Il soggetto sul piedistallo

Spesso si fa confusione fra condizioni oggettive e soggettive nel processo rivoluzionario. Ciò porta a scambiare le situazioni sfavorevoli e gli insuccessi per carenze soggettive. Ma nella dinamica sociale, come nello studio delle interazioni fisiche in natura, ogni individuo, gruppo o partito, in quanto molecola partecipe di un tutto, non è isolabile dal contesto e la "sua" prassi soggiace alle leggi generali che muovono l'intera società. Il problema della rivoluzione, che polarizza le caotiche forze sociali in direzioni univoche di classe, è quindi strettamente legato al binomio teoria-prassi, e perciò anche all'unità inscindibile fra condizioni oggettive e condizioni soggettive, tra movimento sociale e partito.

Un mondo di interazioni

Uno degli scogli più duri che la Sinistra Comunista "italiana" si trovò sul percorso nei suoi sessant’anni di vita fu quello dell'attivismo immediatista. Combattuto come specifica manifestazione di opportunismo politico, si dimostrò "risorgente e tenace", in grado di provocare danni gravissimi. Fu portatore di tattiche errate, basate sulla confusione fra condizioni oggettive e soggettive nel processo rivoluzionario, perciò indusse frequentemente a scambiare le situazioni sfavorevoli e gli insuccessi per carenze soggettive. Di qui nacquero occasioni per la solita lotta politica, basata su personalismi, lotta estranea alla tradizione della Sinistra e del tutto in contrasto con la perseguita organicità.

La soggettività rivoluzionaria non può affermarsi, e quindi risolvere compiti oggettivi, se non tramite il dialettico processo unificante tra oggetto e soggetto. E, comunque sia, tale processo opera materialmente all'interno della società indipendentemente dalle singole volontà degli uomini e dai risultati che vorrebbero raggiungere. E' in esso che si realizza l'organicità del rapporto classe-partito e anche del rapporto fra gli elementi interni dello stesso partito. Si tratta, come sempre di doppia direzione, o, se vogliamo, di ricezione e trasmissione: il partito riceve dagli individui e dalla classe segnali molteplici dai quali sa trarre una quantità di informazione superiore a quella che classe e individui possono trarre da sé stessi, mentre nel percorso inverso la stessa informazione, elaborata, agisce sull'azione degli individui e della classe, e la dirige.

Purtroppo i termini che normalmente si utilizzano per descrivere l'attività politica sono ancora troppo debitori al linguaggio corrente, attraverso il quale parole come "ricezione" e "trasmissione" evocano le antiche parole d'ordine del socialismo ottocentesco, oppure peggio ancora, quelle del movimentismo attuale, dove "inchiesta operaia" sta per ricezione e la famigerata "educazione delle masse" sta per trasmissione.

L'accezione rivoluzionaria del concetto di doppia direzione può essere spiegata in termini fisico-biologici e cibernetici, come fece la Sinistra, perché, nella realtà, le molecole sociali non si comportano diversamente da quelle che costituiscono la materia: l'interazione tra di esse è di tipo analogo, per cui il parallelo ci offre una potente dimostrazione.

Il concetto di interazione rientra nelle teorie del campo gravitazionale, delle particelle elementari, della biologia molecolare, dei sistemi complessi, delle strutture sociali come quella degli insetti o di comunità "superiori". Non esiste nell'universo un qualche elemento particolare che non interagisca al tempo stesso con altri e col tutto, per di più l'interazione è teoricamente a distanza infinita; per questi motivi appare subito come fondamentale. Nelle classiche formulazioni, l’energia di un sistema planetario è la somma dell'energia di movimento dei pianeti e dell'energia potenziale gravitazionale, così come in un sistema umano l'energia delle classi in movimento si somma a quella del potenziale produttivo e sociale. L'utilizzo del concetto d'interazione è particolarmente legittimo in relazione al campo sociale in quanto l'umanità è fatta di molecole individuali interagenti fra loro e con l'ambiente che esse stesse contribuiscono a determinare con azione collettiva, secondo ben definite strutture e modalità.

Per quanto riguarda le particelle, un tempo la fisica partiva dal postulato che qualsiasi combinazione di queste in una unità maggiore fosse un aggregato puramente quantitativo. La fisica moderna ha dimostrato l’inesattezza di questa vecchia concezione. Pur non rinunciando alle schematizzazioni astratte utili a spiegare strutture complesse in termini di fattori elementari, essa ha dimostrato che i rapporti fra gli elementi che compongono la materia non sono neutri e quantitativi, ma dinamici e interattivi, cioè, tra l'altro, rivelatori di leggi dialettiche in natura. Una particella elementare non esiste accanto ad un'altra, esiste perché c'è l'altra o perché si è trasformata nell'altra in una continua metamorfosi dell'energia. Il mondo che tocchiamo con mano tutti i giorni non è fatto di granelli di materia ma di processi coinvolgenti energia, spazio e tempo.

Il guaio dell'attivista è proprio quello di essere un troglodita che non ha ancora compreso la dinamica di un sistema complesso come la società umana, di avere ancora in testa il vecchio paradigma di una natura fatta di oggetti contigui e non interagenti, quindi una società fatta di insiemi, di mucchi di oggetti o uomini, trattabili secondo mere catalogazioni quantitative. Tale concezione contaminò anche l'Internazionale Comunista, che manifestò la sua prima malattia attivistica proprio adottando il triviale metodo democratico per definire lo sviluppo del partito: la conquista della maggioranza della classe operaia, un'autentica bestialità in termini. Trotsky dimostrò che non era una questione di numeri: l'Ottobre fu possibile per il concretizzarsi di una serie di relazioni sociali, per cui il proletariato ad un certo momento assunse un forza effettiva molto più grande di quanto apparisse sulla carta, dove tutte le altre classi, l'esercito, la polizia, la borghesia apparentemente vittoriosa rappresentata dal governo provvisorio sembravano soverchiare il nucleo rivoluzionario.

