Legge della miseria crescente (1)

Introduzione

Legge della miseria crescente e "sviluppo sostenibile"

In questo numero monografico sulla legge marxiana della miseria crescente (o della sovrappopolazione relativa) non ci siamo tanto prefissi di divulgare i già chiarissimi passi del Capitale quanto di dimostrarli. Perciò, dopo la necessaria premessa storica, abbiamo voluto affrontare il problema con gli strumenti usualmente utilizzati per la ricerca nelle scienze della natura anziché con quelli tradizionali indicati da Marx. Del resto, per noi non vi sono differenze fra discipline particolari della generale conoscenza umana che si possano arbitrariamente isolare.

I criteri di ricerca sono assai semplici da afferrare, nonostante diano spesso luogo a difficili formalizzazioni matematiche. Erwin Schrödinger, uno dei padri della fisica moderna, faceva notare che tutti gli esseri viventi, prodotti da una qualche forma di auto-organizzazione della materia, utilizzano l'organizzazione raggiunta per organizzare a loro volta, ulteriormente, la materia stessa. Sono cioè in grado di invertire i processi spontanei della natura e generare sistemi ordinati secondo regole più o meno complesse. In effetti colture batteriche, colonie di molluschi, branchi di animali, società umane, ecc. assorbono dall'ambiente energia "libera" e la indirizzano a uno scopo, cosciente o meno che sia. Fra gli esseri viventi, l'uomo è l'unico che riesce anche a progettare l'ulteriore organizzazione invece di giungervi spontaneamente. E questo ha naturalmente delle conseguenze sull'intera struttura interna della biosfera, sull'andamento dei flussi di energia, come ben dimostrano gli attuali studi sul riscaldamento "artificiale" del pianeta.

Tali conseguenze hanno a che fare con la fisica, precisamente con la termodinamica: vi sono fenomeni, come la comparsa della vita sulla Terra, che invertono la tendenza naturale dei sistemi ad andare verso il disordine, situazione che equivale a perdita di energia (aumento di entropia). In altre parole, i sistemi planetari, i cristalli, il vivente, mostrano che in natura esiste una dialettica della convivenza dinamica fra disordine (o caos, più probabile) e ordine (od organizzazione, meno probabile), per cui, se nessuno si stupisce che le cose in ordine finiscano spontaneamente in disordine, può nascere invece qualche perplessità sul fatto che, senza un dio, possa emergere spontaneamente organizzazione dal caos.

Antiche barriere coralline formarono montagne dovute all'azione caotica di molluschi che generano mirabili micro-forme. I movimenti caotici dell'uomo formarono metropoli tentacolari il cui disegno deve ben poco all'ordine ma che tuttavia contengono mirabili progetti parziali. Reti di comunicazione umane coprono la crosta terrestre crescendo pezzo per pezzo senza un piano generale, ma anche in questo caso assumendo ordine al fine di non collassare. Come le montagne finiscono in disordine a causa dei movimenti tettonici e dell'erosione, così le città e le società umane degenerano "trasformandosi in catene per l'ulteriore balzo in avanti". Però dalle montagne erose, divenute pianure alluvionali, nascono foreste, e dalle società degenerate a causa del loro disordine molecolare nascono nuove società per mezzo di rivoluzioni. In entrambi i casi la materia si dispone secondo un ordine di livello superiore. Il bilancio energetico è sempre quello originario dell'universo; ma localmente, sul nostro delicato pianeta, i processi vitali sembrano una "creazione" di ordine da disordine.

Tra coloro che si sono occupati, nei loro studi, dell'evoluzione, vi è chi (Bertrand Russel, Richard Dawkins, in parte Darwin) considera ogni essere vivente come una sorta di feroce egoista teso unicamente a riprodurre sé stesso e a modificare l'ambiente per conservare il proprio patrimonio genetico; altri (Jay Gould, Peter Kropotkin, Marx e persino Jack London) sono più attenti alle relazioni e ai salti di qualità, e notano come la comparsa delle società sia frutto di cooperazione più che di isolazionismo egoista. Questo secondo approccio spiega meglio come mai nella società umana il livello di disordine sia nel complesso così basso (tutto sommato, a parte il bilancio energetico con l'universo, le fabbriche producono razionalmente, i treni circolano e Internet funziona). Ma non spiega da dove arrivi la "qualità" dell'energia che serve localmente a rovesciare la prassi del disordine naturale "più probabile". Chi è omologato rispetto all'ideologia prodotta dal sistema attuale non si pone domande a questo proposito e perciò trova semplicemente assurdo che il sistema stesso possa scomparire per lasciar posto a un altro di ordine superiore. Vi sono eccezioni, come Nicholas Georgescu-Roegen, che ha impostato tutta la sua vita di economista sullo studio della società con i parametri della termodinamica, e Jeremy Rifkin, suo allievo, che ha sviluppato i temi del maestro in chiave di critica all'economia politica (finito però a fare il guru dei no-global).

Bertrand Russel, nel suo positivismo empirico, aggiungeva che a mitigare l'egoismo imperante dovrebbe provvedere la politica, con l'introduzione di criteri redistributivi della ricchezza atti a riequilibrare il sistema (riforme). Ma il ragionamento vale solo all'interno di un modo di produzione che creda di essere eterno e migliorabile. E resta comunque il fatto che bisogna spiegare come mai millenni di politica non siano riusciti a riequilibrare un bel niente nelle società di classe. Marx dimostra che il problema della miseria relativa crescente non è risolvibile con un miglioramento del sistema per la semplice ragione che il sistema stesso ne ha assoluto bisogno, anzi, la produce per sopravvivere. Se è una legge della società dovrebbe essere anche una legge della natura, visto che la società ne fa parte. E se è così − e vedremo che è proprio così − le prove si dovrebbero poter ottenere anche per vie diverse rispetto alla "critica dell'economia politica". Vedremo che queste vie sono almeno tre: 1) la simulazione statistica tramite un modello; 2) l'analogia con la termodinamica che ne consegue automaticamente; 3) la teoria delle reti. Con la critica di Marx all'economia politica le vie per dimostrare la legge della miseria crescente sono dunque almeno quattro. Quelle che abbiamo numerato le prendiamo a prestito dalle ricerche sui fenomeni complessi, operando un collegamento di invarianza con il nostro programma. Perciò ci esponiamo consapevolmente a un grosso rischio: se il collegamento fosse falso, sarebbe falso il marxismo. Rimarrebbe comunque da spiegare perché mai il mondo della ricerca sia in subbuglio proprio su questi temi, come risulta anche soltanto dall'elenco bibliografico che riportiamo in fondo alla trattazione. Diversi autori fra quelli citati fanno infatti notare che le recenti ricerche sui modelli sociali dovrebbero imporre una considerazione fondamentale a chi si occupa di "politica", cioè di governo del fatto economico e sociale: non serve a niente prendere provvedimenti anti-miseria a valle del sistema produttivo se i problemi che si vuol risolvere si generano a monte dello stesso, cioè nella sua struttura e natura.

