Il piccolo golpe d'autunno

" Malgrado la sua ostentazione di razionalità, il presupposto su cui poggia la teoretica democratica non è dissimile per puerilità metafisica da quello del 'libero arbitrio' per cui la legge cattolica dell'aldilà assolve o condanna " (Il principio democratico, 1922).

Mistica del Grande Complotto

Sono in molti ad avere l'impressione che qualcosa non funzioni. In quasi vent'anni di berlusconismo rampante, trionfante e auto-conservante, nessuno era mai riuscito a scalzare il microbattilocchio, nemmeno mettendo in campo una versione patologica della storica "questione morale". In Italia, figuriamoci. Questo è il paese dove Caligola ha nominato senatore il suo cavallo in spregio al senato; dove papato e signorie hanno superato ogni limite immaginabile del delitto; dove sotto il segno della democrazia e del cristianesimo si sono consumate le più totalitarie e peccaminose vicende. Perché per tutto questo tempo lo scenario politico sembrava immutabile in una tremenda commedia di serie z che ci imponeva più ancora del berlusconismo – ahinoi – l'antiberlusconismo? E che diavolo sarebbe successo di inedito, tale da far girare gli eventi nel volgere di due giorni, prospettando una lunga notte di disoccupazione per giornalisti, vignettisti, cabarettisti?

I dietrologi hanno già abbondantemente tracciato l'identikit delle concatenazioni che legano Monti, Draghi, il premier greco Papademos, la Trilaterale, la Goldman Sachs, il misterioso Gruppo Bilderberg, la Bocconi, la Casa Bianca e il Quirinale. Concatenazioni di una certa ampiezza che avrebbero messo in moto qualcosa di tanto grave da impedire qualsiasi mossa al governo in carica, il quale ha rassegnato le dimissioni senza fiatare, nemmeno quando Monti ha fatto sapere che avrebbe dimezzato ministeri e sottosegreterie affidandoli tutti ai "tecnici". Il rimescolamento di politici che ha fatto mancare la maggioranza alla Camera non è una novità, anzi, è una costante, che nella storia italiana ha prodotto "rimpasti" a catena. Quando ciò non è stato possibile o era inopportuno, c'è stato già nel passato il ricorso a governi "tecnici" o "del presidente", come nel caso di Ciampi e Dini negli anni '90 del secolo scorso. Ma questa volta non sono nemmeno stati tentati rimpasti o maggioranze alternative, mentre a causa della crisi in corso è stato scartato il ricorso alle elezioni anticipate. Ferrara dice che c'è stata una "sospensione della democrazia". Non siamo per niente sensibili a questo argomento, ma di fatto, dal punto di vista democratico, s'è esautorato l'esecutivo esistente alla faccia degli "eletti dal popolo", come dice Bossi con scarso senso del ridicolo. Lo si è fatto sulla base di una consultazione Napolitano-Obama-Merkel-Sarkozy e poi s'è nominato dall'alto un governo tecnocratico e corporativo che, con l'ottimo pretesto della crisi, avrà poteri assoluti. La situazione migliore per fare "lavoro sporco", cioè carneficina sociale, dato che sarà un governo senza preoccupazioni elettorali.

Questo è quanto appare e in parte è. Naturalmente noi non crediamo affatto che siano state le forze nascoste dietro agli eventi a farli effettivamente accadere. È vero piuttosto il contrario: sono gli eventi, cioè la situazione in cui si trova il capitalismo nel mondo che ha messo all'opera i suoi custodi. Ci sembra del tutto naturale che di fronte alla crisi ci siano tentativi congiunti di scongiurare il collasso di alcuni paesi disastrati per evitare un catastrofico effetto domino che potrebbe travolgere il mondo intero. Detto questo, non è ancora spiegato il ricorso, in uno dei paesi cardine della crisi, ad un governo con caratteristiche inusuali. Non è solo in risposta a una crisi particolarmente grave che si è mobilitato il Gotha internazionale che dà tanto lavoro ai dietrologi. O forse si incomincia a capire che non si tratta tanto di una crisi particolare quanto di una condizione diventata permanente, di fronte alla quale non si può tentare di riprendere il controllo con i soliti mezzi (come tra l'altro dice proprio Monti). E quando si prospetta la necessità di "riprendere il controllo" non significa che bisogna semplicemente escogitare alchimie politiche, ma che occorrerebbe riprendere in mano le redini di un capitale mondiale ormai in marcia per conto suo.

