Le cause e i sintomi

In un editoriale sulla dilagante protesta del movimento Occupy Wall Street, The Economist ha scritto che se i politici fossero coraggiosi dovrebbero tralasciare i rattoppi e decidersi finalmente ad affrontare le cause. Una delle prime cose da fare sarebbe smetterla con le prediche sull'austerity e focalizzare l'attenzione sullo stimolo alla crescita. Le ricette sono le solite, banalissime ovvietà del liberismo giudizioso propugnato da questo periodico, ma questa volta c'è un'esortazione perlomeno insolita: i governanti, i politici e gli economisti dovrebbero "dire la verità alla gente sulle ragioni della crisi, soprattutto su ciò che è andato storto". Perché la gente questa volta potrebbe avere ragione. Il sistema capitalistico sarebbe vicino al collasso in quanto sarebbe "diventato" chiuso, egoistico, incapace di diffondere ricchezza, e in queste condizioni non farebbe che legittimare la rivolta.

Non siamo più a Seattle (1999), continua The Economist. Se il movimento attuale di rivolta, a differenza di quelli precedenti, fonda le proprie rivendicazioni su basi legittime, sui meccanismi del sistema invece che sui loro effetti, allora "i pericoli sono maggiori, perché la rabbia populista, specialmente se non ha un programma rivendicativo coerente, in tempi di miseria può portare ovunque". L'effetto più pericoloso del diffondersi della protesta contro il capitale sarebbe un assalto ingiustificato ai meccanismi complessivi della globalizzazione e un ritorno ai salvataggi nazionali attraverso politiche protettive. Ma è proprio qui che sta il difetto che ha provocato la crisi: nessun salvataggio di banche è mai costato tanto alla società come l'ingerenza dello stato nell'economia. "Nella misura in cui le attuali proteste sono la prima esplosione di una battaglia molto più ampia e duratura, questa rivista è fermamente dalla parte dell'apertura e della libertà". Da un periodico liberista non c'è da aspettarsi altro, tuttavia predica su cause e sintomi senza dirci quale sia la causa che provoca l'intervento statale.

Per carità, non lo pretendiamo da quel pulpito, sappiamo darci la risposta: lo stato interferisce con il libero mercato perché altrimenti il capitalismo sarebbe già morto da un pezzo. Lo stato è sottoposto al completo controllo del capitale perché è l'unica potenza che può movimentare quantità di denaro compatibili con le esigenze di valorizzazione (o speculazione) del capitale stesso. Ci sono risvolti storici e politici che fanno da corollario alla cosiddetta crisi e alle sue manifestazioni sociali, sia dal punto di vista di una borghesia che tende ad arroccarsi e a blindarsi per conservare le proprie prerogative, sia dal punto di vista delle classi subalterne che non possono sopportare a lungo un sistema le cui performances sono proprio quelle mostrate dalle cifre e dai grafici pubblicati in ogni numero dell'Economist.

Su questo numero analizziamo tre situazioni che possiamo considerare collegate senza particolari forzature: 1) il "caso italiano" e la sua storia millenaria come paradigma della genesi del fascismo e della forma che gli è succeduta, cioè il controllo del capitale sullo stato; 2) il movimento sociale internazionale contro la fascistizzazione sempre più marcata dello stato e contro i suoi effetti, movimento che reputiamo importantissimo a prescindere dai programmi che si è dato e dalle parole d'ordine che propugna; 3) l'episodio, apparentemente normale, dell'avvento in Italia di un "governo tecnico", che potrebbe celare in sé soluzioni disperatamente cercate dalla borghesia nel tentativo di conservare un minimo di controllo.

Rivista n. 30