Il vicolo cieco palestinese

"Israele rappresenta un vero e proprio trapianto di capitalismo moderno nelle plaghe desertiche della Palestina rimaste nell'abbandono per decine di secoli. La rivoluzione industriale capitalista vi ha raggiunto il limite estremo delle possibilità storiche, costituendo un esempio di rivoluzione borghese fino in fondo, dato che è assente ogni traccia dei preesistenti rapporti feudali. ("La crisi del Medio Oriente", Il programma comunista n. 21 del 1955).

Un retroterra complesso

La seconda intifada, più della prima, è l'effetto dell'erosione dei vecchi equilibri medio-orientali e dell'impossibilità di una vera alternativa nazionale palestinese. Un altro effetto è la crisi profonda in cui versa la borghesia israeliana, che non può più dare soluzione pragmatica e drastica ai problemi interni di Israele come faceva un tempo e che, con la fine della guerra fredda e soprattutto con la Guerra del Golfo, non può più fungere da lunga mano degli Stati Uniti, oggi presenti in prima persona in Medio Oriente con un corpo di spedizione militare fisso di 50.000 uomini (30.000 in Arabia Saudita). Nel frattempo l'Europa, assente finora dalla scena medio-orientale, cerca di inserirsi in veste di negoziatore informale, come dimostrano i recenti incontri fra l'OLP e i ministri degli esteri dei maggiori paesi europei e il tentativo di rompere l'isolamento di Iran e Iraq.

Pesa sulle borghesie locali un'ambiguità di fondo, dovuta alla storia di una terra che, disgraziatamente per le popolazioni che la abitano, si è trovata al crocevia della geopolitica planetaria degli Stati Uniti e dell'URSS. Da quando questa storia si è pietrificata in fedi contrapposte, è sempre più difficile affrontare gli avvenimenti in quest'area senza cadere nella tentazione di schierarsi. Eppure la posizione marxista è sempre stata chiara: i comunisti si schierano con una borghesia solo quando questa è impegnata in una rivoluzione nazionale contro il feudalesimo o altri antichi modi di produzione. In tutti gli altri casi la consegna è: disfattismo, trasformazione della guerra borghese in guerra civile. La nostra scuola ha sempre rifiutato la tesi russa secondo cui la lotta del popolo palestinese sarebbe una rivoluzione nazionale borghese contro l'oppressione colonialista israeliana: si tratta invece di una lotta fra due borghesie che, quando c'erano entrambe le grandi potenze a far da tutori, erano schiave di una lotta mondiale per il controllo strategico del Medio Oriente. Un fenomeno non dissimile da tutte le balcanizzazioni del mondo, che ha visto le nazionalità in lotta utilizzare i metodi partigiani classici, soprattutto il terrorismo.

Quando gli Stati Uniti in Medio Oriente scalzarono l'Inghilterra, non ne adottarono i metodi coloniali. Stabilirono invece delle teste di ponte nazionali indipendenti, portandole al massimo sviluppo compatibile con i loro interessi, rimanendo del tutto indifferenti di fronte al tipo di governo che si instaurava: tribale, monarchico o repubblicano che fosse. Così Israele, Iran, Arabia Saudita, Giordania, Iraq, Libano, Egitto, in anni diversi e con alterne vicende, rappresentarono il tramite della penetrazione e del consolidamento americani nell'area. Israele in particolare fu una creatura specificamente americana. Il programma nazionale sionista non aveva di per sé nessuna possibilità pratica di attuazione, ma questa fu offerta dagli Stati Uniti, prima in funzione anti-inglese, poi anti-russa. Nel 1947 l'ONU aveva presentato un piano per la spartizione della Palestina in due Stati, uno arabo e l'altro ebraico. Gli ebrei l'avevano accettato, gli arabi no. Gli USA favorirono l'immigrazione ebraica, e i gruppi sionisti intensificarono una spietata guerriglia anti-araba. Nel 1948, alla scadenza del mandato britannico, le forze ebraiche avevano proclamato lo Stato d'Israele, forti di un buon controllo del territorio. Ne era seguita la prima guerra arabo-israeliana: cinque eserciti della Lega Araba avevano attaccato, subendo però una dura sconfitta. Israele, Egitto e la futura Giordania si erano infine spartite la Palestina. 600.000 palestinesi avevano dovuto abbandonare le loro terre.

