La legge Biagi o il riformismo illogico del Capitale-zombie

La legislazione sulle fabbriche, questa prima, cosciente e sistematica reazione della società alla forma spontanea del suo processo di produzione, è un prodotto necessario della grande industria non meno dei filati di cotone, degli automi e del telegrafo elettrico. Nulla potrebbe caratterizzare meglio il modo di produzione capitalistico che la necessità di imporgli con leggi coercitive dello Stato le misure più elementari"

(Marx, Il Capitale, Libro I, cap. XIII.9).

Un sistema che perde energia

Nell'attuale fase del capitalismo, la necessità di imporgli sempre più ordine con leggi coercitive è più che mai indice di generale fallimento sociale. Quando il monopolio predomina, lo Stato impone il libero mercato; quando la libera circolazione delle merci porta alla crisi, gli Stati più potenti impongono regole al commercio; quando i capitalisti affamano interi strati sociali, Stati grandi e piccoli impongono politiche di ripartizione del reddito; quando esse falliscono, impongono privatizzazioni nella speranza di un ritorno alla "mano nascosta" di Smith, regolatrice automatica del mercato. Infine, quando si riproduce l'inesorabile divario sociale e tutti sono desiderosi di conservare almeno ciò che si è raggiunto e i potenziali eversori si moltiplicano, lo Stato impone il controllo sempre più capillare sulla vita privata dei cittadini. Lo si chiami fascismo, lo si chiami come si vuole, il fenomeno non è espressione di una destra o una sinistra: esso esiste e basta.

La riforma sul mercato del lavoro (che qui assumiamo composta di tre parti, il Libro Bianco redatto da Marco Biagi, la legge n. 30/2003 e il decreto legge n. 276/2003) è un marchingegno tanto farraginoso, assurdo, costituito da norme complicate, in parte collegate a fattori esterni alla legge stessa, come la contrattazione e i futuri decreti ministeriali, da risultare inapplicabile. Dal punto di vista economico-sociale è il classico rattoppo che si rivela peggio del buco, dato che abbatte il valore della forza-lavoro e quindi della massa di beni che lo costituiscono, vale a dire delle merci che servono all'operaio e alla sua famiglia per vivere. In ultima analisi impoverisce globalmente la società mentre vorrebbe arricchirla. Si contraddice, perché vorrebbe imporre d'autorità, a un mercato che non è in grado di farlo da sé, alcune regole per evitare il ritorno puro e semplice alla giungla e quindi alle tensioni sociali, e invece arriva a prendere penosamente atto della giungla, la legalizza, e chiude la stalla dopo che i buoi sono scappati da un pezzo. Offre flessibilità al mercato del lavoro affinché si adegui alla realtà internazionale, tuttavia agisce sui sintomi e non sulle cause, dato che gli sconvolgimenti dovuti alla globalizzazione dei mercati non sono affrontabili con le liberalizzazioni ma con misure assolutamente totalitarie e internazionali. È impossibile ad esempio che salari differenti, come quelli tedeschi e cinesi, coesistano e si confrontino all'infinito senza produrre effetti sul valore della forza-lavoro all'interno dei singoli paesi e soprattutto sulla divisione internazionale del lavoro. È una situazione che interessa il pianeta, e non è risolvibile con pannicelli caldi sulle piaghe nazionali.

La legge Biagi promette ai giovani una schiavizzante sottoccupazione al posto di una nerissima disoccupazione. Col miraggio di elevare un domani sia la qualità delle condizioni di lavoro che quella della produzione, interviene solo sulla forza-lavoro abbassandone sia il prezzo che il livello qualitativo. Le infami condizioni di lavoro divenute legali faranno aumentare la già generalizzata (e naturale) irresponsabilità verso il ciclo produttivo, rispetto alla tanto strombazzata "Qualità totale", ecc., potenziando un fenomeno che è ancor più grave del sabotaggio consapevole; proprio il contrario di ciò di cui l'industria ha bisogno nella produzione moderna. Sul medio e lungo periodo l'industria impiega lavoro qualificato e se lo tiene caro, non "fidelizza" soltanto il cliente, come dice con orrido termine, ma cerca di farlo anche con l'operaio. Il lavoro "flessibile" di cui tanto si parla non è affatto caratteristico dell'industria in quanto tale: esso è il prodotto di una diminuzione storica del numero dei lavoratori nel processo produttivo e di un enorme ampliamento della popolazione in sovrappiù, alla quale si deve pure trovare un'occupazione se non la si vuole semplicemente mantenere, come oggi sta già succedendo in ampia misura.

Nell'epoca del turbocapitalismo sarebbero di importanza vitale sia la responsabilità dell'operaio verso il processo e il prodotto, che l'ordine nell'infrastruttura di collegamento fra le fasi produttive e distributive, come recitano i sacri testi di organizzazione aziendale. E invece succede che da una parte si sviluppa un'aristocrazia operaia con vaste conoscenze, fino a configurarsi come un'oligarchia che sostituisce il capitalista diventato uno staccatore di cedole; dall'altra cresce la tendenza del sistema nel suo complesso al disordine, alla perdita di capacità di autoregolazione, alla dequalificazione delle prestazioni e dei risultati. Insomma, il giovane che viene chiamato a fiancheggiare l'oligarchia, e che entra ed esce di continuo dal ciclo lavorativo, se ne frega se il ciclo stesso funziona o meno. In queste condizioni proliferano rami di attività fasulle al servizio del sistema nel tentativo di mitigare la sua inefficienza: si introducono tecnologie di esagerata potenza rispetto ai fini, per cui rimangono inutilizzate; si riduce il personale affidando ad aziende apposite quello ridondante (outplacement); nuovi apparati privati assolutamente dissipativi sostituiscono gli uffici di collocamento; la compravendita della forza-lavoro viene gestita come un supermercato con la merce sugli scaffali; crescono immani quanto inutili call-center come penosi surrogati di servizi effettivi ormai eliminati; viene abolita la riparazione dei beni durevoli e trionfa l'usa-e-getta; s'intensifica il traffico a vuoto a causa dei "lavoratori" che, invece di produrre all'interno di una fabbrica, corrono come pazzi cercando di quadrare il bilancio e rendere utile la partita IVA; aumentano a dismisura le attività parassitarie come quelle degli uffici che lavorano solo per gestire la mancanza di lavoro, dei consulenti d'ogni genere, delle assicurazioni per i dirigenti licenziati, degli avvocati per i conflitti generati dal lavoro selvaggio. Qualche economista borghese vede nero e lancia severi moniti per gli effetti futuri di un'economia improduttiva che cresce su sé stessa. E la osserva in laboratorio come si fa con le metastasi di un cancro. Vien da dire: volete il capitalismo? È questo, non altro.

Piagnisteo riformista

La diffusa incapacità di vedere i reali problemi da parte di formazioni che fanno ancora riferimento al proletariato, è perlomeno pari all'incapacità della borghesia di tenere sotto controllo il suo sistema sociale, con produzione, mercato, forza-lavoro e tutto quanto. L'insistenza con cui da "sinistra" le si risponde facendole eco è del tutto tragica e dimostra un'ottusità senza precedenti nella storia del movimento operaio. A parte il fatto che in un mondo globalizzato c'è ancora la mortifera tendenza ordinovista a chiudersi in "officina", più preoccupante è la persistenza generalizzata di logiche sopravvissute dal tempo delle esperienze rivoluzionarie degli anni '20, quando effettivamente la fabbrica era il lievito del movimento e produceva l'azione "spontanea" verso l'organizzazione sindacale per il semplice fatto di inquadrare gli operai in un processo produttivo ordinato, disciplinato e, appunto, organizzato.

Così, nell'epoca in cui la grande fabbrica unitaria a ciclo "verticale" è morta da un pezzo, in una situazione di mercato sempre più slegato e insofferente rispetto alle frontiere nazionali e ai vincoli interni imposti dalle leggi di ogni paese, ci si trova a strepitare in difesa di articoli 18 (o anche di tutto il venerato Statuto dei pretesi diritti dei lavoratori) che già erano soltanto macchine da concertazione, da rifiutare in toto quando furono escogitate. Oppure si scende – e si scenderà – in piazza contro questa nuova legge che, come tutte le leggi sul lavoro, non disciplina un bel niente, prende solo atto di ciò che succede già.

Attitudini sindacaleggianti, queste, passate attraverso la degenerazione staliniana e macinate dallo Stato corporativo modello Mussolini (riciclato in modello Di Vittorio e De Gasperi), che servono soltanto alla schermaglia politico-parlamentare, a sua volta utile a preparare il terreno per una nuova concertazione di leggi e leggine. Le quali, essendo il sindacalismo odierno molto responsabile verso l'economia nazionale, sanciranno ulteriormente il già avvenuto o l'inevitabile, come dimostra l'attuale legge Biagi, come successe con il famigerato Protocollo per il sostegno alla produzione e con la legge Dini sulle pensioni. Le stesse attitudini, del resto, non sono prerogativa di sindacalisti e politici semi-destrorsi, ma sono duplicate a sinistra con varianti del tutto marginali, tanto da determinare un funzionale codismo a sostegno del blocco politico anti-berlusconiano.

