Ottocento pagine di inventario per un bilancio

Gli ultimi giorni dell'impero americano Chalmers Johnson, Garzanti 2001, pagg. 353 € 24,27.
Jihad, ascesa e declino Gilles Kepel, Carocci 2001, pagg. 436 € 22,21.

Blowback, titolo originale del saggio di Johnson, è un neologismo inventato dalla CIA per significare "contraccolpo", "ritorno di fiamma", evento indesiderato determinato da attività pianificate. Si potrebbe anche tradurre con "azione e reazione" una delle leggi fisiche del corpo newtoniano. Jihad è un termine che in genere viene tradotto con "guerra santa", ma significa propriamente "lottare sulla via di Dio", il quale, aggiunge il Corano (II.186), "non ama coloro che eccedono", e quindi non dovrebbe amare gli attuali suoi invocatori.

Si tratta di due saggi che non hanno apparentemente nulla a che fare l'uno con l'altro se non per via della cronaca attuale, ma li uniamo nella stessa recensione perché sono due asettici cataloghi di fatti da cui possiamo trarre conclusioni diverse da quelle cui giungono i loro autori. Essi non pensavano affatto di compilare semplicemente degli elenchi di fatti: entrambi si mostrano convinti che i fenomeni degenerativi presenti nell'imperialismo e nel jihadismo siano riformabili. Johnson, per esempio, si dice difensore dell'impero americano, solo che lo chiama leadership e lo vorrebbe impostato sull'esempio invece che sulla sopraffazione. Kepel è convinto che il movimento jihadista sia ormai in declino, ma che potrebbe riprendersi e diventare più violento che mai nel caso le élite islamiche non abbandonassero il loro tradizionale totalitarismo abbracciando libertà e democrazia.

Come si vede si tratta di tesi identiche, applicate ai due mondi che l'opposto crociatismo vorrebbe inconciliabili avversari. Gli autori, nonostante siano degli accademici, non ideologizzano troppo la loro ricerca, ma alla fine sembra non possano fare a meno di pagare il pedaggio all'ideologia democratica e riformista: l'imperialismo degli Stati Uniti e il fondamentalismo islamico, sarebbero dovuti ad una cattiva politica dei governi. Se vi fossero governi diversi, avremmo fenomeni politici o religiosi diversi. Vediamo se si tratta di un parto dei loro cervelli o se ci troviamo di fronte a determinazioni prodotte da una situazione in cambiamento.

Intanto Johnson e Kepel, al di là di ciò che pensano, dimostrano senza tanti fronzoli che una dinamica materiale deve produrre cambiamento. Per ogni impero, dice il primo, viene il momento di fare il bilancio. Ci si accorge allora che i soprusi, i crimini e le atrocità visibili sono solo una parte di ciò che è ascrivibile a debito. Quando per esempio un paese va in crisi e per risollevarsi viene messo in mano al Fondo Monetario Internazionale, "che è fondamentalmente un surrogato istituzionale del governo degli Stati Uniti", anche questo è da conteggiare nella stessa colonna del debito. Il termine "impero" per definire l'imperialismo sta avendo successo un po' ovunque, ma Johnson fa notare, in un'intervista al periodico tedesco Spiegel, che nel suo libro egli usa questo termine anche se in fondo è sbagliato, dato che l'impero di Roma era l'espansione territoriale di una precisa civiltà, mentre gli Stati Uniti saranno civili a casa loro, ma non rendono il mondo altrettanto civile. In effetti noi diciamo che c'è una sola civiltà capitalistica: se al suo interno si erge contro tutti un potente strumento di dominio, è perché il capitalismo non è unitario come le civiltà antiche, ma ha bisogno di differenze fra nazioni.

