La crisi storica del Capitale e la "nostra" teoria dell'imperialismo

"Voglio sperare che il mio lavoro contribuisca a chiarire la questione economica fondamentale, cioè la sostanza economica dell'imperialismo, perché senza questa analisi non è possibile comprendere né la guerra odierna, né la situazione politica odierna" (Lenin, L'imperialismo, 1917).

"L'imperialismo è una sovrastruttura del capitalismo (Lenin, Rapporto all'VIII Congresso del PCRB, 1919).

"Il capitalismo deve cedere, oltre che per le sue infinite conseguenze di oppressione, distruzione e strage, per la sua impossibilità ad avvicinare gli estremi [dei redditi] non solo tra metropoli e paesi coloniali e vassalli, ma soprattutto fra strato e strato sociale dello stesso paese, compreso quello più possente ed imperiale" (PCInt., Imperialismo vecchio e nuovo, 1950).

La "nostra" teoria dell'imperialismo è naturalmente quella che si ricava dagli scritti di Marx, Engels, Lenin e di tutta la corrente storica che si riferisce ad essi con coerenza. Anche se nei tre libri del Capitale il sostantivo non compare nemmeno una volta, all'epoca di Marx il suo significato era già attestato da un paio di secoli nell'aggettivo "imperiale", più tardi "imperialista". Comunque, a parte il termine, nel terzo libro del Capitale è perfettamente anticipata la struttura delle relazioni prodotte dall'accumulazione. Su tale struttura si può lavorare anche oggi, sulla base delle ulteriori ricerche di Hobson, Hilferding e Lenin. Quest'ultimo utilizza le pubblicazioni dei primi, come vedremo, per evidenziare una dinamica di cambiamento verso la società futura, dinamica nella quale il proletariato sarà necessariamente coinvolto fino a diventarne il fattore principale.

Troviamo in Marx centinaia di pagine dedicate a questa dinamica, a partire dal carattere antagonistico del capitalismo come sistema che nel suo sviluppo è giunto a negare continuamente sé stesso. Abbiamo la descrizione minuziosa del capitale commerciale, dell'evoluzione dell'uso di denaro per l'acquisto di denaro, dell'affermarsi e generalizzarsi del credito, della circolazione dei titoli che ne derivano, fino alla speculazione selvaggia e al raggiro metodico in un mondo che si finanziarizza, che sostituisce i capitalisti con funzionari stipendiati, separando la gestione del Capitale dalla sua proprietà. C'è ben poco da aggiungere allo studio di un sistema che da allora non ha fatto altro che affinare le proprie tecniche di sopravvivenza senza addivenire a sostanziali modifiche di struttura. Per questo, inevitabilmente, la sua crisi diventa cronica.

Sulla cronicizzazione della crisi abbiamo scritto molto, a partire dal nostro primo Quaderno intitolato Crisi storica del capitalismo senile, del lontano 1985, fino ad arrivare ai giorni nostri con la pubblicazione di almeno tre articoli specifici: Non è una crisi congiunturale, Un modello dinamico di crisi e Capitalismo che nega sé stesso. Per l'attuale modo di produzione la posta in gioco è oltremodo importante: siccome il capitalismo porta in sé il germe della crisi, ma utilizza proprio la crisi per tentare di guarire dalla propria malattia, se è vero che la crisi si cronicizza, allora viene a mancare l'alternanza fra i precipizi asfittici e le boccate d'ossigeno rivitalizzatrici.

Non si può quindi capire il capitalismo imperialistico moderno senza tener conto, in linea con i classici testi della teoria rivoluzionaria, di tre fra i suoi fattori fondamentali : 1) il processo irreversibile della cosiddetta finanziarizzazione, cioè della crescente autonomizzazione del Capitale; 2) l'altrettanto irreversibile socializzazione mondiale della produzione, che rende il capitalismo alla sua fase estrema una mera società di transizione; 3) la legge della miseria relativa crescente che tende a diventare assoluta a causa dell'aumento della produttività (sottomissione reale del lavoro al Capitale, pletora di merci e capitali, crisi da sovrapproduzione). Insomma, anche se per il momento non sembra avere nemici al di fuori di sé stesso, il capitalismo ha il fiato corto, è un cadavere ambulante. Da quando?

La crisi "finanziaria" del 1907

Nei nostri articoli appena citati diciamo: almeno dalla metà degli anni '70; ma se consideriamo come insieme coerente tutta l'epoca dell'imperialismo moderno, quello individuato da Hobson, da Hilferding e trattato da Lenin nel suo "saggio popolare" (effetti del capitale finanziario), dobbiamo risalire alla grande crisi del 1907, che segna lo spartiacque fra l'epoca d'oro del capitalismo e l'epoca dannata delle due guerre mondiali, della Grande Depressione e dei tentativi per ossigenare il comatoso ciclo di valorizzazione del capitale. La crisi del 1907 ha alcune notevoli analogie con quella attuale, ma anche una differenza sostanziale: era la prima volta che un movimento massiccio di capitale finanziario provocava il collasso del credito in quanto sistema. Tutte le crisi successive sono avvenute in un mondo che aveva già sperimentato metodi per salvarsi o che era già piombato in catastrofici aggiustamenti come quelli dovuti alle guerre mondiali. Quindi un mondo che aveva visto ad ogni nuova occasione attenuarsi gli effetti delle ricette escogitate in precedenza.

Nel 1907, al culmine di uno sviluppo relativamente pacifico del capitalismo, esplose una crisi di portata mondiale. Il capitale americano e quello tedesco stavano subentrando a quello inglese e francese proprio mentre altri protagonisti come Italia, Russia e Giappone accumulavano velocemente alimentando l'eccedenza di merci e perciò di capitali. L'elevarsi del livello di vita nei paesi interessati dall'andamento positivo provocava l'aumento della richiesta di merci, che si rifletteva sull'importazione di materie prime da tutto il mondo e, per quelle tessili e alimentari, specialmente da Argentina, Australia, Brasile, Austria-Ungheria, paesi che già possedevano eccedenze commerciali. Come in tutte le crisi di sovrapproduzione, ad un certo punto l'impossibilità di reimmettere nel ciclo produttivo l'eccedenza di capitali, provocò il consueto tentativo di trarre valore dalla circolazione e la crisi prese subito l'apparenza "finanziaria". Ma siccome il commercio e il movimento dei capitali si erano internazionalizzati come non mai, la crisi fu per la prima volta mondiale, con epicentro negli Stati Uniti, il paese più attraente per i capitali dal punto di vista della dinamica bancaria.

Il fatto che l'eccedenza di capitali avesse ingigantito il potere delle banche private nei confronti di quelle centrali, e che le banche stesse avessero varato operazioni di finanza "innovativa" a livello internazionale, fece esplodere la psicosi della speculazione. In effetti il capitale era davvero diventato altamente speculativo, grazie al fatto di potersi spostare in quote crescenti ai quattro angoli del mondo, anche in seguito all'estensione della rete di telegrafia e alla posa dei cavi sottomarini.

L'apparente successo della "creazione" di valore dalla circolazione del denaro alimentò la circolazione stessa inducendo una proliferazione di titoli di ogni genere, anche se in maggior parte ancora basati sui valori azionari. Il "valore" borsistico delle aziende diventò un multiplo di quello reale in virtù degli "investimenti" facilitati dal denaro prestato dalle banche, le quali contribuivano a surriscaldare il mercato proprio con i guadagni sulla gran quantità di denaro prestato. Alcune banche europee più esposte di altre incominciarono con cautela a rientrare dei capitali prestati, e quando l'operazione divenne di dominio pubblico si scatenarono il panico e la conseguente corsa agli sportelli, per cui fallirono alcune fra le maggiori banche degli Stati Uniti. La risposta alla crisi finanziaria fu di tipo protezionistico e ovviamente non fece che precipitare la situazione.

Gli Stati Uniti erano diventati l'epicentro naturale della crisi in corso a causa della loro crescita sostenuta . Ai paesi imperialistici in declino, specie l'Inghilterra, non sembrava vero che vi fosse sfogo per i loro capitali pletorici. Le banche americane non solo erano totalmente libere di agire, ma facevano parte di colossi industrial-finanziari, i quali si ingigantivano per virtù del loro stesso potere monopolistico. Paradossalmente fu proprio la Banca d'Inghilterra, resasi conto che stava addirittura finanziando il tramonto della propria egemonia finanziaria, a interrompere il flusso di capitali, suscitando la catastrofica emulazione degli altri paesi imperialisti europei.

