Imperialismo con l'acqua alla gola

La nuova dottrina militare USA e la guerra nel Medio Oriente

Se Marx, Engels e Lenin fossero vivi, ravviserebbero nella politica americana di oggi gli stessi caratteri di quella inglese di allora, e riconfermerebbero il metodo di lotta contro la propria borghesia, concludendo che anche oggi ai fenomeni di pianificazione mondiale capitalistica non si deve, come faceva l'opportunista Kaustky, contrapporre richieste reazionarie di libertà di commercio e di concorrenza, di pace e di democrazia (cfr. PC Int., Imperialismo vecchio e nuovo, 1950).

"Per l'analisi marxista è fatto utile e rivoluzionario che chi sa, può ed è attrezzato a estrarre e sfruttare tecnicamente petrolio si installi oltre i mari ove il petrolio si scoprirà, ed il suo diritto deriva, come tutti i diritti, da forza e da risorse produttive ed economiche, ma non vale meno del diritto del pronipote di Artaserse, del primo ministro dello Scià o del romantico pastore errante nell'Asia" (PC Int., Patria economica?, 1951).

Guerra all'Iraq, guerra al mondo

I venti di guerra sull'Iraq si fanno sempre più forti. E soffiano ben oltre i confini medio-orientali, ben alimentati dal documento della Casa Bianca, pubblicato nel settembre del 2002, sulla strategia globale degli Stati Uniti e sulla guerra preventiva. Documento che rappresenta l'abbandono dell'ipocrisia politico-militare in vigore da quando l'America è una potenza mondiale, e che, istituzionalizzando a livello globale la favola esopiana del lupo e dell'agnello, mostra l'inadeguatezza definitiva dei tradizionali rapporti fra "stati sovrani". Per aggirare questi rapporti, da molti anni si era instaurata una prassi di madornali acrobazie politico-diplomatiche ormai anacronistiche. Oggi che viviamo al confine tra l'ordine capitalistico e il caos universale, una sola potenza poteva e doveva spazzar via la vecchia diplomazia foggiata dalla pluralità degli imperialismi. La nuova dottrina revoca il costituzionale divieto di attaccare per primi, cancella il precedente modello militare del "contenimento" del nemico e contempla solo la sua distruzione. Infine fa carta straccia di mezzo secolo di teorie sulla deterrenza.

C'è voluta un'epoca per far piazza pulita dell'impostura della "liberazione", anche se rimane quella pagliaccesca della "crociata". C'è soprattutto voluta la maturazione materiale dei frutti nati dalla stessa azione dell'imperialismo americano, cioè l'emergere delle forze che, foraggiate contro l'ex nemico, ora si rivolgono contro il loro vecchio tutore. Non è un caso che oggi circoli negli USA la battuta: "Bush ha le prove che Saddam abbia armi di distruzione di massa, ha conservato le ricevute". Si profila un limbo sociale planetario in cui si muovono forze – statali o meno – in grado di far più danni di uno Stato, senza tuttavia avere un territorio preciso da colpire, una prassi diplomatica da seguire, un esercito ben individuato da distruggere.

Date le premesse, quelle oggettive e quelle oggi esplicitamente dichiarate, una guerra medio-orientale si presenta come l'evento parziale di una più generale sistemazione dei rapporti fra Stati. Nel progetto di profilassi universale che il documento rende pubblico, l'Iraq non è che una pedina, e neppure la più importante. Si scatena di conseguenza la diplomazia segreta fra le concorrenti borghesie nazionali che hanno capito benissimo l'antifona. Si apre la corsa agli schieramenti. L'attivismo diplomatico suscita a sua volta il dibattito nel vasto mondo pacifista, missionario e anti-imperialista democratico. Alla parola d'ordine estrema "preparare la guerra se si vuole la pace", fa eco il richiamo opposto: "pacifismo ideologico e totale".

Eco nella eco, si affianca la voce del milieu sedicente rivoluzionario: trasformare la guerra imperialistica in rivoluzione"! Già, "l'ha detto Lenin". Basta e avanza per mettersi il cuore in pace. Fino alla prossima guerra.

Da una parte vediamo l'aggressore americano che, aggredito a sua volta in casa, ne approfitta per dichiarare al mondo che farà guerra a chi vuole e come vuole. Dall'altra c'è il potenziale (per ora) aggredito iracheno che, un tempo aggressore dell'Iran e del Kuwait, non può nulla di fronte alla strapotenza dell'avversario. I comunisti non si sognano affatto di intervenire nel dibattito su pace e guerra né tantomeno di "difendere" uno degli schieramenti "condannando" la solita prevaricazione imperialista. Nella loro storia non hanno mai basato la propria analisi della guerra su categorie giuridiche e sfuggenti come "aggredito" e "aggressore". Tuttavia non sono mai stati indifferenti di fronte agli esiti di qualunque guerra, che hanno sempre guardato in funzione degli effetti che può avere non sugli schieramenti nazionali ma su quelli di classe.

Ma che cos'è la "guerra" oggi? Il termine è ormai troppo approssimativo e non si presta a descrivere tutti i tipi di scontro possibile fra nazioni in conflitto. Non siamo più da un pezzo nell'epoca in cui vigeva la dicotomia netta fra pace e guerra: la guerra è definitivamente uscita dalle mani dei soli militari e dai ministeri specifici, coinvolge tutta la società, diventando un evento "popolare" al massimo grado, dato che, oltretutto, i moderni eserciti di professionisti sono serbatoi di disperati che non hanno altro modo per sbarcare il lunario.