Per chi non è reso cieco e sordo dal blocco ideologico borghese, le quattro dimostrazioni portano tutte a concludere che per evitare la miseria relativa crescente occorre distruggere il sistema che la produce; che per invertire la sua dissipazione intrinseca occorre distruggerne la natura contraddittoria che vede continuamente organizzazione e ordine fronteggiarsi con anarchia e disordine. Una contraddizione che si denuncia da sé con il semplice manifestarsi di tutte le conseguenze di una produzione sociale cui corrisponde un'appropriazione privata. A valle si può solo distribuire ciò che è prodotto, compreso il reddito-valore. Ed ecco una cosa interessante che ci mostra di sfuggita il modello "fisico" dell'economia politica: anche se la proprietà non è minimamente intaccata, la redistribuzione forzata del valore prodotto è già una piccola espropriazione. I capitalisti la sopportano finché si tratta di ammortizzare le tensioni sociali, ma la ripartizione sociale del valore è possibile solo fino a quando se ne produce in abbondanza. Tuttavia l'abbondanza non può durare per sempre, a causa della legge dei rendimenti decrescenti (entropia): se il sistema stesso produce miseria crescente e sovrappopolazione improduttiva − inutile, in quanto impossibilitata anche a consumare − non può che andare verso il collasso.

Abbiamo visto che alcuni ricercatori avvertono il problema. Alcuni si pronunciano contro la crescita esponenziale del sistema, propugnando un equilibrio fra capitalismo e natura ("ambiente"), una situazione che chiama "sviluppo sostenibile". Ma già dalla scelta del termine si capisce che si tratta di una sciocchezza: la parola "sviluppo" indica comunque la crescita di un ciclo rispetto al precedente, quindi una curva di crescita esponenziale, per quanto poco pronunciata. La parola "sostenibile" è senza contenuto empirico perché non indica rispetto a che cosa. Sarebbe lo stesso che scrivere "capitalismo ragionevole", e qualcuno ci cascherebbe ancora. Di fronte a questo genere di proposizioni senza contenuto Marx soleva tagliar corto ironizzando su coloro che elucubravano sui "logaritmi gialli".

Lo sviluppo non è mai "sostenibile", cioè non giunge mai ad un equilibrio, per la semplice ragione che dal punto di vista fisico (termodinamico) qualunque attività umana che non sia semplicemente fisiologica non è mai in pareggio con l'energia che giunge dal Sole, l'unica che potremmo utilizzare senza intaccare le risorse terrestri. In effetti l'equilibrio termodinamico si otterrebbe unicamente con l'utilizzo diretto della radiazione solare, quell'infinitesima parte che giunge sulla Terra invece di disperdersi nello spazio. Diciamo "diretto" perché anche bruciando petrolio o carbone noi utilizziamo l'energia solare condensata nel passato, ma bruciamo in un attimo ciò che ha richiesto mezzo miliardo di anni per diventare un combustibile. E che non è depositato nel sottosuolo in quantità illimitate.

Il metodo termodinamico da noi preso in considerazione a sostegno della legge di Marx è di valore universale, esce dall'ambito ristretto di una legge economica come quella della miseria crescente per coinvolgere l'intero sistema capitalistico, fondato certamente sulla crescita della forza produttiva sociale ma ancor più sulla dissipazione sfrenata e sul disordine. Le leggi d'invarianza si spingono fino a orizzonti insospettati. Gli scienziati che si dedicano al problema della complessità dei sistemi sono convinti che vi sia una simmetria fra l'aumento del disordine nell'universo e la sua diminuzione dovuta ai fenomeni di auto-organizzazione della materia, specialmente con la comparsa della vita e la sua evoluzione. Essi pensano che questa simmetria sarà infine spiegata da una specie di principio inverso rispetto al principio di entropia. Le loro ricerche sono condotte con modelli al computer analoghi a quello che prendiamo in considerazione nel nostro studio sul fenomeno della miseria crescente: la base è sempre rappresentata da una popolazione di individui interattivi (agenti), una rete di "nodi" collegati tra di loro tramite "connessioni" che trasportano informazione. L'universalità del metodo è dimostrata dai campi di applicazione, che vanno dalle reti neurali che simulano il cervello alle simulazioni dell'origine della vita; dai modelli che simulano il diffondersi di epidemie a quelli che simulano gli scambi economici elementari tra individui.

Quando ci si accorse che i sistemi di relazioni sono tutti simili, ci si rese anche conto che le differenze erano dovute alla divisione sociale del lavoro, quindi a un fattore ideologico: i modelli erano costruiti da persone diverse, in ambienti diversi, per risolvere problemi ritenuti diversi e quindi adottando linguaggi diversi. Alla fine fu chiaro che tanta diversità non era che apparenza e, all'Istituto di Santa Fe per le ricerche sulla complessità, fu pubblicato tra gli altri un lavoro intitolato significativamente: Una stele di Rosetta per il connessionismo. Gli antichissimi geroglifici egizi erano appunto stati decifrati sulla base di una stele su cui era inciso, con linguaggi diversi di cui uno solo conosciuto, il medesimo documento.

Tanto ci interessava, dunque: dimostrare per vie diverse la legge della miseria crescente, quella che Marx chiama la legge assoluta dell'accumulazione capitalistica. Se siamo riusciti nel nostro intento, abbiamo anche dato un contributo alla dimostrazione dell'assunto, caro a Marx, che il capitalismo è potenzialmente già morto.

Legge della miseria crescente

Verifica sperimentale con un modello di simulazione

"Quanto maggiori sono la ricchezza sociale, il capitale in funzione, il volume e l'energia della sua crescita, quindi anche la grandezza assoluta del proletariato e la produttività del suo lavoro, tanto maggiore è l'esercito industriale di riserva. La sua grandezza relativa cresce quindi con le potenze della ricchezza. Ma quanto maggiore in rapporto all'esercito operaio attivo è questo esercito di riserva, tanto più massiccia è la sovrappopolazione consolidata, la cui miseria sta in ragione inversa del suo tormento di lavoro. È questa la legge assoluta, generale, dell'accumulazione capitalistica ".

Marx, Il Capitale, Libro I, sottolineature nell'originale.

Parte prima: escursione storica

Miserande confutazioni

Quella che poniamo in apertura di questo studio è una delle più utilizzate citazioni di Marx contro Marx e il comunismo. Secondo i critici, la prassi avrebbe smentito la teoria, perciò tutto il sistema che da quest'ultima deriva sarebbe da buttare. In pratica, i salariati sarebbero aumentati sia in assoluto che relativamente alla ricchezza sociale, e non sarebbero affatto sempre più poveri, anzi, guadagnano e consumano sempre di più. Basterebbe dare un'empirica occhiata al mondo per accorgersi che il capitalismo non è un paradiso del benessere materiale per almeno 5 miliardi di umani su 6,5 e che il divario fra "ricchi" e "poveri" non è per nulla diminuito, anzi, è enormemente aumentato. Ma tant'è: per i critici la "prassi" evidentemente non è la realtà ma un'idea classista di realtà. Senza contare che il miliardo e mezzo di "fortunati" non se la passa poi così bene a giudicare dai suicidi, dagli ammazzamenti in famiglia e fuori, dalle malattie, dalle patologie esistenziali cui si risponde con droghe − chimiche o d'altro tipo − in dosi sempre più massicce. Occorre perciò elencare le motivazioni borghesi contro la legge della miseria crescente affinché sia chiaro che noi abbiamo bisogno non tanto di confutare le confutazioni, quanto di utilizzare queste ultime per mostrare la cecità e l'ottusità di alcune analisi, proprio nel momento in cui la realtà si incarica di spingere sulla scena la prova oggettiva dell'avanzata del comunismo come movimento reale. Senza contare che la realtà stessa, come vedremo, obbliga persino gli economisti a clamorose capitolazioni di fronte al "vecchio" Marx.

