Marasma sociale e guerra

"Tutti i gruppi sociali il cui reddito è relativamente fisso, come i salariati, i braccianti, i funzionari dello Stato e gli impiegati, hanno subito le conseguenze del diminuito potere d'acquisto. I governi hanno tentato, disciplinando la distribuzione dei generi alimentari, e in certi casi offrendo sussidi per mantenere fisso il livello dei prezzi, di scongiurare vere e proprie carestie. Queste misure tuttavia non sono state sufficientemente vaste od efficaci da opporre un freno al formarsi di grandi ricchezze e all'impoverimento di certe classi. Le agitazioni degli operai, sotto forma di scioperi e dimostrazioni, sono state numerose. Dappertutto, la coscienza delle classi intellettuali si è fatta più sensibile agli appelli della giustizia sociale. Appare chiaro che i problemi sociali destano un interesse quale non si era mai riscontrato, specialmente in Egitto e in Persia e, a meno che non si escogitino misure adeguate per sventare il pericolo, può darsi che queste condizioni diano luogo a più vasti disordini sociali".

Journal of the Royal Central Asian Society, gennaio 1945, citato in: "Crisi del Medio Oriente", Il programma comunista, 1955.

L'attrattore mediterraneo

Non era ancora finita la guerra che, come dimostra la citazione, gli imperialisti inglesi si preoccupavano degli effetti sociali dell'impoverimento della massa di fronte all'arricchimento delle classi dominanti. Del resto se ne intendevano, dato che nelle loro semicolonie mediorientali avevano dovuto affrontare già negli anni '30 del secolo scorso violente lotte sociali esplose per le stesse ragioni. Ma leggiamola bene questa citazione: se togliamo il riferimento all'Egitto e alla Persia essa ha valore universale.

Proprio per questo, anche i nostri compagni tennero d'occhio tutta l'area mediterranea a partire dall'immediato secondo dopoguerra. In fin dei conti sul Mediterraneo insisteva e insiste l'intera Europa, che del Medio Oriente e del Nordafrica fu colonizzatrice, per cui l'importanza geopolitica degli avvenimenti che scombussolano lo statu quo di questa grande area è avvertita in modo particolare. Tanto più oggi, dal momento che brucia ancora la sconfitta epocale dovuta all'ingresso nel Mare nostrum degli Stati Uniti, dopo la vittoria sull'Asse, con una gran quantità di basi aeronavali e con una flotta permanente realizzata allo scopo. A Suez, nel 1956, il nuovo imperialismo delle portaerei paracadutò i suoi marines per neutralizzare l'invasione franco-inglese, e ne risultò spazzato via per sempre il vecchio imperialismo delle cannoniere con le sue velleità neocoloniali. Da allora l'Europa ha cercato di contrapporre un minimo di risposta unitaria al sistema americano, ma l'ha dovuto fare sulla base del Piano Marshall, cioè sulla base del progetto economico che i vincitori della guerra avevano imposto: i prestiti in dollari per la ricostruzione dovevano essere restituiti in dollari, con gli interessi, vale a dire che il proletariato europeo avrebbe dovuto produrre un supplemento di plusvalore al fine di permettere ai vari governi di esportare e procurarsi riserve in quella precisa valuta per ripianare i debiti.

Naturalmente l'imperialismo è fenomeno plurimo, e anche i soggetti minori non possono fare a meno di ricercare comunque zone d'influenza. Così, come in tutti gli schemi geopolitici antichi e recenti, anche i governi e gli stati maggiori dei più importanti paesi imperialistici europei ritennero e ritengono cruciale mantenere una possibilità d'intervento in quest'area, in concorrenza con gli americani. Area nella quale, dal Baltico all'Oceano Indiano e dall'Atlantico al Caspio, la concentrazione di capitale per Kmq abitato è la più alta del mondo. Dalle vecchie metropoli industrial-finanziarie europee ai nuovi paesi costellati di pozzi di petrolio, è operante un centro di gravità potente che attira capitali da tutto il mondo. Ciò ha direttamente a che fare con il maturare delle condizioni rivoluzionarie: la vecchia talpa lavora silenziosamente, ma non appena si solleva il coperchio della pentola in ebollizione ecco che si tocca con mano come ad esempio nella sola Libia, un paese con sei milioni e mezzo di abitanti, lavorino almeno due milioni di salariati provenienti dall'estero e come altri milioni e milioni lavorino in Iraq, Kuwait, Emirati, Arabia Saudita, ecc. Quest'ultimo paese ha trenta milioni di abitanti e occupa ben sei milioni di salariati stranieri. Senza contare la proletarizzazione quasi totale dei cinque milioni di Palestinesi espulsi dalle loro terre. Il Capitale non può fare a meno di rivoluzionare continuamente i propri rapporti interni, e quando agisce in modo concentrato è in grado di espropriare popolazioni intere, strapparle dal loro legame con i miserabili mezzi di produzione, e gettarle sul mercato del lavoro.

A tale contesto si aggiunge la confusione creata dalle non risolte rivoluzioni borghesi. Le mappe "nazionali" del Nordafrica e del vicino Oriente sono state talmente sconvolte dal pesante intervento coloniale, e la presenza di neo e paleo-colonialisti è così persistente (petrolio o meno), che ogni turbamento dello statu quo ha, dal dopoguerra in poi, notevoli effetti globali (cfr. Il terremotato Medio Oriente). Non si tratta solamente degli intrecci di interessi fra paesi imperialisti alleati, concorrenti o decisamente nemici, bensì dei riflessi locali di un assetto globale del mondo capitalistico. Non si spiegherebbe altrimenti l'oggettiva concentrazione delle rivolte sociali nei punti di più dinamica accumulazione, ai quali si va aggiungendo la Cina costiera, che da sola ha il potenziale di subissare tutti gli altri. È in base a queste considerazioni che avevamo visto nelle rivolte urbane scoppiate in Francia i prodromi di quelle che sono sotto i nostri occhi: perché la base da cui scaturiscono moti sociali apparentemente così differenziati è assolutamente unitaria (cfr. Banlieue è il mondo).

Gli Stati Uniti, pur essendo un potente polo di accumulazione, sembrano rappresentare un'eccezione, ma unicamente perché la loro posizione dominante permette un drenaggio di risorse dal resto del mondo. Se l'andamento globale dovesse rimanere quello di oggi, anche negli Stati Uniti dovranno scoppiare rivolte; già il malessere sociale cova in molti stati federati, come dimostra il caso del Wisconsin dove i tagli governativi hanno provocato estese manifestazioni che si sono succedute per settimane. E il Wisconsin, pur essendo un piccolo stato con una superficie pari a metà di quella italiana e sei milioni di abitanti, molto provato dalla de-industrializzazione, non è in una situazione peggiore di quella dei grandi e "ricchi" stati come la Florida e in particolar modo la California, che non sono più nemmeno in grado di pagare gli stipendi ai dipendenti pubblici.

Ma torniamo al contesto mediterraneo e osserviamo una mappa della situazione sociale di questo inizio 2011:

Situazione sociale di inizio 2011

In grigio scuro sono evidenziati i paesi in cui sono scoppiate rivolte urbane contro i regimi polizieschi, parassitari e corrotti, con scontri fra popolazione e stato, ovunque con morti e feriti; in grigio chiaro i paesi d'Europa in cui sono scoppiate recentemente rivolte contro la mancanza di prospettiva, specie per i giovani (ad esempio, vi sono stati scontri in Inghilterra). In altri paesi, come la Turchia, il Sudan o l'Iraq, i vari regimi hanno promesso in via preventiva, per paura e con varie sfumature, riforme economiche e sociali. È essenziale notare che le rivolte esplodono per non importa quale scintilla e si diffondono con generiche richieste di cambiamento, oppure senza neppure queste, come è successo in Francia con l'incendio delle banlieues. Una tale concentrazione di situazioni, in cui è possibile individuare un'invarianza sociale, ridicolizza di per sé la tendenza dei media a considerare ogni episodio come se fosse a sé stante, anche se ovviamente viene fatto il collegamento fra paesi che hanno una situazione interna "analoga", caratterizzata da mancanza di democrazia, inefficienza, corruzione, ecc. Quella che stiamo analizzando è un'onda sismica la cui energia sotterranea è la stessa per tutti i differenti fenomeni di superficie, dove qua crolla un muro, là si apre una voragine e altrove cade una frana.