L'eventuale guerra che si sta preparando è in grado, come la precedente, di coinvolgere non solo le due parti belligeranti ma tutto ciò che sta loro intorno: Israele, i Palestinesi, il petrolio, il Kurdistan, le alleanze in Medio Oriente e quelle tra gli Stati Uniti e il resto del mondo. Anche le classi, ovviamente. Ma è una guerra che non ha nessuna possibilità di muovere queste ultime contro i belligeranti. Anzi, ha il potere di coinvolgerle più che mai nelle politiche di sostegno all'una o all'altra borghesia. Se pur questa guerra non giungesse mai fino ad un impari scontro armato come quello del 1991, otterrebbe lo stesso effetti importanti (in parte li ha già ottenuti) sull'assetto dei rapporti fra l'imperialismo maggiore e tutti gli altri. Purtroppo ha trascinato per l'ennesima volta sul terreno democratico, giuridico, nazionale ed economico dell'avversario quasi tutti i militanti che si riferiscono al comunismo. Si dice che sia guerra contro le masse oppresse, guerra per il petrolio, per l'egemonia "imperiale" degli Stati Uniti, per il rilancio della loro economia. Sono osservazioni che si fermano a un aspetto, restano alla superficie, ed hanno lo stesso contenuto empirico dell'affermazione "piove!" fatta da chi guarda in su e si prende le gocce negli occhi.

La vera materia del contendere

In realtà gli Stati Uniti sono già potenza egemone senza bisogno di imbarcarsi in una guerra classica. Se spingono con ostinata violenza verso una guerra guerreggiata (che, considerato lo stato di degrado degli armamenti iracheni, sarà ancor meno rischiosa di quella passata, almeno sul campo militare) è perché ritengono indispensabile ottenere molto di più che non una diplomatica acquiescenza alla loro politica globale. Per questo si mostrano ostentatamente sprezzanti anche nei confronti di quei "grandi alleati" che frenano sulla guerra ma che non hanno alcuna possibilità di trasformare le loro critiche in effettivo schieramento politico, in fatti concreti a loro favore; anzi, aiutano oggettivamente la fanfara crociatista ("topi che ruggiscono", li chiama il Wall Street Journal con pragmatico senso della realtà). Alla resa dei conti saranno puniti. Come abbiamo visto più volte, il controllo dei flussi petroliferi vuol dire controllo sui flussi di plusvalore proveniente dai settori produttivi e dai paesi che consumano più energia: l'obiettivo è di giungere, prima o poi, al controllo diretto delle fonti petrolifere per ottenere quello indiretto su tutta l'economia mondiale. Il petrolio però non è che uno dei gangli vitali dell'intero sistema e da solo non basta: gli altri sono rappresentati dai centri nazionali di accumulazione, quelli da cui proviene il plusvalore che passa alla rendita.

La crisi mondiale del modo di produzione capitalistico è troppo profonda perché gli Stati Uniti, che ne sono la locomotiva, possano permettersi qualche indugio. Per trainare un sistema ormai globalizzato non basta più il controllo sulla piattaforma continentale a portata di mano, dall'Alaska a Capo Horn, controllo per il quale gli Stati Uniti, che boicottano ogni velleità di autonomia dei paesi latino-americani, si sono battuti finora. Occorre controllare il mondo intero. E naturalmente occorrono gli strumenti adatti nei luoghi adatti. L'America ha perciò decretato: per mantenere il modo di vita americano e anzi esportarlo, occorre che le nazioni si coalizzino contro i nemici della libertà e rinuncino alla propria sovranità. D'ora in poi chi non sarà d'accordo sarà considerato nemico e passibile di guerra preventiva affinché non sviluppi capacità militari in grado di nuocere. L'America non ha scelta. E per motivi molto più gravi di quelli tanto sbandierati sull'american way of life: ciò che è in gioco è la sopravvivenza stessa del capitalismo.

Sarebbe veramente un passo indietro, dopo un secolo e mezzo di chiarimenti teorici e di esperienze, mettersi a discutere se l'assetto mondiale che si sta profilando riapra per caso la vecchia "questione nazionale". Qui non si tratta di stabilire se sarà conculcata la libertà dei popoli più o meno di prima, qui si sta tentando addirittura di eliminare l'autonomia di tutte le nazioni. La contraddizione è tremenda per il capitalismo, perché esso non può negare la funzione nazionale alle varie borghesie senza negare sé stesso, ma nello stesso tempo lo deve fare: per un governo mondiale del fatto economico, della politica sociale, per la distribuzione delle risorse, così com'era stato fatto a livello nazionale da parte delle borghesie fra le due guerre.

Autodeterminazione economica?

Non è possibile varare un piano mondiale di produzione e di scambio senza passare come un rullo compressore sopra agli interessi locali e particolari. E non è possibile che lo faccia un consesso internazionale: lo deve fare per forza l'imperialismo più forte. Il diritto, la giustizia e l'interesse comune sottoscritti da stati sovrani a questo punto vanno in soffitta. La stessa proprietà delle risorse naturali, già messa in discussione dalla voracità imperialistica, sarebbe cancellata dalla realizzazione delle esigenze di riforma del mondo. I rapporti tra l'imperialismo maggiore, gli altri imperialismi e i paesi che vorrebbero essere imperialisti ma non possono sono dunque di fronte a problemi che si prospettano inestricabili.