La "questione palestinese" com'è stata tramandata fino ad oggi ha origine dunque con la fine della guerra nel 1949. Di essa si impadronì poco per volta l'imperialismo russo, che stava muovendo le sue pedine nella delicata area. L'URSS vi si inserì come concorrente degli Stati Uniti riuscendo ad allearsi all'Egitto, all'Iraq e alla Siria, tutti paesi, detto en passant, che imprigionavano o uccidevano i comunisti.

La nostra corrente sottolineò il cinismo dei due imperialismi: quello americano, che utilizzava con impudente opportunismo il massacro degli ebrei; quello russo, che s'impossessava della tragedia dei profughi palestinesi dopo aver espulso dalle loro terre per ritorsione bellica 16 milioni di tedeschi. Entrambi, come alleati di guerra, dopo aver ammazzato o fatto morire di stenti un milione e mezzo dei 6 milioni di prigionieri tedeschi, anche a guerra finita. La martoriata popolazione palestinese diventava carne da cannone per le politiche intrecciate dell'URSS e delle nascenti potenze arabe locali. La formula russa dell'anti-imperialismo partigianesco non aveva nulla di comunista, tanto più che era basata su una falsa premessa, dato che in realtà il "neo-colonialismo" americano non era da confondere con l'oppressione dei popoli colonizzati da parte delle vecchie potenze.

Lo sconvolgimento che impiantava capitalismo moderno in un territorio desertico e del tutto arretrato, "una tabula rasa economica e sociale", era da considerarsi anzi positivo, come tutti i processi che fanno saltare antiche forme sociali in grandi aree del pianeta. La Seconda Guerra Mondiale aveva invertito le parti nel copione: l'immobile millenario Oriente, conquistato all'accumulazione capitalistica, diventava dinamico e rivoluzionario; il dinamico Occidente, responsabile del sovvertimento, diventava invece un immobile conservatore della forma capitalistica in casa sua.

Per comprendere la "questione palestinese" era dunque necessario sgombrare il campo dalle distorsioni indotte dalla concorrenza fra i massimi imperialismi, anche perché i grandiosi avvenimenti in corso non permettevano neppure ad essi politiche del tutto coerenti: "Contraddizioni dello stesso ordine di quelle che spingono l'imperialismo americano ad appoggiare la rivoluzione israeliana, costringono la Russia a sostenere l'Egitto, che ha compiuto solo a metà la rivoluzione borghese" ("La crisi del Medio Oriente", cit.). In breve, la Russia "progressista" e l'America "reazionaria" si schieravano secondo i loro sfacciati interessi senza badare troppo alla Causa di ogni loro protetto. In questo modo non era difficile smascherare il preteso progressismo internazionalista dell'URSS. Essa per esempio vendeva enormi quantità d'armi inutili all'Egitto nasseriano dissanguandolo, mentre non faceva nulla per demolire i rapporti agrari pre-capitalistici tipici di quel poverissimo paese. Nello stesso momento considerava "reazionario" il nemicissimo Israele che coronava la sua rivoluzione nazionale borghese nel segno dell'industrializzazione della terra, esprimendo tra l'altro forme comunitarie come i modernissimi kibbuzim agro-industriali, assai più avanzate degi ultra-reazionari colcos. Non era neppure difficile capire che la marea di dollari americani avrebbe sconvolto equilibri millenari più di tutte le demagogie filo-russe o non-allineate.

Israele e OLP sempre più complementari

Oggi le condizioni di concorrenza inter-imperialistica fra USA e URSS non esistono più, ma la "questione palestinese" è rimasta e si è sempre più incancrenita. Si tratta, come allora e come al solito, di inquadrarla dal punto di vista del potenziale sviluppo della rivoluzione comunista e non da quello degli interessi contrapposti delle borghesie in campo.

La prima intifada, si disse, obbligò gli israeliani ai negoziati. Il risultato fu il tentativo di un mostruoso non-stato palestinese causa prima di questa seconda intifada e di un'altra stagione di negoziati, che ancor meno delle precedenti può assicurare uno sbocco favorevole ai palestinesi. La nuova ondata di lotte incominciò alla moschea di al-Aqsa, dove l'attuale leader israeliano Sharon si era presentato improvvisamente con una scorta armata. Davanti a uno dei luoghi più santi dell'Islam, si trattava di una provocazione sul momento, apparsa così folle da lasciare interdetta persino la oltranzista lobby ebraica americana. Oggi, con la trasformazione dell'intifada e della sua repressione in una guerra aperta, sicuramente suicida per i palestinesi, forse è più chiaro il senso di quella provocazione: passare alla soluzione armata, imporre la gabbia del non-stato. Ma perché questa svolta?