Engels sintetizzò dalle prime scoperte della fisica moderna il concetto che la materia è movimento e nel lessico della Sinistra Comunista compare spesso la metafora delle particelle, dell'energia, della dinamica o dei campi sociali polarizzati. E' dunque alla dinamica dei processi sociali, allo scambio di energia sociale, che bisogna guardare come ad un fattore in grado di caratterizzare le proprietà degli elementi in gioco, nel nostro caso le classi e le loro organizzazioni (partiti, eserciti, chiese, organismi immediati, ecc.).

L'oggettività di un movimento sociale è la stessa di cui è "fatta" la materia: i suoi componenti possono essere osservati in una accezione spaziale, e allora attribuiamo loro una massa tangibile, li contiamo, li sottoponiamo a schemi astratti e semplici; oppure possono essere osservati in una accezione temporale, e allora li trattiamo come processi ai quali prende parte l'energia equivalente alla loro massa. Mai e poi mai possiamo prescindere dal fatto che sono l'una e l'altra cosa insieme, mai e poi mai possiamo fare i furbi e manipolare oggettività e soggettività come ci fa comodo: la società umana è un insieme di interazioni come tutto l'universo di cui fa parte e non è lecito separare l'esistenza della materia dalla sua intrinseca attività.

I partiti e le rivoluzioni non si "fanno", si dirigono

Per quanto riguarda la società umana, nelle sue condizioni oggettive di esistenza la dinamica è data dagli squilibri che caratterizzano la sua produzione e riproduzione, contraddizioni che permettono l'accumulo di energia potenziale. Lo squilibrio della società capitalistica è di tipo particolare essendo dovuto sia a cause estrinseche, come l'anarchia del mercato, che rende aleatoria la destinazione delle merci, sia a cause intrinseche, come l'assenza di limite teorico alla produzione, con la retroazione positiva a causa del ritorno di plusvalore nel ciclo produttivo, ritorno che permette l'accumulazione allargata. La retroazione dà luogo a crescita esponenziale e, siccome in natura ciò non è possibile senza che intervengano effetti di regolazione automatica, ecco spiegate le situazioni di crisi dovute alla contraddizione produzione-mercato (vulcano-palude). In ogni modo abbiamo un continuo oscillare fra tensione della crescita e ricerca dell'equilibrio, e questo è un fattore oggettivamente rivoluzionario che spiega l'altrimenti incomprensibile "spontaneità operaia". Se infatti non vi fosse energia potenziale in grado di diventare cinetica, la spontaneità non avrebbe alcuna possibilità di manifestarsi, quindi la soggettività rimarrebbe senza il suo oggetto, la direzione senza nulla da dirigere. Nessun partito rivoluzionario avrebbe mai potuto dirigere le rivoluzioni se esse non fossero state frutto determinato della dinamica sociale, che di per sé è già un modo di essere della rivoluzione stessa. La Sinistra l’aveva ben compreso, perciò affermava che le rivoluzioni non sono un problema di forma bensì di forza (energia) e che partiti e rivoluzioni non si fanno, si dirigono.

E' questa dinamica a produrre i disequilibri di cui si avvantaggia ora una, ora l'altra classe nella storia delle rivoluzioni. Nella società capitalistica, il disequilibrio sociale provoca la lotta economica elementare, quella che muove i proletari in relazione alle condizioni immediate (condizioni di lavoro, orario e salario specifici). Dell'intera dinamica, la generalizzazione della lotta di tipo immediato è uno degli stadi preliminari e importanti, sufficiente a provocare interazioni polarizzate, cioè un campo sociale dove le cariche di energia assumono una direzione univoca.

Gli operai si coalizzano contro un avversario per ottenere risultati, in un processo che Lenin chiama spontaneo e che è già diverso da quello delle reazioni scomposte, di tipo luddistico. Un simile processo di auto-organizzazione non ha nulla a che fare con la concezione del movimento che procede dall'idea, di matrice anarchica, ma si collega con la moderna teoria dei sistemi complessi in grado di elaborare informazione al proprio interno. La massa, sollecitata da spinte immediate ma organizzata, non è più un aggregato informe che insegue istintive soluzioni, ma si muove già come un tutt’uno per un obiettivo. In tal modo è costretta a rompere ogni tentativo di equilibrio sociale e accelera i processi catastrofici potenziali. Anche se questo è uno stadio che può non apparire rivoluzionario, e può manifestarsi nelle forme più diverse, è il solo che possa condurre a movimenti politici di lunga portata. Certo, è uno stato di non-equilibrio molto relativo, in cui le forme della spontaneità operaia possono venire influenzate, indebolite, spezzate e catturate dalle multiformi forze e manovre dello schieramento borghese, ma essendo appunto già uno stato di instabilità, accumula energia potenziale ed è gravido di sviluppi.

E' caratteristica degli stati d'instabilità quella di essere estremamente sensibili alle condizioni che per qualsiasi motivo intervengano a modificarli. Ecco che allora l'esistenza di un partito rivoluzionario può amplificare le condizioni stesse, mentre una tattica sbagliata può annichilire ogni possibilità di sviluppo ulteriore.