In primo luogo, materie prime e petrolio si trovano dove sono stati messi da madre natura e perciò è ovvio che un potente capitalismo non possa sottomettersi alla proprietà privata di… di chi? Di un popolo? Di un governo? Di una classe? In secondo luogo, il particolare "colonialismo" dell'America non può essere combattuto a favore di una libertà nazionale, perché non opprime colonie, non schiaccia borghesie nazionali, anzi, le utilizza e le arricchisce, portandole al moderno sfruttamento della popolazione con l'immissione di capitali nell'economia locale. Ed esse, se non sono paragonabili alle borghesie rivoluzionarie, non sono nemmeno borghesie compradoras come quelle di un tempo, contro le quali le prime lottavano. Nella stragrande maggioranza sono classi dominanti locali che hanno tutto l'interesse a che il capitalismo mondiale sopravviva sotto l'egemonia americana. Non sono quindi né nemiche né serve, sono semplicemente integrate. Per poter continuare a sfruttare il proprio proletariato, quando cadono in difficoltà a causa della propria inettitudine sono le prime a pretendere i servizi dei famigerati organismi tanto invisi ai no-global. In poche parole: la cosiddetta oppressione economica di un paese sull'altro non ha niente a che fare con l'oppressione di tipo coloniale. Essa è della stessa natura di quella che esercita una borghesia locale entro i propri confini, quando per esempio la grande industria schiaccia la piccola ed entrambe sfruttano il proletariato. Quest'ultimo non deve evidentemente difendere la "libertà economica" della propria borghesia. Se si vuole proprio citare Lenin si vada alle pagine dove egli mostra la differenza fra l'oppressione economica dell'Inghilterra sulla libera Argentina capitalistica e l'oppressione sulle varie colonie: lotta rivoluzionaria proletaria internazionalista in un caso, lotta rivoluzionaria borghese anti-coloniale e nazionale nell'altro. Ma non vi sono più oggi "questioni nazionali" risolvibili per via rivoluzionaria borghese.

Se gli americani si prendessero anche in modo direttissimo tutto il petrolio e tutte le materie prime del mondo, i "popoli" di questo stesso mondo non avrebbero a soffrirne più di quanto soffrono sotto le proprie borghesie nazionali. Verifica empirica: i "popoli" non stanno bene o male a seconda che riescano o meno ad utilizzare il "proprio" petrolio, ma a seconda che riescano o meno a far parte del circuito mondiale del capitale. Algeria, Iraq e Iran hanno il petrolio; anche Arabia, Emirati e Kuwait ce l'hanno. Nei primi paesi si sopravvive mediamente male, nei secondi si sguazza in una triviale ricchezza. Ma nei secondi lavorano almeno sei milioni di proletari internazionalizzati che mantengono famiglie nei paesi d'origine per il totale di una trentina di milioni di persone in tutto. Nel capitalismo globalizzato il petrolio è di tutti e non ha senso accampare il fatto che qualcuno si arricchisce, qualcuno sfrutta o qualcun altro "ruba". È una vecchia questione: la materia prima è capitale costante, elemento, come il salario, del capitale anticipato; ma il capitale costante è lavoro passato. Tutto ciò che esiste nella società capitalistica deriva dal lavoro proletario e dal plusvalore da esso prodotto. Quindi il ricco saudita pappa plusvalore prodotto altrove, esattamente come il ricco petroliere americano. Il capitale costante fluisce poco per volta nel valore delle merci. Dal punto di vista del flusso generale è rapportabile a zero. Per il proletariato, dunque, il valore politico dell'ipotetica totale appropriazione di tutte le materie prime del mondo da parte americana sarebbe rapportabile a zero. L'autodeterminazione petrolifera o di qualsiasi altro genere nella nostra epoca ha lo stesso valore.

Genesi dell'anti-imperialismo democratico e sparafucile

L'azione odierna dell'imperialismo, specie quello americano, impone di non sbagliare la valutazione della sua natura e quindi degli effetti materiali sulla società, sulle classi e sulle immense popolazioni dei paesi arretrati.

La vecchia parola d'ordine dell'autodeterminazione dei popoli fu certamente "nostra", ma nella forma politica, mai nella sostanza di classe. Essa è un controsenso per chi sostiene che i proletari non hanno patria. Aveva origine nella condizione particolare dei popoli politicamente soggetti e fu raccolta dall'Internazionale e dai partiti comunisti al fine di affasciare attorno ad un unico programma i nemici della legalità costituzionale borghese, di un mondo imperialista basato su colonie in cui vivevano nazionalità oppresse. Il programma era chiaro: i delegati comunisti al II Congresso dell'Internazionale e a Baku, avevano come primo obiettivo la lotta di classe contro ogni borghesia, ma di fronte all'imperialismo colonialista che schiacciava intere nazioni, sostenevano che il proletariato non poteva essere indifferente, in quanto la lotta nazionale intralciava quella proletaria. Era quindi necessario sbarazzarsene. Per questo l'Internazionale prendeva anche l'impegno di aiutare materialmente la lotta di liberazione nazionale al fine di accelerare le condizioni per lo sviluppo del capitalismo e, conseguentemente, del proletariato locale in connessione con quello mondiale.

