Parmalat, tentata fuga dalla legge del valore

Che una latteria di Collecchio abbia potuto raggirare migliaia di risparmiatori non stupisce più di tanto. Che i suoi falsi bilanci possano essere stati garantiti da una delle maggiori aziende di revisione dei conti, neppure: in fondo i certificatori sono sempre pagati dai committenti per certificare ciò che questi vogliono. Più difficile credere che i ragionieri di un'azienda locale siano riusciti a gestire per quindici anni una truffa in grado di coinvolgere una quarantina di banche, di cui una decina fra le più potenti del mondo, oltre alle maggiori società di rating esistenti e alle strutture di controllo di innumerevoli Stati. Difficile credere che sia stata la Parmalat a sfruttare queste strutture e, prendendole in giro, abbia continuato la sua scalata alla finanza planetaria per anni, superando la sua condizione locale e trasformandosi in azienda globalizzata. Una latteria non è la Enron e il latte non è petrolio né energia elettrica. Tuttavia, se le dimensioni del crack sono inferiori a quelle del colosso americano (14 miliardi di euro contro 90), vi sono alcuni elementi che li accomunano. Proviamo a guardare al di là delle cronache sugli individui truffaldini o gabbati.

Da quando i vitelli sono precocemente svezzati e allevati a mangime, rispetto alla carne il latte è un sottoprodotto. Il prezzo, la produzione e il contingentamento delle quote sono controllati a livello europeo, con tanto di multe per i trasgressori a causa dell'eccedenza che è cronica fin dagli anni '60, quando scoppiò la cosiddetta crisi del burro. Fare del latte materia per un ciclo industriale significa partire dal presupposto di un basso saggio di profitto, specialmente a causa dell'altissima composizione organica di capitale, dato che servono impianti automatizzati al massimo grado. Prova ne è che l'industrializzazione del latte era in sostanza un'esclusiva di aziende municipalizzate. Un certo recupero di profitto può avvenire se il ciclo del latte si completa con quello dei derivati, come latticini e formaggi. Ma, secondo la cristallina legge del valore, il vero obiettivo di un capitalista che voglia far profitto con il latte non può essere il saggio ma la massa di profitto.

Anticipando capitale per 1.000 euro al saggio del 10% il capitalista ne intasca 100, ma se potesse anticipare 10.000 euro al saggio dimezzato del 5%, egli ne intascherebbe 500, il quintuplo. L'idea fondamentale di chi ha dato origine ad aziende come Parmalat è questa: trovare 10.000 euro – avendone in tasca solo 1.000 – per ricavarne 500 di profitto invece di 100. Mescolando un po' di industria, di finanza e di politica per sfruttare anche la privatizzazione delle municipalizzate, il problema è incominciare, cioè trovare delle banche in grado di anticipare i capitali, seguire l'azienda fino al successo e, sull'onda dei risultati, spingere l'espansione con i capitali privati raccolti sul mercato. L'unico guaio è che bisogna pagare interessi. Ma basta raccogliere altri capitali e dare inizio a una spirale di crescita senza fine.

Certo, "senza fine" è una frase insensata, l'importante è che la spirale duri abbastanza. Può andar male all'inizio, però, se il tutto funziona, la seconda fase è praticamente regalata su un piatto d'argento dallo stesso sistema. E infatti succede sempre così, con una regolarità impressionante, da quando l'inventore delle piramidi finanziarie (un italiano negli Stati Uniti, manco a dirlo) lanciò sul mercato la prima sottoscrizione di titoli-spazzatura un secolo fa. Con i ricavati delle nuove emissioni si pagano gli interessi delle vecchie, fino a che il sistema regge e chi lo ha concepito non fugge in qualche paradiso esotico.

Ma Calisto Tanzi non è fuggito, anzi, ha pilotato per quindici lunghi anni un enorme giro d'affari, ha coinvolto la finanza che conta del pianeta e ha perpetuato la spirale mettendo in parallelo alla crescita industriale un mondo di alchimie finanziarie. Il capolavoro consiste proprio in questo. Nessun creditore fa saltare il debitore con la certezza di perdere tutto finché esiste un barlume di solvibilità, figuriamoci se poteva far saltare Parmalat che non era affatto considerata insolvente e anzi proprio per i creditori era una miniera d'oro. A Collecchio, emuli della Enron, non avevano inventato il gioco, l'avevano solo capito e vi avevano partecipato. Essere indebitati per una cifra pari al fatturato è scandaloso fino a un certo punto, non sarà l'ultimo caso, e comunque tutto dipende da come il creditore percepisce le possibilità di rientro offerte dal sistema indebitato. E la Parmalat appariva florida, con una certa liquidità, tanto che sembrava ricorrere al mercato e farsi prestare soldi solo per una crescita ormai diventata inarrestabile anche all'estero. Di occulto c'era solo ciò che faceva comodo lo fosse: l'Economist (3 gennaio 2004 p. 45) riporta che, per la certificazione dei bilanci, i revisori prendevano informazioni dalle e-mail interne dell'azienda, le quali riportavano documenti falsi la cui produzione era pianificata quattro volte l'anno dai vertici di Parmalat.