Israele sta sterminando la direzione dei gruppi palestinesi. Da quando è iniziata l'intifada, circa 50 leader di ogni fazione sono stati assassinati dagli israeliani in operazioni preparate dai servizi segreti e sincronizzate con le vicende della rivolta per usare il pretesto della "ritorsione al terrorismo". Molte sedi politiche e amministrative sono state sistematicamente rase al suolo con lo stesso criterio. L'eliminazione programmata della struttura politica e amministrativa palestinese, uscita dagli inutili accordi passati, non può essere semplicemente un atto di guerra. I Territori, l'area sulla quale dovrebbe sorgere il non-stato palestinese, sono stati in pratica rioccupati militarmente, dato che le vie di comunicazione sono bloccate dai carri armati e da fortini militari. Lo stesso Arafat è tenuto sotto stress: intercettato da una pattuglia corazzata israeliana, è stato per esempio umiliato platealmente con un’azione che l’ha costretto, con tutto il suo staff e il convoglio armato di protezione, a raggiungere la sede dell'OLP attraverso i campi.

Se lo stato sionista non sarà fermato – e solo gli USA possono farlo – sarà posata la pietra tombale su ogni prospettiva di autonomia statale palestinese, posto che una simile prospettiva abbia mai avuto fondamento reale. Israele sa benissimo che non c'è pericolo di guerra con gli Stati arabi e che il suo massimo vantaggio deriverebbe dall'attuazione integrale del programma per l'asfittica entità statale palestinese, con a capo il solito Arafat. Ma questa soluzione non è ovviamente accettabile dalle masse palestinesi.

Qui sta il problema di fondo. La massa palestinese è estremamente composita. Essa non esprime solo politici corrotti, lanciatori di pietre e martiri imbottiti di tritolo, ma anche forze che non accettano gli attuali equilibri e che potrebbero mettere in crisi l'assetto attuale dell'OLP con programmi alternativi. L'uccisione premeditata da parte israeliana del leader del Fronte Popolare di Liberazione della Palestina, e di decine di altri militanti tra le forze che sono critiche nei confronti dell'attuale direzione, mira a scardinare ogni possibilità di cambiare lo statu quo, e a prevenire lo sviluppo di una forza che possa diventare un’alternativa non solo sui documenti programmatici. Non se non se ne sente mai parlare, ma esistono programmi palestinesi meno assurdi di quelli ufficiali e meno ciechi di quelli suicidi.

L'antico Fronte del Rifiuto, un tempo influenzato dall'URSS e dalla Siria, esiste ormai solo di nome. Oggi le sue componenti storiche hanno dato vita, insieme a gruppi di nuova formazione, a una coalizione che, abbandonata la vecchia, velleitaria parola d'ordine della "distruzione dello Stato di Israele", si muove a favore di un'ampia prospettiva, basata sulla realtà internazionale del popolo palestinese e su di una politica pragmatica a partire dalle risoluzioni dell'ONU. Non si tratterebbe di giungere alla spartizione brutale prevista dagli accordi di Oslo del 1993, ma di costruire insieme, arabi ed ebrei, una Grande Palestina sul suo territorio storico. Se il programma di Israele è di portare a due milioni i nuovi immigrati ebraici – si afferma – può esservi il corrispettivo di due milioni di palestinesi che tornano alla loro terra. Per entrambe le popolazioni dovrebbe esservi libertà di movimento e autonomia. Dovrebbe essere rifiutato lo stato confessionale da entrambe le parti.

Non si tratta di un programma immediato, ma di una prospettiva che sta trovando interlocutori in Israele ed è comunque, nell'ambito delle soluzioni praticabili, meno pazzesca di tutte le altre. E' una variante edulcorata del vecchio programma stilato dal Fronte Democratico Popolare di Liberazione della Palestina più di trent'anni fa, l'unico organismo che abbia mai contemplato la lotta congiunta fra proletari palestinesi e israeliani per una rivoluzione comune e che, in uno scenario così terribile, si avvicinasse ad un programma comunista.