Stalin già negli anni '20 fece un uso improprio di questa posizione chiarissima, influenzato dalla intricata situazione nazionale russa. Ma il peggio venne con il consolidamento del regime e con la guerra, quando il programma internazionalista integrale venne lasciato da parte e prese il sopravvento la teorizzazione di valori specifici russi, di destino nazionale e di patria socialista. Tutte capitolazioni che ridussero l'anti-imperialismo ad un confronto democratico, interclassista, partigianesco fra potenze. La necessità della lotta internazionalista di classe fu abbandonata a favore di superiori interessi nazionali nelle "diverse vie al socialismo", per cui il massimo imperialismo può essere, a seconda delle situazioni, amico o nemico. Quindi nel dopoguerra la lotta di classe lasciò il posto alla dottrina della "coesistenza pacifica" fra imperialismi, salvo poi considerare "rivoluzionario" ogni movimento armato che rientrasse nei piani strategici dell'URSS.

La nostra critica di allora è nota: ogni borghesia non può che essere sempre nemica, anche nelle epoche in cui le si combatte a fianco, come successe nella Rivoluzione Francese o in altre rivoluzioni antifeudali. Ogni borghesia è anche potenzialmente imperialista, e quando non lo è ciò dipende solo dal fatto che non ha sufficiente potenza produttiva, finanziaria e militare per esprimersi al meglio. Lenin dimostrò che la condizione di "rivoluzione borghese" non esisteva già più nella rivoluzione mista, cioè antifeudale e proletaria, del 1905-17 in Russia e che il proletariato avrebbe dovuto combattere per sé pur avendo ancora compiti borghesi da portare a termine. Non esistono più da un pezzo aree nel mondo in cui si possa applicare la tattica bolscevica del 1905.

L'abbandono della posizione comunista sulla questione delle nazionalità da parte dello stalinismo comportò l'inquinamento di tutto il movimento proletario, che nel secondo dopoguerra, con l'avvento dei blocchi contrapposti, fu chiamato a un coinvolgimento nelle opposte crociate, in pratica ad essere di nuovo partigiano di un imperialismo contro un altro. La conseguenza più aberrante fu lo svilupparsi di un anti-imperialismo a senso unico, democratoide, pacifista, in ogni caso fuori tempo, dato che oggi, a differenza dell'epoca coloniale, non esiste anti-imperialismo che non sia anticapitalismo tout-court. Ogni borghesia, anche la più antioperaia e anticomunista, era considerata paladina del socialismo e della pace purché si opponesse all'imperialismo americano e gravitasse nell'orbita russa; ogni contadino che imbracciasse un kalashnikov fornito nell'ambito dell'incerta spartizione imperialistica del mondo, dal Vietnam al Nicaragua, diventava una guerrigliero rivoluzionario.

Questo modo di vedere le cose dura tuttora in forme anche peggiori.

Dottrina del "destino manifesto" nuova edizione

Nella prima metà dell'800 un giornalista, certo O' Sullivan, inventò una dottrina detta del "destino manifesto", secondo la quale gli americani avevano il compito di dominare il mondo. Compito divino, dato che l'autore affermava di averlo dedotto direttamente dalla parola di Dio. In un primo tempo la dottrina servì solo per giustificare l'eccidio di indigeni da parte della razza bianca così evidentemente favorita dal padreterno; ma il giovane e feroce capitalismo aveva bisogno di un programma più generalizzabile e in seguito la utilizzò per giustificare l'espansione territoriale ai danni del Messico e le mire sugli oceani. C'è una curiosa continuità tra tale dottrina e la mistica che permea i discorsi attuali della presidenza Bush.

Abbiamo già accennato al manifesto diffuso il 20 settembre dalla Casa Bianca per la "nuova" politica estera americana. S'intitola The National Security Strategy of the United States e tratta della politica generale degli Stati Uniti, che ovviamente è diretta verso tutti i luoghi dove vi siano interessi nazionali americani, cioè ovunque. In realtà il suo contenuto non è nuovo per nulla, ma è la prima volta che con chiarezza esemplare tutto l'apparato politico si identifica col solo Esecutivo presidenziale: gli Affari Interni, gli apparati polizieschi e spionistici, gli Esteri, l'Economia e la Difesa risultano integrati come non mai per una totale proiezione verso l'esterno. Il monoblocco politico che ne scaturisce dà persino un senso di "cesarizzazione" del veramente poco adatto Bush.

Gli Stati Uniti dichiarano al mondo che la loro missione è quella di estendere "i benefici della libertà attraverso il globo", per cui "lavoreranno attivamente per portare la speranza di democrazia, sviluppo, libero mercato e libero commercio in ogni angolo della Terra". Grazie a una potenza militare insuperata e insuperabile. E siccome è in ballo la sicurezza nazionale, polizia e spionaggio vanno in prima linea: per ben diciotto volte su trenta pagine, nel documento si ricorda al mondo che d'ora in poi ogni paese sarà in libertà vigilata. Avete letto bene: i paesi, non i probabili terroristi e le loro organizzazioni. Saranno sguinzagliate per il mondo le forze Humint (Human Intelligence), in pratica spioni e tagliagole equipaggiatissimi, operanti sul campo in aggiunta a quelli da scrivania, computerizzati e connessi. Abbiamo sempre affermato che "superpotenza" non significa "onnipotenza", specie di fronte ai fatti sociali, ma non è male tenere presente i rapporti di forza reali quando magari si promuove l'azione "contro la guerra".