Non c'è nessuna civiltà peculiare americana, nonostante gli eufemismi su libertà, giustizia, democrazia. Non c'è nessuna leadership onorevole da far valere. L'attuale, che onorevole non è affatto, è l'unica possibile, perché l'imperialismo non ha alternative: o è tale o non è, cioè muore. In fondo l'autore sembra davvero sognare un impero americano che sostituisca l'imperialismo come sistema, però è costretto a bloccarsi, perché sull'alternativa alla società borghese nessun accademico borghese, in quanto tale, potrà mai disquisire.

Come tutti gli inviti a "risvegliare le coscienze" da un punto di vista giuridico (l'impero è "illegittimo"), il libro di Johnson accumula "prove di reato" come in una lunga istruttoria. Per esempio i 4.750 crimini impuniti commessi per vent'anni dagli occupanti militari di Okinawa contro la popolazione locale. Di crimini contro gli uomini ne sono citati moltissimi, ed essi sono giustamente inseriti nell'ambiente criminogeno del dominio politico, economico e militare; ma se pure l'accusa è vigorosa, il giudizio non può trovare conclusione entro le categorie dell'esistente. Se è vero che il contraccolpo, come Johnson conclude, non è altro che il raccogliere ciò che si semina, il quesito su che cosa ci fanno, a mezzo secolo dalla fine dell'ultima guerra mondiale, 61 grandi basi militari americane in 19 paesi, con centinaia di migliaia di soldati in pianta stabile, rimane senza risposta.

Eppure esse ci sono, senza guerre che le giustifichino, anzi, ce ne sono altre 800 più piccole, senza contare gli invisibili appoggi dell'intelligence. A che cosa servirebbe questa "semina" se effettivamente il problema fosse quello di una leadership più o meno ragionevole? A che cosa serve spendere 50 miliardi di dollari per mantenere il controllo sul Golfo dal quale si importa petrolio per 11 miliardi? Serve agli interessi vitali americani dare appoggio logistico alla Turchia in una operazione che comporta l'assassinio di 22.000 curdi? O mantenere per decenni dittature assassine? Che significato ha spendere un quarto dell'intero prodotto lordo americano per il mantenimento del sistema militare? Che cosa succederà quando si passerà dal controllo economico-militare dei vinti (interessante la similitudine operata fra i domini dell'URSS e degli Stati Uniti, entrambi fautori di governi-zombie asserviti) ad un riassetto mondiale che comprenderà necessariamente la Cina e la possibilità di nuovi schieramenti? (All'importante questione cinese sono però dedicate meno di 50 pagine). Mille domande come queste, tutte senza risposta. Catalogare il passato è facile, interpretare il futuro assai meno.

È chiaro che il catalogo dei fatti stride in modo impressionante con la supponenza americana di avere uomini e istituzioni forti ma razionali, in grado di prevedere il futuro come asserisce il Segretario di Stato Madeleine Albright, citato da Johnson con indignazione: "Se noi dobbiamo usare la forza, è perché siamo l'America. Siamo la nazione indispensabile. Siamo al di sopra di tutti. Noi vediamo più lontano nel futuro". Ma l'indignazione non è l'emozione giusta: nel consesso delle nazioni civili, l'imperialismo realmente possibile è quella dei panzer alla Albright, non la vagheggiata, illuminata leadership degli indignati alla Johnson.

Ecco che allora la storia presenta sequenze apparentemente irrazionali rispetto ai risultati voluti dagli Stati Uniti. Johnson mostra come essi s'infognino sempre in vicoli ciechi: decidono di "aiutare" un paese alleato di fronte a lotte o insurrezioni interne; questo paese viene integrato nel campo degli interessi vitali americani in quanto "amico minacciato"; quindi gli si inviano "consiglieri" militari cui seguono gli addetti al business; l'estraneità di questo innesto rispetto alle condizioni locali provoca l'accentuazione delle opposizioni, che ovviamente se la prendono anche con gli americani; alla fine un regime violentemente anti-americano ha il sopravvento, col risultato esattamente opposto a quello cercato. Stupidi, allora?