I comunisti riconoscono dunque nel partito volontà e coscienza in certi svolti storici, ma negano che esso possa nascere e svilupparsi con il mero concorso di volontà e di coscienza di individui che formino un gruppo anche omogeneo dal punto di vista programmatico, aderente al patrimonio storico e attivo in seno alla classe; e soprattutto negano che un gruppo simile, come d'altra parte anche il partito in senso stretto, possa considerarsi estraneo e inattaccabile rispetto a tutto ciò che determina le condizioni materiali e ideologiche di tutto il resto della classe proletaria (Tesi di Napoli).

Oggetto e soggetto non vivono di vita propria e distinta. Chi anche dicesse puramente e semplicemente che oggi non vi sono le condizioni oggettive per l'ascesa della lotta di classe dovrebbe subito precisare che esse mancano non solo perché non stiamo assistendo al disfacimento degli apparati borghesi, ma anche perché manca quella forza soggettiva, complementare e polarizzatrice, che integra la spontaneità proletaria con la direzione da parte del partito e che è determinante per l'intero processo. La stessa forza che permise alla società russa di produrre circoli operai, sindacati, soviet, organismi immediati militari e di sviluppare il partito rivoluzionario. Non esistono oggi forze che pongano alla classe problemi reali di riorganizzazione e che, nello stesso tempo, producano il potenziale per risolverli. E’ per questo motivo che i comunisti considerano dato positivo e prioritario ogni rottura sociale che permetta alla spontaneità operaia di manifestarsi nel senso sopra descritto.

Quando si potrà affermare che vi sono condizioni rivoluzionarie oggettive, ciò significherà che le particelle proletarie si saranno disposte o andranno disponendosi sotto i nostri occhi in un ordine che presuppone nuove forme di interazione, tali da far presagire un cambiamento. Piccolo o grande non ha importanza, ma tale da condurre la classe al passaggio da una concezione quantitativa dei suoi bisogni ad una concezione qualitativa, che questa società non potrebbe soddisfare. A questo punto, come afferma la Sinistra: "Quando scorgiamo una tendenza sociale, un movimento per date finalità, allora possiamo riconoscere la esistenza di una classe nel senso vero della parola. Ma allora esiste, in modo sostanziale se non ancora in modo formale, il partito di classe".

Fino a quel momento la situazione della classe è alienata, cioè ceduta, venduta, separata dalla sua essenza umana, come dice Marx. Quando si evoca la mancanza di direzione politica soggettiva per spiegare, in modo univoco, il mancato sviluppo del processo rivoluzionario, si dimentica che l’alienazione è una condizione oggettiva del proletariato, dipende dai rapporti capitalistici di produzione, dalle leggi soggiacenti, quindi da potentissime forze sociali, non da prevaricazioni di potentissimi individui. E’ un fatto sociale che non può venire eliminato dalla semplice volontà, dalle indicazioni politiche di "avanguardia" e dal ritornello del richiamo alla lotta. C'è da chiedersi come mai persone intelligenti non riescano a capire che un richiamo del genere è del tutto platonico e persino ridicolo quando non c'è la minima possibilità di organizzare in pratica un bel nulla, quando non c'è orecchio che possa ascoltare quella lingua.

Luogocomunismo

Il "luogocomunismo" è tenace e persistente. Uno dei luoghi comuni più diffusi è quello che recita: esistono in certi periodi le condizioni rivoluzionarie oggettive ma mancano quelle soggettive, cioè la capacità degli uomini di raggiungere i loro stessi obiettivi programmatici. Si tratta di un'affermazione grossolana e non certo originale, che arriva dai tempi remoti della degenerazione dell'Internazionale – cui sopra accennavamo – e , prima ancora, della lotta di Marx contro il proudhonismo. La volontà è esaltata dalle concezioni anarchiche e staliniste, mentre una formula ibrida la utilizzò anche Trotsky. Dal '68 in poi divenne un vero e proprio ritornello che giustificava il peggiore attivismo, quello dei costruttori a tavolino di partiti, rivoluzioni o anche soltanto "situazioni".

La concezione è talmente radicata che persino in occasione di fatti contingenti emerge la tendenza a costruire opposizioni o contestazioni ad hoc, mediante espedienti per raggruppare personaggi con posizioni disparate in improbabili ed effimeri fronti. Significative a questo proposito, per fare un esempio vicino, le manifestazioni contro la guerra dei Balcani che – una volta considerata soggettiva (l'imperialismo americano visto come prodotto del governo d'America e non il contrario) e contingente la natura del problema – venivano organizzate nell’illusione che un intervento altrettanto soggettivo e contingente potesse scongiurarla. Come se fosse possibile da un giorno all'altro e con un po’ di buona volontà suscitare un movimento di massa da contrapporre all’imperialismo e in grado di influenzare le sorti stesse della guerra.

L'attivismo è povero di risorse teoriche e non si accorge mai anticipatamente che la "pratica" non si crea con le idee di qualcuno. Il più evidente sintomo di impotenza attivistica è l'abisso che separa le parole d'ordine roboanti, e spesso persino truculente, dalla loro effettiva realizzazione: urlare "guerra alla guerra" e costituire comitati specifici dall'oggi al domani, è come svegliarsi ad un rumore molesto e rimettersi a dormire non appena questo venga a cessare.