La grande tradizione di lotta del proletariato egiziano

Entro questo panorama, l'Egitto ha potenzialità sufficienti per sconvolgere gli assetti interimperialistici attuali e influire in modo decisivo sull'intero ciclo delle rivolte, al momento senza sbocchi. È un paese con circa 85 milioni di abitanti (alcuni ipotizzano 100 milioni), che vivono concentratissimi in una stretta fascia di terra abitabile circondata dal deserto. Si tratta di 40.000 chilometri quadrati sul milione complessivo, quindi la densità demografica reale è più di 2.000 abitanti per chilometro quadrato, cinque volte di quella più alta d'Europa (Olanda). La capitale, Il Cairo, ha 15 milioni di abitanti (secondo altri dati 20 milioni). Il 40% della popolazione vive con meno di due dollari al giorno. Ma già nei primi decenni dell'800 c'era un notevole proletariato d'industria che oggi conta 7 milioni di lavoratori. I quali, pur rappresentando solo il 18% degli occupati, producono il 37% del Prodotto Interno Lordo. Alla vigilia della prima grande manifestazione di piazza Tahrir era stato proclamato lo sciopero generale a oltranza, cosa che può essere spiegata solo se il proletariato rappresenta una forza decisiva nella massa. Lo stillicidio di lotte industriali che s'è manifestato in parallelo alle grandi manifestazioni dimostra la mancata saldatura, ma anche il movimento comune, passibile di essere indirizzato dalla classe più forte. Tali lotte stanno continuando mentre scriviamo, anche se il governo provvisorio ha minacciato (e in alcuni casi attuato) una dura repressione.

Bastano i pochi dati riportati per comprendere, all'interno della pax americana, la potenzialità de-stabilizzatrice di questo paese, imperniata sull'apporto di classe che il proletariato ha saputo dare in un passato anche recente, ad esempio nel 1977 e nel 2008, quando scoppiarono rivolte analoghe a quella di oggi, allora sostenute chiaramente da scioperi nelle fabbriche. Che ne sia cosciente o no, il proletariato egiziano è in grado di far saltare l'intero equilibrio del Mediterraneo e del Medio Oriente. L'Egitto è infatti uno dei cardini su cui gravita la politica di stabilizzazione imperialistica, come va sostenendo giustamente il governo di Israele (che vedeva nel sistema poliziesco di Mubarak una garanzia di tale equilibrio). Si capisce bene, quindi, come vi sia stata una globale convergenza di interessi nel suggerire transizioni morbide, affinché il proletariato, rimasto per ora poco attivo, non si muovesse con la sua forza dirompente mettendo in secondo piano la sete interclassista di "occidentalità" e di democrazia.

Se partiamo dal punto di vista della rivoluzione, cioè del movimento reale che abolisce lo stato di cose presente, al di sopra di ciò che dicono i protagonisti di sé stessi e di ciò che vivono al momento, è chiaramente individuabile un movimento generale che cerca faticosamente i punti deboli del sistema globale per far leva e scardinare l'ordine sociale. La cartina lo evidenzia, ma anche singoli borghesi lo stanno avvertendo, così come l'ha avvertito l'esercito. Il quale durante il corso della rivolta ha preso le distanze dall'odiatissima polizia ed evitato di fare mosse false che sarebbero state fatali per quel che restava del regime, in ultimo anche inviando alcuni propri ufficiali a tranquillizzare la massa sempre più minacciosa.

In mancanza di una corrente rivoluzionaria in grado di orientare l'energia sociale, quest'ultima finisce inevitabilmente dissipata. Perciò il sistema in subbuglio è meglio descrivibile con un'analogia di fisica termodinamica che con una di politica sovvertitrice. Di qui l'esito scontato, ma non certo definitivo, del colpo di stato morbido da parte dell'esercito, del superficiale rimpasto nella struttura del potere borghese e della promessa di riforme, tutti passi che garantiranno l'ulteriore sopravvivenza del sistema, un rinnovamento del termostato che lo stabilizza. Finché esso esploderà di nuovo, questo è certo. Infatti, la buona crescita mostrata dall'economia egiziana rispetto alla crisi generale, è stata caratterizzata dal crescente divario fra salari, redditi vari e profitti, e non può avere basi stabili di sviluppo, specie se si pensa che l'andamento demografico ha un impatto devastante su un territorio abitabile così limitato. Sarebbe tuttavia errato immaginare che questi limiti fisici siano prerogativa del solo Egitto: tutto il mondo capitalistico ne soffre, anche se non ha a che fare con l'assedio di sterili deserti, crescita demografica e satrapie particolarmente avide. Il fenomeno ha una sola origine: difetto di accumulazione, vale a dire sovrapproduzione, caduta tendenziale del saggio di profitto, dominio del lavoro morto (macchine, impianti, capitale finanziario) sul lavoro vivo (forza lavoro in atto).

Le difese della borghesia

Non si saprà mai quanti morti ha provocato un mese di scontri con lo stato egiziano. Fossero anche il doppio dei 365 ammessi dal ministro degli interni, sarebbero comunque meno di quelli dovuti a incidenti sul lavoro e a malattie da indigenza ogni mese. La morte sociale non compare mai nelle statistiche della guerra di classe, ma la quotidianità del capitalismo presenta un bilancio ben più tremendo di quello di una rivolta. Il BIT denuncia due milioni di morti all'anno solo per incidenti sul lavoro. E le cause che provocano decine di milioni di altri morti per fame e malattie non sono neutre. Quando è caduta l'URSS vi è stata, all'interno del capitalismo sovietico, una transizione predatoria a cui la popolazione non ha potuto e saputo opporre una lotta conseguente; ebbene, l'assetto successivo ha causato finora almeno 20 milioni di morti. Si tratta di un calcolo propagandistico occidentale basato sulla diminuzione dell'aspettativa di vita, ma è esatto. Anzi, qualcuno sostiene che bisognerebbe aggiungere, alla cifra dei morti, quella dei non nati. Nel macabro bilancio della vita capitalistica, la rivolta paga. La borghesia si difende stabilizzando il proprio sistema, ma nel momento in cui la tensione interna cresce, ogni strumento stabilizzatore salta. Non è sufficiente spiegare le esplosioni sociali con la mancanza di democrazia o simili sciocchezze: miliardi di uomini non si sono ribellati affatto per decenni pur non assaporandone un granello, mentre vi sono state rivolte violentissime nei paesi più democratici.

In generale, democrazia o no, è il disagio sociale che fa da motore alle rivolte, non la miseria in assoluto e neanche lo stato di polizia. Le vecchie società fasciste di Spagna, Portogallo e Grecia saltarono dopo decenni di stabilità perché non erano più in sintonia col capitalismo globalizzato, e le attuali società demo-fasciste di Francia, Inghilterra, Italia, Grecia e Cina fibrillano perché troppo in sintonia. La ricerca dei motivi locali può suggerire la forma e l'intensità dell'innesco, ma non la causa del potenziale esplosivo giunto alla soglia della deflagrazione. Dunque conviene fissare l'attenzione sul centro di gravità del sistema per capire anche i fenomeni di periferia.