Nel quartetto appena nominato è difficile dire chi stia peggio. Gli Stati Uniti hanno distribuito il loro debito all'estero e i loro cittadini sono così indebitati che non possono far altro che indebitarsi di più, quindi non possono accollarsi parte del debito pubblico, cioè farlo rientrare all'interno per evitare l'uscita di valore dal paese. La Germania ha una gestione del debito pubblico a costo così basso che fra poco avrà problemi a piazzare i suoi per adesso preziosi titoli di stato. La Francia ha un sistema bancario più fragile di quello italiano e zeppo di strumenti finanziari sospetti. L'Italia soffre più di ogni paese di senilità capitalistica e paga l'altissimo sfruttamento di pochi con la disoccupazione e la precarietà di molti.

È veramente assordante il silenzio di Confindustria e degli industriali che volevano raddrizzare le gambe ai cani, Da Montezemolo a Della Valle, da Morello alla Marcegaglia. Il suo giornale, Il Sole 24 Ore, invece di essere uno strumento di teoria e prassi in grado di delineare scenari sistemici e raggruppare esecutori capaci, si limita ad essere un bollettino per commercialisti. Che razza di borghesia possa essere quella che abdica sempre ai suoi stessi compiti lo si vede proprio in questo frangente. Quando il nuovo governo era già sul trampolino di lancio gli industriali chiacchieroni non se n'erano ancora accorti, ripetevano come pappagalli che "bisogna rilanciare l'economia". Frase dal significato empirico nullo, equivalente alle preghiere delle beghine. Eppure, come vedremo subito, nella loro stessa storia, nelle pieghe dell'industrialismo modernissimo stimolato dalla ricostruzione postbellica avevano modelli già pronti, che bastava copiare.

Il podestà forestiero

Per spiegare il drastico avvento dei "tecnici" al governo e la struttura che questo si è dato in pochi giorni, non sono sufficienti la scarsa "credibilità" del vecchio esecutivo, immobile e sputtanato, l'ammontare del debito pubblico o l'inefficacia delle trovate ragionieristiche del commercialista a capo dell'economia. Né la cosiddetta speculazione è così potente da determinare da sola le sorti di un paese come l'Italia, sicuramente a rischio di incursioni, come successe con Soros vent'anni fa, ma con una massa economica in grado di sopportare ben altri marosi. Dal 1945 in poi, non era forse questo paese ammirato in tutto il mondo per la sua capacità di risollevarsi anche dalle peggiori batoste, fino a occupare il quinto posto nel mondo occidentale? Perciò sembrerebbe normale che, data l'esposizione internazionale e dunque l'interesse capitalistico generale, addirittura mondiale, l'Italia non "fallisse". E siccome la sua borghesia ha mostrato di non sapere assumere un assetto unitario per l'emergenza, ecco la necessità del benservito ai pasticcioni del satrapo e l'imposizione di un direttorio al di fuori della mischia. Del resto succedeva anche nelle società antiche quando, in caso di stallo politico, veniva chiamato a "dittare" un personaggio in grado di mettere ordine e garantire il funzionamento dello stato. Oppure all'epoca dei Comuni, quando in situazioni analoghe si ricorreva al "podestà forestiero" (circostanza ricordata in agosto da Monti in un articolo sul Corriere della sera).

Il piccolo golpe può dunque convivere con il rispetto delle regole democratiche. In fondo se gli eletti dal popolo sono d'accordo che così succeda, come erano d'accordo nell'Antichità o nel Medioevo, va tutto bene e coloro che fingono di temere per Santa Democrazia, come un Ferrara, possono mettersi il cuore in pace. D'altra parte anche dal punto di vista giuridico "democrazia è procedura" e quindi, quando serve, è argomento che può essere trattato al di fuori della mistica dell'ideologia dominante. Nemmeno Giulio Cesare s'era proclamato dittatore da solo. Marco Antonio aveva poi cancellato la dittatura dagli istituti repubblicani e Augusto aveva rifiutato la proposta di ripristinarla preferendo per sé la potestà tribunizia e l'imperium consolare. La discontinuità fra democrazia e dittatura è assai problematica. Mussolini e Hitler seppero sfruttare benissimo la formula procedurale democratica delle elezioni per ottenere la forma di dominio borghese che rappresentarono.

