Quo vadis, Germania?

La crisi ha di nuovo messo la Germania sotto pressione. È un ricorso storico. Con soli 82 milioni di abitanti e un andamento demografico negativo (8,2 nati e 11 morti ogni mille abitanti) avrà difficoltà a rimanere fra i primi posti nella produzione di valore. Soprattutto sarà difficile mantenere il secondo posto nella graduatoria dei paesi esportatori (dopo la Cina, prima degli Stati Uniti e del Giappone). Ciò avrà conseguenze dirompenti sul suo equilibrio interno, specie sui suoi rapporti di classe ritenuti normalmente così collaborativi.

Non è difficile elencare le preoccupazioni del governo tedesco a tale proposito. E proprio mentre scriviamo la cancelliera Merkel è impegnata in un viaggio diplomatico in Russia, Kazakistan e Cina. La rapida ascesa di quest'ultimo paese ha comportato un ulteriore spostamento del baricentro economico mondiale dall'Atlantico verso il Pacifico; e fin qui è cosa assodata, essendo un processo iniziato con il Giappone, la Corea e Taiwan. Ma arrivati a questo punto, cioè all'entrata in gioco di una massa economica come quella della Cina, la Germania semplicemente non può più fondare le proprie esportazioni solo sugli acquisti europei e americani. Essa deve aggiungere almeno Mosca e Pechino. Mentre con Mosca le cose non sono molto cambiate dal tempo della vecchia Ostpolitik, con Pechino il rapporto è sempre stato contraddittorio, essendo la Cina un grande importatore di mezzi di produzione ma anche, ormai, il primo esportatore mondiale di merci.

La conseguenza è che la Germania, che attualmente è ancora il motore dell'intera Europa, può comprometterne la stabilità trasformandola da agente primario dell'economia mondiale ad attore di serie B (attualmente l'UE è al primo posto nella graduatoria del valore totale prodotto, seguono Stati Uniti, Cina e Giappone). I parametri economici non sono i soli a dare indicazioni rispetto all'andamento storico, molto dipende anche dal loro nesso con lo sviluppo tecnologico. Quando ad esempio l'Europa varò il progetto di navigazione satellitare Galileo per sganciarsi dagli Stati Uniti (lo standard americano, l'unico che ci fosse, era una derivazione sottopotenziata della rete militare USA) aveva ottime possibilità di mercato perché si avvaleva di nuove tecnologie. Ora la Cina lancia il suo sistema Beidou, che ovviamente è più innovativo ancora e potrebbe essere operativo prima di Galileo. Lo stesso dicasi per le compagnie aeree: dopo la crisi di quelle americane, fino al 2008 le più profittevoli del mondo si erano rivelate le grandi europee (Lufthansa, Air France e British Airways), mentre oggi sono due cinesi e una medio-orientale (Air China, Cathay Pacific ed Emirates). La ricerca spaziale, che sembra ripercorrere la strada che fu di Russi e Americani cinquant'anni fa, in realtà è un'applicazione di nuove tecnologie, dato che le missioni in quanto tali sono solo propagandistiche, come lo furono quelle del passato. Infine la Cina ha le stesse mire della Germania sulle risorse minerarie e sulle fonti energetiche euroasiatiche, specie quelle russe. Se pensiamo alla situazione del Giappone, da quindici anni in fase stagnante proprio per la sua diminuita capacità competitiva sul terreno delle esportazioni, è facile capire quanto preoccupi la prospettiva tedesca, che alcuni economisti (ad es. Roubini) sintetizzano in una possibile curva ad "L". E il Giappone non è il motore di un continente, come la Germania invece lo è per l'Europa.

Guardando a questi rapporti interimperialistici in evoluzione, viene in mente Engels, per il quale lo spostamento del baricentro capitalistico dall'Europa agli Stati Uniti corrispondeva all'annientamento irreversibile delle velleità egemoniche europee. L'Europa degli Stati, effettivamente, non ha più ritrovato la sua posizione dominante, avendo di fronte un'entità statale delle sue stesse dimensioni e potenzialità ma unitaria come borghesia e capitali. Ormai, scriveva Engels, l'unica evoluzione possibile per l'area occidentale è un salto di forma economico-sociale, per il quale le condizioni sono mature da tempo. Oggi l'osservazione si può estendere al mondo intero e i fatti di cui stiamo parlando lo dimostrano.