Lo conosciamo l'attivista: è attivo solo quando qualcuno suggerisce. Non vive di vita propria, vive in simbiosi con il presunto nemico. Se questo si fa i fatti suoi nella normalità dello sfruttamento quotidiano, l'attivista si sente disoccupato, entra in crisi d'astinenza. Quando invece il nemico, spinto dalla naturale tendenza del capitalismo a ristrutturare continuamente il processo produttivo, ha necessità di intervenire sulla forza-lavoro o sugli assetti tra gli Stati, ecco che l'attivista può cogliere l'occasione al balzo e manifestare tutta la propria indignazione. Poiché rifugge dal lavoro lungo e sistematico, quello che si sviluppa incessantemente anche nei momenti meno eclatanti, l’unica sua fonte di alimentazione politica è l’iniziativa dell’avversario. La sua, quindi, finisce per essere una forma di parassitismo ed egli ha bisogno di vedere "attacchi padronali" dappertutto e sempre.

Nei momenti cruciali, questa predisposizione, che parrebbe addirittura genetica tanto è insistente, pone la debolezza attivistica di fronte al solito dilemma: come si fa ad essere forti nonostante tutto? La soluzione è sempre stata trovata nell'idolatria del numero, che si raggiunge ovviamente alleandosi con l'avversario borghese, scegliendo all'interno dei suoi ranghi una corrente adatta, come in tutti gli antifascismi, gli aventini, i fronti unici, le partigianerie, le resistenze, di cui l'attivista è produttore indefesso. Non ha mai osservato, utilizzando almeno per una volta correttamente l'esperienza immediata, che questi espedienti hanno sempre rafforzato il nemico, quello stesso che oggi può condurre il famigerato attacco padronale o che all'occorrenza spara bombe cosiddette intelligenti più sui civili che sui militari. Tutti i salmi attivistici finiscono poi nella gloria parlamentare, dove il soggetto senza l'oggetto diventa sovrano: la borghesia fa, il parlamento parla, "mulino a parole" fine a sé stesso, utile certo alla perpetuazione dell’ideologia dominante, d’intralcio rispetto alla stessa realtà produttiva, sempre messo in condizioni di non nuocere.

Devastanti errori tattici

Il soggetto che lancia parole d'ordine a vanvera si trova sempre nella frustrante condizione di dover manifestare la sua impotenza rispetto all'oggetto su cui vorrebbe esercitare l'azione. Nel caso delle ultime guerre mediatiche si è buttato sul fatto in sé, dato in pasto appositamente dalla propaganda, cioè la crociata contro Hussein o Milosevic, i cattivi di turno; non si è reso neppur conto che il bombardamento americano dell'Iraq o della Serbia è stato condotto nella maniera meno immediatista possibile, cioè non ha avuto come obiettivo quel che le bombe ogni tanto distruggevano effettivamente, ma un disegno geopolitico più ampio, teso a stabilire un vantaggio degli Stati Uniti sui suoi più diretti concorrenti. Siccome non erano possibili le solite partigianerie cui è abituato, si è trovato del tutto confuso quando non ha potuto assegnare alle due borghesie bombardate la parte della vittima e agli opposti nazionalismi la parte del popolo oppresso. Sono così sfuggite le vere cause degli attacchi militari, espressione di rapporti complessi e profondi fra l'imperialismo maggiore, quelli minori che sono asserviti per amore o per forza, e il resto del mondo. Del resto abbiamo assistito persino all'apologia della rivoluzione islamica in Iran e delle sparatorie delle ambigue bande d'Albania.

Dai grandi avvenimenti alle cose minime la sproporzione fra la velleità di fare e l'obiettivo che l'attivista si pone è sempre gigantesca: su alcuni siti Internet si legge per esempio: "Facciamo impazzire Echelon"; e, subito dopo, una lunga sequela di parole chiave che dovrebbero far saltare le capacità di gestione dati del grande spione telematico. Echelon è un potentissimo sistema integrato di satelliti e supercomputers che americani e inglesi adoperano per spiare il mondo (a dire il vero più quello dell'industria e degli eserciti che quello degli imbecilli). Echelon ha fatto impazzire quelli che lo vogliono far impazzire. Siamo alle solite: quando c'è l'attivismo di mezzo, l'oggetto fa saltare il cervello al soggetto.

Per quanto riguarda il passato, che dovrebbe insegnare qualcosa, la memoria si fa corta: le manifestazioni sessantottesche del sabato con le grida "borghesi, ancora pochi mesi!" non le ricorda neppure più lo stesso attivista di allora, oggi ben sistemato nelle morbide e accoglienti pieghe della società borghese, la quale se ne frega della memoria storica. Così l'attivismo superstite, non avendo per ora l'onere della prova sul campo, vive di speranza. Come un tempo si aspettava Baffone, oggi ha da venì la barricata.

Quest'ultima, per l'attivista, è un'istituzione immortale. Nei suoi giornali abbondano le foto, in genere finte, di carretti e materassi che proteggono improbabili milizie in posa con le armi spianate. Le più tragiche quelle spagnole; le più finte quelle partigiane; le più fotogeniche quelle del maggio francese, che non avrebbero impedito il transito a un velo-solex.

Naturalmente si scherza su cose all'altezza dello scherzo, ma Marx ed Engels, per esempio, non scherzavano affatto, erano furibondi contro gli attivisti che, nell'epoca delle artiglierie di precisione e dei fucili a retrocarica, amavano ancora parlare di barricate.

All'epoca della Comune di Parigi seguirono con rabbia gli avvenimenti, dato che gli insorti, assediati, invece di attaccare Versailles – dove l'avversario stava riorganizzando il suo apparato politico-militare sgretolato dalla guerra – erigevano antistoriche barricate di difesa (ma queste, perlomeno, alte diversi metri e fatte di pietre e sacchi di terra). Gli internazionalisti, poco rappresentati alla Comune, non riuscirono a prevalere su blanquisti e proudhoniani, sugli esponenti, cioè, delle teorie soggettivistiche della rivoluzione; e proprio i cultori della volontà, non ebbero nessuna volontà al momento opportuno. Così il partito dell'insurrezione, a causa di un difetto teorico, non fu in grado di utilizzare la sua conquistata forza militare e risolvere la questione del potere.