Quella che potrebbe mettersi in moto è una forza in grado di superare la politica attuale dell'OLP, contraddittoria com'è, ancora prigioniera delle logiche interne all'attuale direzione del movimento, che è un blocco politico-militare di correnti disomogenee e quindi sottomesse ad ogni compromesso. Per debole e inascoltata che sia nei consessi internazionali, è una forza prodotta dalla situazione da vicolo cieco in cui si è giunti, dalle determinazioni reali che spingono per uscirne. E' una tendenza di rottura importante, per questo già messa sotto osservazione dai servizi segreti e dagli specialisti militari (cfr. l'articolo di Jane's).

Per ora sembra che la soluzione sia quella di eliminare questa tendenza ma, dato che non esiste più la contrapposizione USA-URSS, se si mettono in moto processi che in ambito internazionale trovino forze in grado di assecondarli, potrebbe scaturirne la sconfitta dell'ultra-nazionalismo israeliano, del nazionalismo venduto dell'OLP e delle opposte componenti terroristico-religiose, i maggiori fattori dell'eterno massacro. Altra soluzione borghese non esiste. Forse non è un caso che in campo ebraico stiano nascendo forze speculari, per ora solo correnti dell'intellighenzia, contrarie all'eternizzazione della guerra e favorevoli non tanto al negoziato quanto a soluzioni realistiche. E non è certo neppure un caso che ad adoperarsi per la fine del conflitto siano stati chiamati ufficialmente i servizi segreti americani e israeliani, almeno da quando il direttore della CIA George Tenet, alcuni mesi fa, intervenne direttamente in appoggio all'ennesimo "piano di pace". Sia l'OLP che Israele avevano immediatamente accettato, ma evidentemente le forze reali sul campo agivano in direzione diversa.

Impotenza della soluzione nazionale in ambito globale

L'OLP è sempre stata un'emanazione di politiche altrui. Corrotta dai "contributi" degli stati arabi, asservita alla politica degli stati occidentali che ne fanno l'unico interlocutore ufficiale, questa organizzazione è il veicolo principale della sconfitta palestinese. Minaccia la guerra santa di tutta la "nazione araba" sapendo benissimo che è una sciocchezza, perciò siede a tutti i tavoli negoziali che gli sono offerti in un eterno nulla di fatto. Non ha un programma definito per gli scontri, non ha la direzione reale sul movimento, ma lo sbatte sui tavoli delle trattative come se avesse un peso militare, facendo il gioco dei falchi israeliani e dello schieramento arabo, cioè del massacro e dello scaricabarile. Da che l'URSS è stata spazzata via, gli stati arabi ad essa alleati hanno ben altri problemi, a cominciare dal malessere interno che cresce. I palestinesi servono ormai solo come manodopera internazionale a basso prezzo. Tutti farebbero volentieri a meno una buona volta della costosa e insolubile "questione palestinese".

Gli accordi di Oslo furono congegnati appositamente per consentire all'organizzazione rappresentata da Arafat di impiantare sulla West Bank e su Gaza una sorta di autogoverno in grado di garantire "lo sviluppo e la convivenza pacifica delle due comunità". In realtà si trattava di controllare non tanto lo sviluppo economico e sociale autonomo dell'entità palestinese quanto l'attività delle organizzazioni politiche, soprattutto delle loro ali militari. Fin dall'inizio la cosiddetta Autorità Palestinese è stata un direttorio corrotto, detestato dalla popolazione, capace soltanto di lanciare truci parole d'ordine alle masse furibonde per averne l’appoggio, mentre, nello stesso tempo, internazionalmente utilizzava il linguaggio della diplomazia imperialistica per non perdere la fiducia dei finanziatori.

L'imperialismo americano e la sua propaggine israeliana non hanno fatto un accordo con la borghesia palestinese, che è assente, ma con un suo surrogato coatto, abbondantemente plasmato negli anni affinché corrispondesse alla bisogna. La vera borghesia palestinese del resto è contenta così, perché si è internazionalizzata, come il "suo" popolo; mentre questo è sfruttato nelle fabbriche e nei cantieri di mezzo mondo, essa fa affari d'oro, specie in Occidente. Nessuno meglio di Arafat e del suo entourage può dunque rappresentarla, o meglio, sostituirla in tutto e per tutto.