Potremmo citarne molti estraendo il loro nome dal libro paga del Capitale, ma ne ricorderemo uno solo, lo scomparso ultra-riformista Paolo Sylos Labini, che riassume tutte le critiche e i luoghi comuni sciorinati di solito a difesa del capitalismo. In un articolo inviato all'Unità come risposta al filosofo Vattimo, egli ci fa il favore di elencare in modo sintetico e chiaro i diversi punti per i quali la teoria di Marx sarebbe da gettare nella spazzatura. Li riportiamo tutti, dato che, a causa del principio di invarianza, se trovassimo in Marx una lacuna gigante proprio in quella egli che definisce "legge assoluta dell'accumulazione capitalistica", dovremmo anche noi dimenticare tutto ciò che ha scritto e dar ragione al professore.

L'economista incomincia col dire che "se vogliamo percorrere la via delle riforme dobbiamo liberarci di Marx, che delle riforme era nemico giurato". Fin qui siamo completamente d'accordo. Ma, continua il professore, "credo che il capitalismo sia suscettibile di miglioramento e possa essere utilizzato per combattere la miseria che causa il degrado dell'uomo e impedisce lo sviluppo civile".

Se non altro è chiaro: il degrado dell'uomo sarebbe causato dalla miseria e il capitalismo sarebbe uno strumento neutrale migliorabile al fine di evitare la miseria stessa. Chi o che cosa causi ancora la miseria dopo diversi secoli di capitalismo non si sa, ma attenti ai numeri: "Nella diseguaglianza siamo a livelli patologici quando la parte di reddito che va al 20% della popolazione più povera è inferiore al 5% e la parte che va al 20% più ricco supera il 45%". Gli Stati Uniti sono al 4,8 e 45,8; Germania, Francia Inghilterra e Italia all'8,5 e 38,5%; i paesi scandinavi al 9,8 e al 35, 3%. Gli Stati Uniti sono in situazione patologica, mezza Europa "ricca" è al limite, la Scandinavia avrebbe praticamente sradicato la miseria. Resta il fatto che anche presso i beatissimi nordici, il 20% della popolazione si divide il 10% scarso del reddito. Vedremo che vi sono indici più significativi per misurare il divario tra i redditi; comunque sia, se questi parametri peggiorano nel tempo invece di migliorare, per noi è provata la legge della miseria relativa crescente (che, come vedremo, è sinonimo di sovrappopolazione relativa crescente). Per il professore no, anche se riporta: "Negli Stati Uniti la quota di reddito che va ai più ricchi nel decennio 1985-1994 è nettamente salita, dal 41,9 al 45,8%… Non sembra che i poveri abbiano protestato". Non c'è male per un celebre economista che si prefigge di combattere la miseria e il degrado umano, basta che i poveri non protestino. Egli cita ben cinque testi suoi nei quali confuta le tesi di Marx, e sintetizza la critica in sei punti:

1) La popolazione del pianeta non si è affatto proletarizzata; questa previsione era basata su una rozza proiezione dei dati di allora e faceva comodo perché "avrebbe sdrammatizzato la questione della dittatura del proletariato, che avrebbe colpito una sparuta minoranza di sfruttatori, non meritevoli né di considerazione né di compassione".

2) La tesi della miseria crescente è sostenuta da Marx forzando dati e citazioni; in effetti economisti come John Stuart Mill erano convinti che vi sarebbe stato un graduale miglioramento economico e culturale, ma ciò avrebbe portato a una politica riformista e non alla rivoluzione "cui Marx teneva sopra a ogni cosa" a causa "non di pochezza intellettuale ma di orgoglio luciferino".

3) Marx ed Engels pretendono di non prescrivere ricette utopistiche per l'avvenire ma di trarre la teoria dal movimento reale; invece le prescrivono eccome, a cominciare dal Manifesto.

4) Lenin e Stalin non sono affatto figli degeneri di Marx ed Engels, dato che questi già esaltavano la dittatura e il terrore.

5) La dottrina marxista applicata alla Russia "con l'avallo di Marx" (!?) e in seguito a diversi paesi arretrati, è stato "il più tragico esperimento di trasformazione sociale attuato sulla base di un progetto intellettuale". I successi dovuti alla spietata dittatura e alle ricchezze naturali coinvolsero i "dannati della Terra", che però, crollato il paese di riferimento, "si sono trovati più dannati di prima".

6) La stroncatura nei confronti di Malthus è solo dettata dall'avversione di Marx verso l'economista conservatore. Se la teoria malthusiana della popolazione è criticabile perché non tiene conto dei progressi in agricoltura, è però vera nella parte in cui afferma che la crescita della produzione agricola è più lenta di quella demografica (definita "abominevole").

Non staremo a confutare questo cumulo di sciocchezze, peraltro già ridicolizzate dai dati ufficiali degli organismi planetari di controllo e da un numero crescente di ricercatori borghesi preoccupati della inesorabile curva catastrofica del capitalismo. Né staremo a spiegare perché è ridicolo immaginare un Marx che "prescrive ricette". Ci basta registrare che viene chiamato in causa tutto il "marxismo" per dimostrare l'infondatezza di una sua parte, e che noi invece ci baseremo su questa parte per dimostrarlo tutto.

La legge assoluta dell'accumulazione

Prima di proseguire occorre puntualizzare ciò che effettivamente disse Marx, a proposito della legge fondamentale dell'accumulazione, e cioè:

1) la forza produttiva sociale aumenta storicamente in ogni modo di produzione, ed è fatto positivo, rivoluzionario, per tutta l'umanità;

2) aumenta la ricchezza sociale, aumenta il numero assoluto dei proletari attivi, aumenta la loro produttività individuale e totale (divisione tecnica e sociale del lavoro);

3) il rapporto tra il numero degli operai e la massa di valore che essi mettono in moto aumenta di conseguenza, aumenta quindi l'esercito industriale di riserva (sovrappopolazione relativa), più velocemente di quanto non aumenti l'esercito della popolazione proletaria produttiva;

4) più aumenta la sovrappopolazione relativa in rapporto all'esercito operaio occupato, più aumenta la sovrappopolazione in quanto tale, ovvero la percentuale della popolazione in età di lavoro che non può essere impiegata o lo è in lavori fittizi;

5) la sovrappopolazione consolidata diventa sempre più misera man mano che diminuiscono le sue possibilità di lavoro, relativamente alla ricchezza che sarebbe invece disponibile;

6) con ciò l'uomo regredisce, da essere civile in grado di progettare il proprio futuro ad animale selvaggio, preda di eventi che non è in grado di prevedere e controllare;

7) questa regressione darwiniana è la legge assoluta dell'accumulazione capitalistica; la quale legge ammette modificazioni parziali e temporanee, ma nella dinamica storica comporta la morte inevitabile del capitalismo.

In effetti non occorre tanto dimostrare la legge in quanto tale ma il fatto che essa è soggiacente a una realtà che invece si ritiene normalmente superabile. Essa si regge su un fatto assiomatico: è infatti del tutto evidente che l'aumento della produttività (produzione di più merci con meno operai) e quello della popolazione operaia occupata sono incompatibili, a meno di non aumentare in modo esponenziale i consumi, che però non possono aumentare se una parte crescente della popolazione non percepisce salario ecc., in un circolo vizioso di variabili dipendenti.