I tre esempi che abbiamo fatto sono emblematici di questo procedere: nel '92 sembrava si scatenasse il finimondo contro i sindacati traditori che avevano accettato la bozza del Protocollo, ma nel giro di un anno questi firmarono, recuperando tutto il recuperabile, dimostrando assoluta indifferenza nei confronti degli interessi operai. Quando Berlusconi andò al governo per la prima volta, il popolo resistenzial-sindacale, sinistri in testa, scese in piazza al canto di Bella ciao (13 milioni di manifestanti, si disse) contro quella riforma delle pensioni che poi fu varata con la complicità degli "oppositori". La "grande" battaglia contro l'eliminazione dell'articolo 18, risibile barricata dietro la quale si nascondeva come al solito una politica parlamentare in cerca di truppe, fu l'intermezzo per il nuovo no pasaran ancora sulle pensioni e sulla legge Biagi.

Ora, è certo difficile contrastare decenni di controrivoluzione staliniana e antistaliniana liberal-democratica, ma il problema di come affrontare la moderna struttura della produzione capitalistica dal punto di vista degli interessi operai immediati esiste; e va affrontato. Il riformismo corre dietro ai problemi della presente società moribonda agitando proposte più o meno velleitarie di rattoppo, mera azione infermieristica per darle un po' d'ossigeno. L'imposizione di una legge sul lavoro (ovviamente diversa da questa), da parte di milioni di lavoratori in sciopero rientrerebbe invece nella lunga lista delle storiche lotte, come per esempio quelle per la legge sulla giornata lavorativa delle otto ore o dei minimi salariali e normativi. Il confine, al solito, è tracciato dalla disposizione delle classi sul campo.

L'indignata protesta contro "l'attacco al proletariato"

Il libero incontro di capitale e lavoro sul libero mercato è il presupposto primario per lo sviluppo del sistema d'industria, del proletariato moderno, del lavoro massimamente socializzato, e quindi delle basi propizie alla società comunista. La circolazione senza intoppi della forza-lavoro in quanto merce ha rivoluzionato il mondo. Le leggi che regolamentano l'industria hanno un'importanza enorme (Marx dedica ad esse decine di pagine e di note, più un apposito capitolo del Capitale), ma occorre distinguere fra lo sviluppo del sistema capitalistico, il suo consolidarsi e il suo tramonto. Per noi ovviamente i diversi stadi hanno importanza solo in relazione alla capacità di lotta del proletariato: la legislazione sul lavoro è stata uno dei cardini dello sviluppo del capitalismo e della lotta di classe. A certe condizioni, può ancora essere alla base di lotte a sfondo genuinamente classista.

Il problema, grave, nasce quando si fa confusione fra l'analisi della legislazione borghese, la lotta proletaria per una legislazione vantaggiosa e l'ideologia del "diritto", che è tutta borghese. Oggi fra diritto in senso giuridico e diritti in senso rivendicativo-consociativo, sembra essersi smarrito il concetto stesso di lotta di classe. Scrive Marx:

"Il rivoluzionamento del modo sociale di condurre l'azienda, questo prodotto necessario del rivoluzionamento del mezzo di produzione, si compie in un groviglio variopinto di forme di trapasso" (Il Capitale, Libro I, cap. XIII.9).

Ci sembra che più chiaramente di così non ci si possa esprimere. Per ben due volte il termine "rivoluzionamento" viene applicato: al modo e al mezzo e, ciò che più importa, è che il doppio rivoluzionamento non è solo questione tecnica, è tutt'uno con una varietà di forme di trapasso. Trapasso, non immobilità. Per conservarsi in vita il capitalismo ha bisogno di rivoluzionare la società: semplice ed evidente contraddizione dialettica, la troviamo già nel Manifesto. E allora la si smetta di rompere le tasche ogni volta che la borghesia corre affannosamente dietro alle trasformazioni del capitalismo e si fa disperatamente conservatrice mentre il suo modo di produzione continua a negare sé stesso. La legge Biagi non è affatto l'ennesimo "attacco alla classe operaia": è il rantolo di un cadavere. La classe proletaria ha tutta la forza necessaria per attaccare, la borghesia no, essa sopravvive solo perché la classe che le è nemica ha sospeso il combattimento decisivo, per ragioni storiche su cui è bene meditare a fondo.

Se la borghesia odierna non è più capace di legiferare con la potenza di quella inglese dell'800, ciò non significa che i comunisti debbano sorvolare sul movimento oggettivo che produce l'esigenza di nuove leggi. Invece di agitarsi davanti a fantasmi giuridico-normativi, si potrebbe agire in modo più razionale osservando quali elementi di trapasso abbiano preparato la società odierna, la sua sfera produttiva, il suo mercato mondiale.

Nessuno "attacca" il proletariato se esso produce plusvalore standosene buono buono; nessuno potrebbe attaccarlo con successo se esso sapesse farsi valere e attaccasse a sua volta guidato dal suo partito politico. È vero che non può esservi legislazione del lavoro che non sia nello stesso tempo anche mezzo per garantire lo sfruttamento, ma è anche vero che essa non può fissarsi in leggi e regolamenti di fabbrica – imposti dai borghesi o dai proletari – senza rispecchiare anche una ulteriore forma industriale di transizione verso una società diversa:

"Il parlamento inglese, al quale nessuno certo rinfaccerà d'essere geniale, ha finito per capire, attraverso l'esperienza, che una legge coercitiva può abbattere per decreto tutti i cosiddetti ostacoli naturali opposti dalla produzione alla limitazione e alla regolamentazione della giornata lavorativa" (Ibid.).

Citazione e sottolineature sono di Marx, il quale aggiunge che il motto di Mirabeau "Impossibile? Non dite mai una bestialità del genere" si applica bene specialmente alla fabbrica tecnologica moderna, per la quale una legislazione apposita fa maturare "come in una serra" gli elementi della trasformazione del sistema, a favore della grande industria contro la manifattura e l'artigianato. Se niente è impossibile alla borghesia quando asseconda la marcia rivoluzionaria del sistema d'industria, a maggior ragione niente è impossibile al proletariato, anche se sindacalisti e politici, istituzionali o meno, fanno a gara per scovare "ostacoli naturali" che renderebbero impossibile un approccio scientifico e classista al problema della trasformazione industriale. Da una parte si abbandonano all'acquiescenza nei confronti del sistema, dall'altra si agitano a caso, come molecole di un gas. I più assumono l'atteggiamento antistorico di chi si trovasse di fronte, invece che alle dinamiche reti di produzione odierne, alle grandi tessiture dell'800, alle acciaierie Krupp o Putilov d'inizio '900, che forgiarono sì generazioni di militanti rivoluzionari entrando nella storia del movimento operaio, ma che sono irripetibili. Alcuni, peggio ancora, sono assolutamente incapaci di valutare l'energia della classe e di conoscere le vie attraverso cui quest'energia da potenziale può diventare cinetica, cioè massa in movimento; è come se per loro le leggi della dinamica sociale non esistessero. Non vi sono impedimenti "naturali" alla lotta di classe, né espedienti "artificiali" per suscitarne il risveglio, vi sono solo politiche più o meno coerenti con i fini. E quando le politiche addirittura non sono distinguibili dal generale travaglio di una società caotica e decadente, la più violenta della storia, significa che molta strada c'è ancora da fare per superare l'attivismo adagiato nel sistema. Attivismo e riformismo sono due aspetti dello stesso fenomeno attualista, vera miopia esistenziale, politica del "cogli l'attimo". È un principio vitale del marxismo che anche i fatti sociali siano trattabili secondo le leggi della fisica: ebbene, in termodinamica non si sognerebbe nessuno di scambiare la temperatura col calore, cioè sopravvalutare la miserabile quantità di energia manifesta in un fiammifero acceso (individuo o gruppo, sia pure col cervello rovente) nei confronti della quantità immensa racchiusa nel mare sociale (sia pure misurata al Polo Nord della controrivoluzione).

