanti e decisive conseguenze per gli anni che seguono. Tutti gli articoli scritti in quegli anni non fanno che confermare.

Dicevo: " La questione principale è che con la maturità del capitalismo non scompaiono i problemi ereditati dalle vecchie società, ma essi possono essere risolti solo dalla rivoluzione proletaria che in certi casi si assume compiti non prettamente suoi ". E aggiungevo che questo problema è già risolto chiaramente in Lenin (Due tattiche). La Sinistra ribadisce la posizione di Lenin, ma imposta il suo anti-indifferentismo sulla base di una dinamica storica giunta al culmine: negli anni '50 ci si avvicinava già alla fine del ciclo coloniale propriamente detto e il nazionalismo, quello che " infiammava i cuori dei nostri nonni" stava diventando, nell'epoca moderna, un'altra cosa. Che cosa? Precisamente un fenomeno indotto dagli scontri fra i massimi imperialismi sui vasi di coccio (piccoli stati, gruppi irredentisti, autonomisti vari) che si mettono in mezzo rimettendoci le penne (cfr. la diatriba irredentista italo-iugoslava in Il proletariato e Trieste).

[…] Oggi riciclare un concetto come "diritto di autodecisione" senza inserirlo in un contesto che rifiuti le implicazioni democratoidi in esso contenute è già una concessione al nemico. Ma questo è il meno. Il grave è che il riconoscimento di tale "diritto" diventa in genere addirittura "vitale" per le sorti della rivoluzione. Il linguaggio moralistico del tipo "cadere sotto il giogo dell'oppressione nazionale" che era scusabile al tempo della doppia rivoluzione russa, non è più roba nostra da un pezzo, ma quel che è peggio è che la questione nazionale è "vitale" per la rivoluzione borghese, non certo per la nostra. Noi sappiamo come risolvere la questione, è la borghesia che ha sempre dei problemi, dovendo parlare di libertà e nello stesso tempo negandola ad altre borghesie quando le fa comodo.

[…] C'è spesso una contraddizione con lo stesso Lenin: il "diritto" all'autodeterminazione era riconosciuto ai proletari perché tale problema era un bastone messo fra le ruote della loro lotta antiborghese, ma i comunisti non c'entravano per nulla. Invece coloro che oggi sostengono ancora a spada tratta gli argomenti specifici di una realtà geo-storica passata, credono di salvarsi l'anima concedendo al partito una propaganda verso i proletari (i proletari quindi, non i comunisti) affinché si dissocino da ogni lotta nazionale. Poche storie: se si ritiene che la questione nazionale sia ancora da porre come la poneva Lenin, si abbia il coraggio di andare fino in fondo senza tirar fuori tanti distinguo bizantini.

Comunque né i comunisti, né i proletari, sarebbero chiamati, in occasione di "oppressione nazionale da parte di una potenza straniera", a difendere il diritto all'autodecisione. L'oppressione potrebbe solo essere di classe e, da Marx in poi, sappiamo che per i proletari la patria non esiste e da Lenin in poi sappiamo precisare che non esiste neppure quella "economica" […].

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