Questo problema lo riconoscono anche gli economisti meno omologati, che però confutano il modello di Marx, giudicato troppo semplicistico. In pratica essi sostengono che il circolo vizioso è spezzato da tre fattori: 1) il sistema capitalistico è altamente dinamico e quindi, crescendo, ha una grande capacità di autoregolazione, sarebbe cioè in grado di produrre spontaneamente occupazione alternativa a quella industriale e quindi nuovo valore (profitto più salario); 2) lo Stato avrebbe imparato a intervenire nell'economia e avrebbe quindi la capacità di ripartire il valore prodotto entro la società, rivitalizzando il ciclo economico e assicurando continuità all'accumulazione; 3) la crescita esponenziale selvaggia del primo periodo di accumulazione lascerà il posto a uno sviluppo a ritmi decrescenti fino a raggiungere un equilibrio tra i fattori della produzione in grado di assicurare a tutti benessere e prosperità, come in parte sarebbe già avvenuto. Le prime due osservazioni registrano eventi realmente avvenuti e sono localmente esatte anche se globalmente sbagliate; la terza non è altro che una sciocchezza propagandistica: solo una società che non sia basata sulla produzione di plus-valore può essere in equilibrio.

A dire il vero gli economisti non rappresentano un blocco omogeneo; c'è chi non si pone neppure il problema del futuro e cerca di sbarcare il lunario predicando ovvietà ideologiche; c'è chi fotografa l'esistente formalizzandone alcune dinamiche per tentare previsioni; c'è chi, a vario titolo, lancia allarmi sulla "sostenibilità" del sistema proprio a partire dalle sue leggi intrinseche. Insieme a spazzatura ideologica buona solo alla conservazione poliziesca del sistema troviamo dunque anche dei tentativi di capire i meccanismi profondi dell'economia come sistema complesso. Vi si può scorgere persino lo schema dinamico di Marx sotto molte forme, che nessun autore confessa come collegate all'originale, adattandola in genere a scopi politici entro le compatibilità di un sistema criticato solo per riformarlo. Da Keynes a Leontief, dai Meadows agli attuali "econofisici" si è cercato, a vari gradi, di costruire modelli basati su dinamiche input-output, con valori in ingresso e in uscita ed effetti di retroazione positiva (in Marx: D -> M -> D' attraverso la retroazione di una parte del plusvalore). Se questa è la sostanza che portava Keynes a ritenere superata l'economia "classica" basata su equazioni di equilibrio, non si capisce come egli stesso ponesse Marx fra i classici, dato che i suoi risultati tutto annotavano fuorché l'equilibrio.

Essendo la legge marxiana della miseria crescente assiomatica, come abbiamo visto, essa si dimostra da sé e ciò al militante rivoluzionario basta e avanza per quanto riguarda la prassi quotidiana. Però è anche interessante osservare come la rivoluzione stia lavorando nel profondo, mettendoci a disposizione ulteriori elementi di critica, mostrandoci come per altre vie si possa giungere allo stesso risultato di Marx. Fino a pochi anni fa, ad esempio, sarebbe stata impensabile, specie in Italia, un paese infettato dall'idealismo antiscientifico crociano-gramsciano, la dimostrazione di una legge sociale attraverso gli strumenti della fisica. Ancora oggi vi sono "marxisti" che negano la possibilità di trattare i fatti umani secondo i criteri utilizzati per il resto dell'universo, cosa che non pensavano neppure i padri della Chiesa. Per tale via abbiamo la conferma che, anche nel caso dei robusti fattori antagonistici presi in considerazione da Marx, l'unico loro effetto potrà essere forse quello di ritardare la catastrofe sociale, non certo quello di evitarla.

Perché c'è una "legge della popolazione" in Marx

Nel capitolo sulla legge generale dell'accumulazione Marx precisa che nelle pur diverse epoche vi è un nesso specifico fra modo di produzione e popolazione e quindi non solo maltratta Malthus, ma anche altri economisti meno odiosi che, pur avendo intuito la questione, non l'avevano saputa affrontare. In effetti la legge della miseria crescente è un tutt'uno con quella della popolazione, perché quest'ultima non è troppa o poca in relazione alla ricchezza disponibile misurata in alimenti e beni di consumo, bensì è costantemente troppa in relazione a un processo irreversibile, cioè ai posti di lavoro che il Capitale storicamente libera per sempre nel corso dell'accumulazione. La "legge del decremento proporzionale del capitale variabile" significa diminuzione relativa della domanda di lavoro, e questo è un dato storico specifico della società capitalistica giunta alla sottomissione reale del lavoro da parte del Capitale (drenaggio di plusvalore relativo al posto di quello assoluto, macchinismo, automazione, aumento della produttività). Nella società feudale e in quella antica ciò non poteva succedere, perché la quantità di produzione era legata in modo ancora "naturale" alla popolazione e viceversa, mentre nel capitalismo le due entità vengono separate, anche se ovviamente il Capitale può esistere solo se c'è popolazione operaia, e può valorizzarsi meglio se essa è sovrabbondante e a basso prezzo. Perciò la sovrappopolazione relativa gli è utile (mentre quella che diventa "consolidata" è destinata alla miseria pura, dato che non serve a nulla e dev'essere per giunta mantenuta); ed è chiamata relativa perché non è originata da una popolazione operaia semplicemente in esubero rispetto al processo di produzione della ricchezza, che potrebbe essere modificato, bensì dall'evoluzione della forza produttiva sociale, che invece è storicamente data e che permette al Capitale di fare a meno della stessa manodopera che lo genera. Perciò la forza-lavoro può temporaneamente espandersi o restringersi, ma storicamente può soltanto ridursi nei confronti della quantità di valore che essa mette in moto:

"Producendo l'accumulazione del capitale, e nella misura in cui vi riesce, la classe salariata produce quindi essa stessa gli strumenti della sua messa in soprannumero, o della sua metamorfosi in sovrappopolazione relativa. Ecco la legge della popolazione che distingue l'epoca capitalistica e corrisponde al suo modo di produzione" (Il Capitale, Libro I, cap. XXIII.3).

La legge della popolazione in Marx non è dunque paragonabile ad alcuna teoria della popolazione escogitata empiricamente prima e dopo di lui. Una legge si rileva nella natura o nel modo di pensare umano ed ha valore intangibile, soggetta solo a nuovi dati che la precisano; una teoria potrebbe consistere in un'ipotesi che si rivela infondata alla verifica sperimentale. In Marx la questione demografica è un tutt'uno qualitativo con uno specifico rapporto di classe: l'aumento della forza produttiva sociale provoca esubero di produttori solo in una determinata società, in altre si lavorava tutti di meno; in Malthus vi è un collegamento meramente quantitativo fra la questione demografica e la massa di beni prodotta, da cui si deduce erroneamente che sempre la popolazione cresce in modo esponenziale e i beni in modo aritmetico. Ovviamente, se si guarda al mero rapporto popolazione-beni, anche quello di Malthus sembra un assioma: è vero che per evitare la fame la popolazione non deve crescere più del cibo prodotto. Ma gli economisti critici di Marx non si sono accorti che Malthus prendeva un granchio colossale scambiando la causa con l'effetto e continuano a considerarlo il capostipite dell'ecologia demografica anche se, stando alla sua teoria, oggi la Cina e l'India non potrebbero neppure esistere (invece esistono e si sviluppano perché la loro produzione di cibo è cresciuta in modo esponenziale, più della popolazione, e non in modo aritmetico).