Il diavolo, l'acqua santa e gli esorcisti

La legge Biagi, in vigore da settembre, è stata presentata dal governo come un provvedimento in grado di far aumentare l'occupazione degli strati sociali che più influiscono sulle statistiche della disoccupazione: i giovani, le donne e chi, avendo raggiunto un'età avanzata, non è più richiesto dal mondo produttivo. Per colmo d'ironia questo governo – che è di "destra", secondo i parametri correnti – ha presentato la legge anche come una soluzione dai risvolti comunistici: essa sarebbe cioè in grado di cancellare i confini fra tempo di lavoro e tempo di vita. In realtà il precario, spendendo tutto il suo tempo nella ricerca affannosa di lavori e nello svolgerli, vede coincidere la sua vita con il lavoro. Ma è non-vita. La faccenda è comunque interessante e occorre tracciare uno schema per evitare tesi opinabili e dibattiti su di esse. Nella storia dell'uomo sono solo tre i casi in cui possiamo constatare che il tempo di lavoro coincide sul serio con il tempo di vita:

1) quello dell'uomo preistorico raccoglitore-cacciatore;

2) quello dell'uomo venduto come schiavo;

3) quello dell'uomo della società futura, liberato dal lavoro salariato.

Fino a dieci anni fa solo i due primi punti erano materia di storia. Adesso l'involontaria ironia del borghese ci rivela che, nonostante la schiavizzazione del lavoratore precario, il terzo punto vi entra prepotentemente, addirittura adombrato in una legge. Speriamo che nessuno ci venga a rompere le scatole col fatto che la borghesia adesso schiavizza e che il futuro è lontano ecc. ecc. È ovvio e banale, nessuno più di noi odia questa società carogna. Ma si può far lavorare il cervello e chiedersi che cosa significa questo "piccolo" cambiamento in un processo millenario. Processo che per noi è trasformazione, oggi con risvolti bestiali, ma trasformazione.

I detrattori ottusi della Legge Biagi non vedono neppure che essa rende semplicemente ufficiale ciò che già succede sul mercato del lavoro e considerano un "male" in sé sia la legge che la trasformazione. Ad esse contrappongono come "bene" il ritorno a forme passate già tolte di mezzo da forze mondiali un po' più potenti di sindacalisti e politici, "tradizionali" o "alternativi". Assioma marxista: non è la legge che produce il cambiamento, è il cambiamento che produce la legge. Lo riconosce anche Gino Giugni, che pure è stato padre della Legge 300, Statuto dei diritti dei lavoratori, una legge più chiara ma altrettanto inutile di quella che stiamo analizzando. Egli, criticando la legge Biagi, ammette che essa "accelera la tendenza alla frammentazione delle aziende e alla divisione sindacale".

Se ciò sia negativo o positivo lo vedremo, ma si può accelerare solo una tendenza che già esiste, giustamente. È questo l'ambiente in cui, di fronte alla rivoluzione che avanza, si piange su leggi del passato invece di preparare il futuro, mentre qua e là si agitano ometti che, brandendo reliquie in nome di contrapposte teologie, si scomunicano a vicenda.

Precarietà assoluta! Accusano bonzi e bonzetti sindacali. Come se si fosse perso l'Eden di una stabilità altrettanto assoluta. Come se i meccanismi atti allo sfruttamento di forza-lavoro, stabilità o precarietà dipendessero dalle leggi invece che dai cicli economici e, più in generale, dal procedere storico del capitalismo verso il suo superamento. Man mano che il capitalismo matura aumenta la produttività del lavoro, aumenta il drenaggio di plusvalore dal singolo operaio, ma socialmente (l'abbiamo dimostrato in più di una sede) esso ha sempre più difficoltà a produrre una massa di plusvalore che cresca con la popolazione e con il vulcanico ingigantirsi della produzione. Anzi, l'aumento della produttività e del plusvalore locale è sinonimo di diminuzione – in confronto – della quantità di plusvalore globale prodotto dall'intero sistema.

Non può quindi esistere una legge che eviti la precarietà o la introduca: l'incertezza del lavoro varia a seconda delle congiunture, ma in sé è insita nel sistema, perché dipende da parametri che nessun governo e tantomeno nessun sindacato è in grado di dominare. Specialmente oggi che tali parametri sono del tutto internazionalizzati. Perciò mettersi a discutere sulla bontà o perversità di una legge in quanto tale è come chiamare in causa il diavolo e l'acqua santa e, di fronte alla dichiarazione d'impotenza del governo, che almeno ammette di subìre le leggi del mercato, scuotere qua e là l'aspersorio e mettersi a fare esorcismi. Salvo poi andare al governo ed essere costretti a prendere misure identiche a quelle del presunto avversario. Questo non vale solo per i riformisti parlamentari, ma anche per quelli extra-parlamentari, che si buttano a pesce su ogni riformetta del passato o del presente sol che dia modo di strillare qualche frase fatta su democrazia, diritti, libertà e, naturalmente, antifascismo.

A che cosa serve la legge Biagi per il modello italiano

A niente. Dal punto di vista industriale l'Italia è un paese capitalisticamente maturo come tanti altri: ha un prodotto lordo pro capite – in termini regolarizzati – pari all'incirca a quello di Francia, Gran Bretagna, Germania e Giappone. Ha un enorme settore di lavoro sommerso (circa il 30% del valore prodotto ex novo), che è difficile far rientrare nei conteggi per il Prodotto Interno Lordo, ma è obbligata da criteri internazionali a farne una stima e a introdurre correttivi nelle cifre ufficiali. Secondo il Ministero del Lavoro, il tasso di occupazione italiano, cioè delle persone in età di lavoro che svolgono un'attività qualsiasi, è del 53,5%, mentre il tasso medio europeo è del 63,3%. Vale a dire che europei e giapponesi, per raggiungere lo stesso PIL pro capite, occupano circa il 20% di persone in più. Un'enormità. Perciò non solo il paragone dei PIL regge, ma in esso leggiamo che, rispetto a tutti i paesi concorrenti, tranne gli Stati Uniti, l'Italia ha una produttività più alta. Se poi pensiamo che il tasso di occupazione italiano sull'intera popolazione, dai neonati ai centenari, è del 39% mentre negli altri quattro paesi nominati si avvicina al 50%, ecco che abbiamo tradotto in cifre una politica obbligata. La borghesia italiana dovrebbe incidere su quella grande parte della popolazione che percepisce un reddito qualsiasi ma non lavora. L'attenzione è stata spostata ad arte sui pensionati ma è una sciocchezza: chi ha pagato e paga contributi è da registrare nell'attivo del bilancio statale; da segnare in passivo è chi percepisce reddito senza aver mai contribuito a formarlo, il parassita delle non-classi che mangia plusvalore a sbafo.

Ma c'è di più: la forza-lavoro salariata e produttiva, tolta cioè quella dei servizi non vendibili (che non producono plusvalore), è ridotta a circa 12 milioni di lavoratori e su di essi pesa tutta la produzione del valore in circolazione all'interno della società; altra prova che la produttività dei lavoratori italiani è molto elevata, cioè che l'apparato produttivo italiano riesce ad estrarre da ogni lavoratore più di quanto non riesca a fare un capitalista concorrente. Questa caratteristica favorevole va del tutto sprecata a causa delle inerzie del sistema e della sua decrepitezza politica: invece di una legge sul mercato del lavoro (comunque, come vedremo, la si potrebbe scrivere in poche parole semplici invece che con il solito linguaggio da azzeccagarbugli) la borghesia italiana avrebbe bisogno di una legge per il riordino dei flussi dell'enorme quantità di plusvalore che va in fumo per mille rivoli. Ma avrebbe, prima di tutto, bisogno di non essere la più vecchia borghesia del mondo e perciò la più marcia, la più cieca di fronte alla crescente esigenza di controllo totalitario dell'economia (altro che libero mercato!).

La struttura dell'economia italiana è quella tipica del capitalismo ultramaturo, che ha una storia di politica industriale statalizzata e di tradizionale politica sociale di stimolo alla produzione e nel contempo di sostegno al reddito e quindi ai consumi. Ciò spiega, tra l'altro, il tipico ambiente nel quale razzola ogni genere di mafia per la ripartizione dell'abbondante plusvalore. Non per niente qui il fascismo è durato vent'anni e ha avuto il tempo di lasciare irreversibili tracce di sé; qui il Keynesismo era già applicato dieci anni prima che Keynes lo scoprisse, lo traducesse in carta stampata e altri lo adottassero trovandogli un nome.

In termini marxisti ciò significa che, rispetto ad altri paesi di sviluppo equivalente, poca forza-lavoro muove molto capitale; di conseguenza il saggio di plusvalore (o di sfruttamento) è altissimo. Sembrerebbe non esservi problemi, allora. Invece, come abbiamo sottolineato più volte, l'alta produttività, che di per sé è in grado di aumentare la massa di plusvalore a beneficio del capitalista singolo, a parità di merci totali prodotte fa ovviamente diminuire il numero dei capitalisti che ne beneficiano, col risultato di bloccare o addirittura diminuire la massa complessiva del plusvalore. Si capisce bene che la contraddizione dell'alta produttività opera in pieno, provocando disastri che la borghesia, non riconoscendo la legge del valore, non è neppure in grado di capire. Non lo capiscono neppure schiere di sindacalisti che, di fronte al fenomeno, si mettono a frignare sulla cosiddetta de-industrializzazione e, insistendo ancora di più sul "diritto al lavoro", pretendono di tenere aperte fabbriche dalla produttività bassissima (quelle che per rimanere sul mercato devono licenziare) o addirittura di "creare" artificialmente posti di lavoro togliendo al padreterno l'esclusiva su questo particolare modo di produrre dal nulla.