Nella nuova dottrina prende il sopravvento in altre forme quello che dal 1945 è stato il maggiore patrimonio strategico degli Stati Uniti, mai raggiunto da altri e non raggiungibile se non cambia l'assetto attuale fra le classi in campo internazionale: la capacità di "proiezione bellica" massiccia e precisa su un punto selezionato o simultaneamente su diversi punti distanti fra loro; la capacità di mobilitare forze straripanti rispetto a quelle di qualunque avversario e di colpirlo con precisione rendendo inutili le sue difese; la capacità di avere informazioni simultanee, e negate ad altri, su tutto ciò che si muove sulla crosta terrestre (l'integrazione di Space Command e Strategic Command parla di per sé chiaro); la capacità di mobilitare le armi dell'informazione, della politica corrente e di quella alternativa, dell'ideologia, compresa la religione. In tale contesto si stanno costituendo unità militari a largo raggio d'impiego (Joint Stealth Task Forces), nelle quali sono integrate le capacità di organismi prima separati, unità che così sono in grado di coordinare anche altre forze per concentrare su di un obiettivo potenze di distruzione prima inimmaginabili.

La dottrina militare degli Stati Uniti sulla guerra planetaria preventiva contro tutto e tutti è dunque diventata ufficiale quando nei fatti era già operativa. E spiega anche il perché della frenesia con cui si prepara la guerra contro l'Iraq. Cioè per la conquista del Medio Oriente. Cioè per usare quest'area come base per spingersi oltre, fino al cuore dell'Asia, ai confini di quelle masse umane, in Cina e in India, che rappresentano l'unica possibilità di contrasto futura, dato che l'Europa Unita non solo è un'utopia, ma se anche stesse per diventare realtà sarebbe comunque oggetto di una spaventosa balcanizzazione preventiva. Il documento del 20 settembre è il più chiaro manifesto sulla pax americana mai pubblicato. Una pace che assomiglia in modo impressionante alla pax romana: un mondo che non è più diviso fra "alleati" e "nemici" ma fra "americani" e "clienti". E poiché ormai i confini dell'impero fanno il giro del pianeta, non c'è più posto per i "barbari" al di fuori del limes imperiale: o diventano "clienti" o verranno sterminati. La pax romana era basata sulla stabilità dell'impero garantita dalle legioni e soprattutto da un sistema di "amici del popolo romano" che, come sottolineano gli storici militari, era un titolo offerto a chi rendeva servigi e soprattutto a chi era in grado di renderli in modo costante nel tempo. Ai clienti non era lasciata l'alternativa di non essere tali.

L'attuale imperialismo globale e prevaricatore, violento e riformista, basato nello stesso tempo sulla rete di partigianerie a libro paga (statali o irregolari che siano), ha effettivamente il potere di evocare in spiriti superficiali e romantici l'immagine di un Impero antico. Ma l'accostamento diventa assolutamente improprio di fronte alla natura del Capitale globale e delle sue contraddizioni rappresentate dagli involucri nazionali e dalle borghesie concorrenti. Questo imperialismo è davvero super ma, come diceva Lenin, solo per sviluppare meglio la sua rovina. Tecnologico, fortissimo e classicissimo, da "fase suprema del capitalismo", ma assai in pericolo. Addirittura con l'acqua alla gola.

La fisica dell'azione e della reazione

Quando il Capitale sente la necessità di riunire le proprie forze in un tutt'uno bonapartistico e mondiale dei poteri esecutivo, legislativo e giudiziario, mettendo il risultato nelle mani di uno Stato-agente, non importa quale, vuol dire che avverte l'approssimarsi di minacce catastrofiche. E le ragioni del suo agire vanno sempre cercate nel fatto che la vecchia talpa della rivoluzione ha ben scavato. Marx ed Engels lo dissero sia quando Napoleone III prese il potere, sia quando Bismarck glielo tolse arrivando alle porte di Parigi: "Essi lavorano per noi", dissero. Ed esplose la Comune di Parigi.

Il documento americano non ci stupisce e non c'indigna affatto. Se gli Stati Uniti potessero davvero essere conseguenti fino in fondo rispetto al suo contenuto, che di fatto è in parte già operativo, gli effetti generali non sarebbero che questi:

1) si solleverebbe nel mondo, da parte di popolazioni sempre più oppresse, una reazione uguale e contraria di proporzioni inaudite, "simmetrica" per quanto riguarda l'energia sprigionata, "asimmetrica" per quanto riguarda i mezzi utilizzati. La fiamma di un fiammifero raggiunge temperature elevate in un punto ma lo si può spegnere facilmente; il mare ha bassa temperatura ma calore infinitamente superiore, nessuno lo può "spegnere";

2) nello stesso tempo sarebbe più diretta e fortemente accelerata l'americanizzazione del mondo, con la scomparsa dei residui sociali del passato. In ogni caso sarebbe accelerata ovunque la penetrazione del capitalismo, oggi frenata dalla perdita di dinamica del sistema mondiale, con una conseguente ulteriore proletarizzazione delle popolazioni.

La dinamica insita nella nostra ipotesi non tarderebbe a produrre effetti. Prima di tutto vi sarebbe un tentativo di rivitalizzazione del vecchio pluralismo imperialistico e si aggraverebbe perciò il contrasto fra le potenze; in secondo luogo, nonostante gli Stati Uniti minaccino già ora di distruggere chiunque osi infrangere la loro egemonia economica e militare, i nuovi imperialismi che tenteranno di emergere entrerebbero automaticamente nella lista degli "Stati canaglia". Cioè si metterebbe in moto proprio il meccanismo che la nuova dottrina vorrebbe evitare. Non a caso, in una sorta di constatazione-premonizione, il documento specifica: o amici o preventivamente distrutti. Se dunque per noi un manifesto del genere è "normale", non facendo che confermare le nostre analisi, per le borghesie non americane è di una gravità inaudita. Specie per quelle ancora basate su antichi rapporti sociali nonostante la modernità dei loro traffici, come le autocrazie islamiche. Ecco perché la discussione politica su questi temi scivola spesso sull'antitesi fra "fine della storia" e "scontro di culture".