La conseguenza del crollo finanziario degli Stati Uniti, la crisi economica e l'accresciuto protezionismo provocarono una drastica diminuzione delle esportazioni di merci europee in America, tanto che alcune delle maggiori industrie del vecchio continente (compresa ad esempio la Fiat) si trovarono sull'orlo del fallimento e furono salvate da cordate bancarie. Anche nel 1907, come succederà poi nel 1929 e nel 2008, la crisi prese dunque, e dappertutto, l'apparenza di crack finanziario incentrato sulle banche e sul traffico di titoli emessi in relazione ad attività speculative poco chiare. La finanza fu considerata responsabile della crisi industriale (dell'economia reale come si dice oggi, come se ne esistesse una "irreale"), ma in realtà l'esuberanza di capitali che si dirigevano in America, e di qui in buona parte dei paesi in grado di assorbirli, era già il frutto di una sovrapproduzione di merci (non c'è mai pletora di capitali senza pletora di merci). La crisi del 1907 portò alla produzione in massa di armamenti e fu la premessa economica alla Prima Guerra Mondiale.

Capitalismo di transizione

Oggi non si tratta dunque di "spiegare" per l'ennesima volta i meccanismi di "una" crisi fra tante. Questo l'hanno già fatto abbondantemente Marx e coloro che ci hanno preceduto nella storia della nostra corrente. Occorrerebbe piuttosto capire quale sia la natura di un capitalismo in crisi da un secolo, in quale situazione storica esso si trovi, se è vero, come dice Lenin, che è nello stesso tempo "imperialismo in quanto sovrastruttura" e "involucro che non corrisponde più al suo contenuto". Se, di conseguenza, stiamo davvero vivendo in una "società di transizione". Perché, se così fosse (e noi con lui diciamo che è), sarebbe confermata la potente critica della nostra corrente all'Internazionale Comunista degenerata: l'avvento delle rivoluzioni nella storia (e la formazione dei partiti che le dirigono) segue criteri catastrofici e non gradualistici, perciò la tattica (l'insieme delle "cose da fare") non può essere dettata da valutazioni contingenti, peggio che mai volontaristiche, ma da condizioni geostoriche, proprie di grandi aree caratterizzate da analogo sviluppo materiale e politico-sociale. Ogni transizione epocale impone l'emergere di strutture nuove: nella società morente è inevitabile che si sviluppino forme che anticipano quella nascente. Se prendiamo alla lettera l'insegnamento di Lenin sul "capitalismo di transizione", ci rendiamo conto che né il partito bolscevico, né l'Internazionale rispondevano ai requisiti di organismi veramente anticipatori della società futura. E ciò recava in sé alcuni dei germi della sconfitta.

Non è strano che, in particolari epoche, il partito formalmente organizzato scompaia, per poi ricomparire, quando sia necessario, più agguerrito, preparato e potente che mai. Il partito di una rivoluzione come quella che stiamo vivendo non può essere una copia dei partiti borghesi, non può cioè sistemarsi comodamente nelle pieghe di questa società, avere assetti democratici, funzionare mediante statuti formali, codici giuridici, gerarchie, congressi che deliberano votando a maggioranza come parlamenti, e accordarsi con frange delle classi nemiche in assurdi fronti unici. La rivoluzione, come il Capitale della nostra epoca, non riceve "indirizzi" da nessuno, semmai dà ordini e gli uomini devono adeguarsi alle sue esigenze, altrimenti soccombono. È per questo che al tempo di Lenin vi fu bisogno di una teoria dell'imperialismo, nel tentativo di mettersi in sintonia con il montare della fase insurrezionale. È per questo che oggi, proprio per le caratteristiche della presente cronica crisi globale, abbiamo bisogno di ritornare alla teoria, valutarne l'invarianza e capire le trasformazioni.

Si tratta allora di capire quale sia la condizione geostorica del mondo e, in subordine, delle varie aree a crescita differenziata. È acquisito che per l'area industriale occidentale la rottura con il capitalismo è matura fin dal 1871, e per il resto del mondo si sono potute tracciare "mappe" geostoriche inserendo paesi a sviluppo analogo in insiemi coerenti. Tuttavia non è stato solamente lo sviluppo a rendere omogenee le nostre mappe bensì il loro coinvolgimento negli interessi dei grandi paesi imperialisti. Ad esempio fra due paesi a economia comparabile la differenza poteva consistere nel fatto che uno fosse dominato in quanto colonia e l'altro libero. Oggi due paesi antichissimi ed estesi come la Cina e l'India devono il differenziale del proprio sviluppo quasi esclusivamente al fatto che il primo ha conosciuto una rivoluzione borghese radicale, mentre il secondo ha ottenuto la propria indipendenza con un compromesso fra la borghesia locale e la potenza che lo dominava. Quindi a parità di forza produttiva sociale (qualitativo) abbiamo una grande differenza di crescita economica (quantitativa). Cina e India non sono che gli esempi più evidenti. Altri paesi con meno superficie e popolazione, con una storia maggiormente legata alle potenze straniere, soffrono di sottosviluppo indotto, essendo piombati nel ciclo di sfruttamento delle risorse locali utili ai grandi paesi imperialisti. E, pur avendo a disposizione tecnologie, metodi e conoscenze ormai di dominio universale, sono schiacciati nella condizione di semplici fornitori di materie prime (e molto spesso di forza-lavoro schiavizzata), controllati dall'esterno attraverso borghesie facilmente "acquistabili", spesso impegnate in guerre per procura.

Accumulo di capitale fittizio

Con la fine dell'epoca coloniale non si è affatto affievolita l'influenza dei principali paesi imperialisti su una parte del mondo. Ma allo sfruttamento diretto si è sostituito quello dovuto all'inserimento della maggior parte dei paesi in una rete di interessi che ne stabilisce il ruolo. Non più quindi semplice rapina da parte dei "briganti imperialisti" e sfogo per i loro capitali in esubero ma "partecipazione" collettiva al flusso mondiale di merci e capitali (flusso che ovviamente ha senso unico, verso i detentori del potere finanziario). Tutti, paesi grandi e piccoli, potenti e inermi, sono così legati attraverso una divisione internazionale del lavoro che poco per volta ha espresso, in parte spontaneamente e in parte in modo guidato, organismi mondiali di controllo (FMI, BRI, WTO) nel tentativo di garantire stabilità al flusso suddetto. La sovrastruttura imperialistica del capitalismo si fa sovranazionale, senza tuttavia eliminare l'esigenza delle borghesie nazionali di difendere i propri capitali e le proprie prerogative. Va da sé che il controllo va in mano al più forte e, in tempo di pace, vige il classico "accordo fra ladroni".

Questo collaudato sistema politico internazionale, impegnato più che altro nel controllo dei flussi di capitali verso le metropoli imperialistiche, non avrebbe alcun senso se non vi fosse, appunto, l'esigenza di sovrintendere al traffico di merci da cui scaturisce il traffico finanziario. Le istituzioni appena ricordate si integrano per svolgere siffatto compito, proprio come nello schema di Marx, in cui il mercato mondiale è l'ultimo stadio dell'espansione del Capitale. Dopo non rimane che la guerra imperialistica.

Naturalmente il sistema si stabilizza più o meno spontaneamente con meccanismi di riciclo del valore. I grandi paesi industriali producono plusvalore e ne devolvono una parte alla rendita, cioè ai possessori di materie prime o di immobili; i quali a loro volta generano con il ricavato un flusso di capitali verso il sistema del credito, ovviamente fatto di banche con sede nei paesi industriali più importanti. Bastano poche cifre per quantificare tale flusso e rendersi conto che si tratta di uno dei pilastri dell'imperialismo moderno. Il mondo, ad esempio, consuma 30 miliardi di barili di petrolio all'anno. A 50 dollari al barile fa 1.500 miliardi di dollari. Questo ammontare, che potrebbe tranquillamente raddoppiare o triplicare (la rendita è legata al valore in quanto essa ne rappresenta una parte, ma è strettamente influenzata dal monopolio dovuto alla proprietà), va integrato con quello delle altre materie prime minerali, degli immobili e dell'intera agricoltura (quest'ultima interamente sovvenzionata nei maggiori paesi industriali). Siccome però al valore totale bisogna sottrarre la quota che va al profitto industriale e al salario (e il salario rappresenta in confronto una quota modesta), la rendita pura sarà minore. Poniamo che tale quota sia la metà, e che petrolio, metalli, agricoltura e immobili fruttino rendita in proporzioni uguali, cioè un quarto cadauno. Avremmo 3.000 miliardi di dollari, cioè il 6% del PIL mondiale.