In Malthus e in altri la questione della miseria crescente o della sovrappopolazione relativa (e assoluta) è risolta deducendo empiricamente dati da una situazione immobile; in Marx è risolta in modo dinamico, anticipando il metodo d'indagine odierno sui sistemi complessi: infatti la sovrappopolazione è il prodotto necessario dell'accumulazione ad un certo stadio del capitalismo, ma si tramuta in leva potente della stessa accumulazione ad uno stadio più evoluto, diventando "addirittura una delle condizioni di esistenza del modo di produzione capitalistico".

Produzione industriale USA 1860-1990Figura 1. Indice della produzione industriale USA 1860-1990. La curva regolarizzata presenta un andamento esponenziale nel primo tratto e un flesso negli anni '70, con una tipica forma a "S". Dati recenti mostrerebbero un più visibile andamento asintotico nell'ultima parte. È interessantissimo notare come in singoli frammenti di curva si presenti una forma "frattale", vale a dire che ogni singolo periodo contiene una forma invariante rispetto all'intero corso storico esaminato. Proprio da osservazioni del genere Benoît Mandelbrot trasse spunto per avviare i suoi studi matematici sui frattali (fonte: Dinamica dei processi storici – Teoria dell'accumulazione, Quaderni di n+1 1992).
Curve crescita industriale e popolazioneFigura 2. La curva della popolazione mondiale si sovrappone quasi esattamente (per lo stesso periodo esaminato) a quella della produzione industriale USA. Per avere un accenno di flesso occorreranno un paio di generazioni.

Nel migliore dei casi gli economisti borghesi hanno un concetto di demografia basato sulle teorie bio-ecologiche della popolazione. Essi tengono conto delle risorse fornite dall'ambiente, delle modificazioni indotte dalla presenza dei soggetti studiati, e per il resto si affidano alla rilevazione statistica di fasce per sesso, età, reddito, istruzione, ecc. Molta importanza viene data alla migrazione interna ed esterna, ma solo in relazione ad una generica "povertà", che causerebbe il movimento di masse umane dalle "aree depresse" del mondo verso quelle "ricche". Per noi invece il fenomeno delle migrazioni moderne è una legge fisica, legata alla struttura specifica del capitalismo. Nell'universo socioeconomico il proletario sradicato dalle proprie origini è come un granulo di materia che "precipita" nel campo gravitazionale di un pianeta, rappresentato in economia dai poli di accumulazione in cui si fissa una massa di capitale maggiore che in altre aree e che fanno da "attrattori". Siccome è possibile parlare di densità di capitale per Kmq di territorio (esattamente come si fa con la popolazione, la rete di comunicazioni ecc.), è come se le aree di alta concentrazione magnetizzassero dei punti del pianeta; e in questi "campi", lungo vettori e linee di flusso, si muovessero corpi umani e frammenti di popolazioni, attratti dai mezzi di produzione. Il "successo" di Malthus presso gli economisti moderni in effetti si spiega benissimo: il dato empirico mostra che le popolazioni in più rapida crescita sono le più povere (o viceversa). Sappiamo però che le curve della popolazione e della produzione sono inevitabilmente a "S" (crescita esponenziale seguita da una diminuzione degli incrementi relativi), dunque sbaglia chi crede nell'eternità del capitalismo e si crea un dogma bloccando l'osservazione empirica sul primo tratto di entrambe le curve, immaginando così che la crescita esponenziale possa essere eterna (figura 1 e 2).

Dalla demografia naturale a quella dell'uomo-industria

Marx è lapidario: "Una legge astratta della popolazione esiste soltanto per le piante e per gli animali nella misura in cui l'uomo non interviene portandovi la storia". Dunque formulare teorie della popolazione senza una connessione forte con il modo di produzione è sbagliato, ma collegare la demografia semplicemente alle forme economico-sociali che si sono succedute non basta. Da tempo ormai il Capitale s'è reso talmente autonomo dalla società che "non sono più gli operai a impiegare mezzi di produzione, ma sono i mezzi di produzione a impiegare operai" (Marx). L'uomo ha già portato la storia in ogni angolo del pianeta. Il capitalismo giunto a questo stadio è la società di transizione fra il "regno della necessità" (determinazioni selvagge) e il "regno della libertà" (rovesciamento della prassi, progetto); essa ha raggiunto una enorme potenza devastatrice ma anche pianificatrice, si è data strumenti ed energie che l'umanità non ha mai posseduto, quindi è una forma sociale che va esaminata con criteri particolari rispetto a quelle che l'hanno preceduta.

Il meccanismo demografico fa indissolubilmente parte del potenziale di transizione: la miseria crescente è sinonimo di sovrappopolazione relativa e consolidata solo quando il capitalismo supera la fase mercantile e manifatturiera per diventare industria. Esso produce allora effettivamente i mezzi per liberare gli uomini dal regno della necessità, ma nello stesso tempo li tiene incatenati alla condizione di animali selvaggi in balìa dell'ambiente. Ogni attività lavorativa oggi coatta potrebbe già essere tranquillamente libero tempo di vita. Solo chi non vuole vedere è cieco di fronte all'immensa forza produttiva che oggi libera forza-lavoro bestiale solo per dannarla alla miseria invece di elevarla ad attività umana.

La struttura del capitalismo giunto alla fase imperialistica è peculiare, non s'era mai vista prima: Lenin, in polemica con Kautsky insistette sul fatto che l'imperialismo non è tanto una politica fra stati quanto la struttura del capitalismo di transizione. La composizione organica del Capitale, cioè la preponderanza schiacciante del valore messo in moto dalla forza-lavoro e il valore di quest'ultima, è un risultato che ha richiesto un intero ciclo storico par affermarsi. All'inizio l'accumulazione corrispondeva a una crescita proporzionale fra Capitale e lavoro, ma ben presto, per quanto il processo fosse lento, la dinamica dell'industria si scontrò con quella della vecchia società, richiedendo la "liberazione" di ulteriore forza-lavoro dai suoi vincoli "naturali", anche (e in alcuni periodi soprattutto) con la violenza. In un certo senso Marx ci racconta, nel capitolo sull'accumulazione originaria, come il capitalismo si sia dato un esercito industriale di riserva preventivo.

La produzione incominciò ben presto a espandersi e a contrarsi improvvisamente, a scatti, assorbendo a volte la forza-lavoro eccedente, a volte rendendola disoccupata. Ma siccome l'una fase era il presupposto dell'altra, ecco che il bisogno contingente di forza-lavoro libera si tramutò nella sua liberazione permanente e irreversibile. Non è possibile l'espansione del Capitale senza manodopera disponibile, cioè senza un aumento del numero assoluto degli operai, ma questo loro numero assoluto aumenta meno di quanto aumenti la loro produttività (più produzione con meno operai), perciò "la forma di tutto il movimento dell'industria moderna nasce dalla costante trasformazione di una parte della popolazione operaia in braccia disoccupate" (Marx). Tutta l'industria moderna è fondata su questo presupposto. Certo, è l'industria che produce in un primo tempo l'occupazione, ma dall'aumento della forza produttiva degli occupati deriva la conseguente liberazione dal bisogno di forza-lavoro. Ciò che sembra un evento contingente, si rivela in realtà una modifica strutturale ed è per questo che è inconsistente ogni rivendicazione per "conservare il posto di lavoro" (la rivendicazione proletaria storica è: "salario ai senza-lavoro"). Non esiste quindi una "questione demografica" in astratto: essa è connaturata al bisogno crescente di manodopera da parte del Capitale e al contemporaneo avanzare della forza produttiva sociale, è un prodotto specifico di questo determinato modo di produzione.

