Barack Obama e il governo del mondo

Non c'è dubbio che l'elezione del nuovo presidente degli Stati Uniti sia stata un monumento alla intrinseca ipocrisia del sistema parlamentare e alla sua potenza narcotica sulle masse. Giustamente i sondaggisti hanno detto che gli Stati Uniti sono un paese troppo importante per lasciare la scelta ai soli americani e si sono precipitati a interrogare il mondo, dalla Terra del Fuoco alla Kamchakta. Campagna perfetta: in nessun paese tranne che negli Stati Uniti Obama è andato sotto l'80%, raggiungendo consensi bulgari persino in Giappone (98%).

Comunque le elezioni vere si sono svolte in America e lì in ogni caso ha stravinto Obama. Elezioni vere? Non proprio. Diciamo che sono state un capolavoro di sceneggiatura, di effetti speciali e di regia che hanno fatto emergere un cambiamento molto più conservatore di quello gattopardesco. Studiato a tavolino oppure no, il cambiamento ci voleva per la semplice ragione che il colosso imperialistico americano non può scomparire dalla scena senza combattere, e duramente. Occorreva una transizione epocale, dal soft power sostenuto con le armi all'hard power armato sostenuto con l'ideologia. Occorreva, come al solito, convincere gli americani, che "la guerra è giusta", qualunque sia il nemico.

Gli ideologi da strapazzo del PNAC, (Project for a New American Century) erano stati indispensabili, per ripristinare il concetto di "Destino manifesto", cioè di missione mistica USA per la democrazia e il benessere mondiale. Ormai dimenticati, si sono rivelati molto utili per fare il "lavoro sporco": conquistare posizioni militari inamovibili in Medio Oriente e in Centro Asia, in aggiunta alle altre 800 basi permanenti sparse per il mondo. L'11 settembre ha aiutato, come aiutarono l'incendio del Reichstag e l'attacco di Pearl Harbor, ma non è stato decisivo. Del resto i documenti ufficiali hanno rivelato che il piano era già pronto da anni. Adesso Obama deve mettere in piedi un governo di crisi, blindato come non mai, un governo di guerra kennediano. Scrivevamo nel nostro n. 11 del 2003:

L'attuale esecutivo statunitense non può essere il rappresentante di compiti importanti come una transizione, ma solo un esecutore materiale di compiti immediati; insomma, la storia gli fa eseguire il "lavoro sporco"… La sua presenza sulla scena è provvisoria, utile solo a scuotere il mondo dall'apatia di fronte a una crisi sistemica che, tra l'altro, solo gli americani finora hanno previsto e persino descritto. Se questa cricca dovesse prendere il sopravvento con il suo millenarismo al contrario… non sarebbe nemmeno da escludere un pronunciamento militare della borghesia americana per togliersela dai piedi e ristabilire le condizioni utili ad affrontare il problema della politiguerra in termini geopolitici seri.

Il lettore ricorderà che la prima testa a cadere fu quella del ministro della difesa Rumsfeld in seguito alle molteplici prese di posizione di alti ufficiali delle forze armate. Svolto il compito, s'è visto che la borghesia americana s'è sbarazzata senza tanti complimenti anche degli altri impiastri neocons, lasciando al loro posto solo Bush, Cheney e la Rice (Powell se n'è andato da solo prima di essere troppo sputtanato), ormai impotenti a far danni controllati com'erano dagli apparati.

Per la transizione occorreva dunque qualcosa di speciale. E questo qualcosa fu cucinato fin dall'inizio delle primarie: la strepitosa vittoria di un senatore nero a Des Moines, Iowa, nel cuore del Middle West bianco, protestante, razzista e reazionario. I miracoli possono succedere, specie se ben lubrificati con i soldi delle più grandi banche e industrie del mondo, con gli articoli degli economisti più in auge, con lo schieramento dell'intera Hollywood e dei principali mezzi d'informazione. Non stiamo ad insistere sul significato dell'appoggio di tutti i tecnocrati già collaudati in precedenti governi e dell'apparato di partito che nelle elezioni precedenti non s'erano dati troppo da fare per Al Gore e Kerry.

Barack Obama è stato bravo, all'altezza della situazione. Ha imparato perfettamente il copione e si è affidato del tutto alla regia e ai tecnici che non hanno lesinato gli effetti speciali, amplificando l'autentico movimento di massa che nel frattempo era stato "sollecitato". E ha potuto gridare in tutta sincerità: Yes, we can. Sì, possiamo. Perché adesso è vero, si può, si vede bene che si può, con uno schieramento borghese compatto come non si vedeva dal tempo di Roosevelt e con l'adeguato supporto di popolo. E di Wall Street.

Ma si può far cosa? Cambiare, dice Obama. Due giorni dopo la sua elezione ecco pronto l'elenco di 200 provvedimenti bushiti da cancellare. In attesa che li pubblichino tutti azzardiamo: saranno interventi di nessuna importanza strategica. C'è la cancellazione del lager di Guantanamo con il trasferimento dei prigionieri in carceri di massima sicurezza, saranno riviste questioni sul clima, sull'energia, sull'uso delle cellule staminali. Questo i giornali hanno pubblicato; vuol dire che il resto è perlomeno della stessa forza. Vedremo cosa farà Obama di sostanziale per la crisi, la sanità, le guerre in corso, la politica estera di fronte alle altre potenze.

Prima di tutto la crisi. Il sistema del credito è saltato e all'interno della società americana rischiano di saltare connessioni vitali. Si dice che un americano su due possegga azioni e titoli di qualche genere. Il che vuol dire mediamente la totalità delle famiglie. Che però non hanno acquistato direttamente titoli (ne hanno meno di quelle italiane) ma li posseggono tramite i fondi del sistema previdenziale americano, i quali investono per pagare pensioni, assicurazioni sanitarie e sulla vita. Meccanismo che ha costretto lo stato americano ad essere − da sempre − così generoso verso la struttura del credito. Di questa debolezza avevano approfittato le grandi banche d'affari divenute ultimamente note a tutti. Esse avevano dato vita, con le garanzie di stato, a un sistema finanziario parallelo che sapevano comunque garantito. Perché non si può far fallire l'impalcatura che sostiene tutta la società americana. L'apparente sfrenato liberismo aveva e avrà bisogno del supporto robusto dello Stato. Obama non ci può far nulla. Questo sistema parallelo non ricatta solo Washington ma il mondo intero, e ha già vinto la sua guerra.

Infatti lo stato americano s'è fatto garante di un simile sistema di ricatto, ed ha addirittura nazionalizzato gli strumenti per ricattare sé stesso. Se funzionasse il piano di salvataggio così com'è, il debito pubblico americano dovrebbe raddoppiare su due piedi, e le società di rating dovrebbero declassare gli Stati Uniti al livello della fallita Islanda. È un piano che intanto sta producendo, con le fusioni fra banche d'affari e commerciali, dei giganti tuttofare del credito. Una manna per il sistema parallelo, che con questa potenza amplificata potrà smantellare le protezioni superstiti dei sistemi bancari europeo, asiatico e sudamericano.

Non cambierà proprio niente a livello dell'economia politica. Crescerà invece l'autonomia del Capitale. A dispetto di un Obama, il quale non farà altro che sovrintendere all'ennesima guerra finanziaria dell'America contro il resto del mondo. Finché a forza di fare non si estenderà al pianeta l'attuale guerra guerreggiata.

Rivista n. 24