Il fiato sul collo

Un aereo spia americano fa rotta da Okinawa per una missione di routine al limite delle acque territoriali della Cina. Deve captare segnali d'allerta per tener d'occhio le difese elettroniche ed elaborare contromisure. L'operazione è condotta con un turboelica appositamente attrezzato con sofisticati strumenti. Nella carlinga lavorano 24 persone, tra piloti e tecnici specializzati.

Gli americani fanno questo lavoro da sempre, ovunque, anche nei confronti degli alleati. I russi lo facevano con una certa intensità ai confini dell'Europa, adesso hanno altri problemi. Tra gli europei solo gli inglesi hanno sviluppato un'attività spionistica elettronica di una certa importanza. Gli altri si accontentano di quel che passa il convento nell'ambito NATO.

Questa volta sul Mar della Cina l'aereo spia americano viene intercettato. I cinesi affermano che ha violato lo spazio aereo nazionale. Inviano alcuni caccia che, invece di limitarsi al solito gioco di disturbo, tentano di deviarne la rotta e di farlo atterrare. L'aereo spia prosegue imperterrito. A questo punto uno dei caccia cinesi si avvicina troppo, entra in collisione e, danneggiato, precipita in mare. Il pilota muore. L'aereo spia, danneggiato anch'esso, è costretto ad atterrare. Per pura combinazione, sembra, l'incidente avviene quasi nei cieli dell’isola di Hainan, dove c'è una base militare cinese con tanto di pista. L'aereo è circondato dalle truppe e i 24 dell'equipaggio sono sequestrati in una caserma. I tecnici cinesi, senza badare alle pretese americane sulla extraterritorialità della carlinga, incominciano a smontare le apparecchiature per studiarle. Il dipartimento di Stato americano comunica che per simili eventualità sono previste procedure di autodistruzione dei dati e quindi non c'è pericolo che vengano svelati, ma "la violazione è intollerabile". Come se gli avessero smontato l'ambasciata a Pechino.

A proposito. Come al tempo del bombardamento sull'ambasciata di Belgrado nel '99, in Cina si scatena l'offensiva sui media, specie su Internet. L'America ridiventa il nemico numero uno, rispuntano i toni da guerra fredda. Tuttavia, stranamente rispetto alle abitudini, le "masse indignate" disertano la piazza. Niente pietre contro l'ambasciata USA. Invece i falchi americani, al solito, incominciano ad agitarsi e a far pressione sul presidente e il suo staff affinché facciano i duri; ma questi decidono di prendere la questione con le molle. Insomma, Pechino non è Belgrado. Da parte sua la Cina rifiuta di rilasciare l'equipaggio se non vengono fatti passi ufficiali di riconoscimento del "torto" e considera l'aereo un bene sequestrato definitivamente. I falchi americani naturalmente vanno in bestia, ma il presidente, il ministro della difesa e il segretario di stato, rappresentanti di forze più sostanziose, capiscono l'antifona: nello scacchiere asiatico stanno maturando cambiamenti. Forse è addirittura per questo che ci si sta misurando a vicenda. Significherà pure qualcosa, per la Cina e per gli Stati Uniti, che la prima sia diventata la seconda potenza economica mondiale come Prodotto Interno Lordo (in unità standard d'acquisto).

La distruzione di un'ambasciata in un paese sotto bombardamento può essere fatta passare per normale: nel flipper della guerra elettronica è persino plausibile giustificarsi con un "baco" nel software che descrive le mappe dei bombardieri. Ma l'aggressione a freddo in acque internazionali, sia pure di un aereo spia, la requisizione dello stesso e l'imprigionamento di 24 tecnici militari è impossibile che passi come errore di qualcuno o di qualcosa. Infatti la Cina non insiste neppure granché sul fatto giuridico, sulla dinamica degli avvenimenti e sulla negazione di una sua mossa deliberata, come si fa di solito. Ha agito al momento opportuno, approfittando del fatto che c'è un presidente appena insediato con lo staff ancora in rodaggio. Che la sua versione non sia plausibile è un fattore secondario. Ed è la prima volta in assoluto che una potenza minore intercetta un mezzo di una maggiore in acque internazionali, facendo poi quel che vuole, senza temere ritorsioni.

Comunque, di fronte a un episodio che in altri tempi avrebbe provocato tensioni da cardiopalmo, ogni "parte lesa", compresa la superpotenza, sembra rimanere tranquilla. Agli strilli dei falchi che invocano vendetta, il presidente prende tempo, mentre il suo collega cinese annuncia che se ne andrà per due settimane in America Latina secondo programma stabilito. Come dire: i tempi della trattativa potrebbero essere lunghi. Per Bush "più si va in là, più si giunge al punto in cui le relazioni con la Cina possono rimanere danneggiate". Contemporaneamente il segretario di stato decide, proprio per questa ragione, che è meglio comunicare subito "il profondo dispiacimento del popolo americano e del presidente per la scomparsa del pilota cinese e per il dolore della sua famiglia". I giornali ricordano en passant che l'interscambio USA Cina è di 100 miliardi di dollari, quasi tutto di esportazioni verso gli Stati Uniti, e deve essere approvato dal Congresso in estate. La Cina vuole dai suoi interlocutori apologies, scuse ufficiali, non solo sentirsi dire sorry, spiacenti. Il segretario di stato americano aggiunge: very sorry, molto spiacenti. Trovata l'apparente chiave per rompere le ostilità, iniziano le trattative. Il 18 aprile c'è persino un incontro bilaterale fra tecnici per definire le procedure da seguire nel caso si ripetessero in futuro incidenti del genere.