Oggi, nel momento in cui corre il rischio di essere travolta dalla sua stessa demagogia e da una guerra popolare di vastità imprevista, l'OLP si ricorda improvvisamente della "fratellanza araba". A Oslo la fratellanza araba non esisteva. Siria e Libano, che pure avevano in comune coi palestinesi lo stesso contenzioso su aree occupate, non erano neppure consultati; non parliamo di Libia e Iraq, troppo scomodi nemici degli Stati Uniti, e naturalmente del non arabo ma pur sempre islamico Iran. La fratellanza araba, che è sempre stata una fola anche ai tempi di Nasser, non farà comunque nulla. Naturalmente l'OLP, prodotto di una geo-storia travagliata, ha subìto pesanti pressioni materiali da ogni direzione, questo è comprensibile. Ma il fatto è che le sue attuali posizioni non sono state imposte da nessuno, bensì assimilate spontaneamente nel solito iter universale dell'opportunismo che crede di non cedere mai abbastanza. I risultati sono sotto gli occhi di tutti.

E' vero che non vi era alcuna realistica soluzione militare contro Israele e contro gli Stati Uniti; che gli stati arabi simpatizzavano solo con parole e dollari; che i ripetuti massacri e la cacciata dalla Giordania e dal Libano avevano fatto perdere le basi più sicure. Ma già al tempo della prima intifada la direzione palestinese in esilio in Tunisia stava maturando un cambiamento di rotta decisivo, assumendo in proprio le evidenze che da ogni parte venivano continuamente sbattute sul tappeto: i cinque o sei milioni di palestinesi ormai internazionalizzati non sarebbero mai più potuti tornare in Palestina, tanto valeva perciò ottenere un territorio autonomo su cui sviluppare un minimo di economia sufficiente per fare loro da punto di riferimento. Si sarebbe sviluppata un'economia di punta nei settori tecnologici, cui la ricca borghesia palestinese all'estero avrebbe fornito capitali per poi proseguire nel circolo virtuoso degli investimenti. Insomma, una copia di quanto era successo proprio ad Israele con i capitali della diaspora ebraica, una simil-Beiruth anni '60, una Tangeri medio-orientale. Non a caso alcuni personaggi della borghesia, sentito l'odore di probabile business, incominciarono proprio in quel periodo ad essere meno assenti.

Dal punto di vista dei pragmatici borghesi della diaspora palestinese, il programma minimo dell'entità autonoma avrebbe avuto almeno il vantaggio di far terminare l'eterno massacro di palestinesi inermi, di compattare intorno a un centro politico e amministrativo gli abitanti dei campi di concentramento per profughi e gli stessi abitanti della Palestina occupata. Solo che aveva il difetto di cozzare sia contro le aspirazioni dei palestinesi, cui ovviamente importava più la propria vita che non gli affari della propria borghesia, sia contro il programma altrettanto pragmatico della borghesia israeliana, la quale ha sempre manifestato l'intenzione non solo di consolidare le proprie posizioni, ma di cacciare con ogni mezzo i palestinesi dalle terre rimastegli, anzi, di cacciarli anche dai campi profughi installati nei paesi confinanti, pericolosi serbatoi di combattenti senza nulla da perdere. Dunque i sogni di borghesi isolati non erano e non sono realizzabili, essendo, appunto, programmi di individui o gruppi che a stento possono essere chiamati "borghesia palestinese", non avendo storicamente potuto esprimere un partito o un fronte unitario nazionale bensì una miriade di gruppi federati in insiemi più o meno coerenti. Per contro quella israeliana non solo è un'autentica borghesia unita e presente, ma è ben armata, di suo e per conto degli americani, mentre non c'è una forza armata araba che possa minimamente impensierirla.

Il clima militare nei Territori è ben evidenziato da una circolare intercettata dai servizi segreti israeliani, in cui, tra le altre istruzioni tecniche ai combattenti, vi è l'ordine di smetterla di sprecare munizioni sparando in aria ai funerali dei militanti uccisi e soprattutto sui carri armati. E' vero, è inutile sparare con i kalshnikov sui mezzi corazzati. Allora a maggior ragione è tragicamente vero che in guerra è inutile bersagliarli con le pietre, anche se questa era l'unica arma che avevano centinaia di ragazzi morti in scontri militarmente assurdi. Nessun programma nazionalista minimale di borghese palestinese ben pasciuto all'estero vale una sola di quelle vite.