I maggiori paesi islamici oggi in fermento, come l'Egitto, la Tunisia, la Libia, la Siria, l'Iran, e anche l'Algeria se si esclude l'ondata di violenza fondamentalista duramente repressa, erano società stabili mediamente da quarant'anni. Carri armati, fucilate, arresti in massa e torture sono buoni deterrenti tradizionali cui esse facevano ricorso senza problemi ben prima che scoppiassero le rivolte, ma non sono le uniche armi di difesa della borghesia in genere. Anche l'intervento dello stato nell'economia, il parallelo utilizzo di ammortizzatori sociali e la martellante propaganda hanno il loro peso. Spionaggio, intercettazioni e disinformazione sono strumenti complementari sempre più importanti in guerra (sia in senso militare che sociale). Per il momento in nessun paese la rivolta ha consentito di scalfire lo stato, anche solo nel senso di impadronirsi di quello che c'è. Ad esempio sono state occupate caserme presidiate dall'esercito, ma nessuno ha pensato di occupare radio e televisione, come pure era successo in Grecia. Forse perché i rivoltosi hanno potuto fare largo uso di importanti veicoli alternativi di comunicazione e perciò di organizzazione di massa.

Prima dei moti in Egitto, si dibatteva, specie su Internet, se potesse funzionare una completa censura sulla Rete. Alcuni sostenevano che sarebbe stato sufficiente "staccare la spina". Noi eravamo piuttosto scettici non tanto per una questione tecnica quanto per il fatto che la totalità delle transizioni industriali e finanziarie avviene per via telematica, telefonia fissa e mobile, Internet. Quindi da un blackout totale verrebbero bloccati anche l'amministrazione pubblica e una gran quantità di altri servizi. Ovviamente occorre far la tara dell'alone mistico che pervade la rete quando si parla di democrazia diretta, partecipazione attiva per la libertà e la giustizia, tutte categorie senza significato empirico. È vero che i simpatici hackers ne sanno una più del diavolo, ma i governi, dopo ogni attacco, ne sanno una più di loro. Anche perché non bisogna dimenticare che i migliori hackers lavorano in proprio nella prospettiva di poter lavorare per la "sicurezza" di governi, banche, industrie, ecc. Ogni arma può essere puntata in direzioni opposte. Internet è uno strumento che anticipa caratteri della società futura, ma nello stesso tempo, proprio per questo, diventa essenziale terreno di guerra antiproletaria per ogni borghesia.

Comunque sia, gli stati hanno dimostrato, contro le rivolte, che il blocco telematico totale è possibile. Per la prima volta al mondo in un paese importante come l'Egitto sono state spente le strutture nazionali di Internet, della telefonia fissa e di quella mobile. Per soprammercato sono stati bloccati anche i treni e gli autobus. Un auto-sciopero-generale pazzesco. L'intera economia difatti è risultata congelata (come avevamo ipotizzato). Istituti borghesi dediti al calcolo dell'indice di affidabilità delle varie economie nazionali hanno già fatto i conti in tasca al nuovo governo gestito dai militari: tenendo conto anche dei tempi futuri di recupero, se ne sarebbe andato in fumo almeno il 10% del PIL. Il terrore della borghesia egiziana per la rivolta ha prodotto un magnifico risultato con effetti pratici niente male dal punto di vista degli insegnamenti per i rivoltosi: senza la realizzazione di reti alternative, come quelle militari, il blocco totale delle comunicazioni è possibile; ma non si potranno mai congelare le comunicazioni per diversi giorni senza devastare l'economia. Ci vuol poco a immaginare l'effetto amplificato di uno sciopero generale proletario indetto contemporaneamente al blocco governativo delle comunicazioni. Per la borghesia sarebbe un disastro. Perciò gli occhi di tutti gli sbirri del mondo sono certamente puntati su questo esperimento. Di grande interesse anche per ogni rivoluzionario. Sembra comunque che gli egiziani siano riusciti a comunicare e a muoversi lo stesso, tanto che nei diciotto giorni di mobilitazione, la partecipazione alle manifestazioni è andata in crescendo.

Chi c'è dietro ai rivoltosi?

Domanda fatidica di chi non crede alla potenza della lotta di classe, non crede che essa sia un fatto perenne e la vede solo a intermittenza, quando si ingrandiscono i titoli sui giornali. La borghesia ha un'intelligenza storica che costoro non hanno e si muove in anticipo, prima che la lotta di classe diventi pericolosa. Il Mossad, cioè il servizio segreto israeliano, esprimeva la propria preoccupazione per l'attività americana in sostegno dei rivoltosi. Per quanto riguarda l'Egitto, Israele si fidava più di Mubarak che degli americani a proposito della stabilità al suo confine meridionale, ma questa volta non si trattava solo dell'interminabile guerra di Israele contro gli arabi. L'Egitto stava diventando una bomba sociale. Si capisce dunque perché alcuni giovani rappresentanti del movimento di protesta egiziano fossero stati contattati dalla CIA già un paio di anni fa, al tempo degli scioperi generali. Almeno uno sarebbe stato scoperto dai servizi egiziani e arrestato. Se fosse credibile la dietrologia, l'intera storia della mobilitazione contro il disagio sociale (o la tirannia, o la fame) sarebbe una favola. La rivolta avrebbe avuto dei burattinai occulti che muovevano i fili delle masse popolari. Sarebbe stato pronto un leader da tirar fuori al momento opportuno, qualche notabile in esilio, come in Iraq.

Crediamo che le "rivelazioni" del Mossad possano essere veritiere. Nei panni degli americani chiunque farebbe esattamente la stessa cosa. Niente funziona meglio, per rivitalizzare una stabilità compromessa, del gattopardesco "cambiare tutto affinché nulla cambi". Per giunta col plebiscito popolare. Dunque i successori militari del militare Mubarak hanno coscientemente aspettato il momento favorevole per presentarsi al popolo come la soluzione dei problemi. E naturalmente i dollari aiutano. Persino la Fratellanza Musulmana ha aderito al programma di transizione pacifica, e al momento nessun leader carismatico è stato espresso dalla massa in rivolta. L'occidentalizzatissimo El Baradei e il suo entourage ci hanno provato, ma sono rimasti isolati. Anche in questo caso chi volesse adagiarsi su di una comoda dietrologia avrebbe buoni argomenti: El Baradei è colui che ha smontato la teoria delle armi di distruzione di massa in mano a Saddam Hussein e ha provato che l'Iran per adesso non può realizzare la bomba atomica. Gli americani non lo amano affatto, ovvio che gli mettano i bastoni fra le ruote. Tra le teorie dietrologiche in circolazione sui presunti manovratori delle rivolte vale la pena di citare quella "del calendario", così chiamata perché proprio sul web sono stati proclamati "flashmob della collera" in giorni prefissati, eventi di massa che poi hanno avuto realmente successo. Quale potenza occulta stava dietro al calendario? Come se non ci fosse materia sociale esplosiva a sufficienza in questo mondo.