Al tempo della Comune la rivoluzione moderna aveva già reso obsoleto tutto il vecchio armamentario quarantottesco ed era ormai evidente che, senza la disgregazione dell’apparato borghese, cui deve corrispondere lo sviluppo del partito e della sua interazione con la classe, non si sarebbero avute le condizioni per una soluzione vittoriosa. La Comune aveva di fronte la prima condizione, l'apparato borghese era effettivamente a pezzi, ma non poté usufruire dell'altra, lo sviluppo del partito, dato che nei fatti gli internazionalisti comunisti non ebbero possibilità di dare la loro impronta. La Comune, senza partito conseguente, fu grande per ciò che era oggettivamente, non per ciò che i suoi capi volevano soggettivamente che fosse.

Durante la rivoluzione in Russia, dove il partito non solo era sviluppato, ma era ben saldo sulle sue basi programmatiche, le due condizioni si saldarono, o meglio furono una cosa sola: all'accerchiamento militare delle armate bianche e delle potenze imperialistiche, il potere proletario oppose una magistrale strategia di movimento rifiutando la guerra di posizione e, per mezzo del giovane comandante Tuchacevski, sbaragliò le armate bianche di Kolciak e di Denikin. Il culmine di quella saldatura in una sola forza si ebbe con il contrattacco su Varsavia, che per poco non rovesciò gli equilibri politici nel resto d'Europa proprio mentre si teneva il II Congresso dell'Internazionale, la più alta espressione del partito mondiale prima della sua degenerazione.

Notiamo di passaggio l'importanza storica di questo risultato materiale della rivoluzione: la tecnica della guerra mobile fu presa come esempio dai militari borghesi più lungimiranti in Inghilterra e in Germania per ribaltare completamente le vecchie dottrine militari. La controrivoluzione, anche a causa delle debolezze dei partiti europei, ebbe il sopravvento politico; essa fu attivista e proudhoniana, tanto che persino in campo militare comportò un vergognoso ritorno dell'Armata Rossa alle antiche dottrine dopo aver insegnato al mondo quelle nuove. E, paradossalmente, alla Russia furono inflitti danni immensi proprio da coloro che ne avevano invece copiato i metodi militari rivoluzionari.

Contro il dilettantismo

Tornando alle cose d'oggi, vediamo che le ricorrenti epidemie d'attivismo si basano soprattutto sul lamento riguardo al cosiddetto ritardo nella ripresa della lotta di classe. La formula è indicativa: la storia è sempre in ritardo rispetto alle impazienze dell'attivista. Ma c'è di peggio. Questa mentalità da sconfitti si riverbera sull'attività politica e sull'atteggiamento nei confronti dei proletari; così, anche quando l'avversario è assai debole e in crisi, lo si vede fortissimo attraverso una concezione disfattista della forza proletaria. Noi saremmo gli attendisti, ma come chiamare coloro che attendono da decenni che da un momento all'altro riprenda la lotta di classe? Prendiamo il titolo di prima pagina di un periodico uscito da poco: "Contro la paralisi, il disorientamento, la disorganizzazione del proletariato, riannodiamoci con la tradizione della lotta di classe, con la difesa del partito di classe, della rivoluzione e con la riaffermazione del comunismo". Potrebbe averla scritta uno qualsiasi dei gruppetti esistenti. Si capisce che per i comunisti è difficile convivere con un mondo borghese duro a morire, ma neppure nei momenti peggiori il movimento, la tradizione cui ci si appella, ha mai capitolato sparando a vuoto frasi di pura speranza. Almeno gli anarchici, contro la paralisi, il disorientamento e la disorganizzazione, rivendicavano l'azione eclatante, esemplare, da attivisti veri; oggi si rivendica il "riannodamento" ad una tradizione, ma essa non è certo quella dei sospiri d'impotenza. Del resto la frase è fatta di termini che si addicono solipsisticamente soltanto al soggetto che li scrive, dato che il proletariato non avverte affatto questa oscura tragedia ed esiste – così com'è – indipendentemente dalle percezioni soggettive di chi lo scruta con tanto pessimismo.

La situazione oggettiva richiede lavoro paziente, sistematico, ad orizzonte lontano, senza dimenticare mai che il partito è prima di tutto un prodotto della storia e solo in un secondo tempo ne diventa fattore. I comunisti fanno parte di questo processo, sono nel movimento, che è cosa ben diversa dall'essere per il movimento o discutere di esso (Tesi di Roma 1922, di Napoli 1965 e di Milano 1966 della Sinistra Comunista). Ma è proprio una simile lunga prospettiva di lavoro che rende impaziente l'attivista, nel quale prende allora il sopravvento lo scatto d'azione contingente e, insieme, la demoralizzazione. Questa cecità dell'attivismo nei confronti dell'attività realmente possibile, malattia che esplode acuta in ogni occasione di "mobilitazione politica", va naturalmente attribuita alla mefitica epoca in cui viviamo e non certo a qualche individuo sprovveduto. Tuttavia tanti fabbricatori di parole d'ordine potrebbero almeno copiare dall'avversario, rendersi conto che il grande "nemico di classe" è in grado di pianificare, con studi preventivi di fattibilità, grandiose operazioni produttive, messe poi in atto con strumenti adatti in modo assai professionale e antidilettantesco, secondo strategie di applicazione sistematica di energia lavorativa, sottoposta a rigorosi criteri scientifici.