L'episodio del "gravissimo affronto" cinese finisce con l'equipaggio americano che se ne torna a casa, con i pezzi dell'aereo smontato che rimangono dove sono e con le due potenze che, dopo essersi accuratamente misurate, rivedono reciprocamente la propria politica estera. Gli Stati Uniti dispiegano l'armamentario consueto: attenti che siamo noi i compratori delle vostre merci; siamo noi che possiamo muovere i capitali internazionali e voi siete in pieno sviluppo; noi possiamo influire sul vostro ingresso nella WTO; noi possiamo innescare processi internazionali per la moratoria sui missili e sullo sviluppo nucleare; noi vi possiamo scatenare una campagna sulla questione dei diritti umani; noi possiamo armare Taiwan con missili sofisticati e navi ultimo grido; noi possiamo persino mandarvi all'aria la candidatura alle Olimpiadi del 2008. La Cina ascolta con millenaria pazienza, sono cose che sa già benissimo, senza bisogno di una nuova elencazione.

In un paio di settimane le due potenze sembrano aver bruciato le tappe ed essere passate da partner strategici a concorrenti strategici. Commentano i giornalisti specializzati: era un passaggio inevitabile, già in preparazione da anni, ma adesso i tempi sono cambiati e la Cina sonda l'America meglio di quanto fece la Russia con Kennedy a Cuba. Di certo con più sicurezza, dato che i rischi immediati sono pari a zero. La Cina fa vedere i muscoli al mondo, si arma come non mai, mostra la decadenza degli Stati Uniti sullo scacchiere strategico mondiale e in prospettiva diventa persino un temibile concorrente economico. C'è un po' di esagerazione, forse perché del giornalismo politico "il fin è la meraviglia". D'accordo, la Cina è grande, popolata come nessun altro paese, misteriosa, in crescita frenetica, ambiguamente capital-comunista, per giunta con successo; sarà quasi certamente il nuovo concorrente sul piano mondiale, con il suo ritmo di sviluppo, anche supponendo un fisiologico rallentamento dovuto alle leggi della crescita; si prevede che in vent'anni raggiungerà gli Stati Uniti come potenza economica. Ma proprio perché la sua politica nei confronti del mondo verrà di conseguenza, dev'essere tenuta d'occhio fin da adesso. Ai falchi americani non piace per niente la prospettiva, ma neppure a tutti gli altri. Un imperialismo cinese poggiato su un paio di miliardi di abitanti che producessero a ritmi giapponesi avrebbe conseguenze inimmaginabili.

Per dirla all'americana, il miglior concorrente desiderabile è quello morto, ma non può morire la Cina. Perciò non ci sarà una nuova guerra fredda con una nuova potenza "rossa", non ci saranno Cortine di Bambù. Semplici considerazioni sul piano geostorico mostrano uno scenario meno banale e più realistico, di fronte al quale il recente gioco diplomatico si rivela per ciò che è: uno dei fenomeni del continuo assestarsi dei rapporti interimperialistici, il susseguirsi di scosse telluriche superficiali della politica estera degli Stati, la quale non fa che assecondare il movimento tettonico profondo, quello dovuto alla maturazione delle varie aree ormai definitivamente conquistate al Capitale.

La Cina in questo dopoguerra ha già avuto scontri militari di una certa entità con la Russia, con l'India e con il Vietnam; il Giappone non è tradizionalmente alleato e la Corea è sotto pressione da parte di Stati Uniti ed Europa in vista di una probabile futura unificazione. Essa non ha dunque intorno un solo paese "amico". D'altra parte il suo sviluppo attuale può procedere unicamente se è garantita la stabilità economica e politica per un tempo che si misura a decenni, dato che richiede uno sforzo sociale immenso, di cui i duecento milioni di disoccupati attuali sono soltanto il fenomeno più visibile. Già masse di uomini assaltano le sedi del potere centrale, incendiando intere città, per ora nell'isolamento totale dovuto alle grandi distanze del paese e ai pochi collegamenti con l'estero. Probabilmente le notizie degli scontri più gravi non ci arrivano nemmeno. Oltre ai veri e propri scontri di classe, si diffondono il misticismo e la "delinquenza", importanti indicatori sociali del malessere. Questi fenomeni sono presi di petto dal governo attuale, con interventi militari, deportazioni e migliaia di fucilazioni.

L'Europa nell'area conta ben poco. La Cina ha bisogno di non avere gli Stati Uniti come avversario ulteriore ma non vuole neanche sentirsi il fiato sul collo. Ormai è troppo potente per sopportare quelle ingerenze interne che ha rifiutato per millenni. Gli Stati Uniti hanno bisogno della Cina per la loro politica orientale, ma gli servirebbe meno indipendente. La quadratura del cerchio non è fattibile. D'altra parte Giappone, Russia e India non sono alleati tradizionali e gli Stati Uniti devono per forza continuare la politica orientale imperniata sulla Cina iniziata da Nixon. Ognuno dei due paesi non può che appoggiarsi all'altro, ma non può ovviamente rinunciare al proprio ruolo locale e mondiale. I sondaggi reciproci, compresi gli "incidenti" di percorso, vanno intesi in questo senso: sempre più concorrenti, ma sempre più legati da comuni interessi.

Rivista n. 4