L'ipotesi è sicuramente errata per difetto, ma ci serve solo per stabilire un ordine di grandezza. Ora, la rendita è sovrapprofitto, cioè trae la sua origine da una ripartizione sociale di una parte del plusvalore prodotto nei rami produttivi della quale i proprietari fondiari si appropriano. In tale accezione ogni ripartizione forzosa determinata da monopolio si può rapportare alla rendita e trattare secondo lo stesso paradigma teorico. In altri termini: "La teoria quantitativa della questione agraria e della rendita è quindi la completa ed esauriente teoria di ogni monopolio e di ogni sovrapprofitto da monopolio, per ogni fenomeno che stabilisca i prezzi correnti al di sopra del valore sociale" (Vulcano della produzione o palude del mercato?).

Questo meccanismo spiega non solo l'esistenza del rentier che intasca valore altrui, ma anche il flusso di valore che in determinate condizioni può andare da un paese all'altro. E tutto ciò è sancito dalla divisione internazionale del lavoro. Così diventa comprensibile la dipendenza strutturale di numerosi paesi dalle metropoli imperialistiche, nonostante gli sforzi di alcuni per sottrarsi a questo incubo. Pertanto anche il contadino più povero è atomo di un sistema, essendo costretto ad acquistare sementi ibride, attrezzi, pesticidi e concimi dai grandi gruppi internazionali, e a rivolgersi ad essi per le assicurazioni, per i prestiti e sempre più spesso persino per l'acqua.

In un mondo che marcia verso la massima integrazione, che dalla differenza fra il supersviluppo e la condizione più primitiva, fra il Creso capitalista e l'affamato, trae addirittura condizione di salvezza, la teoria dell'imperialismo trova formidabili conferme ma deve anche fare i conti con trasformazioni importanti. La chiave di volta sta nelle domande: si può dire davvero che il capitalismo è in crisi da un secolo? Quali sono i parametri per affermarlo? E che cosa significano gli eventi che sembrano sconvolgere profondamente una dinamica che dichiariamo unitaria? In fondo da un secolo a questa parte, diciamo dalla grande crisi "finanziaria" del 1907, non sembra ci sia stato un percorso unitario: ci sono state due guerre mondiali combattute sui fronti militari; una terza guerra, chiamata Fredda ma caldissima e "più mondiale" ancora, combattuta sui fronti economico, militare, politico, ideologico; una depressione durata dieci anni e sfociata in "quel grande evento keynesiano che siamo soliti chiamare Seconda Guerra Mondiale" (Paul Krugman); la grande crisi "petrolifera" di metà anni '70; la scomparsa dell'URSS; la cosiddetta globalizzazione. E l'implosione delle grandi bolle del 1987, del 1997, del 2000, del 2008, serie alla quale si affianca l'agonia economica del Giappone, partita come al solito con la sovrapproduzione di merci e capitali, con la finanziarizzazione del sistema economico e con una supervalutazione degli immobili atta a garantire il capitale fittizio.

A che cosa può portare una dinamica del genere? Se guardiamo bene, siamo di fronte a una "giapponizzazione" del mondo. Il Giappone è in stasi da quindici anni proprio perché ha avuto un'esplosione produttiva, un'esigenza di basare la propria economia sulle esportazioni, una conseguente pletora di capitali e una necessità di garantirli in quanto capitale fittizio nella misura in cui non rientravano, per pura esuberanza, nel ciclo produttivo. E li ha "garantiti" nel più classico dei modi, come nel 1907: impiegandoli per acquistare buoni del tesoro della potenza egemone, legandoli all'aumento di valore virtuale di azioni e immobili, facendoli circolare a livello internazionale in quanto capitali da speculazione.

L'avevano già fatto gli Stati Uniti ed erano entrati in crisi nel 1929. Ma vincendo la Seconda Guerra Mondiale avevano potuto perpetuare il gioco, esportando capitali presso i loro ex nemici in modo da garantirsi un ulteriore sfogo per merci e capitali. Il Giappone in un certo senso ha reso evidente un limite dell'egemonia americana e ha contribuito all'inversione di senso nei flussi finanziari. Poi è venuta la Cina, un capitalismo più giovane e possente, in grado di riempire il mondo di merci e utilizzare il capitale ricavato per… dare ossigeno al vecchio paese imperialista. E ha oscurato il Giappone, che un tempo spaventava l'America comprando a man bassa fabbriche e grattacieli americani.

L'imperialismo non è una politica degli Stati

La definizione di Lenin dell'imperialismo come sovrastruttura potrebbe far pensare che il capitalismo sia, come sempre, caratterizzato dalle classiche categorie di valore, scambio, alienazione, accumulazione, ecc., le quali, però sarebbero affiancate da una specifica politica imperialistica degli Stati. In effetti è passata nel linguaggio corrente l'abitudine di aggettivare l'imperialismo con il nome del paese di cui si sta parlando: l'imperialismo americano, giapponese, tedesco, francese e adesso cinese. Ci cascano un po' tutti, qualche volta anche noi, ma è sbagliato. Lenin afferma che l'imperialismo è la sovrastruttura estrema del capitalismo come Marx affermava che l'invariante del capitalismo non è la manifattura né l'industria bensì il lavoro associato. Sono affermazioni di un'importanza enorme. Marx nel Capitale (primo libro) dice esattamente che la manifattura si ergeva "come opera d'arte" sulla base ancora vastissima dell'artigianato e del lavoro domestico. Aveva introdotto il lavoro sociale e la divisione tecnica del lavoro, ma, ad un certo grado di sviluppo, la sua ristretta base tecnica era entrata in conflitto con le potenti esigenze produttive da essa stessa suscitate. Doveva necessariamente lasciare il posto alla grande industria, e infatti su questo punto Marx chiude il capitolo Manifattura e apre quello sulle Macchine.

Lenin ne L'imperialismo procede allo stesso modo. Incomincia con il delineare i caratteri del capitalismo finanziario e monopolistico sulla base degli studi di Hobson e di Hilferding, ma ne constata l'insufficienza in quanto essi non affrontano la dinamica del sistema. Dinamica che a Lenin interessa – non ci stanchiamo di ricordarlo – più di qualsiasi altra cosa. La ricava da fatti, cifre, tabelle esistenti, ma va oltre al semplice dato di fatto che esistono paesi da rapina, banche e monopoli avidissimi, flotte armate che scorrazzano per il mondo. Stabilisce che quel che conta è la produzione socializzata al massimo e portata ai quattro angoli del pianeta. L'intero sistema di controllo è l'involucro, il capitalismo arrivato alla sua massima espressione è il suo contenuto. Come la manifattura si era scissa dal vecchio mondo artigiano e conteneva in sé il macchinismo e la scienza della produzione tipiche della grande industria, così il capitalismo si è scisso dai residui delle società precedenti e contiene in sé la produzione associata del futuro. Una delle "più perfette creature" della manifattura, dice Marx, fu l'officina interna per la fabbricazione degli strumenti e delle apparecchiature per il lavoro. Ma la manifattura si stava suicidando nello stesso momento in cui si stava autoproducendo come industria. Anche il capitalismo si sta suicidando e autoproducendo come società nuova. Ad un certo punto la sua "angusta base tecnica" deve entrare in conflitto con le potenze da esso stesso suscitate. L'involucro non corrisponde più al suo contenuto, deve saltare. Chi lo impedisce? Lenin non ha dubbi: la corruzione del proletariato, la persistenza dell'opportunismo.

In questo modo egli rivendica la necessità politica e materiale della lotta rivoluzionaria e irride alle teorie gradualistiche dei Kautsky. Contro di esse dimostra che l'imperialismo è una fase materiale dello sviluppo del capitalismo e non semplicemente una politica elaborata dagli Stati. La potenza della sua concezione rivoluzionaria dell'imperialismo fa piazza pulita dell'infantile concezione corrente secondo la quale l'imperialismo sarebbe una politica di certi paesi e dei loro nefandi governi, quello "amerikano" in testa. E sgombra il terreno anche dal pietistico appoggio indifferentista a chiunque sia colpito da qualche imperialismo aggettivato, magari fanatico gruppo rappresentante di società pre-feudali, mosso dall'alto degli Stati impegnati in scontri interimperialistici.

Come abbiamo visto, la dinamica dello sviluppo non si individua a partire dalle condizioni particolari in cui si trovano una popolazione, un paese o un continente, ma dalla maturità delle categorie capitalistiche dominanti. Il paradigma è quello cui si è accennato poco fa e illustrato con gli esempi di Marx e Lenin: ciò che conta veramente non è tanto la cronaca degli eventi quanto l'individuazione delle leggi dinamiche in grado di mostrare il divenire di una società completamente diversa, come risultato della serie storica dei modi di produzione.