A questo punto, ormai escogitati tutti gli espedienti keynesiani e antistoricamente ritornati all'assurdità del mercato selvaggio – libero a parole, dato che in pratica esso non lo è mai stato, nemmeno quando i padri del liberismo ne cantavano la gloria – il capitalismo reagisce nell'unico modo che conosce: spingendo ad una produttività ancora più alta nelle singole fabbriche, nei singoli settori, occupando sempre meno operai "tradizionali", licenziandoli, e ricorrendo sempre più agli operai "atipici".

Ufficio Complicazione Affari Semplici

Un luogo così chiamato esiste virtualmente in ogni industria che superi certe dimensioni critiche. Alcune leggi dell'organizzazione, e soprattutto della disorganizzazione, sono ben individuate nei manuali e in celebri libelli satirici su di essi. La legge cui è stato dato il nome di Biagi è un tipico prodotto degli UCAS di tutto il mondo. A questo fenomeno fa riscontro perfetto il sindacalismo odierno, che si adagia supinamente sui modelli proposti dalla "controparte". Così come vi si adagia il riformismo alternativo – compreso quello che spara – nell'affrontare le tirate riformistiche di governi pasticcioni. Nella vecchia bozza per l'attuale legge, il famigerato ma non fesso Libro bianco sul mercato del lavoro, vi erano ipotesi che un sindacato serio avrebbe potuto prendere in serissima considerazione per estese lotte di alternativa, ben sapendo che il legislatore avrebbe evidenziato solo gli aspetti utili allo sfruttamento più intensivo e libero da vincoli. Invece anche la CGIL si fermò all'aspetto contingente e scontato, disertando la trattativa. Non pretendiamo che la CGIL non sia sé stessa, ma un sindacato non istituzionalizzato (la cui possibilità reale è tema di discussione fra i comunisti da più di mezzo secolo) avrebbe dovuto non solo parteciparvi, ma esigerla, e adoperare tutta la forza che generosamente il proletariato stava mettendo in campo per dirottare il progetto dagli uffici borghesi dell'UCAS alle Camere del Lavoro, cioè alle sedi territoriali dell'organizzazione.

Ogni scienza non è altro che la ricerca di spiegazioni semplici per un mondo dall'apparenza complicata. E qui arriveremo alle cose semplici seguendo necessariamente la complicata realtà economica dell'epoca imperialistica, realtà irreversibile e che perciò prima o poi dovrà saltare quella legislativa e sindacale, dato che non sono più adatte al moderno mondo del lavoro, con le sue tecnologie, i suoi modelli di produzione diffusa ecc.

Nel citato Libro Bianco vi era un'osservazione assai interessante, nella quale si coglieva un riconoscimento indiretto e certo non volontario, alla legge marxista della caduta generale del saggio di profitto:

"La maggiore correlazione tra crescita del prodotto e crescita della occupazione nonché la maggiore diffusione del lavoro atipico, dovute alle misure di flessibilità introdotte a partire dal 1997, dimostrano come vi siano le condizioni affinché anche in Italia possa crearsi un mercato del lavoro dinamico, efficiente ed equo".

Per noi il Prodotto Interno Lordo è Plusvalore Insieme a Lavoro, cioè redditi dei capitalisti e delle mezze classi più salario degli operai. È perciò assai interessante sentir dire da un borghese che c'è una correlazione stretta fra diffusione del lavoro "atipico", crescita dell'occupazione e crescita del PIL. Siccome la massa degli occupati è invariata da anni, quella dei salari addirittura diminuisce e il PIL cresce seppure di poco, è evidente che questa crescita è tutta dovuta al maggior plusvalore estratto dalla forza-lavoro. Se la massa degli occupati aumenta con l'introduzione di maggior lavoro "atipico" ma a basso prezzo, ecco che il PIL aumenterà, secondo la ricordata correlazione, ma sempre a vantaggio del plusvalore-profitto. Tutto il marchingegno sul mercato del lavoro è studiato (a fin di bene, certamente!) per aumentare l'estrazione di plusvalore non tanto tramite uno sviluppo della struttura industriale quanto tramite un abbassamento del salario.

Il lettore prenda nota di questo fatto per ciò che diremo dopo: la correlazione fra crescita del PIL, occupazione e lavoro "atipico" è un prodotto storico nel senso che non si può automatizzare all'infinito la struttura industriale, perché un paese completamente automatizzato avrebbe il 100% di disoccupazione, zero salario, zero plusvalore e quindi zero PIL. Occorre perciò introdurre antidoti, cioè affiancare ai grandi impianti un certo numero di settori a bassa composizione organica di capitale, cioè a sfruttamento poco intensivo di manodopera, con tanti operai pagati poco al posto di macchine. Questa tendenza storica è estremamente contraddittoria, perché reagendo ai guai dell'automazione con l'aumento del numero degli operai sottopagati, ci si impegola nel guaio dell'abbassamento di produttività, e questo è antistorico. Una soluzione apparente è nello spostamento di produzioni all'estero, in paesi dove la forza-lavoro valga meno delle macchine, ma rimane il problema di chi compra i prodotti.

Se la tendenza storica irreversibile è verso la massima produttività locale e verso il mercato globale della forza-lavoro, la legge dà solo una veste giuridica aggiornata alle nuove tipologie sotto cui si presenta l'offerta di manodopera, abbassandone il prezzo, un po' come costituirsi una Romania o una Thailandia in casa. Non può funzionare: la legge Biagi non introduce tipologie, prende atto della loro nascita spontanea. Non aumenta il numero dei lavoratori abbassando la loro produttività, ne abbassa semplicemente il salario per far aumentare il profitto. Non siamo di fronte ad un progetto tecnico per ottenere, nel medio e lungo periodo, l'aumento dei posti di lavoro: siamo di fronte a una semplice ideologia della speranza.

Che la massa dei salari subisca una diminuzione storica dopo essere aumentata è registrato anche dai singoli articoli del Libro Bianco, che riportano precisamente quel che già succede nel mercato selvaggio. Perciò, mentre troviamo naturale la ricerca affannosa della "dimostrazione" che sia possibile varare una riforma del mercato del lavoro tale da renderlo "dinamico, efficiente ed equo", troviamo del tutto risibile la pretesa di pilotare la correlazione fra PIL, lavoro atipico e aumento dell'occupazione a favore di quest'ultima tramite la semplice legiferazione sul lavoro atipico, per di più col solo intento di farlo costare il meno possibile.

Con gli argomenti affrontati dalla legge Biagi siamo di fronte alla ben nota e definita "controtendenza" alla legge della caduta del saggio di profitto, quella che Marx chiama "diminuzione del salario al di sotto del suo valore" e che necessariamente liquida in poche righe, avendo egli stesso dimostrato che il salario non può discendere ovunque al di sotto del suo valore. Ciò per la semplice ragione che, se scendesse, quello e non altro sarebbe il suo nuovo valore. La conclusione di Marx è lapidaria: il tentativo di alzare il saggio di profitto attraverso l'estensione dei settori a scarsa produttività (basso utilizzo d'impianti, impiego di numerosa manodopera a basso prezzo) si traduce in ultima analisi nell'effetto contrario. Infatti la diminuzione del salario in alcuni settori produce effettivamente il ricorso a un maggior numero di operai, ma abbassa il valore generale del salario in tutti i settori, quindi della quantità di merci che il salario acquista per la riproduzione della forza-lavoro, quindi del PIL. Alla fine il cerchio si chiude con una diminuzione anche del saggio di profitto globale (nonostante possa aumentare il saggio per alcuni singoli capitalisti o in settori che producono impianti e mezzi di produzione).

Sembra quanto meno strano il fatto che una società, in grado di elaborare modelli complessi in ogni altro campo, non sia in grado di cavare un ragno dal buco quando deve mettere mano ai suoi meccanismi di classe, ma tant'è. Il marxismo entra in gioco quando si tratta di criticare storicamente il transitorio sistema di produzione sociale e di appropriazione privata che sta alla base della legge assoluta del Capitale, quella della miseria crescente. Non ci sarebbe neppur bisogno di arrivare a tanto: chiunque può facilmente capire che la concentrazione del plusvalore in poche mani, la pauperizzazione relativa del proletariato, la sua riduzione numerica ai minimi termini, l'assecondamento delle tendenze al liberismo selvaggio, sono tutti elementi da suicidio, come nel caso del proverbiale pesce grosso che mangia tutti i pesci piccoli, si sazia lì per lì, ma poi muore di fame.

