Capitalismo senile

In un Quaderno di quindici anni fa dicevamo che questo modo di produzione è entrato da un pezzo nella sua crisi senile cronicizzando le sue malattie. Bene, oggi, in questo volgere di millennio, possiamo confermare: è tanto invecchiato da non avere più vitalità. Ha il metabolismo quasi a zero, non reagisce alle terapie, ha una febbriciattola costante, è al limite di un collasso sistemico, come dicono i più accorti tra i suoi estimatori. Tutto ciò oggi si vede meglio di ieri, e non è che il normalissimo decorso di ogni società. Il capitalismo parla di sé stesso come se avesse ancora di fronte un futuro in cui "l'umana gente" marcia senza sosta verso rinnovate "magnifiche sorti e progressive". Se esso potesse effettivamente espandersi all'infinito, supponiamo pure a un basso ritmo di sviluppo, tutti gli abitanti del pianeta potrebbero un giorno beneficiare di questa ricchezza. Invece si alza da ogni dove il lamento perché i sei miliardi e ottanta milioni di umani sarebbero troppi, e questo manderebbe in rovina l'intero ecosistema, provocherebbe l'invivibilità crescente dell'intera società, e non solo nelle mortifere metropoli. Siamo troppi, ecco perché ci sarebbe la fame.

Ma la fame moderna non deriva da carenza, bensì da paradossale abbondanza. Di tutta la terra emersa è coltivabile solo il 10%, ma basterebbe per il cibo di tutti, se solo la sua coltivazione fosse condotta ad un rendimento medio fra i vari paesi: cioè se fosse abbassata la resa delle colture super intensive e alzata quella dei terreni marginali. Invece la produzione alimentare è eccedente nei paesi capitalisticamente maturi, dove si risarciscono i contadini per i bassi prezzi delle derrate, mentre è gravemente deficitaria nel resto del mondo. L'1% della superficie disponibile viene utilizzato per l'allevamento intensivo che produce praticamente tutta la carne e i latticini vendibili, mentre dal 26% di pascolo si ricava poco cibo e tanta lana (oltre che materia prima per mangimi industriali proteici e quindi "mucche pazze"). Il 32% è coperto da foreste ormai ridotte ad industria da legno e il 31%, dove una parte dell'umanità è vissuta per millenni (e adesso, capitalisticamente, non può più), è deserto, roccia o ghiaccio.

Sarebbe ragionevole estendere quel 10% di terra coltivabile recuperando i terreni abbandonati in passato a causa della posizione che li rendeva poco redditizi, in modo da ridurre ulteriormente lo sfruttamento intensivo del suolo a vantaggio nostro e delle future generazioni. Invece succede il contrario: ulteriore terreno "disagevole" viene abbandonato, mentre buon terreno di pianura, viene strappato al ciclo biologico oppure semplicemente cementato ed asfaltato intorno alle città e lungo le vie di comunicazione. Tutto ciò per il semplice motivo che il Capitale agisce meglio (cioè si accumula meglio) in modo concentrato, tanti dollari per ettaro. Questa constatazione, oltre che per l'industria, vale per tutto il territorio conquistato dal Capitale: il "terreno più fertile" è quello dove c'è già capitale accumulato, dove ci sono industrie, infrastrutture, banche, uomini, abitazioni. Sbaglierebbe di grosso chi, abbagliato dalle performances tecnologiche del Capitale, pensasse che la "questione agraria" non c'entri con il capitalismo moderno. La rendita è plusvalore prodotto dagli operai, e le città, dalla megalopoli al villaggio, sono ammassi di plusvalore fissato nei terreni fabbricabili e nelle costruzioni che vi stanno sopra.