L'apparenza della questione demografica

Quando si parla di popolazione il primo dato empirico che balza all'occhio è del tutto malthusiano: qualunque sia la percentuale di crescita della popolazione, è certo che essa non può crescere all'infinito in un mondo finito. Se poi aggiungiamo che per cause biofisiche l'agricoltura non può crescere al ritmo della popolazione, ecco che abbiamo la teoria malthusiana della miseria crescente che Marx definisce "astratta", e cioè: la quantità di cibo disponibile per ogni persona diminuirebbe inesorabilmente.

Qualunque teoria astrae dalla complessità del concreto, ma non dalla realtà. Quella di Malthus non tiene conto del reale sviluppo della società. La sola crescita della forza produttiva attraverso le varie forme sociali l'ha mandata a gambe all'aria. La critica che i malthusiani rivolgono alla legge della miseria crescente di Marx, dovrebbero prima di tutto rivolgerla a sé stessi e al loro capostipite. Nel volgere di due milioni di anni, cioè da quando è possibile individuare una specie homo distinta, la popolazione mondiale è aumentata enormemente, ma è aumentata anche la produzione di cibo, tanto da garantire una quantità di calorie pro capite superiore a qualsiasi altro periodo della storia. Si calcola (Brown) che all'origine l'umanità contasse poche migliaia di individui in Africa; due milioni di anni dopo, con la transizione neolitica (agricoltura, allevamento, circa 10.000 anni fa), essi diventano dieci milioni in tutto il mondo; all'epoca di Augusto erano già 250 milioni; altri duemila anni e si arriva al primo miliardo (1830). La sequenza successiva è impressionante: cento anni per il secondo miliardo (1930), trenta per il terzo (1960), quindici per il quarto (1975), undici per il quinto (1986), tredici per il sesto (1999) e se ne prevedono quattordici per il settimo (2013) al ritmo di crescita attuale.

Oggi la popolazione mondiale conta 6,5 miliardi di persone e aumenta al ritmo dell'1,2% all'anno (circa 80 milioni di unità). Come si vede, negli anni '90 si è giunti a un punto di flesso della curva storica, punto che ha per noi un significato maggiore di quello attribuitogli dai malthusiani. Essi infatti vi vedono solo un certo successo delle politiche demografiche, specie di India e Cina, cui si accompagnerebbe il naturale calo dell'incremento dovuto ai paesi del "benessere". Ovviamente gli economisti sanno benissimo che il problema della popolazione è più complesso di quanto traspaia da fredde tabelle, e che bisognerebbe almeno spiegare come mai, quando il benessere nell'Occidente sviluppato era maggiore, vi fosse un alto incremento demografico; come mai, ad esempio, a parità di sviluppo economico l'Italia è in netto decremento demografico mentre gli Stati Uniti crescono più o meno al tasso mondiale: non dovrebbero essere i più poveri a figliare di più? Gli economisti una spiegazione la trovano sempre: nell'efficienza o inefficienza di un governo, nelle guerre, nella psicologia degli strati sociali, nella concorrenza imperfetta, ecc.

Per noi è difficile immaginare una teoria più vuota di quella che attribuisce la scaletta storica appena tracciata non alla struttura di un sistema sociale ma alla capacità di procreazione umana, sia pure legata a parametri come il reddito o la psicologia. Eppure dovrebbe essere del tutto evidente che il capitalismo c'entra in quanto tale, se gli uomini hanno impiegato due milioni di anni ad arrivare al miliardo di individui alla soglia della "rivoluzione industriale" e solo altri centosettanta per arrivare ai sei miliardi e mezzo. Più procede la verifica sperimentale della legge marxiana della popolazione, più essa viene negata proprio mentre si producono dati a sua conferma: i paesi che stanno affrontando alti tassi di sviluppo hanno più bisogno di altri di un esercito industriale di riserva e, ammodernandosi, se lo producono spontaneamente, senza che i governi possano farci qualcosa; i paesi sviluppati che soffrono della concorrenza di quelli emergenti devono elevare la produttività e ciò provoca disoccupazione che si tenta di assorbire con leggi apposite. In Cina l'esempio più eclatante: su 1,3 miliardi di abitanti lo sviluppo capitalistico può disporre di una sovrappopolazione relativa di 800 milioni di persone, contadini già in bilico fra terra (pochi), fabbrica (pochi) e disoccupazione (molti). Senza contare gli impiegati del vecchio apparato amministrativo soppressi dal computer con tutti i loro pallottolieri, più gli artigiani e i piccoli commercianti destinati a sparire come figure economiche a causa della grande distribuzione. In India sta succedendo lo stesso e così nel resto dell'Asia, mentre in Occidente si tenta spasmodicamente di "liberalizzare il mercato del lavoro", cioè di rendere "flessibile" un proletariato costretto a resistere come può al precipitare nella sovrappopolazione consolidata.

Alcune cifre preliminari

Joseph Stiglitz, ex capo-economista della Banca Mondiale, nota nel suo libro Globalisation and his discontent:

"Nonostante ripetute promesse di riduzione della povertà, nell'ultima decade del XX secolo il numero di persone che vivono in assoluta povertà è aumentato di circa 100 milioni. Questo accade mentre il reddito reale nel mondo è cresciuto del 2,5% all'anno nello stesso periodo".

Dal 2000 a oggi la popolazione mondiale è cresciuta da sei a sei miliardi e mezzo di persone (8,3%), ma il valore prodotto nel mondo è cresciuto proporzionalmente di più, passando dai 6.800 dollari pro capite del 2000 ai 9.500 previsti per il 2006 (39,7%). Eppure la miseria sociale è cresciuta, nonostante queste cifre. La percentuale di valore prodotto per settore di attività è rimasta praticamente la stessa: 4% in agricoltura, 32% nell'industria e 64% nei servizi, mentre il numero di addetti è rimasto quasi invariato per l'agricoltura, è sceso per l'industria ed è salito per i servizi (oggi gli addetti sono rispettivamente il 42, 21 e 37%). Se andiamo a verificare le cifre in dettaglio, vediamo che la massa contadina residua origina quasi tutto l'incremento demografico ed alimenta costantemente la massa urbana improduttiva delle gigantesche bidonvilles (Marx aveva previsto in modo lucido e netto questo fenomeno di sovrappopolazione latente). C'è qualcosa che non va nell'esistenza di una massa rurale che, pur rappresentando il 42% degli occupati, produce solo il 4% del valore complessivamente prodotto, mentre la massa restante, quella dell'industria e dei servizi, con il 58% degli occupati, ne produce il restante 96%. Questo è il calcolo borghese, ma per noi il valore − cioè il reddito − complessivo, è salario più plusvalore, e solo il salario si può rapportare alla produzione di nuovo valore, dato che chi intasca plusvalore non ne produce. Classicamente, producono plusvalore solo i lavoratori produttivi i quali, pur essendo divisi in tre categorie (salariati agricoli, d'industria e dei servizi vendibili), rappresentano il nucleo della massa proletaria. Ci interessa quindi sapere che cosa succede al proletariato in una situazione non troppo influenzata dal contadiname e da miliardi di uomini espropriati che ovviamente dimostrano in modo troppo facile ed empiristico la "fame nel mondo", sulla quale si gettano con lacrime da coccodrillo i teorizzatori di un impossibile "capitalismo dal volto umano".