Abbiamo messo in corsivo le parole che Lenin utilizza instancabilmente contro populisti e menscevichi: bombaroli e barricadieri i primi, chiacchieroni e facitori di vuoti proclami i secondi; entrambi poco inclini a quel lungo lavoro in prospettiva nel movimento che consentirà al partito di essere storicamente idoneo quando la situazione non permetterà più di disquisire su condizioni oggettive e soggettive. Perché in fondo di questo si tratta: raggiungere efficacemente lo scopo attraverso l'unità di teoria e prassi, come fa la borghesia in una qualunque sua fabbrica moderna. Compito pratico, se ve n'è uno, ma così difficile da digerire da parte dei "pratici". Quante volte Marx ha gridato ai sordi e mostrato ai ciechi che il più grande proclama politico può essere sbandierato come universale fin che si vuole, ma è meschino e limitato in quanto parte da individui; mentre un piccolo passo della lotta quotidiana del proletariato in difesa delle proprie condizioni è universale e potente perché materialmente in coerenza col fine di una società senza classi?

Vinse il partito del rigore teorico

Il partito bolscevico che, secondo l'iconografia di moda fino a qualche anno fa, era un partito d'acciaio in grado di "fare" la rivoluzione, era in realtà un "piccolo gruppo compatto che camminava per una strada dirupata e difficile sotto il fuoco del nemico" (Lenin). Altri gruppi maggiormente legati alla tradizione russa erano ben più numerosi e importanti dal punto di vista del legame con la popolazione e con lo stesso proletariato. In molte occasioni il partito aveva sbandato pericolosamente e persino alla vigilia dell'insurrezione vi fu una battaglia interna perché gli elementi più "attivi" (Stalin, Zinoviev e Kamenev erano tra questi) non avevano valutato materialisticamente il momento e temevano una sconfitta. Eppure proprio quel partito che, pur zeppo di contraddizioni interne, meno si era agitato e meno si era dimostrato appariscente sulla scena russa prima della presa del potere, fu l'unico che ebbe una conoscenza scientifica dei fatti materiali, fu l'unico a capire quale fosse "la settimana che non bisognava lasciar passare". Questa capacità non fu conquistata con le velleità che, in Russia più che altrove, permeavano le organizzazioni politiche, ma con un lavoro sistematico di decenni, in vista di quel momento in cui la prassi si salda alla volontà e viene rovesciata in un sistema superiore di rapporti sociali. Ecco perché alla fine quel partito ebbe la vittoria, non altri.

La situazione russa era molto particolare sotto tutti gli aspetti, come faceva notare lo stesso Lenin alla vigilia dell'insurrezione, mentre in Europa già in quegli anni era possibile ipotizzare per la rivoluzione un percorso meno impacciato da gravami di un passato autocratico e feudale. Ma la rivoluzione europea era una rivoluzione unica che comprendeva anche la Russia e fu un errore storico di portata gigantesca sopravvalutare la percezione soggettiva dei partiti sulla differenza di situazioni oggettive; così, mentre da una parte la rivoluzione vinceva, dall'altra si iniziò a teorizzare fronti e cedimenti tragici che finirono per consegnare la vittoria all'avversario, che ebbe tutto il tempo di giungere per via del tutto legale e indisturbata alle soluzioni fasciste.

Anche i russi caddero in questa trappola storica e, proprio nella situazione oggettiva apparentemente più favorevole, quella occidentale, specie in Germania, assecondarono la politica democratica dei partiti, che tradirono tutti impantanandosi nella pratica frontista e democratoide. Unico partito controcorrente fu il PCd'I, guidato dalla Sinistra, ma fu presto inglobato nella marciante "bolscevizzazione" antifascista e decapitato della sua direzione rivoluzionaria.

I rivoluzionari comunisti perseguono obiettivi che non derivano dal loro pensiero ma sono già operanti in potenza nella società di oggi. I loro intenti non sono che l’espressione teorica e pratica di fatti sociali, di determinazioni materiali che esistono già a livello latente e si offrono all’attenzione critica soggettiva: in altri termini la soggettività rivoluzionaria è, certo, il lato cosciente di un processo materiale soggiacente, ma ne fa parte, giusta il Manifesto; non è "altrove", in qualche segreteria. Quindi fra situazione oggettiva e intervento soggettivo non c'è mai separazione, e se la si vede è perché si intende la soggettività come avulsa dal contesto storico.

La tattica rivoluzionaria non è un fatto di elaborazione teorica da ricavare dalle situazioni contingenti, come mostrano credere in molti. Il termine ha origine militare antica (taktiké, téchné), significa propriamente "scienza della disposizione"; non deve essere adoperato per designare un qualcosa di diverso rispetto alla strategia ma una sua parte integrante, indispensabile nel raggiungimento di obiettivi parziali verso quello finale. La disposizione delle forze militari dipende dal terreno, dalle armi utilizzate, dal numero degli uomini, dall'epoca in cui avviene la guerra ecc. e non dai comandanti, la cui abilità è quella di sfruttare le condizioni oggettive nell'ambito del risultato finale (questa fu per esempio la superiorità degli eserciti rivoluzionari e napoleonici sugli eserciti dinastici).