In pratica i borghesi, i loro servitori, i sindacati, e persino chi si perde nella pratica di avversare le ri-forme invece di diffondere i concetti completamente anti-formisti del marxismo, tutti costoro, in positivo o in negativo, credono sul serio che si possa incidere sul mercato del lavoro, quindi sulla legge del valore, attraverso riforme del tipo di quella Biagi. Le vorrebbero solo migliori. Ora, non è impossibile in assoluto, per la borghesia, ottenere degli effetti positivi sull'occupazione, sul salario, sui profitti e sul PIL. Così come non è impossibile per il movimento operaio ottenere vantaggi immediati per sé. Ma occorre entrare in campi che non hanno più nulla a che fare né col riformismo, né col sindacalismo così come lo si intende oggi o come lo s'intendeva ieri.

Per quanto riguarda i capitalisti, costoro, invece di rivolgersi all'Ufficio Complicazione Affari Semplici, emanazione del mondo politico, cioè del cretinismo parlamentare, dovrebbero rivolgersi agli esperti di sistemi – gli stessi che già pagano per le attività industriali – e farsi progettare un modello matematico in cui introdurre le variabili sociali. Sarebbe un bel modellino input-output come quello di Marx, in cui un forte potere esecutivo, e non chiacchiere fra partiti che nulla possono decidere, agirebbe sulle variabili economiche per ridurre drasticamente il numero dei capitalisti, per aumentare altrettanto drasticamente il numero degli operai e il loro salario, per diminuire la massa e il saggio di profitto e per distribuirne di più al numero ridotto di capitalisti rimasti. I quali sarebbero ben contenti di intascare una massa individuale maggiore di profitto mandando al diavolo il saggio. Ma la borghesia non è più capace di razionalità. Non è in grado di evitare la propria trasformazione in una entità post-capitalistica, una innominabile classe-marmellata con milioni di capitalisti fasulli, altrettanti milioni di bottegai e professionisti, più milioni di pseudo-proletari con Partita IVA. Non è più in grado neppure di immaginare un capitalismo serio in cui la legge sul lavoro potrebbe essere scritta in tre paragrafi:

Articolo 1: Il mercato del lavoro è totalmente libero.

Articolo 2: L'unica eccezione è costituita dal salario minimo, per un tempo di lavoro massimo pari a ore…, erogato anche ai disoccupati.

Articolo 3: I rapporti di lavoro sono regolati dai rapporti di forza.

Invece no, il tempo delle vere riforme dall'alto è finito, è finito il tempo delle cose semplici, c'è bisogno della legge Biagi: una buona rassegna delle angosce del Capitale, ma una mostruosità burocratica dal punto di vista operativo, peggio di tutto ciò che è stato escogitato prima d'oggi, una vera mangiatoia per avvocati e sindacalisti di carriera. C'è materia da trattativa per secoli; se il capitalismo durasse tanto. Naturalmente la lotta immediata del proletariato per la difesa delle proprie condizioni o per migliorarle dovrebbe tendere alla stessa meta semplificatrice, cioè a un rapporto di classe chiaro, con gli avversari ben delineati.

Anatomia della legge

Prima di passare alle considerazioni sulle conseguenze della legge sarà utile commentarne i punti in cui sono descritte le tipologie del lavoro da regolamentare e che, se la legge verrà applicata, caratterizzeranno certamente la maggior quota del mercato del lavoro futuro.

Lavoro intermittente. O "a chiamata". Vale per i giovani fino ai 25 anni e per i disoccupati oltre i 45. I riformisti anti-riforma-Biagi lo chiamano già "lavoro a squillo" e si lamentano per il fatto che esso comporterà la precarietà assoluta: il lavoratore avrà un contratto di lavoro ma non potrà sapere né quando lavorerà né quanto guadagnerà, pur dovendo rimanere a disposizione per non perdere una specie di premio di disponibilità. L'azienda chiama quando ne ha bisogno, il preavviso è di 24 ore e se si rifiuta la chiamata l'azienda potrà chiedere i danni. Il lavoro a chiamata regolarizza il rapporto tipico del disoccupato che prendeva la Partita IVA diventando "libero professionista", e al quale si ricorreva per prestazioni saltuarie.

Lavoro ripartito. Due lavoratori saranno assunti per un solo posto di lavoro, e su questo essi potranno sostituirsi o distribuirsi l'orario purché garantiscano la prestazione completa. Si tratta di un tipo di contratto già in uso da tempo in altri paesi nell'ambito della normale contrattazione collettiva, mentre qui lo si fa rientrare nel generale ventaglio del precariato.

Lavoro a tempo parziale. Mentre prima il lavoro part-time era stabilito tra gli interessati, era regolamentato e la quantità di ore con relativa distribuzione rimaneva costante, adesso l'azienda potrà chiedere variazioni sulle modalità concordate (perciò è come se non ci fosse nulla di "concordato").

Lavoro in apprendistato. Previsto un contratto per i giovani fra i 15 e i 18 anni e un altro per quelli fra i 18 e i 29 anni. Durata: da 2 a… 6 anni! Il tempo di formazione, che prima era rispettivamente di 240 e 120 ore e veniva utilizzato fuori dall'azienda, adesso è di 120 ore per la prima fascia d'età e non è quantificato per l'altra. In ogni caso adesso il tempo di formazione si potrà utilizzare all'interno dell'azienda e il numero degli apprendisti potrà essere fino al 100% rispetto a quello dei non apprendisti. L'apprendista avrà un inquadramento inferiore di due livelli rispetto ai lavoratori "normali" addetti alla stessa mansione.

Lavoro con contratto di inserimento. Sostituisce i vecchi contratti di formazione, o meglio li conserva, peggiorati, sotto altro nome. Vale per i giovani dai 18 ai 29 anni, per coloro che sono disoccupati da molto tempo, per le donne, per i disabili e per chi ha superato i 50 anni. Durerà da 9 a 18 mesi (36 mesi per i disabili). L'inquadramento anche in questo caso è di 2 livelli al di sotto di quello normalmente spettante per le mansioni svolte. Il contratto non è ripetibile con la stessa azienda, ma non è specificato se lo è con altre.

Lavoro a progetto. Nuovo nome per le vecchie Collaborazioni Coordinate e Continuative: si stipula un contratto privato e si ha diritto a una normativa contrattuale limitata rispetto ai contratti collettivi, si fattura all'azienda la prestazione e, se il "progetto" è duraturo (non può essere indefinito) o ve n'è più d'uno, si rientra nella vecchia routine della partita IVA, cioè si diventa "professionisti" privati, fornitori di "consulenze". La retribuzione (in realtà la parcella) sarà adeguata ai compensi dei professionisti che lavorano nella stessa zona. Niente trattamento di malattia e infortunio.

Lavoro accessorio. Già battezzato "marchette". Prestazioni lavorative per un massimo di 30 giorni nell'anno solare per ogni committente. Dovrà essere richiesto per pulizie, assistenza domiciliare, giardinaggio, insegnamento privato, manovalanza, ecc. Il lavoratore si iscriverà in apposite liste e riceverà una tessera magnetica. Il datore di lavoro attingerà dalle liste i nominativi dei lavoratori e pagherà le loro prestazioni con buoni lavoro da 7,50 euro cadauno acquistati presso le agenzie. Il lavoratore andrà a cambiare i buoni in denaro presso le agenzie suddette. Non riceverà 7,50 euro per ogni buono ma 5,80, dato che verrà trattenuto l'importo per l'INPS, per l'assicurazione e per le spese d'agenzia.

A questo punto si potrebbero fare osservazioni in quantità, ma l'importanza della legge sta altrove. Per sottolineare velocemente il senso della riforma riguardo alle tipologie diremo soltanto che per esempio il lavoro a chiamata, invece di "contrastare tecniche fraudolente o addirittura apertamente contra legem, spesso gestite con il concorso di intermediari e caporali" (Libro Bianco) finisce per legalizzare proprio forme di caporalato d'agenzia, prima ritenute illegali; che il nuovo apprendistato diventa in pratica un modo per trasformare gli apprendisti in operai normali, ma pagati per legge molto di meno; che i disabili sono trattati in modo addirittura razzistico; che, in generale, il ventaglio di tipologie ricalca né più né meno quello già individuato spontaneamente dal mercato selvaggio, con buona pace per gli "anni di studio" spesi al fine di ottenere una politica attiva al posto di quella passiva (assistenziale) nei confronti del mercato del lavoro.

Somministrazione di lavoro?