Ci interessa sapere come si produce, all'interno della struttura capitalistica, la miseria crescente del proletariato e la genesi, attraverso di essa, sia della sovrappopolazione relativa che di quella consolidata. Solo in questo modo potremo capire le ragioni di una così spaventosa incapacità del capitalismo di fornire semplicemente del cibo, sia pure a miliardi di uomini.

Prendiamo ad esempio l'Italia, un paese medio fra quelli più industrializzati, in cui abbiamo la seguente situazione (dati ISTAT):

Popolazione, salariati, rapporti di valore 1993 2003
Popolazione totale in milioni (di cui attiva in %) 57,7 (39,2) 57,4 (37,9)
Agricoltura 657.000 535.000
Industria 4.228.000 4.333.000
Costruzioni 972.000 980.000
Commercio, trasporti e comunicazioni 3.275.000 3.820.000
Immobili e finanza 1.546.000 1.996.000
Servizi vendibili 1.500.000 1.762.000
Totale salariati "produttivi" 12.178.000 13.426.000
Massa dei salari "produttivi" (milioni di euro correnti) 275.000 389.000
PIL (valore totale V = v+p, milioni di euro correnti) 960.843 1.583.525
Massa del plusvalore (V-v) 685.843 1.194.525
Saggio del plusvalore o di sfruttamento (p/v) 249% 307%

Abbiamo ovviamente tralasciato gli stipendiati improduttivi, cioè quelli dell'amministrazione e della scuola pubblica, delle varie forze armate, della collaborazione domestica, ecc. Va da sé che nel complesso delle attività capitalistiche con produzione di plusvalore ne esistono alcune del tutto improduttive, ma per adesso le trattiamo con il criterio usato da Marx nel VI Capitolo inedito: anche il guardiano che non produce nulla, all'interno della fabbrica è un'unghia dell'operaio complessivo, una tessera del mosaico in grado di produrre plusvalore. Se infatti dovessimo considerare esclusivamente il salariato produttivo ideale, depurando i dati ufficiali da tutto ciò che è lavoro finto, mero sciupìo capitalistico, non rimarrebbe in piedi pietra su pietra dell'intero edificio borghese, e sarebbe non solo dimostrata la legge della miseria crescente ma l'essenza dissipativa di questa società.

Secondo le tabelle fornite dai borghesi, dunque, di fronte a una crescita del 10,2% del numero di salariati produttivi, vi sarebbe stato un aumento del 41,4%% del loro salario a prezzi correnti. Anche depurando il dato dall'inflazione, il valore di mercato della forza-lavoro è effettivamente aumentato di circa il 12% in dieci anni. Rimane il fatto che il valore totale prodotto è aumentato del 64%, cioè quasi del 20% se si calcola l'inflazione, il doppio rispetto ai salari reali. Il saggio di sfruttamento, di conseguenza, è salito dal 249% al 307%. Sarà bene ricordare che ai tempi di Marx il saggio di sfruttamento "normale" si aggirava intorno al 100% (metà lavoro per il salario e metà pluslavoro non retribuito). Oggi dunque l'operaio che si presume "arricchito" lavora in media 2,6 ore per sé e 5,4 per il padrone, mentre un secolo e mezzo fa l'operaio non ancora "salvato" dal capitalismo moderno, poveretto, ne lavorava in proporzione 4 e 4.

Ma questo è ancora un conto da ragionieri che non corrisponde al conto di classe che dobbiamo veramente fare. A Marx (e a noi) non interessava la "lotta alla povertà" in favore di un impossibile arricchimento operaio, per questo ci sono i riformisti e i sindacati, al limite i preti: gli interessava stabilire se le leggi della rivoluzione sociale erano completate da quella sull'impossibilità per il Capitale di garantire un'esistenza non precaria al proletariato. Il potere del borghese non poggia sulla bassa remunerazione della forza-lavoro ma sulla disponibilità di essa oltre i limiti del suo utilizzo: perché ne esiste sempre di più rispetto a quella richiesta, e perché essa è asservita al Capitale attraverso il ciclo del consumo anche quando non produce.

Rispetto alla popolazione totale scende anche la percentuale di chi è occupato a qualsiasi titolo, già una delle più basse del mondo industrializzato, quindi crescono i mantenuti, impoverendo oggettivamente chi lavora per loro. Tra l'altro i borghesi reputano "fisiologica" − e quindi positiva − una disoccupazione media del 5%, che calcolano però non su tutta la popolazione in età di lavoro bensì su quella che lo ha o presumibilmente lo cerca. Non ha senso quindi parlare di elevamento storico del salario quando, producendo molto di più con lo stesso numero di salariati, ci si può permettere di aumentare il salario ai pochi di essi che restano nel ciclo produttivo e di abbassare enormemente il salario complessivo della massa proletarizzata.

I tre paesi più ricchi del mondo

Ai primi posti della classifica di ricchezza troviamo piccoli paesi particolari, come Bermuda, Emirati, Lussemburgo, ecc., ma parlando di grandi paesi abbiamo nell'ordine: Stati Uniti, con 41.800 dollari di PIL pro capite (dollari normalizzati al potere d'acquisto); Giappone, con 31.500 e Germania con 30.400. Seguono, con dati prossimi a quelli tedeschi, Gran Bretagna, Francia e Italia. La Cina è al secondo posto nel mondo per PIL totale e crescita (intorno al 10%), ma al 117° posto per quello pro capite (6.800 dollari) in quanto la ricchezza è concentrata in poche mani e la povertà distribuita a più di un miliardo di persone. Naturalmente anche in Cina il reddito dei "poveri" è cresciuto in termini assoluti (cioè in dollari), ma è enormemente diminuito in termini relativi, cioè in rapporto alla ricchezza totale prodotta. In Cina vi sono almeno 200 milioni di persone ridotte alla fame accanto alla selva di cantieri dei nuovi scintillanti grattacieli spuntati come funghi con il boom economico.

Nelle recenti elezioni americane per il Congresso, il partito di governo ha utilizzato per la campagna elettorale i dati positivi della crescita economica e ha perso, mentre l'opposizione ha vinto puntando sul fatto che il 75% degli americani sentivano sulla propria pelle il peso di un impoverimento generalizzato. Tutti avevano ovviamente ragione: il PIL è cresciuto effettivamente del 4% in un anno, quasi un andamento "cinese" in confronto all'Europa (1,2%), e i profitti sono addirittura volati, grazie a un aumento della produttività del 30% in dieci anni. Quel 4% di crescita si riferisce al valore totale (cioè alla somma di salario e profitto), e rappresenta la media fra i salari (cresciuti dell'1% dal 2000 al 2005) e i profitti (in alcuni casi cresciuti del 30 o 40% in un solo anno). Ecco perché gli americani si sono "sentiti" individualmente più poveri di prima pur essendo mediamente più ricchi. Ecco perché i liberals hanno potuto inveire contro la cricca plutocratica e arraffatrice dei neocons, mentre questi ultimi esaltavano il mito americano delle pari opportunità di diventare ricchi, e utilizzavano in modo terroristico l'invasione degli immigranti che, in concorrenza con i salariati americani, abbassano ancora di più la soglia di povertà. Le argomentazioni e le paure utilizzate da una parte e dall'altra erano autentiche e amplificate dalla globalizzazione dei mercati, compreso quello del lavoro. Di fatto il mondo si sta americanizzando: il posto di lavoro dei poveri (camerieri, muratori, spazzini, operai generici, ecc.) è insidiato da masse di uomini che premono ai confini dei maggiori paesi capitalistici; il posto di lavoro di quella che fu creduta la middle class (operai qualificati, tecnici, medici, informatici, addetti vari ai servizi, ecc.) è insidiato dalle pratiche sempre più diffuse di outsourcing, cioè di far eseguire il lavoro nei paesi dove costa meno e vi sono meno controlli sociali. Nonostante tutto, la disoccupazione americana è estremamente bassa rispetto a quella europea: 4,6% nel 2005; segno che l'americano disoccupato non può proprio vivere senza un reddito qualsiasi, basso, maledetto, ma immediato. Da notare che la disoccupazione al di sotto della soglia "fisiologica" del 5% ha sempre comportato meno concorrenza fra i salari e quindi un loro corso sostenuto, cosa che adesso non succede più da almeno un decennio, certo a causa del confronto con le economie emergenti asiatiche, ma soprattutto a causa della schiavizzazione dilagante del proletariato americano (cifre recenti pubblicate da The Economist dimostrano che il ricorso a produzioni e servizi esteri è imponente, ma non tale da intaccare l'utilizzo di attività e forza lavoro interne, le quali risulterebbero diminuite soltanto di circa un milione di unità sul totale di circa 150 milioni di occupati, lo 0,6%).