A parte qualche venatura romanzesca, i fatti reali che stanno alla base della dietrologia odierna del burattinaio non ci stupiscono neanche un po'. Lenin e Parvus, che misero in moto tutte le loro energie per l'operazione atta ad ottenere il famoso treno blindato, ebbero l'attivo sostegno del ministro degli esteri tedesco tramite il generale Ludendorff. L'abilissimo burattinaio Izrael Lazarevich Parvus seppe muovere utili fili di alto livello. Ora, la Germania era nemica della Russia e Lenin fu accusato di intelligenza col nemico in tempo di guerra, capo d'accusa che, in situazioni normali, avrebbe comportato la fucilazione. Ma la situazione non era affatto normale e Lenin, appena rientrato in Russia, auspicò l'inizio della lotta rivoluzionaria mondiale. Lo scopo dei tedeschi era quello di chiudere il lunghissimo fronte orientale per cercare di vincere la guerra su quello occidentale e meridionale, mentre quello dei bolscevichi era di prendere in mano le sorti della rivoluzione per trasformare la guerra imperialistica in guerra civile e così vincere tutte le borghesie. In Egitto non c'è stata alcuna rivoluzione, è ovvio. Ma se ci fosse stata e se l'elemento decisivo fosse stato un treno blindato americano, si può essere certi che un Lenin egiziano non l'avrebbe perso di sicuro. Stando le cose come stanno, il treno l'hanno preparato solo gli americani e il "popolo" si farà trasportare sui binari prefissati.

Ciò non toglie nulla al significato profondo dell'ondata di sollevazioni, che non è solo di oggi ma sta scuotendo il mondo da qualche anno a questa parte. E il nostro discorso vale per tutti i paesi al momento raffigurati sulla cartina che abbiamo presentato, specie per l'Iran la cui popolazione urbana è già scesa in piazza con ripetuti tentativi di rivolta. Dalla Tunisia e dall'Egitto questa si è estesa ad altri paesi e le manifestazioni continuano, le agenzie annunciano altri morti, feriti, arresti. Sommosse sono ancora segnalate in Giordania, Yemen e Sudan. In Siria sono già più di cento i morti nonostante la promessa preventiva di riforme radicali. Persino in Oman, paese più vasto dell'Italia con soli tre milioni di abitanti apparentemente tranquilli, si segnalano scontri con morti e feriti. Nel piccolo Bahrein (700.000 abitanti) sono sbarcati mezzi blindati dell'Arabia Saudita e forze armate degli Emirati per sedare la rivolta. In alcune città della Libia la rivolta si è trasformata in insurrezione e la repressione inevitabile ha portato alla guerra civile e all'intervento straniero. La Turchia, che sta mediando per gli altri paesi, non riesce a controllare del tutto la propria popolazione e specialmente il forte proletariato turco. Non esistono misteriosi infiltrati di potenti servizi imperialistici che possano "creare" e scatenare un'ondata sismica del genere. Ogni rivolta particolare è un piccolo tassello della rivoluzione incessante, qualunque sia il risultato locale raggiunto. E le rivoluzioni hanno sempre marciato da sé, hanno sempre utilizzato chi credeva di utilizzarle.

Effetti collaterali

Non c'erano cartelli "politici" nelle piazze d'Egitto gremite di "popolo", e l'Islam era solo in sottofondo. Le richieste erano elementari: via il dittatore corrotto soprattutto, ma questa non era che una conseguenza, un riassunto di bisogni a monte, come quello dei prezzi calmierati di pane, latte, zucchero, trasporti, servizi. Non c'erano gli onnipresenti appelli contro Israele e gli imperialisti americani, o a favore della Palestina, marchio obbligato di ogni protesta araba. Senza proclami altisonanti, le rivolte in Medio Oriente e in Nordafrica stanno sconvolgendo quella parte del pianeta. Dietro le quinte, non sono solo attivi gli americani, anche i combattenti palestinesi si mobilitano tentando di alleggerire la pressione sui loro traffici vitali. Hamas ha inviato alcuni suoi gruppi armati nel Sinai settentrionale per saggiare la consistenza del pattugliamento militare egiziano di confine. Tribù beduine alleate dei palestinesi hanno attaccato alcune località di frontiera saccheggiando i negozi egiziani armi alla mano e scontrandosi con reparti del Cairo. Scontri fra soldati egiziani e gruppi armati di Hamas sono avvenuti anche nel Sinai meridionale, presso El Arish e Rafah. Può darsi che Hamas tenti di approfittare della situazione per riprendere il controllo del confine tra Gaza e l'Egitto, dove il traffico un tempo intensissimo di merci consentite e illegali era ormai contrastato troppo efficacemente da Egitto e Israele. E, secondo Gerusalemme, anche la Fratellanza Musulmana sarebbe molto attiva nella ripresa dei collegamenti nella zona, addirittura con un rinsaldato rapporto con Damasco. Persino i saccheggi ai musei e ai siti archeologici mostrano quanto possa precipitare la situazione, quanto sia precario l'equilibrio pluridecennale basato su sostegni, accordi e alleanze scaturiti per le esclusive esigenze dei paesi imperialisti e dei loro servizievoli clienti locali.

È naturale, ad esempio, che l'equilibrio garantito dal trattato del 1979 fra Egitto e Israele sia perlomeno in discussione. Nel punto più sensibile del dispiegamento sul terreno, il confine con Gaza, la Forza Multinazionale degli Osservatori (in gran parte americani e canadesi) è in allerta rossa e quindi pronta per ogni evenienza, compresa l'evacuazione veloce. Può darsi persino che Washington utilizzi questo momento di passaggio per far pressione su Israele dopo il suo atteggiamento negativo sul problema degli insediamenti. Per rintuzzare i piccoli attacchi di Hamas contro le proprie truppe, l'esercito egiziano, senza avvisare Israele, ha attraversato il canale con un numero sproporzionato di carri armati, violando il Trattato che dal 1979 prevedeva un Sinai smilitarizzato.

Sul fronte interno, gli "effetti collaterali" della grande rivolta hanno prodotto l'affinamento organizzativo di alcuni nodi della rete logistica o perlomeno informativa. Fallito il tentativo di organizzazione da parte di notabili come El Baradei, non vi sono stati altri raggruppamenti politici in grado di emergere, ma s'è rafforzata ad esempio la "Rete 6 aprile". Considerata un network giovanile senza troppo peso politico, ha contribuito massicciamente alla logistica delle manifestazioni e ha potenziato i propri nodi, che collegano decine di migliaia di persone.

La cosa più interessante è che la data del "6 aprile" da cui prende il nome tale movimento è quella di un durissimo sciopero generale partito due anni fa dalle fabbriche tessili, metallurgiche e cementiere, le stesse che diedero fuoco alle polveri nel 1977. E nelle stesse città, specie Mahalla, ma anche Heluan, dove è concentrata l'industria dell'acciaio. Mahalla è una città industriale con mezzo milione di abitanti. Heluan è un ex sobborgo del Cairo diventato municipalità. Ha 700.000 abitanti in gran parte proletari. Sono città-paradigma dell'Egitto: capitalismo industrial-finanziario che vive come un vampiro sul proletariato. È interessante notare il fatto che, nonostante tutto, il divario egiziano tra i redditi (indice di Gini) è uguale a quello dell'Inghilterra e della Svizzera. Ciò significa che un forte proletariato, pur con salari bassi, alza la media dei redditi e attenua l'effetto estremo che invece è ben presente in quei paesi dove ci sono moltitudini di miserabili che muoiono di fame e minoranze ultra ristrette di parassiti ricchissimi (anche se spesso solo in confronto alla miseria estesa). Una razionalizzazione della società egiziana potrebbe elevare questo potenziale, cioè portare alla ulteriore proletarizzazione dei contadini e del sottoproletariato. Su questa base sociale durante la rivolta è nata una rete di sindacati indipendenti che si è data uno statuto unitario e un coordinamento, al quale il governo ha risposto applicando in funzione antisciopero le severissime leggi varate durante la rivolta "contro lo sciacallaggio criminale".