Nessuna soluzione borghese è possibile

Oggi, nell'epoca del capitale globale, un programma riformista come quello delle borghesie ex colonizzate del dopoguerra sarebbe impossibile anche nei paesi dei Nehru, dei Nasser, dei Mossadeq, dei Lumumba, figuriamoci sul fazzoletto territoriale in ostaggio di Israele. E comunque dovrebbe essere un programma imposto almeno da una guerra vittoriosa dei maggiori paesi arabi contro Israele, cosa, l'abbiamo visto, impossibile. D'altra parte, anche nell'ipotesi astratta dell'apertura di una soluzione locale, la borghesia palestinese partecipa troppo attivamente ai traffici mondiali per poter esprimere governi che, meno smidollati dell'OLP, nazionalizzino terre e industrie dando vita a una nazione, come fecero i citati Mossadeq, Nasser, Nehru. Arafat simboleggia una delega platonica della borghesia assente: non appena l'Autorità Palestinese ha avuto la minima possibilità di manifestare il suo dominio su uno straccio di territorio concesso in autonomia coatta, ha sviluppato per prima e unica cosa la polizia. Non l'industria, non l'amministrazione, non la scuola, neppure l'agricoltura, ma la polizia. Per di più armata da Israele con aiuti militari diretti. Ciò faceva parte degli accordi per disarmare le frazioni combattenti, ma nessuno aveva stabilito che dovesse essere l'unica attività organizzata del nascente stato-ghetto. Situazioni a rischio non sono pane per i denti dell'oculata borghesia investitrice palestinese e saudita, costa meno l'elemosina.

La velleità del programma di costituzione di uno stato palestinese indipendente è pari a quella che vorrebbe la distruzione di Israele. Dopo decenni di progetti e risoluzioni, e dopo quasi dieci anni di collaborazione attiva fra Israele e l'Autorità Palestinese, la situazione è senz’altro peggiorata. Gli insediamenti di coloni non sono diminuiti ma aumentati; l'economia di Gaza e della West Bank è molto più disastrata di prima; i proletari palestinesi che lavoravano in Israele sono rimasti tutti disoccupati; gli arabi di Gerusalemme rischiano di essere buttati fuori; l'OLP ha sempre più bisogno del sostegno delle potenze imperialistiche; l'odio fra le due comunità cresce a dismisura rompendo i già labili confini col razzismo.

Le forze israeliane e palestinesi che si rendono conto del vicolo cieco in cui si è cacciato lo scontro e che temono la comune rovina per ora sono zittite dalla forza stessa degli eventi. Ma la comune rovina non è un'ipotesi lontana, è già incominciata. La costituzione di uno stato palestinese davvero indipendente è esclusa, altre soluzioni anche: l'escalation della risposta militare porta al massacro indiscriminato; le "operazioni chirurgiche" di assassinio sistematico dei suoi capi rischiano di decapitare la stessa OLP e di indebolire ancora di più il suo controllo sulla massa palestinese; la questione dei coloni è un punto irrinunciabile per il governo israeliano, ma l'esercito non può garantire la sicurezza di ognuno di loro, dato che sono quasi 200.000 e abitano in villaggi sparsi; la compartimentazione ottenuta con i mezzi corazzati mette sotto controllo i Territori, ma il suo mantenimento significherebbe trasformarli in immensi campi profughi che richiamerebbero il solito intervento delle organizzazioni di aiuto internazionale, l'ultima cosa che Israele vorrebbe vedersi arrivare in casa; la rioccupazione militare vera e propria è impossibile a causa del numero di soldati necessario per un tempo indeterminato e dell'opposizione da parte degli stessi Stati Uniti.

In un mondo globalizzato che incomincia ad avere problemi di ordine planetario cui le borghesie nazionali non riescono far fronte, le piccole dispute rischiano di incancrenire nel totale disinteresse dell'unica effettiva potenza rimasta o, al contrario, di diventare leve locali per affrontare problemi di portata molto più vasta. Quando furono firmati gli accordi di Oslo era crollata da poco l'URSS e c'era la diffusa convinzione che si stava instaurando un nuovo, invincibile ordine mondiale. Molto è cambiato da allora, e il tempo lavora sempre più ad aggravare i problemi e ad affossare le soluzioni. Lo stesso movimento anti-globalizzazione ne è una conseguenza.