A nostro avviso chi, scrivendo la legge, ha adottato il verbo "somministrare" ha avuto un moto… freudiano! È lecito dire che si somministra una prestazione, più raramente del cibo, ma nel linguaggio comune, specie se entriamo nell'argomento delle leggi sul lavoro in tempo di crisi, ci viene irresistibilmente da dire che si somministrano medicine ai malati, ossigeno agli asfittici, nutrimenti ai comatosi, estreme unzioni ai moribondi. Somministrare lavoro alle aziende suona male, molto male: fa venire in mente il lavoro vivo iniettato nelle vene del vampiro capitalista per farlo uscire dalla tomba. Il proposito è quello di semplificare le norme per il lavoro in affitto e adeguarle a quelle europee e alle esigenze dei mercati mondiali. Dovevano essere superati i vincoli denunciati dagli imprenditori, ben malamente rappresentati dalla Confindustria, un sindacato peggiore – sembra impossibile – di quello dei lavoratori. Per qualche perverso motivo la legge invece è incredibilmente complicata e astrusa anche su questo argomento. Nel Libro bianco sul mercato del lavoro ad un certo punto si dice:

"Il Governo ritiene che sia ormai superato il tradizionale approccio regolatorio, che contrappone il lavoro dipendente al lavoro autonomo, il lavoro nella grande impresa al lavoro in quella minore, il lavoro tutelato al lavoro non tutelato. È vero piuttosto che alcuni diritti fondamentali devono trovare applicazione, al di là della loro qualificazione giuridica, a tutte le forme di lavoro rese a favore di terzi".

Questo sarebbe un approccio semplificatore. Ma nella legge si fa il contrario. Vi è per esempio un lungo elenco di settori in cui il lavoro può essere "somministrato" ai capitalisti tramite interposta agenzia. Sarebbe bastato, secondo l'indicazione del Libro Bianco, e pur mantenendo l'odioso termine, scrivere: "Si somministra lavoro quando si offre la prestazione di un lavoratore in cambio del suo salario più una quota di mediazione". Evidentemente non bastava. E lo stesso appunto si può fare riguardo a tutti i settori di lavoro elencati anche negli altri capitoli della legge.

Questa mania di compilare minuziosamente una casistica invece di riassumere in una formula generale, e di spargere ovunque "complicazione", rivela una malattia classista: la borghesia avverte d'istinto di non essere forte come dice di essere; di non essere più padrona del Capitale se non nominalmente; di correre disperatamente a rimorchio delle sue esigenze; di non poter lasciare la soluzione dei problemi del lavoro agli aggiustamenti del mercato, come quando c'era plusvalore in abbondanza e si trattava di ripartirlo. C'è bisogno di tutto il peso dello Stato per tener fermo il proletariato, e lo Stato non può far altro che far leggi e darsi degli apparati per farle rispettare. Perciò deve catalogare meticolosamente ogni punto dello scambio fra lavoro e capitale, per paura che qualcosa sfugga. L'ideologia avvocatesca ha avuto il sopravvento sui rapporti reali, e siccome non si può catalogare l'universo, tutto ciò che esula dal catalogo, cioè la vita reale, non sarà sottoposto a legge. Il Libro Bianco di Biagi non è servito a niente, non poteva essere che così. Nel caso specifico, superare le differenze – addirittura contrapposizioni – fra settori e tipologie del lavoro è un compito che un sindacato serio metterebbe al primo posto nel suo programma, non lo può fare la borghesia: come abbiamo già fatto notare, è passato il tempo eroico delle rivoluzioni dall'alto.

Grazie alla nuova legge il divario fra lavoro a tempo determinato e indeterminato si acuisce invece di scomparire: la legge precedente, che prevedeva esigenze straordinarie per il ricorso al lavoro in affitto, è stata abrogata e d'ora in poi sarà sufficiente qualsiasi esigenza interna che riguardi la normale attività. Le aziende continueranno ad avere un nucleo invariato di lavoratori "fidelizzati" (cioè corrotti con denaro e benefit vari) e potranno accedere alla "riserva indiana" dei dannati a poco prezzo e senza vincoli. I lavoratori in affitto non sono agganciati ai contratti collettivi dell'azienda in cui lavorano e quindi sono sindacalmente inesistenti.

In più è stato introdotto il lavoro in affitto a tempo indeterminato (staff leasing), per cui un'azienda potrà affittare forza-lavoro nella quantità voluta per tutto il tempo che vuole. Finora era proibito il semplice affittare a tempo indeterminato braccia e cervelli da lavoro. Il sindacalismo corrente s'indigna e strilla, ritenendo moralmente devastante l'affitto indiscriminato di operai, dato che l'eliminazione del rapporto diretto fra essi e l'imprenditore significherebbe mercificazione totale del lavoro (a noi risulta che la forza-lavoro è sempre una merce e che la vita dell'operaio è mercificata comunque). Questi aspetti moralistici della nuova legge hanno colpito i sindacalisti di base più dell'oggettiva tendenza a togliere potere di contrattazione ai sindacati. I dirigenti sindacali sono invece preoccupati per l'evidente disegno tendente a ridurre la funzione del sindacato in quanto tale.

Diventerebbe ora possibile aprire una fabbrica completamente fondata sul ricorso a lavoratori "esterni", una massa di operai iscritta perennemente negli elenchi delle agenzie. I sindacati quindi non sarebbero più un'organismo al quale rivolgersi per rivendicazioni retributive o normative, professionali, formative ecc.; non sarebbero più neppure una garanzia contro i licenziamenti collettivi. Nessun organismo sindacale potrebbe più applicare la legge 223 sulla crisi, fine lavori o fallimento e quindi contrattare cassa integrazione e mobilità al posto dei licenziamenti. Per ogni individuo sarebbe applicabile la legge esclusivamente in caso di licenziamento per ingiustificato motivo oggettivo.

Tentativo di eutanasia sul sindacato morente

Come vedremo, si tratta di sciocchezze: non esiste un sindacato che possa essere tagliato fuori dalla difesa degli interessi proletari, se non vuole (o non può più a causa del suo percorso storico). Attualmente la CGIL affronta i problemi dei lavoratori "atipici" tramite un sindacato apposito, il NIdiL (Nuove Identità di Lavoro), ma è evidente che, con la struttura burocratica e gerarchica per categoria e per luoghi di lavoro, manca ogni possibilità di organizzare questa non-categoria. Solo un sindacato organizzato fuori dalla fabbrica, sul territorio, che affasci tutta la classe, potrebbe dare forza di contrattazione a qualsivoglia tipologia di forza-lavoro. Invece con il NidiL si accentua il ruolo del sindacato come istituto al quale ci si rivolge come ad un ufficio pubblico per risolvere problemi individuali, per l'assistenza da patronato, per risolvere contenziosi legali tra operaio e imprenditore, quindi per avere accesso ad avvocati, ecc.

È ovvio che, se si estendono le nuove "identità di lavoro" e la possibilità per i lavoratori di rivolgersi ad altri enti in caso di contenziosi, si avrà anche, automaticamente, l'estendersi dell'impossibilità di contrattazione collettiva, da cui la perdita d'importanza del sindacato in quanto tale. Un capitolo della legge (Titolo VIII), più nebuloso degli altri e con più richiami ad abrogazioni di vecchie normative e a verifiche future, è appunto teso ad eliminare il sindacato dalla contrattazione "atipica" che, grazie alle recenti norme, diventa "tipica". Vengono introdotte variazioni tali, rispetto al lavoro "tipico", che l'intero sistema capitalistico sarebbe ben stupido a non approfittarne, col risultato di far cadere, nel volgere di pochi anni, l'intero mercato del lavoro sotto la nuova legge e, di conseguenza, sottrarre al controllo sindacale la maggior parte della forza-lavoro.

Poiché per i sindacati confederali è assolutamente impossibile rinnegare la loro radicata collaborazione di classe, è chiaro che si adegueranno alla nuova situazione. Sarà interessante vedere dal punto di vista pratico come lo faranno. Secondo la legge, dunque, si dovrebbero introdurre meccanismi in grado di consentire il passaggio dall'attuale regime di contratti collettivi (che garantiscono anche la tutela degli individui), a una serie di rapporti di lavoro personalizzati e certificati. La certificazione avverrà a cura di non ancora ben specificati Enti Bilaterali, composti da rappresentanti territoriali dei lavoratori e dalle associazioni imprenditoriali. Questi Enti dovrebbero anche gestire il collocamento. Il testo dà qualche problema di interpretazione e ci sono complicazioni in abbondanza rispetto a ciò che possiamo riportare qui, ma è chiaro che il concetto stesso di "ente bilaterale" non richiama più semplicemente il sindacalismo tagliato sul modello Mussolini (come dicevano i nostri vecchi compagni), ma chiaramente una copia conforme del modello stesso. Oltre agli enti suddetti potranno fornire la certificazione dei contratti territoriali o nazionali, ed essere sede di arbitrato nelle controversie, anche altri organi del potere costituito: le province, le Direzioni provinciali del lavoro, le università pubbliche o private e le Fondazioni universitarie, a seconda della tipologia da certificare. La procedura di certificazione è estesa all'atto di formazione delle cooperative e di stipulazione di contratti d'appalto. Le controversie saranno prese in considerazione, oltre che dagli organi certificanti, anche dal TAR.