Ritornando al significato di quanto sta succedendo, i due fenomeni sovrastrutturali, governo rappresentativo e governo tecnico, vanno messi in relazione alla dinamica della struttura economica, che oggi è quella della cosiddetta globalizzazione. Mentre con il fascismo la borghesia tentò per la prima volta di darsi una complessiva disciplina di classe, sia per il funzionamento del sistema economico sia per il rafforzamento del suo dominio, una volta raggiunto questo risultato per essa non c'è più un passaggio successivo. L'azione del capitale autonomizzato, cui la stessa borghesia ha dato corda, la estromette dal controllo del fatto economico. Già Marx osservava che il capitale azionario aveva distrutto la funzione storica dei borghesi, i quali erano stati relegati alla funzione di "tagliatori di cedole" e avevano lasciato le loro funzioni industriali a "funzionari stipendiati". Oggi la classe superflua può essere estromessa dal controllo in due modi: o lasciandola chiacchierare nei parlamenti senza che le sia permesso far danni (e in tal caso più i suoi grandi leader politici sono stupidi meglio è), oppure togliendole anche questa funzione fittizia e sostituendola con esecutivi tecnici di funzionari del capitale (e in tal caso più sono razionali, lucidi e spietati meglio è per il compito che devono svolgere).

Se dunque il fascismo aveva consolidato in modo definitivo il passaggio della sussunzione dello stato al capitale nazionale, il governo tecnico va ben oltre, poiché tenta di liquidare quel residuo di relativa autonomia dello stato nazionale nei confronti del capitale internazionale. È una circostanza casuale e fortunata che questo numero della rivista esca proprio mentre abbiamo l'occasione di scrivere sia intorno alla classe dominante italiana e alla formazione del suo stato nazionale, sia intorno all'ennesimo esperimento di laboratorio che scaturisce da questo antico paese. I tratti reali degli avvenimenti in corso potranno discostarsi in qualche caso dal modello teorico tratteggiato dalla nostra corrente, ma in linea di massima il percorso complessivo è chiaramente individuabile. Il governo Monti potrà o meno raggiungere i risultati che si prefigge, potrà durare più o meno a lungo, ma il suo significato è che l'intero sistema, dalla sua struttura economica profonda ai riflessi della stessa sulla politica, deve escogitare continuamente nuovi metodi per drogarsi, per tonificarsi, procedendo così verso un'assuefazione crescente, fino all'overdose mortale. Le politiche nazionali riescono sempre meno a rappresentare l'assetto funzionale a un capitale che agisce a livello globale. In fondo ciò è più che sufficiente a spiegare l'intreccio internazionale che coinvolge l'Italia e che i dietrologi si affannano a rivelare.

Il modello Peccei-Visentini

Ogni governo nazionale, in quanto comitato degli interessi di borghesie nazionali, è costretto a mediare sul piano internazionale e quindi a scontrarsi per salvaguardare interessi locali. Ciò lo rende totalmente inadeguato ad affrontare gli sviluppi economici e finanziari che si manifestano sul piano generale e globale. Sarà perciò difficile che il nuovo esecutivo italiano possa risolvere una situazione così incancrenita com'è quella nazionale e però collegata al contesto mondiale. Quello che conta, comunque, è la serie di conferme da trarre dalla pressione che i fatti materiali esercitano sulla compagine politica.

