Von Clausewitz contro Sun Zu

Secondo lo storico militare Liddell Hart, le guerre si dovrebbero combattere secondo l'arte moderata di Sun Zu piuttosto che secondo le teorie logiche e assolute di von Clausewitz. Il mitico generale cinese del IV secolo a.C. aveva detto: "Non c'è mai stata una guerra protratta a lungo nel tempo dalla quale un paese abbia tratto beneficio; la suprema arte della guerra sta nel soggiogare il nemico senza combattere", mentre l'ufficiale prussiano sosteneva nel 1830: "Introdurre nella filosofia della guerra un principio di moderazione sarebbe assurdo: la guerra è un atto di violenza spinto agli estremi limiti". Era nata la teoria della guerra totale.

Oggi, l'economia ditta sulla politica e la guerra è non solo totale ma permanente. Per descriverla non bastano Sun Zu e von Clausewitz, anche se le teorie del secondo inglobano quelle del primo. La guerra è ancora "continuazione della politica con altri mezzi", secondo la celebre definizione, ma politica e mezzi sono cambiati assai da quando predomina l'economia. Ben prima che si scateni nella sua forma militare la guerra non tende solo a soggiogare il nemico, mira ad annientarlo. Sun Zu ne sarebbe inorridito, anche perché oggi chi conduce la guerra cerca di non combatterla in prima persona e quindi non si preoccupa per le perdite altrui. Anche von Clausewitz sarebbe alquanto perplesso di fronte a una guerra che, assoluta come non mai, è fatta passare per guerra umanitaria, dove gli stessi aerei sganciano bombe e alimenti, dove i super-tecnologici combattenti hanno la stessa missione dichiarata della Croce Rossa. La guerra del XXI secolo ha forse perso la "logica"?

Si comprende la logica specifica della guerra imperialista ricercando i suoi fattori nelle difficoltà di accumulazione che le nazioni più forti accusano in relazione all'economia e alla politica di tutte le altre. La nostra corrente cercò, negli anni '50 e '60, di definire una "teoria della guerra imperialistica", cioè di descrivere questo fenomeno in termini materialistici, rigorosi come una formula. La guerra imperialista è estremamente sensibile allo scenario capitalistico mondiale dal quale dipende totalmente; quindi la guerra condotta dagli Stati Uniti, per esempio, è una funzione dell'ambiente economico-politico in cui essi si muovono. Questo ambiente è l'incognita al variare della quale la guerra-economia scatta in guerra-guerra.

Vediamo dunque che razza di ambiente è quello in cui si muovono gli Stati Uniti. Nel 2001 l'economia mondiale non è cresciuta, è anzi regredita in termini reali. Fra i paesi industrializzati sono in recessione già conclamata gli Stati Uniti, il Giappone e la Germania. Le altre economie del G7, tranne la Gran Bretagna, sono quasi nelle stesse condizioni. Vale a dire che le economie nazionali più forti hanno perso il loro potere trainante rispetto all'economia mondiale. Il problema è allora sapere se questo dato è provvisorio o se è permanente. In poche parole, se vi sarà una robusta ripresa in grado di rivitalizzare il ciclo economico e far ripartire l'accumulazione. Nel corso del 2001 gli Stati Uniti hanno abbassato il costo del denaro per 11 volte consecutive senza ottenere risultati sulla produzione. Nemmeno la speculazione borsistica ha reagito di fronte al denaro regalato. I tassi quasi nulli, l'alto valore del dollaro che agevola gli acquisti all'estero, il basso prezzo del petrolio, il progetto di tagliare tasse per 100 miliardi di dollari all'anno per una decina d'anni, il surplus accumulato con i tagli interni di spesa e, dopo l'11 settembre, le iniezioni di capitali governativi, dovrebbero far schizzare alle stelle la ripresa americana. Sembrano provvedimenti di portata immensa, di quelli che hanno sempre prodotto effetti eclatanti. Ma sono solo traslochi di capitale, di lavoro morto, passato.