Dunque nessuna accezione moralistica nella valutazione dell'imperialismo come capitalismo "putrefatto", "morente" o "di transizione", secondo il linguaggio di Lenin. Nel modo di produzione non cambia nulla: esso continua a basarsi sulla produzione di plusvalore da parte del lavoro salariato, a soffrire come sempre della caduta del saggio di profitto, a socializzare sempre più la produzione e a sfruttare il meccanismo della rendita per dirottare sovrapprofitti da alcuni settori e paesi ad altri settori e paesi. Tuttavia i movimenti del valore all'interno di una determinata società non sono indipendenti dalle condizioni geostoriche in cui essa si trova. Marx metteva in guardia, nei suoi appunti sul metodo, dall'incapacità di distinguere invarianti e trasformazioni. Il denaro è sempre denaro, ma un conto è il pezzo d'oro monetato dell'antica Grecia, altro conto è il capitale anonimo della Compagnia delle Indie che si affianca al moderno sistema del credito.

La dinamica storica del capitalismo marcia dai monopoli di Stato di Federico di Svevia o delle Repubbliche Marinare all'odierno Capitale autonomizzato passando dalla manifattura di proprietà individuale. Marcia dalla prima individuazione di un generico surplus dovuto all'uso di lavoro salariato (mercenario) alla produzione di plusvalore relativo con la massima composizione organica del capitale ottenuta nell'industria supermacchinizzata, passando dalla grande industria concentrata che estraeva plusvalore assoluto da eserciti di forza-lavoro. Marcia, infine, dalla caratterizzazione locale e poi nazionale del Capitale a quella mondiale, in conflitto con il carattere nazionale della classe capitalistica. Quest'ultima, spezzata in tronconi nazionali estremamente concorrenti fra loro, fa naufragare ogni tentativo di spartizione pacifica del mondo, rendendo impossibile un dominio "superimperialistico". Questi processi storici sono irreversibili e mettono in ridicolo coloro che vagheggiano un ritorno ai bei tempi passati del liberismo smithiano (che peraltro esiste solo nei loro sogni). La realtà, non solo di oggi, è la necessità di un controllo crescente dello Stato sull'impazzare di un Capitale ormai autonomo rispetto ai suoi possessori diffusi. Hanno ragione i destrorsi americani: il nuovo acronimo per gli Stati Uniti è USSA, United Socialist States of America.

Se comunque non vi è cambiamento sostanziale nella struttura del capitalismo, vi è però uno sconvolgimento nei rapporti sociali in genere. La transizione dalla sussunzione formale del lavoro al Capitale alla sussunzione reale comporta da una parte la palese inutilità del capitalista, per cui il problema della rivoluzione è ormai ovunque esclusivamente una questione di forza; dall'altra, la modificazione della classe operaia secondo lo schema che Marx aveva lasciato da parte per un approfondimento: la perdita d'importanza dell'operaio parziale rispetto alla formazione del plusvalore e l'affermarsi dell'operaio collettivo (globale), sempre meno distinguibile secondo funzione specifica.

Ciò ha un'importanza enorme perché ci dà la misura di quanto il capitalismo si stia negando come specifico modo di produzione. Poche cifre sono sufficienti per mostrare che questa affermazione non è affatto campata in aria: nel mondo ci sono 6,7 miliardi di abitanti; il 60% circa è in età di lavoro (dai 16 ai 64 anni), vale a dire 4 miliardi circa; gli occupati sono 3 miliardi; fra gli occupati i salariati sono 1,3 miliardi, gli altri sono per lo più piccoli contadini proprietari, artigiani, commercianti, ecc.

Un primo dato che balza all'occhio è quel miliardo virgola tre di salariati che mantiene il mondo sulle sue spalle. Ma quello è l'operaio complessivo, cioè quello che fa sistema per produrre il plusvalore totale. Ci servirebbe sapere qual è la quota che produce realmente plusvalore, perché fra i salariati ci sono masse di persone che non ne producono, come insegnanti di scuole pubbliche, guardiani, impiegati amministrativi, ecc., senza contare la gran massa di lavoro finto che il capitalismo riproduce ripartendo valore nella società al fine di stimolare keynesianamente i consumi e quindi l'economia asfittica. Abbiamo solo il dato della percentuale mondiale degli addetti ai servizi rispetto al resto dell'economia: 40% (nei paesi più sviluppati molto di più, es. USA = 82%). Prendiamolo per buono anche se vi sono certo servizi produttivi e no, assumiamo cioè che i non produttivi siano ripartiti proporzionalmente fra i settori. Abbiamo dunque il 40% di 1,3 miliardi = 0,78 miliardi di lavoratori produttivi su 6,7 miliardi di abitanti.

Questa sommaria carrellata di numeri, ricavata dal Factbook 2008 della CIA che fornisce dati in unità di potere d'acquisto comparabili fra paesi, ci dà un'idea abbastanza precisa di cosa succede al capitalismo di transizione nell'epoca dell'imperialismo:

Secondo le leggi congiunte della sovrappopolazione e della miseria crescente la massa umana che il Capitale ha "liberato" dalla necessità di produrre direttamente plusvalore è formata da 5,92 miliardi di individui su 6,7 (donne, vecchi e bambini rappresentano un insieme-famiglia atto non a produrre ma a riprodurre biologicamente sia i proletari che i rappresentanti delle altre classi;

tale massa va nutrita e vestita finché rappresenta un serbatoio di valore ripartito socialmente, altrimenti sarà passibile di sterminio;

la quota del valore-lavoro sul valore delle merci è ormai insignificante, e ciò deriva dall'aumento della produttività (diminuzione storica del saggio di profitto);

alla lunga, con l'aumento della produttività non si può ricavare da sempre meno operai sempre più plusvalore;

i primi dieci paesi del mondo (su 229, il 4,3%) producono il 50% del PIL mondiale, ma nessuno è in grado di calcolare quale sia effettivamente la loro quota e quanto di questo PIL derivi invece dalla ripartizione del valore proveniente dall'estero per via della produzione dell'operaio globale;

con 1,3 miliardi di militi attrezzati, collegati, organizzati e internazionalizzati dall'industria, il proletariato non è mai stato così forte, numericamente e operativamente, almeno dal punto di vista del suo gigantesco potenziale.

Se già Marx stabilisce la non esistenza potenziale del capitalista e persino del capitalismo, a maggior ragione la si può stabilire oggi, con la generalizzazione della condizione reale del proletariato. Tale condizione dipende dall'insieme sociale e non da somme aritmetiche degli occupati e disoccupati con la tuta, ma affascia l'intero insieme dei senza-riserve proletarizzati. È questa la condizione reale generata dal capitalismo maturo che genera a sua volta il potenziale di cui sopra. Da ciò ovviamente non discende alcuna teorizzazione sull'avvento di una qualche trasformazione delle classi sociali in qualche altro tipo di aggregato umano più o meno individuabile (classe universale, moltitudine, burocrazia, ecc.). Mentre le rivoluzioni precedenti hanno potuto impiantare nuovi e potenti strumenti di dominazione di classe prima della transizione, la prossima rivoluzione potrà usufruire degli strumenti già oggi pronti ed efficaci solo dopo la presa del potere da parte della classe rivoluzionaria. Una fortissima negazione potenziale delle categorie capitalistiche, comprese le classi attuali, è già presente, ma tali categorie saranno fisicamente operative e potenti fino a quando non saranno abbattute dalla forza.

Solo allora la volontà rivoluzionaria, rappresentata dal nuovo partito comunista, potrà essere dispiegata per liberare tutte le energie già presenti e sviluppate. L'imperialismo è dunque la condizione "fisica" ottimale per la transizione. Come ebbe a dire Lenin, in Russia fu relativamente facile prendere il potere ma fu difficile mantenerlo; in Occidente sarà difficile abbattere lo stato borghese, ma ci saranno strumenti in abbondanza per proseguire spediti verso l'estinzione di tutte le categorie precedenti.

Modificazioni della sovrastruttura

Lenin ci obbliga a riflettere: com'è possibile che sviluppi nel capitalismo così importanti da cambiare l'assetto del mondo siano semplice sovrastruttura? Partiamo dalla sua considerazione in critica a Bucharin: se l'imperialismo fosse veramente una fase nuova del capitalismo, i suoi caratteri dirompenti, da transizione, ci permetterebbero di essere molto ottimisti sulla facilità di abbatterlo. Avremmo una società già pronta per la dittatura del proletariato, talmente avanzata dal punto di vista della socializzazione del lavoro che basterebbe dare un colpo al vertice della piramide per impossessarsene.