Egitto e Wisconsin

Confrontando media diversi si possono distillare i fatti e scartare le opinioni, ma le migliaia di fotografie e filmati valgono nell'insieme come insostituibili documenti. La prima ondata di immagini e video mostrava folle eterogenee, con gruppi di donne che emettevano il tradizionale grido di battaglia modulato dalla lingua, e molti bambini, in genere sulle spalle degli adulti con bandiera o ritratto di Mubarak "annullato". Nelle immagini delle manifestazioni centrali, con duri scontri contro polizia e sostenitori del regime, non comparivano che uomini e ragazzi. La densità delle pietre che volavano e di quelle che coprivano l'asfalto testimoniava l'estrema violenza delle battaglie. Nelle immagini delle oceaniche manifestazioni finali, donne e bambini erano di nuovo presenti in gran numero. In tutte le fasi si vedevano anche i mullah di Al-Azhar, attivi e riconoscibili dalla loro "divisa", una tonaca bruna. La millenaria università-moschea da cui irradia l'ortodossia islamica si era dunque impegnata nella lotta. Il che potrebbe significare una sovrapposizione della tradizione musulmana antica al moderno integralismo, specie quello della Fratellanza, con scopi ammortizzatori, ma potrebbe nel contempo significare che l'Islam ufficiale toglie il suo appoggio ai regimi dissipativi che affamano la popolazione e scaricano sulla rete assistenziale religiosa i bisogni essenziali della massa dei poverissimi.

Manifestazione al Cairo

In una bellissima fotografia scattata durante una manifestazione al Cairo, un giovane mostra un cartello che esprime solidarietà fra Egitto e Wisconsin. Il "W" è comune con la parola "Workers" e di fianco si legge la scritta: "Un mondo, una sofferenza". Anche se si tratta certamente di una iniziativa individuale dal sapore vagamente sessantottesco, il significato è di una robusta valenza simbolica. Per quanto riguarda il futuro, anche se le manifestazioni e gli scioperi sono tuttora in corso, l'esito è scontato: in Iran nel 1979 le masse urbane si sfiancarono in una manifestazione continua ma, senza guida, furono brutalmente represse. La piccola borghesia democratica non poté approfittare dell'abbattimento dello Scià per insipienza totale. Vinse il pretume nero che era l'unica forza già organizzata. Appoggiandosi bonapartisticamente alla massa contadina ebbe il suo 18 Brumaio. In Egitto l'apparato militare che sostiene il governo provvisorio ha già mostrato quale sarà la tabella di marcia dando corso al referendum costituzionale, preludio a una sanzione dal basso di ciò che sarà deciso dall'alto.

Oggi il mondo borghese trema per la paura di una guerra civile internazionale nelle zone del mondo che si stanno surriscaldando. L'Egitto è troppo importante per lasciare che manifestazioni di massa condizionino i disegni imperialistici. Certamente Washington e Gerusalemme, pur colte di sorpresa, hanno già i piani a, b, c, insomma, tutti quelli che occorrono. L'Europa, per quanto inesistente, ha in questo caso gli stessi interessi, come bovinamente va ripetendo Frattini. Di qui l'unità internazionale oggettivamente contro gli egiziani e tutti i rivoltosi che oggi scendono in piazza sfidando i proiettili. Tuttavia, anche se i giochi sembrano fatti, non s'è ancora espresso il proletariato, non almeno con l'intensità del '77 in Egitto. La legge anti-sciopero potrebbe sortire l'effetto opposto a quello cercato, anche se è difficile immaginare una ripresa delle lotte con l'intensità vista nelle settimane scorse. La borghesia alternativa dei notabili che hanno cercato di infilarsi alla testa del movimento è troppo vile, e sicuramente non è organizzata e tantomeno armata. Come al solito diventa arbitro l'esercito, l'unica forza in grado di arginare sia i proletari che gli islamici, i quali comunque sono stati chiamati al tavolo costituzionale con i militari e i rappresentanti del non disciolto partito di Mubarak. Lo slogan di "morte al tiranno" è normale che sia utilizzato per cementare le masse, anche se siamo fuori tempo: dopo Luigi XVI ci fu il Terrore, mentre oggi, in tutto l'arco dei paesi in rivolta, l'unica speranza popolare espressa è la democrazia ultra-mistificatrice dei nostri tempi, forma assai più funzionale della tirannia.

Risvolti politico-sociali

Il tempo delle semplici jacqueries è tramontato. Quando si muovono masse di milioni di uomini in contesto urbano moderno si presenta prepotentemente sulla scena un connotato proletario. In Egitto e negli altri paesi è stato evidentissimo, anche se la protesta proletaria non ha potuto influenzare l'intero movimento ed è stata costretta a manifestarsi in azioni parallele e distinte. Ciò è normale. Sulla nostra stampa notammo in passato come le ultime rivoluzioni nazionali borghesi (Congo, Algeria, Angola, Mozambico), avessero carattere urbano e fossero improntate a metodi proletari più che contadini (scioperi generali ecc.). E questo nonostante i dati economici e demografici fossero all'epoca ancora da "questione agraria". Nel 1979 la rivolta contro lo Scià in Iran ebbe un'impronta decisamente proletaria e noi producemmo con alcuni esuli iraniani un opuscolo contro la concezione piccolo-borghese che auspicava una rivoluzione a tappe (prima la democrazia parlamentare poi il socialismo). Teniamo presente che in Iran nel '79 erano riemerse memorie storiche della piccola, effimera Repubblica Socialista Sovietica di Persia del 1920, e che molti organismi spontanei proletari erano stati chiamati "soviet".

Tale è dunque il contesto dei 18 giorni della rivolta egiziana, che qui abbiamo preso un po' a paradigma di ciò che sta succedendo in tutta l'area. Nella mattinata del 13° giorno di agitazioni, s'era raccolta per la seconda volta, sia al Cairo che ad Alessandria, una massa di rivoltosi che Al-Jazeera stimava a un milione di persone per città, e questo in risposta soprattutto agli attacchi dei filogovernativi che avevano provocato morti e feriti ("domenica dei martiri"), ma anche in risposta alla concomitante prospettiva di un comitato di unità nazionale che avrebbe dovuto rappresentare l'alternativa di governo. Nella capitale l'odiata polizia s'era defilata, probabilmente per ordine dell'esercito, il quale non si era ancora schierato ufficialmente (e strumentalmente) con la popolazione, come avrebbe fatto nei giorni successivi. A questo tipico vuoto di potere la piazza aveva risposto con forza. In molte città aveva incendiato i simboli dello Stato, cioè gli uffici governativi, le sedi del partito mubarakiano e tutte le stazioni di polizia, dalle quali erano state prelevate almeno 20.000 armi con le relative munizioni (Limes, The Economist). Particolare che fa sorgere qualche domanda. Ad esempio: Suez e Port Said, città con circa mezzo milione di abitanti ciascuna e lontane dai luoghi del potere centrale, secondo le cronache erano state conquistate completamente dai rivoltosi, che avevano insediato il loro quartier generale nei palazzi governativi devastati. La polizia era stata evacuata. Per non aumentare la tensione, come recitava la versione ufficiale, o a causa di rapporti di forza militari? E con quali conseguenze?

Nel giorno della spallata finale, il "venerdì della sfida", avevano manifestato 20 o 30 milioni di persone in tutto l'Egitto mentre gli scioperi proletari raggiungevano l'apice, rendendo ormai chiaro che, qualunque fosse l'esito delle rivolte, il loro significato trascendeva i confini politici delle "nazioni". Era la prova che non si trattava di un semplice "effetto domino" ma di un accumulo di tensione entro il fenomeno generale della tettonica rivoluzionaria. L'effetto politico-sociale di un'ondata che ha coinvolto un'area così vasta e con problemi così omogenei nonostante le particolarità locali, non può essere paragonato a quello di un terremoto, come hanno scritto i giornali, ma a quello dell'energia che si accumula prima di un terremoto.