Non sembra: questa è storia ordinaria da almeno cinquant'anni a questa parte e funziona, perché il risultato finale è un mondo destabilizzato che in fondo è utile al dominio del più forte. Però non può essere eternamente così. Johnson proietta la sequenza in Medio Oriente, dove lo scenario era già di tremenda attualità mentre scriveva, precisamente nell'Arabia Saudita: mentre la borghesia irachena e il suo apparato produttivo sono usciti indenni dalla Prima Guerra del Golfo (l'embargo come al solito ha colpito duramente solo la popolazione), l'Arabia è occupata in pianta stabile da 35.000 soldati. Altre decine di migliaia stazionano nelle immense basi costruite negli Emirati e nel Kuwait. Entro poco tempo, quindi, si dovrebbe assistere ad un rovesciamento del governo filo-americano da parte di un altro anti-americano. Scenario che anche il Pentagono evidentemente contempla, infatti spedisce altri 250.000 soldati per la guerra "all'Iraq". Vedremo.

Tutto ciò ci introduce nel mondo jihadista schedato da Kepel. Qui parlare di mere "contraddizioni" sarebbe come immiserire il problema, tanto è inestricabile l'inviluppo di storia, cultura, interessi e "contraccolpi". Problema percepito dalla borghesia come "scontro di civiltà" e da noi come storico affermarsi del capitalismo a livello globale. Kepel, come già Johnson con l'impero americano, individua i presupposti teorici del jihadismo in una "deviazione" dall'Islam dovuta a vari fattori. Notiamo che l'origine del moto sociale viene riferita a individui particolari, ma a partire da alcuni paesi che conosciamo già dal punto di vista della teoria del contraccolpo: il Pakistan, che firma nel '54 un patto di "reciproca assistenza e difesa" con gli Stati Uniti, e che nel 1956 diventa Stato confessionale; l'Egitto, che lascia l'ambigua posizione terzomondista per affidare il proprio sistema politico ed economico al controllo diretto degli Stati Uniti; l'Iran, che diventa la più potente pedina economico-militare americana dell'area con la satrapia dei Pahlevi; l'Arabia Saudita, già di per sé fondamentalista, utile centro di reazione filo-americana nel generale giuoco di "contenimento del comunismo". È da questi paesi che partono le teorie neo-islamiche (nonostante l'appello alla tradizione) rispettivamente di Mawdudi, di Qutb, di Khomeini e di alcuni principi della dinastia saudita.

Comunque, secondo Kepel, lo jihadismo non rappresenta oggi un fenomeno in ascesa bensì in declino. Il fatto che movimenti islamici fondamentalisti siano giunti al potere non dimostra un successo, ma un fallimento. Molti sono già crollati per spinte distruttrici interne. Essi, diciamo noi, non reggono alla prova del capitalismo globale. Ciò offre, al di là di ciò che pensa l'autore, una prima lettura marxista: mentre le rivolte di masse oppresse, legate a rapporti residuali di vecchie società spezzati dall'avanzata del capitalismo, potevano essere "uno dei proiettili che la rivoluzione proletaria lancia contro l'ordine esistente", la stessa rivoluzione non potrà mai utilizzare forze socialmente arretrate che furono strumento diretto della reazione capitalistica. È semplicemente logico che, raggiunto il risultato, lo stesso capitalismo scarichi i suoi vecchi e impresentabili mercenari, per la semplice ragione che non possono rappresentare nessun futuro nel sistema. È vero che il capitalismo è da un pezzo pura forza di conservazione, ma nessuna forma economica e sociale ha mai visto declinare la propria forza produttiva, e questa si basa sul trapasso al futuro, anzi, è proprio la causa del trapasso. Perciò, nella storia, né la fresca e combattiva forza dell'orda barbara, né tantomeno quella di una classe rivoluzionaria in ascesa, hanno mai combattuto l'avversario decadente scendendo sul suo terreno, che oggi è quello del petrolio, della tecnologia, della finanza, dei media, ecc. È quindi assolutamente vero che siamo di fronte alla "battaglia finale" contro i "crociati" e contro i governi "corrotti" dell'Islam, come dice bin Laden, solo che il Capitale ha già vinto, tra l'altro mandando avanti l'impresentabile banda bushita per il lavoro sporco, salvando il "principio" dell'America democratica e liberatrice.