Purtroppo non è così. In primo luogo, se l'imperialismo fosse una nuova struttura del Capitale dovremmo concedere che esso sa superare le proprie contraddizioni e, dopo la fase imperialistica potrebbe essercene un'altra, magari superimperialistica, come diceva Kautsky. In secondo luogo, il capitalismo giunto alla sua fase internazionalizzata ha bisogno di armarsi come non mai, militarmente e ideologicamente, e ciò, insieme alla corruzione dell'aristocrazia operaia dei paesi imperialisti, non va sottovalutato. Il riscontro testuale della dinamica individuata da Lenin è ben rappresentato dalla metafora dell'involucro che non corrisponde più al suo contenuto:

"Un involucro che deve andare inevitabilmente in putrefazione qualora ne venga ostacolata artificialmente l'eliminazione. Lo stato di putrefazione potrà magari durare un tempo relativamente lungo ma infine sarà fatalmente eliminato".

Quindi, anche se non è in vista un'accelerazione rivoluzionaria, il tempo gioca a favore di una maturazione della società verso il comunismo. La socializzazione internazionale della produzione non può essere bloccata ed è già esplosiva. Il capitalismo odierno è il prodotto consolidato di una ripartizione sociale del plusvalore, per cui questioni congiunte di forza economica e politica creano situazioni di monopolio d'industria, prima a livello nazionale, poi internazionale (le famigerate multinazionali). Queste situazioni di monopolio industriale producono a loro volta situazioni di monopolio del capitale finanziario, la cui fonte è sempre quello produttivo. E siccome per gli stati più potenti è più agevole indirizzare il capitale finanziario (ad es. tramite politiche monetarie) che non quello industriale, si determina un controllo dei flussi di valore (reale e fittizio) cui partecipano pochissimi paesi. Potrà perciò esserci un crescente differenziale di profitto non solo a causa di innovazioni e di capacità generale nella lotta per la concorrenza, ma a causa di posizioni di rendita. E queste posizioni saranno sempre più marcate perché di fronte all'autonomizzazione del Capitale i governi sono inermi, e solo quelli di pochissimi paesi possono influire sui suoi movimenti. Saremmo alle solite, se non fosse per il fatto che lo sbocco inevitabile, la guerra, si pone in modo diverso in quest'epoca rispetto alle precedenti.

Fino alla prima guerra mondiale gli eserciti si schieravano in battaglia disponendo la fanteria faccia a faccia su terreno sgombro. La fanteria era chiamata "regina delle battaglie" perché era l'elemento decisivo, mentre l'artiglieria e la cavalleria erano l'elemento coadiuvante. Quindi fino a Napoleone il macello era praticamente "fatto a mano". Come già aveva notato Engels, il miglioramento tecnico delle armi aveva prodotto l'industrializzazione della guerra, non solo nel senso di tecnologie applicate ma nel senso di morte e distruzione alla scala industriale. La Prima Guerra Mondiale aveva aggiunto il non trascurabile dettaglio che gli eserciti erano diventati effettive macchine da guerra, braccio operativo su cui l'industria delle retrovie vomitava una spaventosa quantità di materiali. Con la Seconda, il conflitto diventa estremamente mobile grazie a trasporti veloci, carri armati da incursione, aviazione e flotte portaerei; insomma, si taylorizza al massimo e, come l'industria, diventa sistema. Questa volta il dettaglio non trascurabile è la sua massima socializzazione: i fronti si fanno confusi e mobili, la popolazione nel suo insieme è coinvolta, bombardata, deportata, espropriata, internata, sterminata. Come nell'industria si impone l'operaio collettivo, nella guerra s'impone il soldato globale. Si è più sicuri al fronte che non nelle retrovie, dove vige la distruzione di massa e lo scatenamento di feroci partigianerie, allo stesso tempo ideologiche e mercenarie. Le SS tedesche inventano la figura del "soldato politico"; gli Alleati fanno altrettanto anche se si astengono dal portare a battesimo le loro milizie per dar loro un nome.

Questa nuova situazione, frutto dell'inevitabile avanzamento della forza produttiva sociale, cambia come al solito la prospettiva rivoluzionaria di fronte alla guerra. Già in quella del '39-'45 si erano dimostrate impossibili le parole d'ordine lanciate durante quella del '14-'18. Ora, la nostra corrente avverte: per il capitalismo mai come oggi la guerra rappresenta la soluzione, non certo il problema. La parola d'ordine "trasformare la guerra imperialistica in guerra civile rivoluzionaria", valida per il 1917 e l'Ottobre Rosso, oggi è impraticabile. Se passa la guerra, che per il capitalismo è risolutiva delle sue crisi, non passa la rivoluzione. Perché la guerra moderna non può più fare a meno del "soldato politico"; e se tutta la popolazione, cioè tutto l'esercito che sarà mobilitato ovunque, vestirà quella divisa, non ci sarà sbocco. Un'eventuale guerra, che sarà certo una generalizzazione a scala planetaria di quella che dura da sessant'anni, dovrà essere bloccata al suo nascere dal proletariato e dagli altri strati sociali che esso saprà trascinare.

Naturalmente per noi una proposizione del genere è invariante rispetto all'altra di Lenin: in entrambi i casi la guerra deve trascendere in rivoluzione. Solo che nella prossima guerra non si potrà dire ai proletari: andate a combattere, prendete le armi, fraternizzate al di là delle linee nemiche e attaccate la vostra borghesia. Non ci saranno più linee e non ci saranno più combattimenti del tipo di quelli del passato: come l'industria s'è spalmata sull'intera crosta terrestre in una rete di holding con sotto-reti di affiliate non più assemblate secondo tipo di produzione ma secondo redditività finanziaria, così la prossima guerra sarà veramente mondiale. Basta guardare alle guerre attuali, dove non c'è più distinzione fra eserciti veri e propri, agenzie militari private, mercenari, partigiani e popolazione suddivisa per idee politiche, ideologie o credenze.

Questo è uno dei frutti dell'intero complesso del lavoro mondiale socializzato, che ha raggiunto un punto ben più alto di quanto Lenin potesse descrivere al suo tempo. L'enorme circolazione di capitali finanziari – dieci, quindici, venti volte superiore al PIL mondiale, nessuno ne conosce l'ammontare – ci mostra un capitalismo che, a questo punto dello sviluppo della forza produttiva sociale, si sta autosopprimendo. Non sopporta più l'enorme divario fra l'immane potenza raggiunta dal lavoro associato e l'impotenza meschina dell'appropriazione privata. In questa situazione, di fronte all'avanzare della società futura si erge come barriera unicamente la potenza politico-militare della borghesia, cui dovrà contrapporsi la potenza politico-militare del partito comunista.

Emergenza del superimperialista e sua immediata negazione

Con il passaggio dalla sussunzione formale alla sussunzione reale del lavoro al Capitale, si passa – ci sia concessa questa analogia – dalla sussunzione formale a quella reale dell'industria alla finanza. Quando il profitto

"assume la forma di interesse, le grandi società per azioni sono possibili anche se fruttano solo l'interesse, ed è questa una delle cause che ritardano la caduta del saggio generale di profitto, perché queste imprese, il cui capitale costante sta in proporzioni così enormi rispetto al capitale variabile, non entrano necessariamente nel livellamento del saggio generale di profitto. È questa la soppressione del modo di produzione capitalistico entro i confini del modo di produzione capitalistico […] Si prepara così, con nostra grande soddisfazione, la futura espropriazione da parte della società intera" (Marx, Il Capitale, Libro III cap. XXVII).