Dal punto di vista sociale la tattica è data dalle condizioni altrettanto materiali che abbracciano interi archi storici e grandi aree geografiche. Non si tratta di condizioni riguardanti un terreno in senso stretto, bensì della disposizione degli uomini sul "terreno sociale", che è quello delle alleanze, dei compromessi, della cosiddetta politica. Tutto ciò, in quanto materialmente determinato come il terreno vero e proprio, ovviamente non può derivare da qualche specifica azione di singoli uomini ma piuttosto dal modo di produzione dominante nei grandi archi storici e grandi aree. La tattica è quindi sintesi ed elaborazione prodotta da uomini, sempre però sulla base di fatti materiali tratti dalla società: non sono mai gli uomini che fanno la tattica ma è la società che muove gli uomini secondo modalità date. E' su queste modalità che si innesca l'azione, rivoluzionaria o controrivoluzionaria che sia. Per questo la Sinistra Comunista, unica al mondo e contro tutti, insistette molto sulla tattica come determinazione univoca e non come espediente che si possa scegliere fra tanti. Se la tattica fosse una specie di tecnica da applicare, non si capirebbe il senso dell'affermazione materialistica della Sinistra: non è il buon partito che fa la buona tattica, ma è la buona tattica che fa il buon partito. Detto in altre parole, il soggetto partito è "buono" solo se è ben prodotto dalle determinazioni oggettive della storia e solo a questa condizione può diventare, inscindibilmente dal resto, buon fattore di storia. In questo senso antisoggettivistico preferiamo evitare la frase "applicare una tattica", dato che evoca la realizzazione di una ricetta.

Irriducibili costruttori di condizioni soggettive

"I nostri intenti – diceva Antonio Labriola, in questo più coerente di tanti comunisti attuali – sono razionali, non perché fondati su argomenti tratti dalla ragion ragionante, ma perché desunti dalla obiettiva considerazione delle cose". Questa potrebbe essere una buona definizione del termine "tattica", in spregio ai moderni raffazzonatori di interpretazioni quando non di novità tout court: l'oggettiva considerazione dei fatti rende la tattica data in ogni momento storico e geografico.

Gli irriducibili costruttori di condizioni soggettive sempre e comunque, invocano il Che fare? di Lenin come contenitore di ricette tattiche. Eppure si tratta di un testo contro la becera soggettività degli attivisti e a favore di uno scientifico rovesciamento della prassi nel partito politico: non sono i comunisti che devono abbassarsi al livello delle masse ma sono queste ultime che, per determinazione materiale, si innalzeranno al livello del comunismo e del partito; perché questi rappresentano il futuro verso cui le masse saranno portate dalle loro stesse condizioni di vita.

Ah, ma allora siete attendisti! Punta il dito l'attivista. Questi fabbricatori di "ismi" non si riposano mai. I rivoluzionari sono anche coloro che sanno quando esistono le condizioni a loro favorevoli e lavorano compatibilmente con i rapporti di forza esistenti in ogni frangente, perciò sanno anche "attendere" quando è il caso. Se vogliamo utilizzare questa insulsa contrapposizione, hanno quindi una virtù che gli attivisti, sempre tesi ad imboccare presunte scorciatoie, non hanno. Marx, Engels, Lenin e il partito bolscevico "attesero" facendo il lavoro che era permesso dai rapporti di forza reali; la Sinistra "attese" lunghi anni ritessendo le fila del movimento e rimettendo in piedi la dottrina devastata dallo stalinismo. Insomma, i comunisti seppero prepararsi in modo sistematico, professionale, non dilettantesco.

Lenin non considerava affatto il Che fare? un manuale universale sul rapporto fra soggettività e situazioni oggettive. Al contrario: nella prefazione alla raccolta di articoli intitolata Dodici anni respingeva vivamente la concezione secondo cui egli avrebbe voluto erigere a principii universali delle formule redatte in un contesto polemico particolare. Spiegava la loro validità relativa col fatto che il suo testo tendeva a "raddrizzare il bastone curvato dagli economisti" torcendolo in senso contrario, perché col Che fare? si era imposto di sottolineare con forza il fatto che solo quando esiste una classe rivoluzionaria e solo quando questa si leva "spontaneamente" alla lotta (e naturalmente spiega l'accezione non banale in cui bisogna leggere il termine) ha un senso l’organizzazione che "educa le masse", come si diceva a quel tempo. Diremmo, fedeli allo schema del rovesciamento della prassi, che le masse diventano ricettive rispetto alle indicazioni del partito rivoluzionario quando le spinte materiali già le pongono in quell'ottica e solo allora possono riconoscere il partito stesso come unica direzione. Per la vittoria della rivoluzione politica non ci sono condizioni oggettive e soggettive separate: se ci sono le une, ci sono anche le altre, o meglio: la condizione rivoluzionaria oggettiva comprende l'esistenza del partito.

Quindi anche i concetti espressi nel Che fare? sono riflessi di fatti reali riguardanti la Russia nei primi anni del secolo, di un movimento oggettivo che, nello stesso tempo, pone problemi ed è fattore di quel partito che è l'unico a potervi dare risposta, a poter avanzare soluzioni adatte alla battaglia sul campo. Il significato dell'opuscolo, ci dice lo stesso autore, non sta in formule che dopo un decennio mostrano già gli anni; sta nel metodo universale per trarre formule particolari. Sta perciò nella critica a chi segue attivisticamente il movimento invece di rappresentare il suo futuro, e per questo motivo non è in grado di formulare proprio nulla.

Origine materiale della baruffa politica

La coscienza che in situazioni normali ha l'uomo di sé stesso, operaio o meno, è quella borghese, determinata non dalla sua particolare condizione immediata ma dall'intera società. Un soggetto (singolo o collettivo) che intervenisse coscientemente su tali situazioni di stasi nell'intento di provocare dinamiche nuove sarebbe destinato alla sconfitta, a meno che non sia l'interprete di un cambiamento reale che non tutti in quel momento avvertono.