Rimane da chiarire che cosa diventeranno i sindacati quando gli odierni cinque milioni di lavoratori "atipici" (registrati) diventeranno una decina di milioni o anche di più. Ammesso e non concesso che i sindacati attuali possano diventare, dal punto di vista dell'omologazione all'interno del sistema borghese, qualcosa che non siano già. Entro 9 mesi al massimo dall'uscita della legge, i sindacati dovranno stipulare un accordo inter-confederale per allinearsi con tutte le norme previste. Dopo di che il Ministero del Lavoro emanerà un decreto per il funzionamento a regime della legge, indipendentemente, lamentano i sindacalisti di base su un volantone della CGIL,

"dall'opinione delle organizzazioni più rappresentative". Sarà invece fondamentale "l'opinione prevalente dei rappresentanti dei lavoratori o dei datori di lavoro. Potranno infatti stipulare contratti anche le organizzazioni sindacali non maggiormente rappresentative e senza il mandato dei lavoratori".

Non è chiara la legge e non è chiara la risposta degli interessati (che cosa sono le "opinioni"?), ma una cosa è certa: i lavoratori saranno ingabbiati in contrattazioni individuali, vi saranno infiniti contratti differenziati, la contrattazione collettiva sarà spezzettata sia per territorio che per tipologia di lavoro e infine, come lamentano gli stessi sindacalisti,

"il sindacato confederale si trasformerà da agente contrattuale che difende interessi, in notaio certificatore della volontà di due contraenti, della validazione degli appalti delle cooperative e della validità dei loro statuti e regolamenti ".

Salta la contrattazione collettiva generale e la sua integrazione articolata per aziende, salta soprattutto la gerarchia della contrattazione stessa, che rispecchiava quella delle organizzazioni sindacali. Sembra di capire dalla legge, salvo il decreto finale, che ogni livello contrattuale debba diventare autonomo e di pari importanza, tanto che un contratto territoriale potrà metterne in discussione uno nazionale di categoria o uno aziendale. E per sovrappiù esso potrà essere firmato da un sindacato che non abbia firmato i contratti nazionali di categoria.

I sindacati esistenti sono ovviamente preoccupati per la loro perdita di "voce in capitolo" a tale proposito e per quanto riguarda la gestione politica della parte di potere borghese che si sono ritagliati nell'ambito di questa società. Tuttavia non cambieranno atteggiamento e seguiranno fino in fondo la logica della concertazione: accetteranno tutto anche se faranno un baccano della madonna, minacceranno di spaccare l'Italia in mille pezzi, grideranno al Berlusca fascista e porteranno i lavoratori in piazza intonando per l'ennesima volta Bella ciao. Si adegueranno, non perché siano particolarmente vigliacchi o interessatamente acquiescenti, ma perché, come dice Giugni a proposito della frammentazione dell'industria, questa legge non fa che accelerare una tendenza che i sindacati stessi hanno elevato a principio, quella delle lotte contrattuali per categoria, della esasperata suddivisione dei contratti integrativi per azienda, quella della definizione di infinite regole, quella dell'articolazione degli scioperi addirittura all'interno di un solo reparto. La legge Biagi non attacca affatto i sindacati, anzi: sancisce il traguardo da essi raggiunto nella loro cinquantennale marcia di trasformazione in semplici certificatori dell'esistente.

Al proletariato serve ancora l'organizzazione sindacale?

Da parte del governo sarà fatto certamente un tentativo di applicare questa legge inapplicabile ma, come abbiamo visto, la CGIL ha disertato fin dall'inizio la trattativa chiamata "patto per l'Italia". Nella situazione in cui s'è cacciata volendo "far politica", la Confederazione non poteva far altro, ma è certo caduta in un bel controsenso, data la sua propensione per la trattativa "a prescindere", come diceva Totò. Debole e aperta ai compromessi più che mai, tornerà dunque a quella trattativa che sarebbe stata da imporre sul Libro Bianco, ben prima che fosse scritta la legge. Si poteva ben sapere in anticipo che ne sarebbe uscito un aborto ideologico e non un piano di riassetto con materiali possibilità di guidare il cambiamento. Ovviamente stiamo ragionando per assurdo: non esiste una situazione diversa da quella che viviamo, e la Confederazione è quella che tutti sappiamo.

Tuttavia è perfettamente lecito disegnare uno scenario realistico sulla base di dati storici e attuali. È vero che non si torna indietro e che è inutile vagheggiare un "sindacato di classe" modellato su quelli che aderivano all'Internazionale Sindacale Rossa (e anche se fosse possibile noi non lo riterremmo affatto raccomandabile, alla faccia di tutti i rigurgiti stalinisti, riformisti e nazional-comunisti che si intravedono all'orizzonte). Ma è altrettanto vero che il proletariato senza l'organizzazione sindacale è monco. Non possiamo riprendere qui la famigerata "questione sindacale" che ricorre ormai da quasi un secolo, ma alcune pietre angolari sono indispensabili. Per sintetizzare andiamo per eliminazione e diciamo che è sbagliato:

1) immaginare un organismo puramente politico sostitutivo dell'organismo economico immediato;

2) abbandonare i sindacati esistenti per crearne degli altri (se poi essi non sono diversi da quelli abbandonati è addirittura un crimine);

3) immaginare che oggi un sindacato possa essere diverso da come il processo storico l'ha determinato ad essere in tutto il mondo.

4) immaginare che il necessario nuovo organismo possa nascere dall'azione di qualche individuo, gruppo o partito di buona volontà senza un grande sconvolgimento degli attuali rapporti di forza che renda possibile l'incontro fra le determinazioni e la volontà di individui, gruppi, partiti.

Siccome i comunisti hanno l'obbligo storico di lavorare nei sindacati, vi lavorano nelle condizioni esistenti nella realtà e non in quelle di fantasia. Questo è un principio che non ammette deroghe, e la sua validità è più che provata, oltre che dalla teoria materialistico-dialettica, anche da amarissimi fatti dell'esperienza empirica. Come la Polonia ha dimostrato con l'esempio di Solidarnosc, vi sono situazioni storiche in cui un movimento immediato può trascendere in movimento politico fino a mettere in discussione il potere costituito (dopo di che entra in scena la capacità di rovesciamento della prassi che è solo del partito politico), ma questa non è l'unica soluzione che ci si aspetta da un movimento sindacale. Un movimento per risultati economici immediati può limitarsi a tale livello senza per questo perdere l'impronta classista. Anche una battaglia per obiettivi immediati diventa lotta di classe ogni qualvolta si generalizzi e riveli l'incompatibilità fra gli interessi delle classi avversarie, non occorre che cada un particolare regime. Perciò anche una lotta di difesa o di attacco su problemi di legislazione del lavoro può essere un buon terreno di scontro e di polarizzazione fra le classi. Ma un movimento di classe che salga dal basso, e che cresca con un preciso obiettivo, può essere uno scenario realistico solo se rompe sia con i vertici sindacali, sia con il sindacalismo "alternativo" polverizzato e impotente.

Lo sciopero di dicembre-gennaio degli autoferrotranvieri, con i suoi sviluppi, è stato importante come episodio di "spontaneità organizzata", una sana ribellione a regole soffocanti, ma più importante ancora è stata la rottura delle logiche sindacali schizofreniche, dato che non si possono fare allo stesso tempo gli interessi dei lavoratori e del Capitale. Movimenti del genere possono generalizzarsi e produrre sconvolgimenti nell'assetto sindacale dell'epoca imperialistica soltanto se diventano unitari, al di sopra delle aziende e delle categorie, e se nello stesso tempo conquistano un'influenza sui lavoratori degli organismi specifici, guidati da programmi diversi rispetto all'andazzo generale.

L'esperienza storica ha dimostrato che l'alternativa tra il lavorar dentro i sindacati ufficiali o dar vita a nuovi organismi è falsa: posto che è meglio lavorare dove vi sono masse di lavoratori, dentro o fuori lo decide la storia e non improvvisati teorici. Nei primi anni '20 del secolo scorso, i militanti del PCd'I non ascoltarono affatto le spinte centrifughe rispetto alla CGdL di allora, pur in mano ai riformisti, anzi, lavorarono con successo per portare all'interno del movimento sindacale internazionale chi ne era fuori o se ne stava andando. Sappiamo che non è possibile copiare situazioni che hanno caratterizzato epoche storiche differenti (oggi non vi sono forti sindacati anarchici, frange anarco-sindacaliste socialiste e neppure riformisti coerenti con cui far fronte comune dal basso), tuttavia il loro insegnamento importante rimane, soprattutto per quanto riguarda i sanguinosi errori. Ad esempio, allora non era immaginabile l'odierna, oscena polverizzazione sindacale, che è un'arma in mano alla borghesia, ben più formidabile di un monolitico sindacato parafascista com'era quello polacco di regime.