Il capitale finanziario classico di Hobson e Hilferding era in pratica il capitale da investimenti reperito con il sistema del credito o attraverso l'emissione di azioni che poi circolavano come valori autonomi. Piccoli capitali privati confluivano in una raccolta bancaria o industriale che come risultato finale aveva la loro azione concentrata, come se fossero stati un solo grande capitale. Il processo di finanziarizzazione moderno in un primo tempo è originato dalla raccolta di capitali per la costruzione di grandi opere, ferrovie, flotte oceaniche, reti telegrafiche, ecc., e si sviluppa con l'autonomizzazione della raccolta stessa al fine di allocare il capitale in non importa quale attività ritenuta remunerativa, dall'industria alla speculazione pura e semplice. Il piccolo possessore di capitale, che può essere anche un salariato risparmiatore (il salario risparmiato e messo in banca è capitale finché non è speso in beni di consumo), viene separato dal proprio denaro e remunerato con un interesse locale, mentre la somma dei capitali così raccolti può venire investita dal grande capitalista secondo una visione globale. Si forma così storicamente una oligarchia finanziaria dedita esclusivamente all'allocazione di capitale finanziario. Il meccanismo è descritto da Marx:

"Nell'insieme, qui il denaro funge solo da mezzo di pagamento, cioè la merce è venduta non contro denaro, ma contro la promessa scritta che si pagherà a una data scadenza. Per brevità possiamo riassumere tutte queste promesse di pagamento sotto la generale categoria delle cambiali. Fino al loro giorno di scadenza e rimborso, queste circolano a loro volta come mezzi di pagamento, e costituiscono il vero e proprio denaro del mondo commerciale. In quanto finiscono per annullarsi mediante compensazione di credito e debito, esse funzionano assolutamente come denaro, non verificandosi quindi nessuna finale conversione in moneta. Come queste anticipazioni reciproche dei produttori e dei commercianti costituiscono la vera e propria base del credito, così il loro strumento di circolazione, la cambiale, costituisce la base del vero e proprio denaro di credito, biglietti di banca, etc. Questi poggiano non sulla circolazione del denaro, sia esso moneta metallica o cartamoneta emessa dallo Stato, ma sulla circolazione delle cambiali" (Libro III cap XXV).

La cambiale è l'antenata dei più sofisticati strumenti finanziari di oggi, un paleo-derivato. Con la crescente diffusione dei mezzi di pagamento differito, dei titoli su di essi e delle assicurazioni contro i rischi che corrono, la sussunzione dell'industria alla finanza globale si completa. Il capitalismo attuale è ormai completamente finanziarizzato e l'industria non è che un tramite, un mezzo secondario per raggiungere un fine. L'esempio è dato dai fondi d'investimento cosiddetti locusta, che sfruttano le difficoltà di industrie appetibili, le acquistano per poco, le smembrano, ne licenziano i dipendenti, le rivoltano come un calzino e le rivendono ad altro finanziere che, convinto a sua volta di speculare convenientemente, ripete l'operazione. Il limite estremo – o che al momento sembra tale – è stato raggiunto con i mutui subprime e con le carte di credito, quando si è passati dal rastrellamento dei piccoli capitali e del risparmio privato a rastrellare ipotetico valore futuro, garantito solo dall'ipotesi di una solvibilità problematica ed evanescente.

Il Capitale dunque si centralizza, internazionalizza la propria dinamica, produce intricatissime reti di partecipazioni azionarie per lo più pagate con denaro fittizio, valido solo perché al tavolo del poker mondiale il "giro" è continuo, nessuno "vede" mai, come spiega Marx nella citazione riportata. La concorrenza si spinge fuori dei confini nazionali, fino a coinvolgere l'intero globo nella lotta a morte per la ripartizione del plusvalore. Così facendo porta l'accumulo di forze e di contraddizioni ad un livello sempre più alto. La concorrenza ha finito per esaurire sé stessa nella accentuazione inesausta della centralizzazione: scopo del capitalista finanziario non è più quello di emulare e superare il concorrente ma di distruggerlo o inglobarlo con una scalata ostile (unfriendly takeover). Ma se la concorrenza uccide sé stessa il monopolio trionfa, e deve subentrare lo Stato a regolare il traffico dei pescecani privati.

Tuttavia lo Stato borghese è anche lo strumento principe di una classe che ha il monopolio della proprietà e del potere. Se la regolazione interna è affidata allo Stato, la regolazione internazionale è regolata dallo Stato economicamente più forte e militarmente più attrezzato. In un mondo globalizzato che impone una risposta alle sollecitazioni nazionali per gli attentati altrui alla concorrenza, ciò provoca qualche problema: chi controlla il controllore? Tra i paesi di una certa importanza nessuno può permettersi di non fare ciò che gli altri fanno. Perciò la lotta diventa spietata, da giungla darwiniana, e provoca la distruzione degli inadatti, mentre i più forti si organizzano al meglio, e il più forte di tutti al meglio ancora, mostrando magari al mondo (parlare a nuora perché suocera intenda) che è in grado di spendere 3.000 miliardi di dollari per la guerra a un paese che poteva comprare per molto meno (ricordiamo la guerra dell'Iraq contro l'Iran, benedetta dagli USA, durata otto anni e costata un milione di morti, per la quale Saddam Hussein chiese in cambio il Kuwait e fu invece ripagato con due sanguinose invasioni).

La vittoria americana del '45 ha spazzato via dalla scena mondiale i vecchi paesi imperialisti, ridotti a vassalli con "sovranità nazionale controllata". Non si vedono all'orizzonte paesi imperialisti sostitutivi. L'unico potenziale è nell'Europa cosiddetta Unita, ma la sua balcanizzazione previa per adesso l'ha tolta di mezzo (e bisogna dire che i paesi europei hanno collaborato con impegno al proprio suicidio). Il Giappone, come possibile leader di una coalizione oceanica è da quindici anni fuori combattimento. La Cina è complementare agli Stati Uniti per l'esportazione di merci e l'investimento del suo surplus in titoli americani. Altro non c'è, a meno di non prevedere sviluppi improbabili in India, Russia e Brasile con relativi potenziali partner. Insomma, per il momento tutti i paesi hanno ancora bisogno del mercato americano più di quanto l'America abbia bisogno dei loro mercati.

Gli Stati Uniti, disertando la produzione materiale, assumono in quanto nazione quella che fu la missione globale del rentier, o meglio ancora quella del raider borghese, il corsaro speculatore e tagliatore di cedole. Ma la loro posizione non è più quella dell'Inghilterra che esportava capitali fertilizzando l'orto dei futuri concorrenti. Washington importa capitali ed esporta debito. Un ormai immane debito consolidato che non sarà assolutamente possibile onorare. Nel mondo imperialistico non era mai successo e non succederà mai più. La sequenza storica dei paesi imperialistici è finita. La storia invece continua verso altre mete.

Perché lo sbirro universale

Gli Stati Uniti, portati dalla storia ad assumersi la responsabilità dei flussi di valore nel mondo (incarico che ad un certo punto, alla faccia dell'isolazionismo, hanno fortemente assecondato maciullando interi continenti, non solo in senso figurato), hanno avuto buon gioco nell'imporre gli strumenti necessari allo scopo. Con gli accordi di Bretton Woods, sottoscritti dagli Alleati a guerra ancora in corso, veniva sancita la funzione del dollaro come moneta di conto internazionale. Il Bancor prospettato da Keynes, moneta universale indipendente dagli Stati, andava in soffitta, e al suo posto veniva adottata una moneta nazionale universalizzata artificialmente, per cui si concedeva al suo titolare l'ineffabile potere di controllare non solo le riserve altrui ma soprattutto i flussi valutari che le andavano a rimpinguare o dissanguare (come aveva intuito Luigi Einaudi al tempo del Piano Marshall, dimostrandosi meno fesso degli attuali europeisti… filo-americani).

Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale e Organizzazione Mondiale per il Commercio (ex Accordo Generale sulle Tariffe e sul Commercio) non erano che la conseguenza logica della premessa economica, politica e militare, il braccio esecutivo internazionale dello sbirro planetario. Ad esso naturalmente non poteva che affiancarsi la sua versione militare, cioè l'Organizzazione del Trattato Nord-Atlantico (cui si aggiungono una Interpolizia e una Organizzazione Mondiale per la Sanità). Con buona pace delle Nazioni Unite, relegate al ruolo di serbatoio per il cretinismo parlamentare inter-borghese. S'è sempre fatto un po' di folklore antimperialistico di maniera sul dato di fatto del dominio americano, per cui occorre sottolineare con forza che la nascita di un embrionale esecutivo mondiale non fu una scelta degli Stati Uniti, bensì una necessità del capitalismo globalizzato che aveva trovato negli Stati Uniti l'unico strumento valido per darsi un abbozzo di governo mondiale. Per chi ha dimenticato Marx tale abbozzo è una prevaricazione politico-militare del cattivo paese yankee; per chi collega le loro premesse con gli odierni risultati esso è la prova che effettivamente l'involucro non corrisponde più al suo contenuto.