Se in effetti fosse in sintonia con una dinamica reale, se stesse anticipando con lungimiranza teorica fatti nuovi, allora avrebbe possibilità di successo, ma in ogni caso sarebbe prodotto prima di essere fattore di cambiamento. Sappiamo che una vera azione di rottura non può che scaturire dal mondo esistente, ma nello stesso tempo non può che basarsi su criteri che già stanno al di fuori di esso, nel suo futuro, criteri perciò che non prendono a prestito nulla che non sia un mero strumento materiale (macchine, comunicazioni, edifici, armi, ecc.). Ecco perché la nozione non banale di partito ci permette di risolvere tanti enigmi legati ai paradossi della lotta di classe: classe che è tale solo attraverso il partito e partito che può esistere solo se è espresso dal disporsi sociale polarizzato della classe. Con il concetto comunista di partito le contraddizioni svaniscono, perché l'organo della classe rivoluzionaria attinge le sue nozioni dalla società futura e questa è l'inevitabile sbocco delle determinazioni di quella presente.

E' vero che Lenin combatté contro la concezione del partito come processo in divenire, ma quello che Lenin combatteva era precisamente il gradualismo, che vedeva gli attivisti di allora impegnati nella lotta economica come gradino per salire a quella politica e di qui alla formazione del partito per l'assalto al potere. Questa era esattamente la concezione menscevica che, dopo la degenerazione dell'Internazionale, prese piede nel mondo intero ed è ancora oggi bagaglio comune.

La dinamica integrata fra oggetto e soggetto, che chiamiamo genericamente "movimento sociale" e che sfocia nel partitico rovesciamento della prassi nell'epoca decisiva, è, come dicono i fisici, una osservabile: si possono fare su di essa misure e calcoli, si può conoscere. Dunque ogni discorso sulla società futura è mera utopia se non è accompagnato dalla descrizione delle condizioni necessarie, esistenti già nella società odierna così com'è, e dalla descrizione dei processi e degli strumenti necessari per giungervi. La rivoluzione è una strada continua sulla quale i comunisti camminano, non finisce mai, semplicemente ogni tanto viene raggiunta una meta.

Bucharin, in un congresso, disse che Bordiga era una stella immobile nel firmamento della rivoluzione e che il suo difetto peggiore era quello di saper solo parlare di teoria senza essere capace di adattare la tattica alle situazioni specifiche; anche Zinoviev, Kamenev, Trotsky, quasi tutti i bolscevichi della vecchia guardia caddero nella polemica soggettivistica, ben presto degenerata a livello personale e utilizzata dallo stalinismo per far fuori l'opposizione definitivamente tra il 1926 e il 1927. La Sinistra Comunista fu accusata reiteratamente di avere brillanti capacità teoriche ma di non aver risolto il problema soggettivo della prassi. Essa avvertì assai per tempo i suoi incoscienti detrattori del pericolo che correvano, ma sappiamo come "la prassi" andò a finire: invece di rivolgere le armi contro la classe avversaria, il partito russo giunse ad imporre la tattica frontista divenendone alleata, come successe tragicamente in Cina. Le armi, invece che contro la borghesia, furono usate dai plotoni d'esecuzione per eliminare quel che restava del partito rivoluzionario.

Anche Trotsky giunse a spiegare la mancanza di direzione in situazioni rivoluzionarie con l’incapacità politica soggettiva. Nel '22 lavorò contro la Sinistra in favore della ricomposizione con i socialisti; nel '23 le stesse critiche di incapacità soggettiva gli verranno ritorte dal partito russo in occasione della disastrosa tattica in Germania di cui fu in parte responsabile. Nel '25 scrisse un opuscolo critico contro gli errori soggettivi di Kamenev, Zinoviev e Stalin alla vigilia dell'insurrezione e fu sommerso da una valanga di infamie per il suo operato. In seguito, il passaggio dalla discussione sulla soggettività nella rivoluzione alla bieca demolizione personalistica divenne un momento centrale delle più disparate polemiche.

Il metodo appare ben radicato nelle "battaglie politiche" odierne di ogni partito o gruppuscolo; ma anche in questo campo c'è ben poco di nuovo sotto il sole, se già Engels scriveva nel 1874 a proposito delle velleità rivoluzionarie degli esuli comunardi sconfitti: "Naturalmente i disinganni seguono ai disinganni e, poiché questi non si vogliono ascrivere alle condizioni storiche ineluttabili, che non si vogliono capire, ma ai fortuiti errori dei singoli, così si accumulano le reciproche accuse e tutto finisce in una baruffa generale".

Letture consigliate:

  • "Attivismo", Battaglia Comunista nn. 6 e 7 del 1952.
  • "Lotta di classe e offensive padronali" in Partito rivoluzionario e azione economica, Quaderni Internazionalisti.
  • "La Comune fu grande in quello che dovette essere, non in quello che i suoi esponenti vollero fosse", in Il programma comunista n. 14 del 1971.
  • V. I. Lenin, "Prefazione alla raccolta '12 anni'", Opere Complete, Editori Riuniti vol. 13.
  • "Partito e Classe" e "Partito e azione di classe", Rassegna Comunista n. 2 e 4 del 1921 (ora con altri testi in Partito e Classe, Quaderni Internazionalisti).
  • Rivoluzione e sindacati, quaderni Internazionalisti.
  • I comunisti e la guerra balcanica, Quaderni Internazionalisti.

Rivista n. 2