Dunque il vero obiettivo della guerra o delle guerre future è l'antitesi fra la conservazione del capitalismo o la sua soppressione, fra la continuazione del dominio della classe borghese e la società nuova. Non ci sarà posto per un capitalismo "islamico": il capitalismo, come il comunismo, non ha aggettivi. La Rivoluzione d'Ottobre si apprestò a sopprimere il capitalismo ma fu sconfitta e quando la Russia stalinista volle "competere" col capitalismo delirando su "vie nazionali al socialismo", prima di essere vinta con le armi fu "comprata" ed è ora in mano alle esose mafie post-capitalistiche tributarie d'Occidente. Il fenomeno non fa che ripetersi.

Al contrario di quanto dice Kepel, nessuna riforma, nessuna iniezione di democrazia abolirà di per sé il movimento jihadista, perché esso è già la risposta alle necessità di un sistema che schiaccia miliardi di uomini. Potrà farlo la vittoria completa e inevitabilmente cruenta del Capitale o quella, per ora lontana, del proletariato. La prospettiva rivoluzionaria non è diventata meno possibile solo perché il mondo sta precipitando in una situazione imperialistica particolarmente virulenta, anzi. Lo Stato iraniano, protetto da pretoriani super-armati, fu abbattuto dal proletariato insorto e non dai seguaci di Khomeini; questi non fecero altro che colmare il vuoto politico lasciato dalla borghesia inconseguente e dai movimenti sedicenti rivoluzionari. Tra l'altro la Repubblica Islamica d'Iran fu costretta a introdurre le politiche riformiste che lo Scià aveva rifiutato; essa non limitò affatto il capitalismo ma lo fece espandere, e con esso il proletariato. Alla fine si dimostrò molto meno zombie di tanti governi filo-americani e filo-sovietici, spinta com'era dall'avanzata del Capitale, che non si ritirava affatto di fronte all'Islam bensì lo plasmava.

La "catalogazione" dei due autori, una a proposito del potenziale accumulato dagli Stati Uniti per contraccolpi di ogni genere, l'altra a proposito del fallimento jihadista, ci permette anche di analizzare il problema della guerra che sta marciando a passi forzati verso l'Iraq. Il capitalismo sta soffocando, non è più governabile con i sistemi tipici della guerra fredda. Al di là della propaganda, ciò che serve ormai non è un semplice controllo poliziesco, ma una maggiore integrazione del mercato mondiale. Lo stesso Kepel, in un articolo recente, lo ricorda affrontando il problema della sempre più probabile guerra irachena: non è possibile oggi fondare il rapporto degli Stati Uniti col Medio Oriente solo sul petrolio, sui confini disegnati da un imperialismo ottocentesco e sul patto siglato nel 1945 a Suez, fra Roosevelt e Saud d'Arabia, su di una nave americana che tornava da Yalta, dov'era stato spartito il mondo. All'epoca bastava avere il controllo dei governi e di ciò che potevano garantire, ora ciò non basta. Il capitalismo sta distruggendo sé stesso e ha già ridotto l'America Latina, l'Africa, l'Asia, la Russia a serbatoio di materie prime e manodopera a basso prezzo. Ma nello stesso tempo la sua dannazione è che distrugge aree immense che dovrebbero invece rappresentare un mercato, mentre in realtà non possono acquistare nulla. Servirebbe, come ormai vanno dicendo in molti, un Piano Marshall planetario. Ma il Piano del 1947 veniva dopo una guerra mondiale durata sei anni, che aveva distrutto mezzo mondo e imponeva una gigantesca ri-costruzione. Oggi non c'è più nulla da ri-costruire e sarà difficile trovare surrogati.

Rivista n. 10