Il capitalismo non potrà ovviamente addivenire a un governo mondiale inviando le borghesie nazionali nell'emiciclo dell'ONU, né far funzionare tutti gli organismi "umanitari" che apparentemente ha realizzato per uno scopo diverso da quello di salvaguardare il saggio di profitto e quindi sé stesso. Ma l'esistenza di una spinta materiale verso il controllo globale e la realizzazione di strumenti formali adatti allo scopo è reale potenzialità di "piano mondiale", quindi comunismo in marcia, piaccia o non piaccia a coloro che arricciano il naso di fronte a queste sparate… di Marx. È dai tempi del primo Roosevelt (1898, guerra contro la Spagna) che gli Stati Uniti fanno i conti nelle tasche altrui lasciando la parola "neutralità" alle definizioni dei vocabolari. Oggi sono chiamati a pilotare la cordata dei paesi più importanti nel tentativo di uscire da quella che chiamano ancora "crisi congiunturale", per quanto depressiva, profonda e "sistemica". Nessuno potrebbe farlo al loro posto, e finché il Capitale avrà bisogno del direttore d'orchestra – e riuscirà ad imporlo – il mondo sarà obbligato a ballare alla sua musica.

Il monopolio politico americano, derivante dal monopolio economico, militare e finanziario, è dunque "produttivo" di rendita non solo perché gli USA possono permettersi un enorme debito consolidato (federale, statale, commerciale, industriale e privato), su cui sono appuntati gli occhi del mondo; oltre a farsi prestare denaro essi intascano il pagamento generale di quel "servizio" di salvaguardia del capitalismo ottenuto con il controllo dei flussi di valore da capitale reale, più l'enorme flusso di valore da capitale fittizio, valore fittizio anch'esso, ma regolarmente affibbiato a una parte del mondo in cambio di valore reale.

La seguente tabella mostra il confronto fra paesi con livello di vita materiale paragonabile. Gli americani sembrano produrre un 20% di valore in più per occupato, nonostante abbiano percentualmente meno addetti all'industria. Ciò potrebbe essere spiegato con un differenziale di produttività, che, se esiste, come risulta ufficialmente, non si riflette però nelle condizioni medie della popolazione. Infatti, mentre in tutti gli altri paesi rappresentati la popolazione risparmia ed è abbastanza ben tutelata dal punto di vista del welfare, negli Stati Uniti essa è estremamente indebitata ed è in una pesante situazione dal punto di vista medico assistenziale. Le cifre sono medie e quindi non mettono in evidenza il divario tra i redditi, per cui abbiamo inserito nell'ultima colonna anche l'indice di Gini, che è il misuratore della distribuzione sociale del reddito (più è alto, più è marcata l'ineguaglianza).

Paese Popolazione
mln
Occupati
mln
PIL
mln $
PIL/occupato
$
Indice di Gini
USA 301 153,1 13.800.000 90.137 45
Italia 58 24,8 1.800.000 72.580 33
Francia 63 27,7 2.000.000 72.202 28
Inghilterra 60 30,7 2.100.000 68.403 34
Giappone 127 66,0 4.300.000 65.151 38
Germania 82 43,6 2.800.000 64.220 28

Fonte: CIA Factbook 2008, dollari ppp (purchasing power parity).

Un PIL per addetto molto alto con una distribuzione del reddito da Terzo Mondo significa una cosa sola: una popolazione supersfruttata che non è tuttavia in grado di avere un reddito all'altezza della vita materiale degli europei e dei giapponesi, per cui s'indebita pesantemente, e le cui condizioni di vita sono più precarie che mai. Perciò quando si dice che gli americani "vivono al di sopra dei propri mezzi" si usa un eufemismo per dire che sono mediamente poveri e che l'immane ricchezza nelle mani di pochi non arriva tutta dall'interno del paese. Nella dinamica di un sistema capitalistico "normale", la situazione americana di insolvenza totale è un assurdo e nessun altro paese potrebbe permetterselo. Ma quel che è certo è che fra non molto gli americani non vivranno più solo al di sopra dei propri mezzi ma anche al di sopra dei mezzi degli altri.

Dunque il mondo intero va a rimpolpare un Prodotto Interno Lordo americano fatto per l'85% di produzione immateriale, assai confacente ad aggirare le severe leggi del valore, assenti al solito tavolo del poker dove Washington gioca con carte truccate. Galbraith diceva che le crisi finanziarie si possono definire come il momento in cui il denaro si separa dagli stupidi. Il fatto è che a livello di nazioni far la parte degli stupidi è al momento obbligatorio: il monopolio americano non ha bisogno di occupare territori come le nazioni del vecchio colonialismo, il suo "spazio vitale" fa il giro del mondo e da un secolo il suo controllo è indiretto. E comunque non ci sarebbe esercito sufficiente per un controllo così esteso. Per questo abbiamo insistito tanto nello spiegare che è necessario uscire dal luogo comune sulla guerra "neocoloniale" d'Afghanistan e d'Iraq. Neocoloniale è l'esistenza stessa di un paese come gli Stati Uniti, a cui le nazioni pagano regolare tributo versando consapevolmente il proprio sovrapprofitto senza avere alcuna possibilità di opporsi, anzi, trovando la situazione abbastanza comoda, stabilito che non devono fornire armi e soldati. Per adesso.

Forza e debolezza

È bene ricordare che il capitalismo "non è una 'cosa' ma un movimento", come dice Marx, e pertanto è assolutamente arbitrario affrontarlo come se fosse un sistema che semplicemente si riproduce uguale a sé stesso. Nessun modo di produzione della storia è mai stato obbligato a rivoluzionare continuamente la sua base produttiva come invece ha dovuto fare il capitalismo. Il vecchio colonialismo si espandeva in terre spopolate e vergini, ambienti geostorici ancora lontani dal capitalismo, dove le popolazioni autoctone non avevano le capacità per sfruttare le risorse del territorio; delle quali peraltro non avrebbero saputo che farsene, non avendo un'industria interna per assorbirle. I conseguenti conflitti nascevano quindi per la ripartizione del territorio fisico, lo stesso che ancora oggi è suddiviso secondo le assurde frontiere coloniali. L'imperialismo odierno pone ai paesi di nuova industrializzazione gli stessi problemi, gli stessi obiettivi di accumulazione e di valorizzazione dei capitali, tipici dei vecchi paesi imperialisti, come hanno dimostrato gli ultimi episodi della sua crisi (in particolare quello "asiatico" del 1997), ma agisce attraverso il monopolio globale della massa finanziaria e della forza economico-militare, quindi politica. Da come si è configurato l'assetto del mondo dopo la Seconda Guerra Mondiale queste stesse caratteristiche hanno spinto gli Stati Uniti ad essere l'unico paese detentore del ricordato monopolio. Gli altri paesi sono stati costretti a un ruolo in subordine. E siccome l'esigenza fondamentale del Capitale è sempre, e per tutti i capitalisti o paesi, la differenza positiva tra il capitale anticipato e quello ricavato, per i paesi in posizione subordinata è giocoforza fare di necessità virtù: se non si può lottare contro gli Stati Uniti per spartirsi il mondo come ai vecchi tempi, invece di esportare nelle colonie merci e capitali per un plusvalore di ritorno, e magari materie prime, si esportano merci e capitali direttamente negli Stati Uniti.

È un meccanismo perverso che genera una pericolosa situazione imperialistica-mostro: per la prima volta nella storia s'inverte il flusso di capitali fra il paese imperialista e i suoi subordinati senza che questi possano aspirare a un ricambio nella leadership imperialistica. Pur non rinunciando del tutto alla penetrazione in proprio nelle varie aree del mondo, i paesi subordinati lottano fra di loro proprio per questo, ma nessuno di essi può rinunciare, seppure a pagamento, a quella grassissima vacca da mungere che è il mercato americano. Ciò spiega almeno in parte la facilità con cui gli Stati Uniti balcanizzano gli altri e rinsaldano il proprio fronte interno, predicano per gli altri la deregolazione liberistica e si rivelano addirittura sovietici nel controllo interno e internazionale dell'economia, accendono guerre in proprio e ottengono l'aiuto da altri paesi, addirittura da quelli che hanno da perdere di più in termini di "sovranità nazionale", come ad esempio nel caso delle coalizioni per le due Guerre del Golfo e per l'Afghanistan.