Mentre il Capitale è internazionale, la borghesia è 267 volte nazionale, tante volte quanti sono i paesi del mondo. Ora, siccome sempre più plusvalore si trasforma in rendita, e questa è la miglior garanzia esistente per il capitale finanziario, ecco che le singole borghesie sono patriottiche non solo per indole ma per necessità: è l'immensa mole di lavoro morto che domina il lavoro vivo e che in qualche modo garantisce la continuità nello sfruttamento. Non vi sarebbe speculazione finanziaria di alcun genere, per quanto sofisticata, se non vi fosse garanzia che lo sfruttamento continua da qualche parte valorizzando lavoro morto; né vi sarebbe anticipo di capitali da parte delle banche se queste non avessero facoltà di ipoteca.

Perciò il territorio, rurale o urbano, diventa serbatoio, polmone di plusvalore. Il capitale concentrato per ettaro produce assurdi grattacieli nei centri nevralgici e produce l'equivalente mostruosa concentrazione nella terra circostante, dove le colture abbisognano sempre più di investimento in macchine, in semi speciali, in fertilizzanti, in diserbanti, in impianti d'irrigazione, in fitofarmaci, e adesso in biotecnologie. La produzione di cibo non è più finalizzata al bisogno primario degli uomini per il loro ciclo biologico, ma diventa un tutt'uno con l'industria e con la finanza, per di più fattore strategico nazionale per le borghesie più potenti. Paesi che non hanno quasi più contadini e terre disponibili esportano derrate a paesi che hanno terra e stanno emarginando masse superflue di contadini. Mentre si abbattono foreste intere per ricavare terra sulla quale verranno coltivate piante per l'industria delle metropoli (cotone, caffè, tè, piante da olio, spezie, ecc.), si importano dalle stesse metropoli gli alimenti base, come i cereali e il latte. In agricoltura, come nell'industria, il Capitale si fissa dove ce n'è già e le piantagioni industriali divorano le terre da cibo, mentre milioni di espropriati vanno ad ingigantire nuove miserabili metropoli, baracche all'ombra dei grattacieli.

Nel 1998 l'economia mondiale è cresciuta del 2% al netto dell'inflazione (che è stata del 25%), ma, siccome la popolazione è nel frattempo aumentata dell'1,3%, la crescita reale è stata quasi nulla. Nel 1999 la crescita mondiale è stata del 3% per un ammontare globale di 40.700 miliardi di dollari. L'incremento, un po' più alto, è stato causato soprattutto dal buon andamento economico degli Stati Uniti (4,1%) e della Cina che, con l'8% di sviluppo, è diventata la seconda potenza economica del mondo. L'Unione Europea, col 2% è rimasta sotto la media mondiale. Poiché gli Stati Uniti rappresentano il 23% del prodotto globale, l'Europa il 20% e la Cina il 12%, ciò significa che il resto del mondo (Giappone compreso, - 0,3% di crescita e 7% di peso economico globale) sta sviluppandosi meno di quanto aumenti la popolazione totale.

Secondo la CIA, il centro di spionaggio americano, le difficoltà economiche interne sono in molti paesi la ragione della loro disgregazione sociale, delle rivolte localistiche per il controllo diretto di risorse naturali o dell'economia. Spesso sono queste le ragioni che provocano guerre interne mascherate da connotati etnici, sempre più incontrollabili dagli Stati. Anche all'esterno "la nazione-stato, come fondamentale istituzione economico-politica, sta perdendo il controllo sui flussi internazionali di persone, beni, capitali e tecnologie". Siamo particolarmente soddisfatti nel constatare come l'autorevole organismo spionistico riconosca, con noi, che lo Stato non è uno strumento della borghesia per controllare il Capitale ma uno strumento del Capitale per controllare la borghesia. E' da tempo che lavoriamo per evidenziare come le borghesie siano ormai asservite ai cosiddetti mercati.

Ogni anno 80 milioni di nuovi abitanti della Terra dispongono, secondo le cifre che abbiamo riportato, di 814 miliardi di dollari supplementari (cioè circa 10.000 dollari, mediamente meno della metà di quanto ogni italiano disponga), ma negli ultimi anni l'incremento è stato prodotto quasi interamente negli Stati Uniti, in Europa e in Cina. Per contro, Africa, America Latina, Russia, gran parte dell'Asia e da un paio d'anni anche il Giappone stanno arretrando. Nei paesi sviluppati la disoccupazione va da un minimo del 4% degli Stati Uniti al 12% dell'Italia, mentre nei paesi non industrializzati la media è del 30%, tenendo conto che sono "occupati" anche 250 milioni di bambini.