Perciò, nel complesso, vediamo all'opera una delle contraddizioni maggiori del capitalismo, su cui ritorneremo nel corso del nostro studio: se le cose in campo economico vanno bene, esplodono diseguaglianza e ricerca di sbocchi esterni all'esuberanza economica, e si deteriorano i rapporti sociali; se vanno male, tali rapporti si deteriorano per il motivo opposto. In un modo o nell'altro cresce la miseria relativa, una situazione da vicolo cieco.

Ancor più significativo delle nude cifre è il dato sociale che emerge dalla distribuzione americana degli ultimi vent'anni: mentre all'inizio del '900 l'1% dei capitalisti più ricchi poteva contare sulle fortune accumulate in proprio o ereditate dalle famiglie, oggi lo stesso uno per cento ricava il proprio reddito solo per il 40% dal patrimonio, mentre il 60% deriva da prestazioni pagate. Il fenomeno dei supermanager superpagati, che stupisce per la sua assurdità e ineluttabile regolarità, si spiega soltanto con il bisogno del Capitale di avere al suo servizio non una classe proprietaria ormai diventata una banda parassitaria di tagliatori di cedole, ma uno stuolo di funzionari pagati con una parte del capitale globalizzato (stock options) che contribuiscono ad accumulare per mezzo di public company. E ovviamente anche questo fenomeno incide sulla distribuzione statistica del reddito.

L'americanizzazione del mondo, intesa come estensione del dominio da parte del Capitale globale (capitale = lavoro passato, quindi dominio del lavoro morto sul lavoro vivo al di sopra delle frontiere) si mostra anche in paesi come il Giappone e la Germania, storicamente attenti ad una politica sociale di distribuzione del reddito a sostegno della spesa per consumi, quindi della produzione, quindi del PIL.

In Giappone, recenti fatti giudiziari con relativi arresti per manipolazione del mercato e insider dealing (utilizzo indebito di informazioni interne aziendali) hanno fatto emergere una situazione simile a quella verificatasi negli Stati Uniti con i fatti della Enron. Non solo il Capitale si cerca ogni via di valorizzazione, reale o virtuale, al di là delle regole e delle leggi, ma lo fa accrescendo ovunque le diseguaglianze sociali. Quando si scoprì che anche il governatore della banca centrale del Giappone aveva investito in uno dei fondi finanziari incriminati, persino The Economist dichiarò: "Ci sono ulteriori prove di una cospirazione dei ricchi contro i poveri". In realtà una simile "cospirazione" è un fatto fisiologico nella società capitalistica e dipende dalle persone meno di quanto i tribunali possano provare.

Quella giapponese era per definizione una società garantista della sicurezza dell'operaio, tanto da risultare soffocante per l'assillo con cui lo seguiva dalla culla alla tomba. Peraltro la legge della produttività secondo il principio della qualità totale, esplosa proprio in Giappone prima che nel resto del mondo, provocò prima una saturazione produttivo-finanziaria e poi una stagnazione economica durata dieci anni. Era ineluttabile che il tutto si traducesse in miseria crescente e sovrappopolazione relativa: negli anni '80 il Giappone era a livello scandinavo per indice di ineguaglianza, nel 2004 a livello della Gran Bretagna e oggi sta conformandosi al livello americano, con tutto ciò che ne consegue in termini di precarietà del lavoro ecc.

La Germania è un caso molto particolare, che ci serve per confermare la legge generale della miseria crescente. In pratica il caso tedesco è rovesciato rispetto a quello degli altri paesi sviluppati: una politica di stabilità economica ottenuta attraverso l'appoggio alle esportazioni e l'utilizzo del surplus commerciale per sostenere la domanda interna aveva funzionato per molti anni. Con l'inglobamento della Germania Est e i suoi 18 milioni di abitanti, Bonn si trovò sbilanciata poiché la produttività interna era sufficiente a mantenere tutti gli 82 milioni di abitanti senza dover inglobare la primitiva struttura industriale di Berlino. Che infatti fu semplicemente smantellata dopo la vendita all'asta di terreni e immobili che avevano un mercato per i capitalisti dell'Ovest. Mentre per i primi anni fu possibile sostenere comunque la domanda interna spostando risorse all'Est per sopperire al disastro dell'azzeramento del tessuto produttivo precedente, l'impossibilità di mantenere una pressione fiscale conseguente produsse un cambiamento di politica, che da "renana" divenne "americana", specie dopo che il governo Khol fu sostituito dal governo liberista Schroeder (con relativo violentissimo scontro con la fazione keynesiano-renana di Lafontaine).

L'inglobamento di 18 milioni di tedeschi, ridotti a mera sovrappopolazione relativa con lo smantellamento della loro società, produsse una politica che demolì quarant'anni di quella precedente, basata sui tre pilastri della tradizione tedesca: industria, banca centrale e sindacati legati in un ferreo patto economico a sostegno dei consumi. Perciò nel caso un po' speciale della Germania non fu una politica liberista all'americana a produrre miseria e sovrappopolazione relativa ma, all'inverso, fu una sovrappopolazione acquisita a produrre una politica americaneggiante. Dal punto di vista di una legge di natura, invertendo i fattori il risultato non cambia. Cambiarono invece le conseguenze sociali rispetto ai decenni precedenti. Per dare i migliori risultati, il modello liberista all'americana ha bisogno di un alto grado di "irresponsabilità" sociale, fiscale e amministrativa. Gli Stati Uniti se la possono permettere per il loro particolare stato di potenza dominante in grado di controllare i flussi finanziari globali. La Germania no.

Di qui la schizofrenia politico-economica che ha caratterizzato la Germania degli ultimi anni, con la reale vittoria della miseria relativa, della precarizzazione della forza-lavoro e della disoccupazione, imposte all'Est (18%) ma ormai dilagate anche all'Ovest (6%). Con relativi scandali economico finanziari alla Enron, tanto che i giornali coniarono il neologismo Krankfurt, combinazione tra krank, malato, e Frankfurt, la capitale finanziaria, sede delle banche e delle assicurazioni.

Rivista n. 20