In conclusione, il tentativo di eutanasia sul sindacato d'oggi avrà scarse possibilità di riuscire per due motivi: primo perché la borghesia ha bisogno che la classe operaia sia inquadrata e controllata; secondo, perché lo stesso sindacato troverà il modo di adeguarsi alla nuova legge senza combattere (o combattendo finte battaglie, che è peggio ancora). Per converso, il grado di sopportazione del proletariato ha dei limiti, e sappiamo che quando essi vengono superati scoppia la rivolta. La legge Biagi potrà snellire il mercato del lavoro e annichilire temporaneamente la capacità di contrattazione tradizionale, ma nello stesso tempo, e proprio per questo, obbligherà i proletari ad agire non secondo gli attuali schemi, bensì a ritrovare la forza nell'organizzazione immediata territoriale, com'era prima che prendesse il sopravvento l'ideologia operaista aziendalista tardo-gramsciana.

Un salto nel domani

Tutte queste pagine su una legge borghese che non risponde alle esigenze della stessa borghesia e sul vicolo cieco in cui sono giunti i sindacati, portano inevitabilmente al nostro ormai abituale discorso sul domani. Il lettore che ci conosce sa già dove andremo a parare: non sarebbe valsa la pena di spendere tempo e fatica sull'illeggibile burocratese da Gazzetta Ufficiale se, tra le righe, non si scorgessero contraddizioni così gravi da aumentare non solo il potenziale di rottura insito nel capitalismo, ma addirittura da rispecchiare un processo materiale che mette in discussione l'essenza stessa di questa formazione economica e sociale a favore di una società diversa.

Proviamo dunque a riprendere il discorso, stavolta non dal punto di vista della legge contingente né da quello di un'economia asfittica che la suggerisce, bensì dal punto di vista della transizione alla società futura. Noi vogliamo dimostrare che la borghesia non è ormai in grado neppure di scrivere una legge sull'intensificazione dello sfruttamento senza introdurvi elementi che non c'entrano più con la sua società ma sono già parte di una metamorfosi reale, per cui la rottura politica rivoluzionaria troverà un terreno ben preparato. Raccogliamo in due gruppi le tipologie di lavoro descritte, secondo un criterio che vedremo subito, seguendo le denominazioni dei documenti originali:

– un primo gruppo comprende il lavoro intermittente, quello ripartito, quello a tempo parziale, quello in apprendistato, quello con contratto di inserimento e quello a progetto. L'abbiamo individuato accorpando le tipologie invarianti, cioè le tipologie in cui le cui differenze sono ininfluenti e che possono essere assimilate al lavoro "normale" di oggi (che tanto la legge prima o poi renderà precario come gli altri);

– un secondo gruppo comprende il lavoro occasionale, pagato con i tagliandi, e quello "somministrato". Esso rappresenta un'interessante sovrapposizione fra il "buono di lavoro" socialista di antica memoria e la moderna agenzia "somministratrice", considerata dalla legge il perno su cui ruoterà il mercato del lavoro futuro. L'invariante che ci permette di determinare il secondo insieme è costituito dal fatto che l'agenzia gestirà sia la realizzazione del valore dei buoni da parte degli operai quando li porteranno all'incasso, sia il pagamento della forza-lavoro data in affitto, cioè la ripartizione fra gli operai del denaro ottenuto dalle industrie cui li "somministra".

In pratica, se la legge fosse applicata alla lettera, a nessuna industria converrebbe più assumere direttamente operai. Ci troveremmo perciò di fronte a un risultato sorprendente: da una parte l'industria, dall'altra la massa dei lavoratori in una situazione di mercato completamente libero, nel mezzo una serie di agenzie nella veste di intermediari contrattuali e monetari che ricevono il controvalore della forza-lavoro e pagano gli operai trattenendo le spese e una quota di profitto. Addirittura si potrebbe ipotizzare l'intero mercato del lavoro gestito con il sistema dei buoni e, sullo sfondo, le agenzie come tramite del collocamento e della formazione. "Il rivoluzionamento del modo sociale di condurre l'azienda" che abbiamo visto all'inizio citando Marx, diventerebbe rivoluzionamento nel modo sociale di condurre l'intera economia, se questa ipotesi, invece di essere relegata in un angolino insignificante della legge, ne fosse il nerbo. Ma non era ovviamente possibile, dato un capitalismo morente, anche se è significativo che si sia scritto un simile comma proprio in Italia, dove la borghesia è millenaria, quindi più vicina al trapasso che altrove.

Per il proletariato non sarebbe affatto uno svantaggio. Le confederazioni sindacali, morte e sepolte, non potrebbero far altro che lasciare il posto a una nuova organizzazione immediata degli operai, questa volta non più nelle fabbriche ma sul territorio. Come volevasi dimostrare: l'organizzazione immediata per posto di lavoro non corrisponde alla realtà di una classe lavoratrice moderna ma ad antichi residui corporativi di mestiere.

Facciamo ora un piccolo sforzo finale e immaginiamo che, invece delle agenzie, vi sia l'organismo centrale di una nuova società, che all'inizio potrà essere un'emanazione dello Stato, prima che esso si estingua – ricordiamo che per noi "Stato" significa trasformazione "da organo che si sovrappone alla società a organo assolutamente subordinato ad essa". L'industria, rivolgendosi alla forza-lavoro disponibile nella società e organizzata da un'agenzia nazionale, la utilizzerà nel ciclo produttivo secondo le esigenze della società stessa. Ogni lavoratore

"riceverà dalla società uno scontrino da cui risulta che egli ha prestato una quantità di lavoro (dopo la detrazione di un'altra quantità del suo lavoro per i fondi comuni) e con questo scontrino egli ritirerà dal fondo sociale tanti mezzi di consumo quanto costa il lavoro corrispondente. La stessa quantità di lavoro che egli ha dato alla società in una forma, la riceve in un'altra".

Le citazioni sono tratte entrambe dalla Critica al programma di Gotha di Marx, il quale preciserà che tali scontrini non sono equiparabili al denaro perché non circolano (Il Capitale, Libro II, cap. XVIII). È del tutto evidente allora che basta eliminare la forma sociale capitalistica per avere, in questo caso, un meccanismo elementare di produzione-distribuzione già comunistico. Il prelievo di un quantum di consumo dalla scorta sociale, calcolato sulla base del puro tempo di lavoro non è utopia: è realtà, oggi impedita dalla forma sociale.

Produzione e prelievo non mediati dal denaro risponderanno a calcoli sul lungo periodo, cosa che nel capitalismo non è possibile dato che il pagamento è inscindibile dalla produzione e circolazione. Tuttavia anche nel capitalismo può succedere che molti operai prelevino il salario prima che l'intero ciclo produttivo abbia permesso il rientro del capitale anticipato. Dove però nel capitalismo interviene il credito, già nella società di transizione interviene il piano sociale. La struttura della società nuova è ormai pronta, poiché il piano di produzione è insito nella socializzazione del lavoro, e la necessità del piano

"trae origine dalle condizioni oggettive del processo di lavoro considerato, non dalla sua forma sociale" (ibid.).

Letture consigliate

  • Karl Marx, "La legislazione sulle fabbriche", Il Capitale, Libro I, cap. XIII.9, UTET 1974; Libro II, cap. XVIII.2, "La funzione del capitale denaro", UTET 1980; Critica al programma di Gotha, Editori Riuniti 1990.
  • PCInt. Capitalismo e riforme (1950), ora in Farina, Festa e Forca, nella nostra collana Quaderni Internazionalisti, 1993.
  • PCInt. Il ciclo storico dell'economia capitalistica (1947), ora in L'assalto del dubbio revisionista ai fondamenti della teoria rivoluzionaria marxista, Quad. Int., 1993.
  • Ministero del Lavoro e delle politiche sociali, Libro bianco sul mercato del lavoro in Italia, proposte per una società attiva e per un lavoro di qualità, Roma, ottobre 2001. Disponibile sul sito del ministero: http://www.welfare.gov.it/
  • Legge Biagi 14 febbraio 2003, n. 30, Delega al Governo in materia di occupazione e mercato del lavoro (Gazzetta Ufficiale n. 47 del 26 febbraio 2003), sullo stesso sito.
  • Decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, Attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro, di cui alla legge 14 febbraio 2003, n. 30 (Gazzetta Ufficiale n. 235 del 9 ottobre 2003, Suppl. Ordinario n. 159), sullo stesso sito.

Rivista n. 13