Se le cose stanno così, Tanzi è da premio Nobel per l'economia, non da galera. Come quei due professoroni che lo ricevettero alla pari per aver progettato la strategia di un fondo d'investimento, prima che questo esplodesse rovinando i sottoscrittori. Perché, piaccia o non piaccia, l'economia politica è questa, non ve n'è un'altra. Tanzi non poteva fare tutto da solo, utilizzava ciò che le colossali strutture (banche, ecc.) sopra nominate, gli mettevano a disposizione. C'era insomma un intero sistema di relazioni che cercava – e cerca – i Tanzi come l'affamato cerca il pane (e il Capitale il profitto). Parmalat è la regola, non l'eccezione, e fra migliaia di casi, è pura norma statistica che ogni tanto il sistema finanziarizzato sbatta il muso contro la realtà, ovvero proprio contro quella legge del valore della cui esistenza non tiene conto, ma che opera implacabile a dispetto delle alchimie dei ragionieri di altissimo o infimo rango.

Scorrendo la stampa italiana e anche estera si precipita in una infinita sequenza di reati commessi a danno di istituzioni finanziarie. Specie quelle straniere, che detenevano più dell'80% delle obbligazioni Parmalat. Ma… perché mai una percentuale così alta di operazioni è stata fatta all'estero? Ovvio: su questa marea di titoli non sarà mai possibile stabilire né la buona o mala fede dei giganteschi centri finanziari, né quanti altri titoli derivati siano stati connessi a quelli Parmalat, dato che sulle operazioni più sofisticate e virtuali ben poche persone al mondo sono in grado di capirci qualcosa, ammesso che le sappiano scoprire. A parte, naturalmente chi, pagato dai centri suddetti, utilizza le varie e consenzienti Parmalat per succhiare capitali nel mondo. Sui giornali vediamo dunque un po' di fumo, ma il sostanzioso arrosto non è certo cucinato a Collecchio.

La scena è assai buffa se appena la osserviamo con un po' di distacco: nella gran partita a poker lo strapotente mondo finanziario internazionale non sarebbe stato in grado di evitare un gigantesco bluff da parte di un privato! Eppure questi giocava su di un campo minato zeppo di regole, di istituzioni pubbliche e soprattutto di banche internazionali in grado di distruggere i maggiori centri industrial-finanziari che sono il nerbo della cosiddetta globalizzazione, altro che farsi fregare da una latteria. Ed è buffa perciò la moralistica indignazione per questo figlio discolo dei globalizzati, che si è globalizzato a sua volta e che persino su di un mercato sgangherato come quello italico sarebbe saltato in un amen, se non fosse stato allattato alla galassia (latte di Giunone) del capitalismo virtuale extra-nazionale.

Parmalat, nonostante le rispettabili dimensioni della catastrofe finanziaria, è una goccia nel mare del sistema-credito che ormai bisognerebbe chiamare sistema-debito: non è solo l'industria a comportarsi come Parmalat, Enron, Worldcom, Vivendi, ecc.; sono anche gli Stati e le amministrazioni locali, come dimostrano l'Argentina o le nostrane regioni, province e comuni. Il debito delle amministrazioni pubbliche è una pacchia per gli investitori privati perché lo Stato è garante di ultima istanza. Aziende di rating, di certificazione e di credito, nella quasi totalità straniere e globalizzate, intascano fatture per consulenza e interessi per prestiti dagli enti indebitati, con la certezza che tanto paga Pantalone. Non c'è nessuna differenza di sostanza, solo di dimensioni, fra queste piramidi finanziarie che globalizzano il debito pubblico o privato e le miserabili piramidi caserecce che rovinarono migliaia di risparmiatori albanesi qualche anno fa.

Il Capitale globale ha assoluta necessità di una rete planetaria addetta al drenaggio di capitali sparsi, per unificarli, fino a raschiare il fondo del barile, fino al borsellino delle vecchiette. Per un siffatto "lavoro" vi sono grandi organismi appositi; essi ne traggono un profitto che non sarebbe realizzabile se fossero rispettate le regole e le leggi degli Stati. Queste, le vorrebbe il piccolo capitalista schiacciato fra i grandi, le vorrebbe soprattutto il piccolo "investitore" spennato, ma il Capitale non le sopporta. Perciò la regola generale è che ognuno si faccia i fatti propri, all'ombra di leggi che non contano niente, fino a quando qualcuno scivola sullo sdrucciolevole mercato dei capitali. Quando il meccanismo s'inceppa da qualche parte per mancanza di plusvalore in grado di "remunerare" il capitale, scoppia, sì, uno scandalo, ma il sistema nel suo insieme continua imperterrito a macinare capitali, aziende, banche, risparmiatori. All'atto dell'incidente tutti si scoprono assetati di regole e leggi, che valgono lì per lì solo per il capitalista fesso che ha fatto lo scivolone, mentre per tutti quanti gli altri il mondo continua a girare come prima. Il "colpevole" non si troverà, semplicemente perché non c'è, sarebbe come portare in tribunale il capitalismo, cosa ovviamente assurda. È assai significativo il palleggio di responsabilità fra enti del sistema italico, che ha l'unico risultato, assolutamente innocuo, di produrre pagine di giornali e talk-show televisivi.

Fino a quando durerà una situazione del genere? Difficile dirlo, ma da qualche tempo alcuni economisti hanno lanciato l'allarme: essi vedono una contraddizione tra la frenetica attività del capitale-finanza e l'asfittica situazione in cui versa il capitale-industria; temono una crisi sistemica in grado di fare saltare la piramide globale e non solo qualche mini-scheggia negli spigoli. Non vediamo l'ora.

Rivista n. 13