In USA ci sono stati 1.800.000 licenziamenti in un anno, e senza nuova produzione, cioè applicazione di lavoro vivo, gli investimenti languono, il debito interno ed estero aumenta. Messico e Canada sono trascinati nella crisi. In crisi sono le compagnie aeree, che hanno visto i voli diminuire del 25%, tra l'altro già prima di settembre. In crisi sono le assicurazioni. In crisi è l'industria automobilistica che ristruttura di continuo: Ford licenzia 35.000 dipendenti e silura i sui manager, la fusione Daimler-Chrysler non decolla, la Volkswagen, la General-Motors-Fiat e la Ford europee ridisegnano la loro struttura. C'è sovraccapacità produttiva mondiale per 4 milioni di veicoli. L'industria siderurgica USA è la più inefficiente del mondo, in cronica sovrapproduzione, mentre da vent'anni il prezzo dell'acciaio è in discesa. Due colossi siderurgici come la LTV e la Bethlehem Steel sono sull'orlo del fallimento, e il governo progetta di aumentare le tariffe protezionistiche del 40% (facendo infuriare gli europei). La crisi americana non solo ha obbligato il governo ultra-liberista a varare un piano ultra-keynesiano-statalista, ma ha creato panico finanziario, come dimostra il crack della Enron, il più grande fallimento della storia. L'industria di punta tende a centralizzare sempre più le risorse, con cartelli giganti come quello fra General Electric e Honeywell, perciò bloccato dall'Europa (e questa volta si sono infuriati gli americani). La crisi nel settore dei personal computer spinge alla fusione fra Hewelett-Packard e Compaq, cioè al monopolio assoluto. Le banche d'investimento sono in crisi da bassi profitti; quelle commerciali, oberate dall'enorme raccolta degli anni passati, offrono prestiti a prezzi stracciati; così le prime accedono al credito presso le seconde, e vedono erosa poco per volta la loro indipendenza, mentre sono costrette a licenziare (nel settore i posti di lavoro sono già diminuiti del 30% in un anno). La crisi industriale provoca quella nella raccolta dei fondi d'investimento sociali e già centinaia di migliaia di persone hanno perso la pensione, l'assistenza medica ecc.

Con una situazione interna così disastrata, gli Stati Uniti sono costretti a cercare una soluzione all'estero, nella migliore tradizione imperialistica. Ma come? L'economia interna era già tenuta in piedi, fino a un anno fa, da una bolla speculativa basata sui capitali fuggiti dall'Asia nel '97 e, sull'onda dei rialzi, da altro capitale internazionale. La crisi è funzione dell'ambiente, ma quest'ultimo, così com'è, non rappresenta affatto una variabile favorevole. L'Asia è ancora in crisi e i capitali fuggiti non torneranno indietro in tempi brevi, forse mai. L'America Latina sta scoppiando, come dimostra la crisi argentina che sta distruggendo capitali. L'Europa è arroccata in difesa delle residue capacità di esportazione, in attesa di un miracolo dalla moneta unica. La Russia, le ex repubbliche sovietiche e l'Africa sono ridotte a terra di rapina fornitrice di materie prime, di cui la crisi limita peraltro il consumo. Il Giappone da dieci anni è in coma ed ha esaurito tutti gli espedienti anti-crisi. Il mondo intero si sta trincerando in difesa delle minime possibilità di investimento e di produzione, ma è, ormai da tempo, spazio vitale per il capitalismo americano, che ha bisogno di petrolio, di materie prime, di manodopera, il tutto a basso costo. Che ha soprattutto bisogno di sfogo per il suo immenso capitale finanziario.

La guerra, per il capitalismo, non è un'opzione, è una necessità. Va in pensione Sun Zu, fine giocatore di scacchi; rimane sulla scena von Clausewitz, filosofo della guerra senza limiti. Vi rimane con la sua guerra assoluta. Duratura. Infinita. Spietata. Giusta il linguaggio di Bush e soprattutto il contenuto dell'attuale, appena pubblicato, rapporto sulla dottrina militare americana.

Rivista n. 6