Ufficialmente le borghesie non americane hanno avuto reazioni molto deboli. Gli Stati Uniti, amici o nemici, fanno paura, e non solo dal punto di vista militare. Ma l'incapacità, o meglio l'impossibilità di reazione, è dovuta alla divisione degli imperialismi minori, specie quelli europei, che non sono in grado neppure di far funzionare un'area di libero scambio sui mercati locali. A lungo andare, però, negli ambienti non ufficiali la preoccupazione crescerà certamente e non tarderà a manifestarsi attraverso i burattini parlamentari, quindi a prendere corpo in lacerazioni interne e azioni specifiche delle varie partigianerie. Questo soprattutto per quanto riguarda Germania, Francia, Giappone, Cina, Russia e India, probabilmente nell'ordine in cui le elenchiamo, che è quello dell'importanza degli interessi direttamente messi in causa dalla politica internazionale che si prospetta. C'è da osservare che, mentre i vecchi paesi hanno crescite insignificanti e, come gli USA, arrancano in sala di rianimazione, i giovani capitalismi asiatici hanno ancora potenzialità di crescita: una massa immane di uomini che potrebbe diventare dirompente e far cambiare l'assetto del mondo se fosse libera di crescere economicamente e militarmente. Pensiamo soltanto ad una Russia che, aiutata dagli interessati vicini a superare la palude attuale, fosse integrata nell'Unione Europea. Non è un caso che nel documento americano Cina, Russia e India siano nominate una ventina di volte, fra blandizie e minacce.

Quando vent'anni fa dicemmo che ormai nessuno era più in grado di fare guerra agli Stati Uniti qualche scettico arricciò il naso. Opinava che invece gli schieramenti militari sarebbero stati classici, da guerra mondiale con potenze equivalenti su due fronti. Era in corso l'emergere di nuove potenze (appunto Cina, Russia, India), il formarsi di alleanze e il declino degli Stati Uniti, tutte condizioni che avrebbero riproposto la situazione del '17 e l'alternativa: o guerra o rivoluzione. Ribadimmo che la questione delle alleanze andava vista nell'ottica della guerra di tutti contro tutti, esattamente come durante la Seconda Guerra Mondiale dove, nonostante l'apparente monoliticità degli Alleati, era in corso la guerra degli Stati Uniti contro tutti gli altri, compresi gli alleati. Gli storici sono concordi nel trovare qualche lato incomprensibile nella mancanza di razionalità dei piani militari delle potenze belligeranti. Per tutta la durata della guerra, nessuna delle due coalizioni in campo aveva infatti potuto ottenere al suo interno che i singoli stati e i loro eserciti tenessero una condotta militare univoca e centralizzata, che fosse coerente con le gigantesche dimensioni dello schieramento interimperialistico nello scontro mondiale. Era particolarmente scoordinato l'Asse, ma anche gli Alleati. Questi ultimi, pur dipendendo in modo vitale dall'azione degli Stati Uniti, non ne accettarono mai il ruolo oggettivamente centrale, ben sapendo che a guerra conclusa li aspettava un ruolo subordinato. L'esperienza dell'effettiva condotta di guerra aveva mostrato coalizioni traballanti, ma soprattutto aveva portato alla rapida avanzata dell'URSS che conquistava gran parte del territorio europeo, in cambio dei venti milioni di morti sacrificati per l'usura della Germania, condizione per la vittoria… americana. All'alleato-nemico che procedeva alla formazione del blocco sovietico dovevano servire da terrificante monito le bombe di Hiroshima e Nagasaki, cui peraltro risposero pochi anni dopo gli esperimenti atomici russi. Perciò, dopo la vittoria del '45, gli americani fecero tesoro di queste esperienze: non avrebbero più permesso potenti aggregati militari se non sotto il proprio stretto controllo, com'è per la NATO. L'odierna "nuova" dottrina non è che quella vecchia esposta in modo più crudo e senza i fronzoli che servivano nei vecchi negoziati.

In effetti per decenni gli Stati Uniti hanno agito d'anticipo, impedendo che i potenziali nemici unificassero territori o si coalizzassero. Oltre tutto sempre facendo mostra di essere attaccati per primi, com'è ormai loro prassi consolidata. L'Europa intera è il prossimo candidato alla balcanizzazione. L'unificazione parziale del territorio tedesco non sembri una contraddizione: la caduta del Muro di Berlino si inseriva perfettamente nel più grande sconquasso di tutto l'immenso blocco sovietico. I focolai al di là dell'Adriatico potrebbero facilmente attecchire sulla sponda italica, dove la sensibilità alla politica americana è già stata abbondantemente espressa non solo dai vecchi atlantisti della Prima Repubblica, ma con ancor più servilismo dagli attuali politicanti di entrambi gli schieramenti.