Il quadro è di per sé abbastanza chiaro: il Capitale si valorizza ancora localmente, ma non riesce a farlo globalmente. Esso ha bisogno di territori sempre più vasti in cui "mettere a coltura" terre, città e miniere, coinvolgendo le popolazioni che lì sono stanziate. Le sradica dalle vecchie abitudini distruggendo rapporti arcaici, anche se non può portarle al livello di quelle occidentali; le adopera come riserva di consumi, anche se non può elevarne il tenore di vita; importa le loro risorse nazionali, anche se non può permettere che se le facciano pagare secondo la legge della rendita; le indebita, ma nello stesso tempo le sovvenziona affinché possano risarcire i debiti. Insomma, ne ha bisogno come complemento ai suoi traffici ma non le può sfruttare nella produzione. Ecco perché ne teme lo sviluppo autonomo, il quale eroderebbe la potenza del Capitale già fissato nei territori storici del suo originale sviluppo e che farebbe infine esplodere il mondo in quanto sistema limitato.

Forse non tutti si rendono conto che un capitalismo in crescita reale e globale dell'1%, o meno, è fermo, consuma quanto produce, ossia non accumula, si limita alla riproduzione semplice, non può reinvestire. Ora, non è detto che in via del tutto teorica il capitalismo non possa sopravvivere ad accumulazione prossima allo zero: quando il ciclo della produzione è in equilibrio con il capitale anticipato, compreso il rimpiazzo degli impianti che man mano si "consumano", assecondando l'aumento della popolazione, il sistema non ha ancora, per questo, motivo di collassare. Inoltre la crescita globale assomma salario e plusvalore, quindi può darsi benissimo che all'interno del totale si abbassi il salario e aumenti il plusvalore, rendendo possibili gli investimenti. Il fatto è che capitalismo significa produzione e consumo in un tutto inscindibile, e il consumo non può scendere se deve aumentare il valore prodotto. L'accaparramento dei consumatori in ogni sfera da parte dei capitalisti significa concorrenza spietata, e concorrenza vuol dire nuovi metodi di lavoro, nuovi impianti, nuove applicazioni scientifiche alla produzione, nuova produttività e dunque nuova sovrappopolazione relativa.

Quest'ultima non sarebbe un gran cruccio, se la si potesse mantenere a lungo nelle condizioni in cui si trova, al limite del consumo, preda di ogni manovra economica e politica, schiava di produzioni marginali e di guerre per procura sempre più misconosciute e terribili. Ma non è nelle immense masse diseredate il potenziale esplosivo che farà saltare il Capitale: ogni capitalista crede di aumentare la sua produttività contro la concorrenza adottando tecnologie e organizzazione scientifica, ed è vero; ma non lo possono fare tutti i capitalisti, perché non si può trarre da pochi operai, per quanto sfruttati, lo stesso plusvalore – o addirittura di più – di quanto se ne poteva trarre da molti. In ogni caso giungerà il momento in cui, per poter avere più plusvalore, occorrerà avere più operai, ed è questo che precisamente non avverrà. Quindi dovrà per forza scendere la produzione stessa di plusvalore. Il perché è anche chiaro: tutti i capitalisti non potranno mai mettersi d'accordo per abbassare la produttività dei loro operai nelle loro singole fabbriche; essi procederanno sempre verso il raggiungimento della massima produttività e diminuiranno inesorabilmente gli operai addetti alla produzione. Per questo la tensione sociale si farà sentire in primo luogo sulla forza-lavoro delle metropoli.