Non c'è uno stato arabo, a parte le monarchie petrolifere, che non sia in crisi e tutta l'area islamica è nella stessa situazione. Perciò la questione palestinese non può che precipitare in una rovina totale o chiarirsi nel senso di una soluzione a favore del consolidamento capitalistico e quindi della crescita del proletariato; certo non può limitarsi a una non-soluzione nazionale borghese come sarebbe un'enclave palestinese accerchiata. In questi casi, superata l'epoca delle rivoluzioni nazionali, in genere la vera soluzione borghese è la guerra fra stati; ma questa è già la soluzione tentata tre volte da parte araba, cui la spietata borghesia israeliana ogni volta ha risposto sconfiggendo gli attaccanti. D'altra parte una eventuale nuova guerra, come tutte le altre, sarebbe combattuta sotto il controllo degli Stati Uniti, che ne possono pilotare il risultato secondo quanto fa loro comodo. La rivoluzione borghese in quell'area è già compiuta, ed ha segno israeliano. Una seconda rivoluzione di segno palestinese non ha storia, né passata né futura.

Rimarrebbe la parola d'ordine "diritto all'autodeterminazione", che tanto ha confuso i sostenitori occidentali della causa palestinese e di tante altre situazioni analoghe. Noi comunisti siamo sempre per il diritto all'autodeterminazione quando siano presenti non solo le condizioni politiche, ma anche quelle materiali. Perciò siamo anche consapevoli che non si risolve tutto con una frase, cerchiamo di vedere se la proposizione ha contenuto pratico, cioè se fa parte della realtà, oppure se la situazione non sia per caso molto più complessa di quanto facciano credere le opposte propagande.

A noi interessa soprattutto sapere quando la lotta per tale diritto ha senso rivoluzionario. Se lo ha, dovremmo addirittura appoggiare fisicamente tale lotta, parteciparvi in modo attivo, come avremmo fatto negli anni '30, al tempo degli scioperi generali in tutta l'area quando era sotto mandato britannico.

Diritto all'autodeterminazione

Oggi la situazione è regredita. La distruzione dello Stato di Israele, posto che sia un obiettivo realistico, capovolgerebbe semplicemente la situazione, mettendo la popolazione ebraica al posto di quella palestinese. L'appello alle situazioni pregresse non ha senso quando territori e nazioni sono disegnati da ripetute guerre; altrimenti bisognerebbe discutere su quanto si debba risalire nel tempo e avrebbe ragione anche Israele, che basa il suo "diritto" sull'antico regno ebraico di Davide e Salomone, mentre uno stato palestinese non è mai esistito.

Comunque, al di là di certi argomenti da notaio, i comunisti riconoscono il "diritto all'autodeterminazione" e lo inseriscono nel loro programma quando vi siano le condizioni ricordate, non perché sia una rivendicazione comunista ma perché, come chiariva lo stesso Lenin in un'epoca in cui il problema era molto più acuto, essa si frappone alla prospettiva rivoluzionaria, ed è giocoforza sbarazzarsene. Per il resto i comunisti sono contrari alla frammentazione degli stati esistenti.

La lotta dei palestinesi è uno dei classici casi risolvibili solo nella prospettiva rivoluzionaria comunista, per quanto tale sbocco sia lontano nel tempo. In questo caso non si tratta della ripetizione di formule abusate che demandano ogni soluzione alla rivoluzione a venire chissà quando. Le soluzioni prospettate nell'ambito degli annosi accordi sono sfavorevoli da ogni punto di vista: da quello puramente borghese, perché non risolvono la questione nazionale ma la accentuano; da quello sia borghese che comunista perché non favoriscono le condizioni per lo sviluppo del proletariato né israeliano né palestinese; da quello puramente comunista perché, invece di sbarazzare il terreno della questione nazionale, la rendono più virulenta.

Nei fatti sociali non è mai il fattore tempo che può annullare la validità di una soluzione. La tragedia del martoriato popolo palestinese è già parte integrante del gran sommovimento che coinvolge centinaia di milioni di uomini, in guerre apparentemente "nazionali" ma in realtà frutto della conquista del mondo da parte del Capitale, frutto cioè dell'abbattimento delle nazioni, non della loro esaltazione.

Letture consigliate

  • Partito Comunista Internazionale, "La crisi nel Medio Oriente", Il programma comunista nn. 20 e 21 del 1955; "Le Alsazie-Lorene del Medio Oriente", n. 23 del 1955.
  • Jane's Information Group, Realism and restraint among the Palestinian rejectionists? http://www.janes.com/regional_news/africa_middle_east/

Rivista n. 5