La dottrina Fouché nell'epoca della globalizzazione

La Terza Guerra Mondiale è iniziata ben prima dell'11 settembre o della vittoria sul "socialismo reale". Essa è durata mezzo secolo, la chiamino pure "fredda", con centinaia di guerre più o meno locali e qualcosa come cento milioni di morti. Qualcuno afferma che sta iniziando la Quarta e, se adottiamo la definizione allargata di "guerra", tale periodizzazione può anche andar bene. Su questa rivista abbiamo visto che il declino della potenza economica degli Stati Uniti non è in contraddizione con il rafforzamento del suo ruolo politico e militare nel mondo, anche perché la potenza industrial-finanziaria e l'apparato militare sono usati come arma, deterrente o effettiva, a seconda del bisogno (cfr. il n. 6 di questa rivista). Naturalmente è indice di debolezza intrinseca dell'intero sistema se questo deve manifestare i suoi tentativi di stabilizzazione attraverso la forza brutale dell'imperialismo maggiore. Così come sarebbe indice di debolezza ancora più grave se questo imperialismo non potesse far altro che assecondare l'avversario "terrorista", tentando di combatterlo sul suo terreno con la guerra segreta, cioè con un "anti-terrorismo" che, come la storia insegna, attiverebbe più "terrorismo" ancora. Nell'immediato futuro sarà una cartina di tornasole il rapporto fra USA ed Europa, che vedrà certamente amplificate le differenze di valutazione sulla "guerra infinita", magari con l'uso tipico americano della solita trappola: costringere provocatoriamente l'alleato-concorrente a fare la prima mossa e a mettersi in un vicolo cieco in modo che si rovini con le proprie mani. Per questo riteniamo che "terrorismo" sia un termine improprio e preferiamo scrivere "guerra". Perché tale è il confronto fra forze più o meno sotterranee che, in una situazione di "asimmetria" fra eserciti, trova una sua "simmetria" in attività considerate atipiche per la guerra classica.

La globalizzazione è un fenomeno che fu perfettamente analizzato già da Marx, tanto che avrebbe dovuto costituire il contenuto di un quarto volume della sua opera maggiore. Il capitalismo è sempre lo stesso, anche se l'imperialismo è il suo modo moderno di esistere. Non ci sono tattiche nuove da escogitare. Nessuna società è eterna e perciò nessun paese, che della società attuale non è che una parte, può eternamente rappresentarne il difensore a oltranza. Le curve della potenza economica e del ruolo politico americani si intersecano non solo nel grafico che le rappresenta (fig. 1) ma nella società reale, producendo conseguenze. Perciò chi avesse ancora dei dubbi sulla svolta epocale che era nell'aria e che l'attacco dell'11 settembre ha soltanto accelerato, si deve ricredere: non c'è più agnello che possa bere senza intorbidare l'acqua al lupo, dato che questa bagna il pianeta intero. Il nuovo e spudoratamente provocatorio diritto internazionale unilaterale, che cancella tutti gli altri e con essi ogni velleità di sovranità nazionale, è ufficialmente operativo. Viene messa in pratica a livello globale la "dottrina Fouché", ministro di polizia di Napoleone: se la cospirazione riesce, nessuno potrà punirla, quindi contro ogni cospirazione la sola arma efficace è la guerra preventiva; ed è cospiratore chiunque sia contro l'impero.

La "novità" allora sta non tanto nella cinica dichiarazione di guerra preventiva al mondo, quanto nell'angoscia che sta dietro al proposito di rimanere l'unica potenza che possa muovere guerra a qualcuno senza che nessuno possa fare altrettanto nei suoi confronti:

"I nostri nemici hanno dichiarato apertamente che stanno cercando di avere armi di distruzione di massa, e l'evidenza indica che lo stanno facendo con determinazione. Gli Stati Uniti non permetteranno che questi sforzi riescano. Noi costruiremo difese contro i missili balistici ed altro. Noi coopereremo con le altre nazioni per impedire, contenere, troncare gli sforzi dei nostri nemici per acquisire tecnologie pericolose. E l'America agirà contro tali minacce emergenti prima che siano pienamente formate. E' una questione di senso comune e di autodifesa... Il nostro apparato militare sarà forte abbastanza per dissuadere potenziali avversari dal perseguire una crescita militare nella speranza di raggiungere o sorpassare la potenza degli Stati Uniti" (sottolineature nostre).

In un mondo zeppo di armi di distruzione di massa, ben più pericolose di quelle possedute dai terroristi o dagli "stati canaglia", qualcuno dovrebbe rinunciarvi per unilaterale decisione della potenza imperialistica maggiore. Chi dovrà rimanere disarmato? Il soggetto è indifferente, potrebbe essere chiunque. Israele, tanto per fare un esempio che anche i liberals americani ricordano, ha armi di distruzione di massa e non ha mai rispettato una risoluzione dell'ONU, ma nessuno si prefigge di bombardare Tel Aviv come invece si sta per fare con Baghdad.

L'assoluta indifferenza di fronte a incongruenze del genere è significativa, e ogni mezzo sarà comunque utilizzato per impedire il sorgere di potenze "pericolose". L'elencazione è assai accurata: si va dallo spionaggio intensivo alla ristrutturazione dell'intero apparato militare, compresa la segreteria di Stato; dalle operazioni di "forze con speciale addestramento" all'azione integrata fra le Organizzazioni Non Governative e le grandi istituzioni internazionali. E le ONG andranno alla guerra, non c'è dubbio, e sappiamo anche con quale motivazione: se ci andiamo potremo almeno mitigarne dall'interno gli effetti. Allo stesso modo l'opportunismo classico è scivolato poco per volta nell'ultra-degenerazione e certi pacifisti sono diventati addirittura guerrafondai.

Inutile sottolineare che la dottrina stilata dallo staff presidenziale (in termini elementari da public relations) sulla base dei documenti del Pentagono sbeffeggia definitivamente la Carta dell'ONU, che poggia sul concetto di guerra per "legittima difesa". Ed è condensata in una proposizione imperialistica alla massima potenza:

"La nostra strategia di sicurezza si basa su di un internazionalismo specificamente americano, riflesso dell’unità dei nostri valori e dei nostri interessi nazionali [...] Oggi la distinzione tra affari nazionali ed esteri si affievolisce. In un mondo globalizzato, eventi oltre i confini dell'America hanno un maggiore impatto al loro interno".