La guerra in Libia

Quando Gheddafi andò al potere, la Libia aveva 1,6 milioni di abitanti, più o meno quanti ne ha adesso l'area di Torino e cintura. Nonostante abbia quadruplicato gli abitanti, rimane un paese deserto con la popolazione concentrata nelle aree urbane. La sua storia ci aiuta a capire la guerra presente, e la si può tratteggiare molto velocemente perché non ha dato luogo a un vero assetto storico nazionale. Come e forse più di tanti altri paesi che hanno attraversato l'esperienza coloniale, la Libia subisce il retaggio di confini e assemblaggi etnici arbitrari. La sua storia antica vide l'impianto di colonie egizie, puniche, greche, romane, vandale e bizantine. Il mondo romano-bizantino era già decaduto quando sulle sue rovine, nel VII secolo, arrivò la prima ondata islamica sotto il califfato Omayyade. Dopo aver fatto parte di tutti gli avvicendamenti legati alla storia araba, la Libia passò sotto il controllo dell'Impero Ottomano e infine fu invasa dall'Italia nel 1911 diventandone di fatto colonia fino alla Seconda Guerra Mondiale. Dopo il 1945 vi si stabilì un controllo amministrativo anglo-francese (Cirenaica-Fezzan) e nel 1949 il Nord divenne un emirato indipendente. L'anno successivo, col beneplacito dell'ONU, un'assembla delle tribù proclamò lo Stato nazionale unificando tutto il territorio sotto una monarchia costituzionale. All'inizio degli anni '50 sia l'Inghilterra che gli Stati Uniti "ottennero" la concessione per costruire basi aeronavali e, nel 1956, le prime basi petrolifere. Nel 1959 la Libia divenne un paese esportatore di petrolio ed entro il 1961 aveva già una buona rete di oleodotti. Il petrolio libico è di ottima qualità e nel 1969 la produzione raggiunse la cifra strepitosa di 3 milioni di barili al giorno.

In pochissimi anni un popolo di pastori poveri era diventato uno dei più ricchi del mondo. O meglio: era diventata ricca una piccola parte della popolazione, mentre le condizioni dell'altra restavano le stesse. Ma i petrodollari finivano soprattutto alle compagnie petrolifere e alle banche anglo-americane, cosa che la borghesia nazionale, come del resto era già successo altrove, non poteva tollerare. I giovani ufficiali dell'esercito si fecero interpreti sia del malcontento popolare che delle esigenze borghesi e organizzarono un colpo di stato. All'età di 28 anni Gheddafi fu proclamato capo di un governo che nazionalizzò immediatamente la produzione petrolifera e le banche, ordinando a tutti i militari stranieri di lasciare le basi e il paese. Sulla base di un programma socialisteggiante, nel senso che evocava il comunitarismo della famiglia allargata beduina, il governo tentò di realizzare l'unificazione di Libia, Tunisia, Egitto e Sudan, programma che ovviamente nessuno prese sul serio. Nel frattempo la produzione crollava a un terzo di quella del '69 e lì rimase, sia perché dopo la guerra del Kippur vi fu il noto embargo petrolifero cui la Libia aderì subito, accompagnando la decisione con l'aiuto ai combattenti palestinesi e ad altri movimenti armati, sia per un più oculato utilizzo dei giacimenti. Diventata agli occhi occidentali nazione-canaglia, la Libia fu colpita da un embargo unilaterale da parte di Washington (1982), cui seguirono il primo tentativo di assassinare Gheddafi (1984) e bombardamenti su Tripoli e Bengasi (1986) con lo stesso obiettivo (morì invece una delle figlie).

Nel 1987 la Libia fu accusata di aver abbattuto un aereo di linea francese sul Sahara e l'anno successivo uno americano sulla Scozia. Di conseguenza l'embargo fu sancito dall'ONU. Dopo alcuni anni il governo libico incominciò un lento lavoro di alleggerimento della propria situazione internazionale facendo perno sulla distruzione di armi chimiche e sull'abiura del terrorismo. Nello stesso tempo la produzione petrolifera fu portata a 2 milioni di barili. Di conseguenza, nel 2004, l'ONU tolse l'embargo e la Libia fu invitata al summit di Lisbona tra EU e paesi africani. Gheddafi in persona, destreggiandosi fra le diplomazie, riuscì a strappare come segno di buona volontà la promessa di ospitare a Tripoli il summit del 2010, incontro che poi ebbe effettivamente luogo, naturalmente quando Washington ebbe dato il suo permesso inviando in visita ufficiale il segretario di stato, carica allora ricoperta da Condoleezza Rice.

Non ci interessa ovviamente commentare gli atteggiamenti poco ortodossi di un Gheddafi, ma certo egli non ha capito che la guerra con gli Stati Uniti è sempre all'ultimo sangue e che non è sufficiente qualche trucchetto per salvarsi la pelle. Non appena l'ondata di rivolta ha coinvolto la Libia, c'è da star sicuri che in qualche base americana del Mediterraneo i cacciabombardieri hanno incominciato a scaldare i motori. Londra, per simbiosi wasp, ha subito preparato una missione di 007 da sbarco per contattare i rivoltosi che però hanno rimandato gli spioni al mittente con preghiera di non compromettere la sovranità del governo provvisorio e quella nazionale. Parigi, con tipico scatto francese, di quelli ridicolizzati da Marx al tempo delle flotte concorrenti, ha unilateralmente bombardato i carri armati libici, forse nel timore che potessero infrangere la no fly zone, cioè prendere il volo. A Roma si è provato a temporeggiare, ma un'opportuna convocazione all'ambasciata americana ha subito messo le cose a posto.

Da quel momento in poi gli eventi si sono svolti come da manuale: una feroce compellenza ha obbligato le truppe governative ad attaccare gli insorti prima che ricevessero armi e aiuti umanitari sotto forma di missili e bombardieri. Così Washington ha preso due piccioni con una fava: da una parte ha giustificato l'intervento armato per fermare i massacratori; dall'altra ha permesso il massacro per obbligare i massacrati a chiedere aiuto e a non fare troppo gli schizzinosi con le interferenze anglo-americane nelle cose interne della Libia. Noi non crediamo affatto che si possano programmare i piani di volo automatico di 150 missili cruise in 24 ore per inviarli ognuno su un bersaglio diverso. Erano già pronti da un pezzo.

L'ossimoro maledetto

Guerra "umanitaria", ci risiamo. Mentre in Egitto l'esercito si è fatto garante di una transizione "indolore" , cioè di una riproposizione edulcorata del vecchio regime, in Libia ciò non è stato preso nemmeno in considerazione, né dall'esercito stesso né tantomeno dagli interessati salvatori umanitari. Il perché è chiaro: l'Egitto è troppo importante ed era assolutamente necessario fermare la rivolta prima che si saldasse con gli scioperi proletari come era successo nel 1977; in Libia si poteva invece intervenire con alta possibilità di successo, costo militare assai contenuto e un bisogno limitato di propaganda bellica, dato che Gheddafi era già abbastanza bruciato sul piano della società dello spettacolo. Infatti, noti rappresentanti della santa opinione pubblica, pacifisti quando fa comodo, sono di nuovo diventati interventisti contro l'antipatico dittatore. Con il criterio oscillante di costoro bisognerebbe bombardare mezzo mondo. Sono democratici, purché non vincano le elezioni partiti che urtano la loro sensibilità, nel qual caso sono disposti a passare sopra ai principii, come in Algeria o in Iran. Al solito, le colombe di ieri diventano falchi e viceversa. Siamo nella normalità.