La concorrenza, con la continua corsa alla produttività, provocherà certamente la comparsa di nuovi prodotti fasulli o di servizi fantasiosi per un mercato sempre più drogato, cioè stimolato artificialmente, ma ormai questo può succedere soltanto localmente, perché soltanto una parte esigua della popolazione mondiale può possedere, per esempio, il telefono e il cellulare, l'auto e la moto, la casa e l'appartamento multiproprietà. Perciò anche nei paesi più sviluppati vi saranno strati sempre più vasti della popolazione assolutamente superflui rispetto al ciclo produttivo e consumistico, come sta succedendo negli Stati Uniti. A maggior ragione le popolazioni dei paesi marginali saranno sempre più lasciate a sé stesse, come già sta succedendo senza che il mondo opulento si impressioni troppo per lo stato di totale degenerazione in cui versano centinaia di milioni di uomini.

Il riflesso delle condizioni di questi ultimi si ripercuoterà proprio sulle aree di maggiore sviluppo. Non è solo un problema di immigrazione, anche se è ovvio che c'è migrazione quando si è costretti a cercare un'esistenza meno bestiale: è un problema, di proporzioni immani, che riguarda l'intero modo di produzione e spaventa anche i borghesi. Le contraddittorie quanto folcloristiche manifestazioni del "popolo di Seattle" non sono che un epifenomeno, un foruncolo superficiale della generale malattia. I milioni di bambini dei paesi non sviluppati, che vivono in una schiavitù peggiore di quella antica, muovono tutt'al più a blanda indignazione, e neppure ci si chiede come possa svilupparsi il fenomeno tutto moderno della loro trasformazione in soldati: da che mondo è mondo chi è in grado di lavorare è anche in grado di combattere. Oggi come carne da cannone, ma un giorno anche per sé, quando la disperazione si salderà al programma rivoluzionario.

I governi possono solo escogitare palliativi. La sovrappopolazione relativa non si scongiura con il ricorso a incentivi o a leggi che distribuiscono il lavoro in Occidente, figuriamoci nel resto del mondo. Come proviamo a dimostrare nell'articolo "Tempo di lavoro, tempo di vita", il capitalismo stesso elimina tempo di lavoro divenuto irreversibilmente superfluo, e questo è già un passo immediatamente utilizzabile dal programma immediato che l'umanità dovrà mettere in pratica quando vi sarà lo scatto in una società nuova.

L'umanità non è "troppa" rispetto a ciò che ha da mangiare o alle malattie moderne che essa stessa sviluppa: il discorso sul numero degli uomini che la Terra può ospitare, sulla varietà di vegetali e animali che possono nutrirli, sulle cure che possono guarirli e sul tipo di vita utile a mantenerli sani, esula completamente dai calcoli sul profitto e perciò non può essere risolto in ambito capitalistico. Tutto il gran dibattito sulle biotecnologie, affrontato in questo numero con un primo articolo sull'approccio metodologico al problema, rivelerebbe a chiunque la sua inconsistenza se soltanto ci si ponesse al di fuori delle categorie con cui gli uomini sono costretti a ragionare nella società dove regna la legge del valore.

D'altra parte bisogna rendersi conto che il cambiamento si manifesterà con l'abbandono sempre più evidente, anche da parte della stessa borghesia, di vecchie teorie, di vecchie concezioni. Sono argomenti, questi, che fanno parte di un lavoro da noi intrapreso da tempo sulle "capitolazioni ideologiche" della borghesia di fronte al marxismo. I meccanismi attraverso cui si sviluppa nuova conoscenza, sono affrontati nell'articolo "Uno schema di Einstein sul rovesciamento della prassi", dove si confrontano lungo quattro secoli i meccanismi della conoscenza e dell'azione che stanno alla base delle rivoluzioni.

Infine, sempre sul rapporto teoria-prassi, l'articolo "Il soggetto sul piedistallo" affronta criticamente l'eterna tendenza a separare le questioni, specialmente in campo politico, come se il mondo in cui viviamo non fosse basato su relazioni continue fra gli uomini e fra essi e l'ambiente che li circonda e che contribuiscono a plasmare.

Rivista n. 2