Se, come abbiamo visto, partiamo dal presupposto che il controllo dell'economia è passato dai governi al capitale anonimo, Berlusconi o un altro, ha ben poca importanza. Persino l'America è stata governata da personaggi alquanto squallidi e incapaci. Ma quando il gioco si fa duro, come si suol dire, debbono giocare i duri, e senza troppe chiacchiere. La nostra estraneità rispetto alle "questioni morali" che infiammavano già i nostri bisnonni post risorgimentali ci rende immuni rispetto al "rumore" di disturbo provocato dai dibattiti politici, e ciò offre il vantaggio di poter osservare il mesto inchinarsi del mondo intero di fronte ai "mercati"; cosa che tradotta nel nostro linguaggio vuol dire inchinarsi di fronte al capitale anonimo e autonomizzato. Il previsto "governo tecnico" si adegua allo scopo, e adesso che ne conosciamo la composizione esatta, dopo aver preso nota del velocissimo iter sovranazionale che l'ha formato, possiamo confermare che non è così ordinario come vorrebbe far credere. Se il fascismo – giusta le nostre Tesi – è il modo di essere ultimo della sovrastruttura capitalistica, e se la tendenza storica è quella di andare oltre al fascismo, questo fatto deve pur esprimersi in qualche forma. Che cosa infatti può esserci dopo il fascismo?

Il governo Monti ha passato i suoi primi giorni in assicurazioni verso l'interno sulla democrazia, sulla collegialità, sulla necessità di un governo forte, ecc. (excusatio non petita, accusatio manifesta, scusa non richiesta, accusa evidente). E anche verso l'estero s'è profuso in garanzie sulla ferocia de provvedimenti che prenderà, salvo addolcire un po' la pillola agli italiani con qualche riferimento alla necessità di non tartassare troppo l'imprenditoria e il lavoro. I quaranta partiti e frazioni hanno abbozzato ma mugugnano. La procedura è formalmente a posto. Le competenze ci sono, i conflitti d'interesse risolti. Poniamo che tutto proceda sulla strada che Monti ha mostrato di imboccare. La forma esplicita e rivendicata è quella di un "governo tecnico" puro, ben determinato a non lasciarsi contaminare dalla politica nonostante la finta apertura verso i parlamentari. La ricetta, lo sappiamo, non è affatto una novità. Non solo è la terza volta che questo piatto viene cucinato, ma questa volta c'è un pizzico di teoria in più.

Nel 1964 Aurelio Peccei e Bruno Visentini, il primo proveniente dal mondo Fiat, il secondo dal Partito Repubblicano, diventarono rispettivamente amministratore delegato e presidente della Olivetti. Adriano Olivetti era morto da qualche anno, ma il clima aziendale rifletteva ancora la sua utopia della società-fabbrica sul modello della quale aveva fondato anche un partito che si chiamava, guarda caso, Comunità. Il principio organizzatore della fabbrica avrebbe dovuto estendersi a tutta la società, coinvolgendo agricoltura, urbanistica, industria, economia, salute, tempo libero. In tal senso Comunità, nonostante i suoi ascendenti idealistici proudhoniani, oweniani e steineriani, era un partito prettamente pragmatico e quindi antipolitico. Sia Peccei che Visentini, pur senza riconoscerlo, furono influenzati dal clima Olivetti. Il primo fu uno dei fondatori del Club di Roma, un think tank che propugnava una concezione sistemica della politica ricavata da modelli dinamici di equilibrio. Il secondo, che sarebbe rimasto presidente della Olivetti fino al 1984, propose nel 1980 un modello di governo tecnico, inteso non come strumento transitorio in situazioni di emergenza ma come forma costituzionale e permanente di governo. Il quale governo doveva essere nominato dal presidente della repubblica ed essere esente da transazioni e mediazioni da parte dei partiti, che, attraverso i rappresentanti eletti, si sarebbero limitati a concedere la fiducia e ad approvare o disapprovare l'operato dell'esecutivo. I sostenitori di modelli come questo non avrebbero accettato la definizione nuda e cruda di società-fabbrica, ma di fatto proponevano un assetto sociale che funzionasse come il mondo della produzione e non come quello della politica.