Questa volta si bombarda con l'approvazione dell'ONU, tanto per chiarire che, permesso ufficiale o no, si bombarda comunque. Ma non è questo il problema. Il comando è assunto dalla NATO, il che vuol dire di fatto e di principio da Washington. Il comandante supremo dell'organismo militare è infatti un generale americano; il comando navale mediterraneo dipende da un ammiraglio americano e la componente aerea della marina da un generale, sempre americano; il comando delle operazioni in Libia è stato affidato a un generale canadese che però dipende dall'ammiraglio americano. Per il resto i politici designati da 28 paesi fingono di partecipare alla missione libica, e dal punto di vista militare sono ovviamente solo un intralcio.

La risoluzione dell'ONU è scritta in modo da non dire niente. Prevede una zona di esclusione del volo e azioni atte a salvaguardare l'incolumità dei civili. Siccome i carri armati non volano, ha ragione Sarkozy quando li bombarda per evitare che vadano a cannoneggiare i ribelli. In pratica la missione anti-Gheddafi prevede una zona di esclusione non del volo ma di qualsiasi movimento delle truppe di Tripoli. Ora, queste ultime non potranno reggere a lungo se faranno volare gli aerei o marciare i carri armati sotto il tiro al bersaglio del nemico. Quindi adotteranno un'altra tattica, che sarà quella di disperdere i soldati in piccoli reparti e riprendere le città principali oppure, al limite, trincerarsi a Tripoli, che è una grande città con più di un milione di abitanti. I lealisti non incontreranno nessuna temibile resistenza, dato che i ribelli non hanno organizzazione armata di nessun tipo. Di fronte a un arroccamento del nemico a Tripoli, pronto a una guerriglia urbana di tipo libanese, la missione dall'alto non servirà più a niente, perciò qualcuno dovrà inviare i soliti fantaccini a controllare il territorio, come tutte le guerre di questo genere insegnano. Una possibile tattica delle truppe fedeli a Gheddafi diventerebbe così strategia. E le truppe della coalizione, per simmetria, dovrebbero cambiare la propria, dato che la guerra di fanti in ambiente urbano sarebbe un incubo.

Evidentemente i generali americani auspicano un veloce collasso di quel che resta dell'apparato militare libico, ma ove ciò non accadesse, bisognerà inviare truppe a terra e sarà la terza guerra contro un paese islamico dopo l'Afghanistan e l'Iraq. E se anche in qualche altro paese, ad esempio la Siria, dovesse prendere piede una rivolta decisiva, che faranno i paladini delle guerre umanitarie? L'ossimoro sta già mostrando troppi limiti e l'ondata sismica sta già globalizzando i conflitti, che da sociali si tramutano assai velocemente in militari. Oltre al citato intervento saudita in Bahrein, un altro fatto di rilevanza internazionale, poco pubblicizzato, merita attenzione: gli israeliani hanno intercettato nel Mediterraneo orientale una nave tedesca battente bandiera liberiana, proveniente dalla Siria, transitata dalla Turchia e carica di armi, missili e sistemi d'arma (inglesi) presumibilmente inviati dall'Iran e diretti ad Alessandria. Per chi erano? La Turchia ha subito intensificato i controlli nei porti e negli aeroporti. L'Iran ha smentito. Israele suppone che fossero per i Palestinesi, ma da Teheran hanno subito ironizzato sul fatto che solo un pazzo potrebbe pensare di inviare una tale quantità e qualità di armamenti per nave in una zona così calda, dato che le coste di Israele e di Gaza sono le più pattugliate del mondo (fonte: Peace reporter; foto: shippingonline.it, 16-3-2011).

L'incognita siriana

È difficile scrivere di avvenimenti in corso su di una rivista che esce ogni qualche mese ma, pur sapendo che potremmo essere corretti dai fatti, non possiamo evitare di valutare il potenziale sviluppo della situazione. L'onda sismica ha ormai coinvolto pesantemente, con manifestazioni e violente repressioni (150 morti) un altro paese importante, la Siria (23 milioni di abitanti). Se l'Egitto è il perno storico attorno a cui può gravitare il futuro di tutta l'area, la Siria è il perno strategico attorno al quale è gravitata la storia delle relazioni fra stati in Medio Oriente negli ultimi quarant'anni. Alcuni suoi territori sono ancora occupati da Israele (che vi ha impiantato insediamenti ebraici per 20.000 coloni), e non è mai stato siglato un trattato di pace tra i due paesi. Da tempo immemorabile essa gestisce spregiudicatamente, in modo diretto o con pressioni indirette, tutte le organizzazioni palestinesi. Ha un contatto privilegiato con Hamas e con Hezbollah, che si estende da una parte al governo di Gaza e dall'altra al governo dell'Iran. Ha un peso notevole nelle questioni interne del Libano. È ancora considerata "stato canaglia" dagli Stati Uniti. Ha infine una situazione interna la cui solidità sembrerebbe garantita dal perenne stato di emergenza e dal controllo poliziesco, anche se, come si sta vedendo, poggia sulla fragilità intrinseca del gruppo dirigente, che è di etnia alauita (di fede sciita), una minoranza del 10% circa entro la popolazione siriana.

Il governo di Damasco ha una pluridecennale tradizione repressiva. La Fratellanza musulmana è stata praticamente annientata in una campagna militare che ebbe il suo culmine nel soffocamento di una rivolta della città di Hama stroncata nel sangue (febbraio 1982, 38.000 morti, i superstiti deportati e la città rasa al suolo con i bulldozer). È noto, inoltre, che la Siria ha sempre represso brutalmente, spesso con le armi, ogni aspirazione palestinese all'autonomia politica e militare, provocando più morti dell'intera guerra con Israele. La capacità repressiva deve però oggi fare i conti con la diversa situazione interna e internazionale, quindi il governo è in bilico fra una repressione che rischia di diventare peggiore di quelle del passato e un cambiamento radicale che però è quasi impossibile improvvisare.

Questa situazione, insieme al contesto generale, deve ovviamente essere tenuta in conto dalla nuova strategia in Libia, se questa volgerà verso la soluzione dell'impegno militare a terra. L'appoggio della Lega Araba verrebbe senz'altro meno in caso di contenzioso con Damasco (e comunque anche oggi solo Qatar ed Emirati hanno dato un simbolico contributo materiale alla coalizione anti-Gheddafi). Secondo gli israeliani, in caso di rivolta decisiva il governo di Damasco non potrebbe contare sull'esercito, a stragrande maggioranza sunnita come la popolazione, e quindi sarebbe obbligato a percorrrere la stessa strada del Bahrein, cioè chiamare rinforzi da un paese compiacente, in questo caso l'Iran. L'eventualità non è completamente campata in aria: Teheran non potrebbe permettere il crollo dei delicatissimi equilibri locali. In effetti la collaborazione militare tra i due paesi è già abbastanza stretta, un comando militare iraniano è stanziato presso lo Stato Maggiore siriano a Damasco e la flotta iraniana ha recentemente ottenuto di poter attrezzare una sua base nel porto siriano di Latakia. Inoltre, a proposito di internazionalizzazione dei conflitti, è certo che un intervento di Teheran negli affari interni siriani provocherebbe conseguenze rispetto ai legami con Hezbollah in Libano, con le organizzazioni palestinesi che hanno sede in Siria, specie quella controllata direttamente da Damasco, cioè il Fronte Popolare di Liberazione Palestinese - Comando Generale di Jibril; infine con le milizie di Moqtada Sadr il quale, lasciato l'Iraq, è in "fraterna" relazione sia con Hezbollah che con il governo siriano.

