Il cosiddetto lavoro di massa

[…] Ho militato nel "movimento" per molti anni e sono giunto alla conclusione che le varie componenti di esso hanno perso (se mai l’hanno avuta) qualsiasi aderenza con la teoria marxista e la prassi rivoluzionaria. Ho iniziato, assolutamente per caso, a leggere le vostre lettere e reputo che stiate facendo un buon lavoro. Visto, però, che non ho nessuna dimestichezza con la Sinistra Comunista italiana, e il mio bagaglio politico si è formato sui modelli culturali in voga nella sinistra, cioè l’eclettismo imperante nel magma dei gruppi, ho delle difficoltà a capire "nella pratica" alcuni concetti. Quello che non riesco proprio a concettualizzare è come voi intendiate il lavoro di massa. Quando uso la dizione "lavoro di massa" mi riferisco al lavoro di propaganda, di difesa delle condizioni di vita e via dicendo, che i comunisti fanno o dovrebbero fare sempre nei posti di lavoro o dovunque essi siano. Potreste impiegare un po’ del vostro tempo per spiegarmelo?

 

Volentieri. Fai bene a mettere le virgolette: "lavoro di massa" è un modo di dire ereditato dal linguaggio staliniano e ripreso con poca fantasia nel '68; questo linguaggio pestifero è il riflesso di una sclerosi politica che va superata.

In una riunione del Partito Comunista Internazionale, nel settembre del 1951 a Firenze, vengono esposte alcune tesi in cui si dimostra che, nella storia del movimento operaio (e quindi del capitalismo) vi sono alterne fasi di grande pressione, avanzata, sconfitta o degenerazione, intramezzate da fasi di lungo ristagno sociale. La lunghezza di quest'ultime è in rapporto alla gravità della sconfitta e dell’ondata degenerativa, oltre che alla sempre maggiore concentrazione delle forze avverse capitalistiche. In periodi come questi, la possibilità di azione di chi rappresenta il partito si restringe di molto per ragioni oggettive: la natura del lavoro rivoluzionario non muta mai, ma quantitativamente il campo pratico d'azione sì, a causa di schiaccianti rapporti di forza favorevoli all'avversario. Quindi per forza di eventi e non per decisione di qualcuno l'attività dei comunisti in certi periodi è limitata.

Questo concetto verrà ripreso in tesi di partito una quindicina d'anni dopo, nel 1965, a situazione sociale immutata. Sembrerebbe banale, ma non è così: migliaia di militanti si sono bruciati nel tentativo di rovesciare questa determinazione. Chiunque abbia ceduto alla presunzione di escogitare espedienti ha finito col seguire la corrente finendo nelle braccia dell'avversario; oppure, nel migliore dei casi, a dimenarsi attivisticamente con il risultato medio che vediamo in giro. È ovvio che ogni rivoluzione necessita di forze organizzate, e quella proletaria non può fare a meno di organismi immediati a base sociale omogenea, come lo sono i sindacati o altre forme più direttamente politiche, come lo furono i soviet nella Russia del '17. Queste forze sono passibili di conquista da parte del partito rivoluzionario, naturalmente quando questo c'è e si sviluppa in coerenza con la teoria. Quando in simili organismi vi sia una concreta possibilità di azione (e nei sindacati odierni, per quanto integrati completamente nello Stato abbiamo più volte fisicamente dimostrato che è possibile un'azione organizzata indipendente), allora è anche possibile conquistare l'influenza su vasti settori nel caso di rovesciamento di situazione.

Nelle grandi città industriali, nel settembre del '93, dopo il famigerato protocollo del luglio, vi sono stati casi di sbandamento dell'apparato ufficiale, molto favorevoli ad una eventuale azione di forza da parte degli operai in presenza di una direzione coerente. In mancanza di questa, si vide invece il proliferare di spinte disomogenee e centrifughe, che resero possibile sia la rapida restaurazione sindacale sia il maggior controllo sociale derivante dagli accordi con lo Stato. La Sinistra Comunista italiana ha sempre dato la massima importanza al lavoro di tipo sindacale, senza tuttavia trasformare l'esigenza di operare in questo campo in una norma statutaria e aprioristica. Sappiamo benissimo che le determinazioni economiche e sociali possono far sorgere le situazioni più diverse e troviamo un po' ingenuo e dilettantesco il voler incapsulare questo argomento in qualche schema fisso precostituito. La società è un insieme complesso le cui regole esulano da ogni tabella volontarista.

Come vedi il problema non sussiste se non nella testa di chi se lo crea. Come dicono le Tesi del '65, il partito, o i militanti che vi si richiamano storicamente, svolgono nei momenti sfavorevoli tutte quelle attività che sono tipiche del partito sviluppato e nei momenti favorevoli, nella misura in cui ciò non sia pura e semplice velleità.

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