Capitalismo senile e piano mondiale

Abbiamo già scritto sia sui caratteri senili del capitalismo attuale, sia sull'imperialismo unipolare, con gli Stati Uniti al centro, che ne è diretta conseguenza. Un imperialismo unipolare è estremamente contraddittorio, perché l'essenza del capitalismo è la differenza, e perciò la concorrenza. Proprio questa ennesima "contraddizione insanabile" è però della massima importanza per capire come mai ci sia una pubblicistica così vasta sulla fine di una società che in fondo tutti vogliono invece rattoppare (riformare) e tenere in piedi ad ogni costo.

La chiave non è nell'imperialismo "americano" (l'imperialismo è la situazione del capitalismo senile e non ha aggettivi) ma nel Capitale. Diventato autonomo rispetto alle basi della proprietà individuale e nazionale, esso usufruisce della potenza più adatta al proprio dominio. Detto questo, diventa forse più chiaro come il Capitale eserciti il suo dominio generale sulle esigenze particolari di capitalisti e nazioni. Per esempio attraverso la trasformazione delle istituzioni nate con scopi diversi rispetto alla funzione che svolgono attualmente. In prima fila c'è la WTO (Organizzazione per il commercio mondiale), da pochi anni completamente trasformata rispetto al vecchio GATT che sostituisce. La sua funzione non è affatto quella di garantire la libertà di mercato, come recita la sua propria leggenda, bensì quella di garantire il buon funzionamento dei poli centrali di grande accumulazione (multinazionali, distretti produttivi occidentali, centri di servizi) attraverso l'apposita strutturazione dei settori produttivi e dei mercati delle periferie.

È del tutto naturale il sollevarsi delle proteste dei paesi periferici interessati contro un oggettivo "asservimento", ed altrettanto naturale persino il nascere di teorie sullo "scambio ineguale". Così com'è naturale il riconoscimento da parte di tutti i paesi che un ruolo di organizzatore collettivo dev'esserci, altrimenti l'intero sistema non potrebbe reggersi e collasserebbe nel caos. Di qui la partecipazione alla WTO dei paesi periferici accompagnata dal tentativo disperato di riformarla in senso favorevole ai propri interessi. Quello che per noi è importante, dunque, non è il lamento dei periferici che criticano pur chiedendo di essere spennati, ma l'impellente necessità del sistema di darsi un piano mondiale senza riuscirvi a causa delle "contraddizioni insanabili" di cui sopra.

Il FMI (Fondo Monetario Internazionale) era nato per eliminare le tensioni sorte nei rapporti fra i sistemi monetari nazionali che si confrontavano e scontravano a livello mondiale, ma in realtà si comporta come un'autorità dipendente dal solo Capitale per dettare, sempre ai paesi della periferia, politiche coerenti con gli interessi dei sopra citati centri di grande accumulazione. In pratica una specie di politica coloniale senza il dominio politico che caratterizzava le colonie.

Così la Banca Mondiale, che realizza "cordate" di banche private e nazionali per interventi economici allo sviluppo, ma che dipende più o meno apertamente dal G8, un "non-organismo" che tenta − per ora senza successo − di diventare un esecutivo mondiale, lasciando all'ONU la funzione di parlamento, cioè di mulino a chiacchiere (non per niente la NATO, che è un organismo militare, sta svolgendo i compiti esecutivi di molte istituzioni che non hanno più alcun ruolo effettivo).

Siamo arrivati al dunque, cioè ad una situazione globalizzata che avrebbe bisogno di un governo globale ma che non può darselo nonostante i buoni uffici degli Stati Uniti con tutto il loro feroce armamentario. I quali ovviamente non possono fare guerra all'intero pianeta e sostituire i governi delle borghesie nazionali con dei loro proconsoli (già succede, ma con modi ed effetti ben lontani dalle necessità).

Molti economisti parlano di "rivoluzione tecnologica" e di "globalizzazione" come di due elementi congiunti in grado di destrutturare il vecchio capitalismo, e non c'è dubbio che l'aumento della forza produttiva sociale e la socializzazione crescente della produzione (meglio i nostri termini classici) sconvolgono violentemente sia i residui dei vecchi modi di produzione con le relative sovrastrutture sociali, sia le vecchie aree capitalistiche ancora legate all'organizzazione del lavoro dei tempi di alto sviluppo. Con conseguente riflesso sulle condizioni sociali anche nelle metropoli capitalistiche. Una situazione del genere proietta gli effetti strutturali e sovrastrutturali locali anche e soprattutto a livello globale, dove non ci sono, per adesso, strumenti sovrastatali che possano "prendere dei provvedimenti". Se dal punto di vista pratico ciò si risolve in una gestione unilaterale e piuttosto rozza dei problemi (interventismo degli Stati Uniti con il fiancheggiamento della NATO e l'accodarsi dell'Europa), dal punto di vista ideologico sta prendendo piede una dottrina crociatista di una violenza da tempi di guerra. E siccome l'ideologia dev'essere il risultato di un qualcosa di ben materiale in marcia (mai viceversa come credono gli idealisti), ecco che occorre individuare questo qualcosa.

Noi abbiamo una risposta precostituita, cioè ricavata sia dalla dottrina che dall'esperienza storica: in epoca di conservazione le leggi servono a risolvere fenomeni che già si sono presentati, come dire che servono a rattoppare una situazione; allo stesso modo le ideologie nascono sull'onda di un movimento reale, cioè sono il riflesso di una dinamica già in moto. Tutte le teorie sullo "scontro di civiltà" e le varianti possibili non sono altro che la manifestazione dello scontro fra modi di produzione. Ma attenzione: non solo fra il capitalismo e le forme sociali più antiche, bensì anche e soprattutto fra capitalismo e società futura.

Abbiamo più volte affrontato il problema del capitalismo senile e l'oggettiva decadenza della legge del valore, che resiste in quanto è alla base di una società che si regge sulla violenza inaudita dell'ultima dittatura di classe (considerando quella proletaria futura solo una transizione), ma che è anche attaccata da ogni parte dallo stesso sviluppo del capitalismo così com'è. Lo sviluppo ulteriore della forza produttiva sociale impone decisioni e strutture globali che non sono più funzionali alle borghesie nazionali, almeno non alla grande maggioranza di esse. Lo stesso concetto di nazione è messo a dura prova da milioni e milioni di persone che premono ai confini di molti paesi, obbligando ad espedienti che non servono a niente e peggiorano la situazione, come i nuovi muri che stanno sorgendo un po' dovunque (il più monumentale e terribile è quello in costruzione al confine tra Stati Uniti e Messico, lungo 3.500 chilometri).

Mentre trionfano dappertutto politiche nazionali anti-statali (contro la distribuzione sociale del valore) che lasciano allo Stato la sola funzione di polizia, pochi grandi paesi (USA in testa) accentuano lo statalismo, proiettando la loro potenza a livello mondiale. Essi cercano di rafforzare gli organismi che in qualche modo rappresentano un surrogato di piano politico-economico mondiale (uno autentico sarebbe già socialismo). Al Capitale occorre gestire una sovrappopolazione di miliardi di uomini diventata inutile e scomoda come lo furono gli indiani d'America, che vennero semplicemente sterminati. Il piano mondiale si impone o, in prospettiva, un immane eccidio in guerre di ogni tipo. Ma il piano non è di certo una caratteristica dell'imperialismo, la cui etichetta è sempre quella di Lenin: rapina.

Rivista n. 19