Il modello comunitario olivettiano fu prima deriso e poi schiacciato dallo schieramento parlamentare di allora, e l'esperimento di Comunità in quanto utopia incarnata in partito politico fallì miseramente. Tuttavia il concetto di società-fabbrica sopravvisse, Visentini lo rispolverò, fu sommerso da critiche (a parte un blando interessamento da parte di Enrico Berlinguer), scomparve. Ma eccolo riapparire nel momento del bisogno. Eugenio Scalfari, che conosceva bene sia Peccei che Visentini, sembra sia l'unico, oltre a qualche dipendente della Olivetti di allora, ad essersi accorto di questa resurrezione. Non ha importanza se il modello avrà delle applicazioni pratiche durature, è sufficientemente significativo che, nel momento in cui sta per affondare, l'attuale sistema abbia sentito il bisogno di riprenderlo.

L'ibrido di oggi, così com'è configurato, ha poche possibilità di imporsi. Anche se si profila qualcosa di nuovo rispetto alla natura dei governi precedenti, il passo successivo dovrebbe essere la modifica costituzionale, e l'attuale borghesia è troppo vile per poterla anche solo immaginare. Con una squadra di ministri e sottosegretari come quella appena presentata, senza politici a rappresentare il parlamento, sarà interessante vedere cosa potrà fare questo governo quando si presenterà nelle aule per le approvazioni. Con il caos prodotto da una quarantina di partiti, partitini, gruppi e gruppetti, per di più estremamente volatili e abituati a porre aut aut, cioè ricatti, la faccenda sarà piuttosto problematica.

Il toro nella cristalleria

O si ritiene possibile una retrocessione a fenomeni di fascismo visibile (con o senza orbace) o, se crediamo che il mondo vada avanti comunque, siamo di fronte a qualcosa che tende ad andare oltre il fascismo. La politica è un riflesso giuridico della divisione sociale del lavoro, il governo tecnico è il riflesso della divisione tecnica. Nella fabbrica, tolto il "dispotismo" dovuto ai riflessi della società borghese, rimane la divisione tecnica. Sappiamo che nella società futura persisterà una qualche forma utile di divisione tecnica ma sparirà assolutamente la divisione sociale. È quasi certo che con il governo Monti non vedremo niente di eclatante rispetto al modello Olivetti-Peccei-Visentini, ma resta il fatto che la società nuova sta spingendo mica male e che il bisogno di una "levatrice della storia" si fa impellente.

Monti non si avvede di aver fatto un paragone improprio. Il "podestà forestiero" dell'epoca comunale e il dittatore dei romani antichi erano chiamati a sospendere le diatribe quando diventavano inconcludenti. L'affidare il compito di mettere ordine a personaggi di prestigio, era l'eccezione, non la regola. E comunque a noi interessa soprattutto la domanda finale: a che cosa serve un golpetto di stato fin troppo evidentemente assecondato da forze esogene e fin troppo prestamente subìto dal marcescente battilocchio del "ghe pensi mi"? Sembra chiaro che il personaggio sia stato zittito con qualche elementare quanto potente ricatto, ma il fatto in sé non è utile al fine di capire che cosa stia succedendo. L'accumulo nella politica corrente di contraddizioni che hanno portato a una discontinuità amministrativa è scontato, ma persino il comico Crozza ha sottolineato la circolarità mondiale delle cause-effetti, banche-stati, mercati-governi. Ora che gli stati hanno salvato le banche e queste continuano tranquillamente a comportarsi esattamente come prima, chi salverà gli stati?

Proviamo a metterci nei panni del capitale anonimo. Come un toro scatenato nella cristalleria, ha spinto fino alle estreme conseguenze il tentativo di valorizzare capitale tramite capitale. Ha quindi elevato a potenza una massa mai vista di capitale fittizio. Adesso la festa è finita, i nodi sono venuti al pettine. Occorre un governo mondiale. La borghesia è riuscita finora a fare ben poco: l'ONU e i soliti istituti internazionali BRI, FMI, WTO, rispondono a criteri di rappresentanza politica. Bisognerebbe fare il salto a un esecutivo tecnico, ma non esiste borghesia al mondo che possa accettare di perdere la propria sovranità a favore di una inesistente comunità planetaria. Compare ogni tanto qualche sprazzo ma subito viene assorbito dalla routine politica.