Anche il diritto internazionale, cui la borghesia tiene molto per appellarvisi quando le fa comodo, viene buttato nella spazzatura:

"Noi faremo di tutto per assicurare che i nostri sforzi tesi a soddisfare i nostri impegni globali di sicurezza e proteggere gli americani non siano vanificati dal potenziale di investigazione, di indagine, o di accusa della Corte Criminale Internazionale (ICC) la cui giurisdizione noi non accettiamo si estenda agli americani".

Infine l'occupazione del territorio:

"Gli Stati Uniti chiederanno basi e stazionamenti in Europa, Occidentale o altrove, e nell'Asia nord-orientale, così come chiederanno accesso temporaneo a sistemazioni per il dislocamento a lunga distanza delle forze armate americane".

Nel tunnel

Il secondo attacco all'Iraq, esattamente come il primo, esattamente come quello in Afghanistan e chiunque vi partecipi, si profila come un altro passo verso il controllo totale delle aree strategiche da parte dell'imperialismo maggiore il quale, dopo aver ormai spazzato via tutti gli altri, dichiara impunemente che in caso di mancata unanimità, agirà comunque da solo. Ma essere soli non dà dimostrazione di forza, contrariamente a quanto sta sostenendo l'amministrazione Bush contro lo stesso Congresso. I Democratici, storicamente pacifisti a parole ma più guerrafondai dei Repubblicani nei fatti, appoggiano l'attuale governo ma ritengonoo che l'avanzata a rullo compressore dei bushiti sia destabilizzante e quindi pericolosa. Benjamin Barber, ex consigliere di Clinton, scrive che la globalizzazione ha reso obsolete le vecchie tendenze isolazionistiche degli Stati Uniti:

"Agire da soli non è più segno di sovranità, ma di impotenza. La nuova e ineluttabile realtà è quella dell'interdipendenza, e le nazioni veramente forti sanno che il loro potere è rafforzato e non impoverito dalla cooperazione e dall'intesa comune".

Qui peccano di idealismo Barber e i Democratici di cui è portavoce. Ma è vero che il tunnel lungo il quale si è avviata l'America è pericolosissimo. E la cooperazione sarebbe una soluzione solo se fosse possibile. Nei fatti non lo è mai stata. Potrebbe essere imposta da una forza di gran lunga più robusta di tutte le altre, in grado di imporre la propria volontà al mondo intero, ma addio chiacchiere sulla libertà, sovranità ed eguaglianza delle nazioni. Questo dice la nuova carta della pax americana, né più né meno.

Il dibattito fra i Democratici e tra questi e l'amministrazione in carica è interessante. Esso verte sul carattere sistemico della globalizzazione, un tema caro al supertecnico Al Gore, il vincitore effettivo delle elezioni poi sconfitto a causa del metodo di scrutinio. Per riconoscere il carattere sistemico del terrorismo e del suo antidoto, dice, occorre riconoscere l'interdipendenza mondiale, da cui gli Stati Uniti non sono esenti. Invece di isolarsi, gli americani dovrebbero contribuire alla riforma del mondo, anzi, guidarla. Ciò comporterebbe più scuole laiche e meno madrasa coraniche, più benessere e meno disperazione, più diritti civili ecc. in modo che sia più conveniente educare un bambino ai principi del libero mercato che non mandargli appresso eserciti di killer quando sarà cresciuto.

Non è che l'amministrazione Bush dica cose diverse, solo che, essendo a capo di un esecutivo, precisa anche i mezzi per ottenere la cooperazione. Dire che gli Stati Uniti dovrebbero guidare la riforma del mondo senza dire come fare è tipico dei parlamentari. Non dovendo mettere in pratica quel che dicono, improvvisano frasi senza senso, come quelle di tutti gli "oppositori" democratici, riformisti o utopisti del mondo, i no-global, i gruppetti attivistici antiamerikani per principio, gli utopisti che vogliono "fare" rivoluzioni e "costruire" nuove società.

Tuttavia partiti elettorali ed extraparlamentari, potenze e gruppetti, sono obbligati dai fatti a riconoscere più o meno esplicitamente che "il vecchio e disfunzionale sistema statale delle nazioni" (Barber) è morto per sempre e con esso è morto il vecchio concetto di sovranità nazionale. Che poi ognuno proponga una via particolare per non affossare del tutto il passato perduto e ritrovare una nuova sovranità è un altro discorso.

Letture consigliate

  • The National Security Strategy of the United States, documento prelevabile sul sito Internet della Casa Bianca: http://www.whitehouse.gov/nsc/nss.html.
  • Il n. 6 della nostra rivista, dedicato in gran parte all'analisi e alle conseguenze dell'attacco dell'11 settembre, è ancora disponibile.
  • PC Int., Patria economica? e Sottosuolo e monopolio, 1951, ora in La Questione Agraria, disponibile nei nostri Quaderni Internazionalisti.
  • PC Int., Imperialismo vecchio e nuovo, 1953, ora in America, disp. nei Quaderni Int.
  • Rand Corporation, How to think about coercion e Framing compellent strategies, entrambi sulle dottrine di "compellenza", (costringere l'avversario a fare secondo la propria volontà) scaricabili dal sito Internet http://www.rand.org/publications/

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