In una tale situazione, l'enorme forza dispiegata dagli Stati Uniti diventa la loro principale debolezza. Al di là del "declino dell'impero americano", reale ma sbandierato un po' troppo frettolosamente da varie fonti, la questione del futuro imperialistico va vista non in termini assoluti ma in relazione alla dinamica del sistema attuale, in un certo senso inedita. Se infatti la struttura è sempre la stessa, e così è, le relazioni fra i paesi imperialisti sono cambiate. Gli avversari di un tempo, i "briganti che si spartivano il mondo", non si sono affatto coalizzati in un cartello imperialistico mondiale – perciò la critica di Lenin a Kautsky è sempre valida – ma sono diventati complementari, e questo non era previsto se non nei modi descritti da Marx nei suoi articoli sul commercio britannico (il paese imperialista era costretto a finanziare i propri concorrenti).

Ciò comporta alcune difficoltà nel valutare il possibile esito di un accresciuto contrasto fra paesi che rimangono concorrenti ma legati l'uno all'altro da una situazione di complementarità che li ingessa. Vediamo ad esempio la Cina, costretta a finanziare il deficit americano, proprio come i creditori finanziano il debitore insolvente nella speranza di non perdere tutto con il suo fallimento. In un contesto del genere, nel momento in cui il capitalismo mondiale mostra di avere un urgente bisogno di uno sbocco bellico generalizzato, non è affatto chiaro come potrebbe configurarsi uno schieramento di guerra (cioè il formarsi di due blocchi contrapposti di alleanze). Non stiamo parlando di quali paesi si schiereranno o meno con quali altri, ma della possibilità stessa che si formino degli schieramenti come quelli della Prima o Seconda Guerra Mondiale, come abbiamo già notato in lavori passati (ad es. La nuova politiguerra americana, n+1 n. 11 del 2003).

Un paese che dipende dal mondo come l'America non può fare guerra a un mondo che dipende dall'America per la propria salvezza. Deve succedere qualcosa. Devono rompersi – e per forza si romperanno – gli attuali fragili equilibri in modo che l'attuale massa di capitale fittizio che soffoca l'industria non sia più garantita dalla sicurezza di un plusvalore a venire. La contraddizione è enorme perché l'unica garanzia che questi equilibri non si rompano viene dagli Stati Uniti, ma essi, nello stesso tempo, avranno bisogno di guerra, quindi di rompere ogni vincolo risalente a un'epoca completamente diversa.

A proposito di declino degli Stati Uniti è utile ricordare che è vero, questo paese produceva all'inizio degli anni '50 circa la metà del PIL mondiale e oggi ne produce meno di un quarto, ma al momento è il solo in grado di fornire un futuro al capitalismo. Solo la potenza politico-militare americana può garantire la fiducia necessaria per mantenere in piedi il sistema mondiale del capitale fittizio. È vero che non si può tirare la corda in eterno, ma per ora è nell'ambiente del mondo "americano" che detto capitale trova le garanzie per accrescersi, ipotecare lavoro futuro, rapinare risorse alle popolazioni e al pianeta, subire senza scossoni sociali vaste cancellazioni per migliaia di miliardollari creati dal niente. È in questo mondo che, basandosi sull'ipotesi fasulla che il capitale totale sia garantito dal solo capitale reale (beh, le portaerei aiutano), "zone" di fermento del capitale fittizio hanno dato plusvalenze anche del 30-40%, come nel caso di alcuni fondi chiusi, attirando capitale reale da tutto il mondo. Come si diceva, una dinamica del genere non può essere eterna. Non si può drogare per sempre l'economia dell'intero pianeta e qualcosa deve esplodere.

Ma è fin troppo facile immaginare gli effetti devastanti che deriverebbero/deriveranno da una eventuale perdita di controllo del sistema da parte degli Stati Uniti e dei paesi complementari, in primo luogo la Cina, seguita a ruota dal disunito insieme europeo. Tenendo presente la condizione di "sovranità zero" in cui si trova la maggior parte dei paesi del mondo, si scatenerebbe una reazione a catena planetaria. Per cui la forza/debolezza del maggior paese imperialista rappresenta un elemento di instabilità, un incubo che farà da sfondo a tutti i summit che saranno organizzati di qui a quando salterà definitivamente il capitalismo. E siccome l'imperialismo è la fase in cui il dominio del lavoro morto (capitale, immobili, beni durevoli prodotti da lavoro passato) giunge alla sua massima espressione, si può immaginare a quale pressione sarà sottoposto il proletariato e quindi l'umanità intera.

Letture consigliate

  • John A. Hobson, Imperialism. A study, James Nisbet & Co., 1902 (il libro è prelevabile in versione integrale inglese su http://www.archive.org/index.php).
  • Rudolf Hilferding, Il capitale finanziario, Feltrinelli, 1961 (Il libro è prelevabile in versione integrale francese su http://www.marxists.org/).
  • Vladimir Ilich Ulianov (Lenin), L'imperialismo, fase suprema del capitalismo. Saggio popolare, Opere Complete, Editori Riuniti 1966, vol. 22 pag. 179.
  • Vladimir Ilich Ulianov (Lenin), Rapporto sul programma del partito, Opere Complete, Editori Riuniti 1967, vol. 29 pag. 147 (critica a Bucharin; note sull'imperialismo come sovrastruttura del capitalismo).
  • Nikolaj Bucharin, L'economia mondiale e l'imperialismo, Samonà e Savelli, 1966.
  • Nikolaj Bucharin, L'imperialismo e l'accumulazione del capitale, Laterza 1972.
  • Rosa Luxemburg, L'accumulazione de capitale, Einaudi 1960.
  • Eugen Varga, La crisi del capitalismo e le sue conseguenze economiche, Jaca Book 1971 (antologia postuma. Varga fu pubblicato anche da PCd'I in Rassegna comunista nel 1920-21. Ministro dell'economia nella repubblica ungherese dei consigli, aderì nel 1920 al Comintern e poi allo stalinismo dal quale si distaccò su posizioni ambigue nei primi anni '60, poco prima di morire. Fu uno dei primi a sostenere che le due guerre mondiali furono espressione di un ciclo unico di crisi iniziato a inizio '900).
  • Karl Kautsky, Teorie delle crisi, Guaraldi 1976.
  • Partito Comunista Internazionale, Vulcano della produzione o palude del mercato? 1954. Ora in Quaderni di n+1, 1992.
  • Partito Comunista Internazionale, "Punti democratici e programmi imperiali", Battaglia Comunista n. 2 del 1950.
  • Partito Comunista Internazionale, "Imperialismo vecchio e nuovo", Battaglia comunista n. 3 del 1950.
  • Partito Comunista Internazionale, "L'imperialismo delle portaerei", Il programma comunista n. 2 del 1957.
  • Quaderni di n+1, La crisi storica del capitalismo senile, 1985.
  • n+1: n. 11, "La nuova politiguerra americana", 2003; n. 20, "La legge della miseria crescente", 2007; n. 23, "Non è una crisi congiunturale", 2008.
  • n+1 n. 24, "Un modello dinamico di crisi" e "Capitalismo che nega sé stesso", 2008.
  • Renato Monteleone, Teorie sull'imperialismo da Kautsky a Lenin, Editori Riuniti 1974 (un'antologia comparativa utile e importante).
  • Michael Barrat Brown, Storia economica dell'imperialismo, Mazzotta, 1977.
  • Francis Fukuyama, La fine della storia e l'ultimo uomo, Rizzoli 1992.
  • Malcom Sylvers, Gli Stati Uniti tra dominio e declino, Editori Riuniti 1999.
  • Samuel Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti 2000.
  • Chalmers Johnson, Gli ultimi giorni dell'impero americano, Garzanti 2001.
  • Michael Hardt e Antonio Negri, Impero, Rizzoli 2001.
  • Charles Kupchan, La fine dell'era americana, Vita e Pensiero 2003.
  • Immanuel Wallerstein, Il declino dell'America, Feltrinelli 2004.
  • Norman Podhoretz, La quarta guerra mondiale, Lindadu 2004.
  • Walden Bello, Domination. La fine di un'era, Nuovi Mondi Media 2005.
  • Richard Clarke, Contro tutti i nemici, Tea 2005.
  • Michele Nobile, Imperialismo. Il volto reale della globalizzazione, Massari 2006.

(*) Lo scopo di questa bibliografia, minima in confronto all'argomento, è di dare un'idea degli intrecci fra testi utili per un auspicabile proseguimento del lavoro sulla teoria dell'imperialismo affrontata da Lenin nel suo testo specifico e presente in molti testi della Sinistra Comunista "italiana". Sul declino del cosiddetto impero americano o sulla necessità di rivitalizzarlo c'è una sterminata produzione che solo un cervello collettivo può vagliare. Il solo fatto che essa esista significa che il problema si fa vitale, e il nostro auspicio è che diventi altrettanto vitale l'esigenza di affrontarlo scientificamente.

Rivista n. 25