E se l'esperimento avesse inizio in ambito nazionale e mostrasse al mondo la propria efficacia, tanto da essere copiato? La storia non si può far girare all'indietro, ma avanti così non si può andare, ed entro i singoli paesi sarebbe più facile rappezzare il "cadavere che ancora cammina". Veniamo all'Italia. L'estremo lamento dei politici era stato: "non date addosso alla politica, ne va della democrazia!". Se la prendevano con le frange girotondine & affini, demonizzando i Grillo e i Travaglio. Ma adesso con chi se la prenderanno non appena dovranno prendere atto che questo nuovo governo, come sta annunciando prima ancora di esistere, sarà il governo dell'anti-politica? Il fascismo ha rappresentato il massimo realizzatore di riforme, ma l'esecutivo appena costituito non sarà il massimo realizzatore del programma grillo-travaglino, la storia di questo paese aveva già suggerito un tentativo di soluzione trent'anni fa.

A costo di forzare un po' la mano proviamo a fare un "esperimento mentale" di quelli cari a Galileo e a Einstein: come diciamo da tempo, se togliamo l'input e l'output capitalistico a una fabbrica, resta la fabbrica in quanto tale. Una fabbrica di per sé non è né capitalista né socialista. Essa è parte del sistema d'industria entro il quale vengono scambiati materiali e informazione secondo piani progettuali, produttivi e logistici "governati" da una compagine tecnico-organizzativa. La citata società-fabbrica di Olivetti e dei suoi epigoni c'è già, solo che ad essa non corrisponde un piano sociale ed è preda dell'anarchia di mercato.

I politici finora all'opposizione rivendicano una capacità di azione che invece non hanno. Credono di aver affossato il vecchio governo, e per l'ennesima volta – da quando Togliatti se ne vantò per primo, nel 1945 – inneggiano al tricolore "sollevato dal fango". Sono convinti di essere di fronte a un governo provvisorio e, secondo i parametri correnti, sarà così. Ma se l'intelligenza del capitale anonimo è appena un po' al di sopra di quella dei politici (e ci vuole poco), la tentazione di eliminare un bel po' di zavorra inutile, dannosa e costosa sarà fortissima. Ovvio che è forte anche l'istinto di autoconservazione della rete politica, da Roma alle province e ai comuni, ma quando non c'è più trippa per gatti, non ce n'è più e basta, bisogna che qualcuno spinga sulle essenziali "cause antagonistiche alla caduta del saggio di profitto", prima fra tutte l'abbassamento della composizione organica del capitale. Per quanto sia una via d'uscita antistorica, già Monti ne ha parlato e gli ha fatto eco la Confindustria. Lo dicono utilizzando un eufemismo: stimolare la ripresa attraverso la diminuzione dei carichi sul lavoro e sul capitale, ma lo dicono. Se quella attuale è una situazione cronica di sovrapproduzione sappiamo che le toppe non funzioneranno, anzi, saranno peggio del buco. Ma il capitale non ragiona in termini marxisti e vorrà "ritornare ai fondamentali", come recitano i suoi sacerdoti.

E chi si può prendere la briga di piegare a questo modo la storia? Nessun governo tradizionale è capace di tanto, e di sicuro nemmeno un governo provvisorio. Ora è inutile mettersi a fare profezie, ma è certo che se il capitale vuole sopravvivere ancora un po', deve comunque piantarla con la sua esplosione esclusivamente fittizia. Deve darsi una drastica autoriduzione e darsi un assetto sovrastrutturale tecnico, spazzando via gli orpelli del politicantismo parassitario. La riuscita anche solo parziale è dubbia, ma l'italietta come al solito prova a fare qualche esperimento di laboratorio, lasciando ad altri il compito di fare qualcosa di più serio. Vuol dire che prossimamente invece delle manifestazioni di Occupy Wall Street, vedremo quelle di Occupy The World.

Letture consigliate

  • Bordiga Amadeo, "Il principio democratico", in Rassegna Comunista n. 18, del 28 febbraio 1922, disponibile sul nostro sito.
  • PCInt. "La pochade comunitaria", in Il programma comunista n. 8 del 1958.
  • Olivetti Adriano, Città dell'uomo, Edizioni Comunità, 1959.
  • Peccei Aurelio, Quale futuro? Mondadori, 1974.

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