È bene ricordare: siamo nell'era della "guerra infinita"

Il numero 11 di questa rivista era una monografia di 128 pagine su quella che in base agli eventi in corso e alle spiegazioni dei medesimi da parte del governo di Washington, avevamo chiamato "politiguerra americana". Sembrava che le guerre d'Afghanistan e d'Iraq fossero al termine e che la parola sarebbe passata, almeno in quelle aree, dalle bombe all'edificazione del "Nuovo secolo americano" secondo i dettami dei neo-conservatori; ma insistemmo sul fatto che storicamente andava sfumando il confine fra tempi di pace e tempi di guerra, come del resto aveva già incominciato a dimostrare la cosiddetta Guerra Fredda. In effetti era stata caldissima, aveva provocato più vittime delle due Guerre Mondiali messe insieme e, secondo la teoria degli insiemi, meritava in pieno il nome di Terza Guerra Mondiale.

Dunque non erano ancora terminate le due guerre suddette che già la propaganda si faceva pressante contro i restanti "paesi canaglia" come la Corea del Nord, l'Iran, la Siria e la Libia. Il ritornello era poco fantasioso: diritti umani, dittatura, armi di distruzione di massa. Non si trattava semplicemente di una dichiarazione di guerra al mondo da parte del grottesco schieramento politico che si faceva portavoce della "guerra infinita". Anche se la maggior parte degli oppositori democratici in campo internazionale si muoveva, e soprattutto parlava, intorno a quest'ipotesi, lo sfumarsi del confine fra pace e guerra, con l'avvento di un'era in cui la guerra si annunciava come fatto permanente, stava, più che nelle idee degli uomini, nelle materiali e pressanti esigenze del Capitale. Era in corso l'ultimo tentativo di salvare l'intera società capitalistica da sé stessa, perciò la guerra era davvero una necessità "senza limiti". La teoria della locomotiva capitalistica stava andando a rotoli, e la dura realtà dimostrava che ormai l'America non trainava più l'economia mondiale ma ne dipendeva. In tale contesto l'ideologia americana dell'attacco preventivo e della impossibilità di stabilire dei limiti era una prova della debolezza degli Stati Uniti, non della loro forza.

Si rafforzava quindi l'esigenza di imporre un controllo sui flussi di valore prodotto nei vari paesi in modo da "drogare" in qualche misura la locomotiva americana con l'utilizzo del surplus altrui di capitali, come già succedeva da anni con il Giappone (acquirente di debito americano) e incominciava a succedere alla grande con la Cina. Paradossalmente l'imposizione del liberismo agli altri e l'adozione del dirigismo per sé, rappresentava in termini effettivi un disperato tentativo di rovesciare la prassi anarchica del mercato mondiale, perché il capitale globalizzato mal sopportava barriere alla propria libera circolazione al di fuori delle frontiere nazionali. Dopo la crisi asiatica del 1977 tutti i paesi coinvolti avevano incominciato a non più tollerare le manovre effettuate dagli americani tramite gli organismi internazionali (FMI, BRI, WTO), giungendo alla conclusione che ci si sarebbe dovuti risollevare con le proprie forze. Perciò il sistema di controllo USA era andato velocemente in crisi.

Che ne siano consapevoli o meno, gli Stati Uniti sono costretti a smantellare ogni sistema di protezione dei capitali nazionali altrui per poter continuare a godere del loro privilegio finanziario e militare. Questo vale per l'economia in generale, che si sta lentamente staccando dal dollaro, come per i giacimenti petroliferi. Con i loro pozzi in esaurimento, gli USA non possono sopportare che quelli dei paesi produttori di petrolio siano gestiti con produzione al risparmio. Sarà un caso, ma Iran, Iraq e Libia avevano da tempo messo sotto controllo la produzione e fra poco anche il grande rubinetto compensatore, l'Arabia Saudita, sarà costretto a fare lo stesso.

All'utopia di controllare il mondo tramite un supergoverno a guida americana si contrappone la reale suddivisione dei capitali nelle varie proprietà private, il che, nel contesto del mondo globalizzato, significa aree di influenza nazionale. E a questa realtà politico-economica se ne sovrappone un'altra ancor più drammatica, cioè la distribuzione delle risorse agrarie e minerali secondo la formazione geologica e non secondo i confini politici. Di fronte alla prospettiva certa dello scarseggiare delle materie prime non c'è santo che tenga: per ogni paese è una questione di vita o di morte, specie se lotta per l'egemonia mondiale. Questa consapevolezza è di vecchia data, ma dopo l'embargo petrolifero di metà anni '70 è diventata terrore. Risalgono ad allora i piani militari, per niente segreti, atti a mantenere la libertà di approvvigionamento a costo di invadere i paesi produttori. Tanto per fare un esempio, Edward Luttwak, consigliere militare di più governi americani, fu uno dei più accesi sostenitori di tale strategia: il petrolio e le altre materie prime sono di importanza vitale per miliardi di persone, è lecito dunque far guerra a chiunque cerchi di limitarne l'utilizzo.

Gli Stati Uniti non erano riusciti ad impiantare basi militari importanti in Egitto. Nasser, soppesato il prezzo che avrebbe dovuto pagare per gli "aiuti", si era rivolto all'URSS acquistando armamenti e tecnologie utili alla costruzione del gigantesco sbarramento di Assuan. Sadat e Mubarak, pur avvicinandosi a Washington, avevano preteso dollari e armi per costituire una potente forza armata nazionale, ma in sostituzione di quella del "benefattore", che dovette accontentarsi di due utilità aeroportuali senza extraterritorialità, ad Alessandria, nel Nord, e a Hurghada, nel Sud, sul Mar Rosso. Perciò dal Marocco alla Turchia non vi sono a tutt'oggi basi aeronavali americane propriamente dette. È ovvio che farebbe gola impiantarne in Libia, al confine fra Maghreb e Mashrek, ponte verso l'Africa, dove operano già troppi cinesi (35.000 solo in Libia, di cui 20.000 evacuati).

Se i movimenti popolari odierni rischiano tutti insieme di mettere in pericolo gli equilibri geopolitici, quello egiziano in particolare sembra aver rinforzato lo spirito nazionalistico dell'esercito, i cui capi filoamericani erano ormai troppo impelagati in traffici personali, a livello di interi settori economici. Come i paesi d'Asia, anche quelli d'Africa e del Medio Oriente stanno reclamando un'autonomia sempre più spiccata. L'esempio più eclatante è quello della Turchia, paese un tempo filo-atlantico per eccellenza e ora assai freddo su tutte le iniziative americane, non solo guerresche. La ventata di rivolta può essere letta anche in quest'ottica e, di conseguenza, il tentativo americano di cavalcarla andrebbe letto come azione di retroguardia, difensiva, non come quella di burattinai occulti, fautori di improbabili rivoluzioni "colorate".

Letture consigliate

  • PCInt., "Crisi del Medio Oriente", Il programma comunista nn. 20 e 21 del 1955.
  • PCInt., "Le Alsazie-Lorene del Medio Oriente", Il programma comun. n. 23 del 1955.
  • PCInt., "Il terremotato Medio Oriente", Il programma comun. nn. 7, 8 e 13 del 1956.
  • PCInt., "Suez, vertenza fra ladroni", Il programma comunista n. 18 del 1956.
  • PCInt., "Egitto. Le lotte delle masse operaie e contadine alla luce dello sviluppo capitalistico", Il programma comunista nn. 7, 8 e 9 del 1977.
  • "Banlieue è il mondo" e "Nous, les zonards voyous", n+1 n. 19 del 2006.
  • "La nuova politiguerra americana", n+1 n. 11 del 2003.

Rivista n. 29