La Germania avverte dunque il pericolo di un declassamento epocale con tutta l'Europa, ma per porvi rimedio non può far altro che rafforzare le proprie difese nazionali. La posizione tenuta durante la crisi greca lo testimonia: come paese meno disastrato del continente (e non è del tutto vero), pretende di limitare la sovranità altrui affinché sia salvaguardato il motore d'Europa con beneficio di tutti, anche se ciò comporta l'adozione di un "ciclo virtuoso", cioè di indicibili sacrifici per le popolazioni. Dal punto di vista della borghesia tedesca, in conflitto tra la convenienza di pilotare l'Europa e le disgrazie che ciò comporta, è ovvio che l'opzione europea deve passare attraverso una unione meno sbracata di quella attuale. Tuttavia 1) rivitalizzare l'Unione significa imporre soluzioni tedesche ad altri che tedeschi non sono; 2) non conviene neppure alla Germania un'Unione troppo… unita.

Un piccolo esempio può chiarire entrambi i punti. Gli scioperi dei controllori di volo nei paesi europei è endemico. Uno dei motivi addotti è il lavoro massacrante dovuto alle diverse normative e regole, una per ogni paese. Questa diversità penalizza le compagnie e le strutture europee di fronte agli Stati Uniti, la Cina e la Russia, grandi entità statali unitarie con normative coerenti, compresi i contratti nazionali di lavoro. La Francia propone un corpo unico europeo di controllori di volo con un contratto unico per la professione. Sembrerebbe ragionevole, ma la Germania avversa fieramente la proposta perché teme che uno sciopero locale, senza il sistema di concertazione tedesco, possa diventare europeo; altri paesi avversano la proposta perché stanno privatizzando il servizio alle torri di controllo; altri ancora hanno privatizzato tutto il trasporto aereo con i suoi servizi, ecc. ecc. L'Unione Europea rimane una giungla di nazioni concorrenti, unita soltanto dalla paura dell'eventuale risposta proletaria alla miseria crescente.

Il corrispondente da Berlino del quotidiano spagnolo Vanguardia fa notare l'impotenza degli Stati, per quanto potenti, di fronte alle esigenze del Capitale (e sembra che anche la Merkel abbia detto qualcosa di simile), e commenta: "La destra utilizza la crisi per imporre il suo programma a livello mondiale; ciò pare condurre a una seconda caduta [dopo il 1929], anche se il suo leader in Europa non è più l'America ma la Germania". Questo sintetico passaggio dall'anti-americanismo all'anti-germanismo non deve niente al caso. Indica che sono iniziate le manovre partigiane che opporranno una parte dell'Europa contro l'altra a favore o contro il paese imperialista egemone nel prossimo scontro bellico. La "questione tedesca" assumerà di nuovo un carattere preminente. Non appena si affacciano venti di rivoluzione in Europa, la Germania, che è la pecora nera del capitalismo mondiale, viene caricata di tutti i peccati del mondo. Data la sua condizione, deve sempre adottare misure estreme per salvaguardare sé stessa, e ciò comporta al suo interno, nello stesso tempo, l'emergere delle condizioni più radicali della rivoluzione. Essa è già stata chiamata in passato a soffocare queste possibilità rivoluzionarie, l'ha fatto in nome della salvaguardia del capitalismo mondiale e ha ricevuto il benservito con una guerra di annientamento. Questa volta sarà più difficile, non solo perché è ancora occupata militarmente, ma perché sta sorgendo in Asia un antagonista con 400 milioni di proletari combattivi, la Cina. E tra qualche anno un altro gigante si presenterà al mondo, l'India, altri 250 milioni. Davvero difficile questa volta isolare lo spettro della rivoluzione in una sola pecora nera.

Rivista n. 28