Lo Stato nell'era della globalizzazione
Ipertrofia del controllo e collasso dei rapporti nella società civile

"Lo Stato borghese non è l'ultima macchina statale della storia (come mostrano di pensare gli anarchici). La classe operaia non può utilizzarla (come sostengono tutti i riformisti ed opportunisti). Deve infrangerla, e deve costruire un nuovo Stato nella dittatura rivoluzionaria del proletariato. Questo andrà dissolvendosi, sgonfiandosi, deperendo fino a scomparire. [Già] il presente Stato borghese va verso il proprio affossamento, in attesa che si affossi lo Stato senza aggettivi. Ma intanto spaventosamente si gonfia, assume le proporzioni del Moloch divoratore di immolate vittime, del Leviathan col ventre gonfio di tesori stritolante miliardi di viventi. Mentre del nostro Stato rivoluzionario prevediamo la dissoluzione graduale, del presente Mostro prevediamo invece la paurosa, ma luminosa esplosione".

PCInt., Inflazione dello Stato, 1949.

Un sistema che perde energia

La tesi che sta alla base della presente esposizione è semplice: più Stato non vuol dire meno capitalismo bensì il contrario; nello stesso tempo vuol dire capitalismo vecchio e decrepito, che ha bisogno di medicine salva-vita per evitare il collasso. Quali sono i sintomi? C'è una cura? I sintomi cercheremo di descriverli, la cura semplicemente non c'è più.

L'importanza economica crescente dello Stato è immediatamente visibile nella tabella riprodotta qui di seguito. La media storica della spesa pubblica nei paesi ivi considerati è passata dal 10,4% del prodotto interno lordo nel 1870, al 47,7% nel 2009. E la suddetta spesa solo in parte è coperta da una pressione fiscale anch'essa crescente: il resto è coperto dal debito pubblico, che per alcuni paesi è già un multiplo del PIL. È dunque di per sé evidente che nel prossimo futuro la curva non potrà continuare a crescere con quel ritmo: si giungerebbe paradossalmente ad una economia statalizzata al 100% entro il 2070. Oltretutto saremmo in presenza di una contraddizione stridente: mentre la curva storica della spesa pubblica mostra un andamento crescente in modo quasi lineare per un secolo e mezzo, con un tempo di raddoppio di 60-70 anni, la curva della produzione industriale, cioè degli incrementi relativi anno per anno, quella che ci mostra la vitalità del sistema, è di tipo asintotico, cioè tende ad appiattirsi con il passare del tempo.

inflazione

Ciò significa che il processo in corso oggi, per quanto non ancora visibile nei suoi effetti dirompenti, esploderà molto prima di quanto possa far immaginare la tabella. Già oggi l'importanza politica dello Stato, cioè la necessità di un intervento qualitativo per condizionare pesantemente le scelte, la vita stessa dei cittadini e delle loro rappresentanze parlamentari, sindacali, esecutive, militari, aumenta di pari passo con l'importanza economica puramente quantitativa. Il capitalismo lasciato a sé stesso, infatti, tende prima alla concentrazione dei capitali e poi alla loro centralizzazione, quindi al monopolio sempre più generalizzato a livello globale. Ma quando lo Stato è costretto a intervenire affinché il sistema dei monopoli non uccida il tessuto economico, lo fa imponendo il liberismo, pagandolo profumatamente, come s'è visto in questi ultimi trent'anni, cavando sangue dai cittadini (ovviamente soprattutto dai proletari) affinché l'eterno gioco del guadagno privato e della perdita socializzata possa continuare.

Perciò ogni tabella sulla spesa pubblica dovrebbe essere letta insieme a quella del debito pubblico e della pressione fiscale, tutti parametri che non possono crescere in eterno e che quindi provocano una pressione sociale che va controllata politicamente, come quella economica. Lo Stato si fa sempre più esattore e quindi sbirro, le due cose sono concatenate. Ma anche questa tendenza ha dei limiti: già oggi, avvicinandoci a una media di "statalizzazione" dell'economia del 50%, lo Stato non è più l'elemento rivitalizzante del capitalismo, il regolatore delle sue funzioni, ma un mostro elefantiaco la cui attività è in gran parte finalizzata alla propria perpetuazione. Il suo modo di essere ricade completamente sotto gli effetti della legge dei rendimenti decrescenti.

Oggi il sistema delle relazioni fra gli Stati nazionali, così come si è venuto strutturando nel corso di secoli, riflette la decadenza del modo di produzione capitalistico anche se – o proprio perché – quest'ultimo è stato capace di estendere al massimo il lavoro sociale, base un tempo della sua rivoluzionaria nascita e domani della sua scomparsa. La classe che custodisce gli attuali rapporti sociali non ha più vitalità, può solo approntare soluzioni temporanee, per nulla risolutive, anzi, spesso causa di peggioramenti macroscopici. Anche il capo dell'esecutivo "tecnico" italiano ha riconosciuto che l'intervento statale ha contribuito a peggiorare la situazione economica e sociale, benché abbia cercato di salvare la faccia affermando che i "sacrifici" servono per la ripresa futura. Ma intanto il sistema capitalistico fa acqua da tutte le parti e il "progresso" produce miseria relativa crescente fra milioni di persone. Non c'è Stato che si sottragga a queste determinazioni.

Man mano che il capitalismo matura e lo Stato perde la funzione di rappresentante dell'interesse generale, si rende sempre più evidente l'inutilità storica della classe borghese e del suo sistema economico. Tra la vecchia società che muore e quella nuova che emerge, rimane soltanto una sottile, per quanto potente barriera: la forza armata e organizzata, una violenza di classe generalizzata potenziale e nello stesso tempo attuale, reale. La borghesia strilla sempre più forte che il comunismo è morto, che il capitalismo ha un futuro eterno e che nessuno vuole in realtà il cambiamento. Ma, come faceva già notare il giovane Marx, "la polizia aiuta". Quando la frontiera che separa il passato dal futuro, un sistema sociale da un altro, è fatta solo di sbirraglia (in senso stretto e in senso lato) al servizio del Capitale, vuol dire che il sistema morente ha già abdicato, firmando una resa di fronte al futuro.

In una situazione che tende a sfuggire di mano alle borghesie nazionali per effetto dell'internazionalizzazione e autonomizzazione del Capitale, il sistema avrebbe bisogno vitale di un controllo economico e sociale planetario. Quello che sta succedendo in Europa con la folle e suicida competizione per la salvaguardia dell'interesse nazionale è lo specchio di quello che succede nel mondo, solo che fuori d'Europa non si teorizza alcuna unità sovranazionale. Perciò si aggiunge un ulteriore livello di contraddizione: sarebbe appunto necessario un controllo planetario, ma quando si tenta di realizzarne almeno dei surrogati, il nazionalismo ha il sopravvento. Nel momento in cui si rischia il collasso dell'economia e del sistema monetario basato sul dollaro, i vari vertici mondiali, G7, G8, G20 o altro che siano, non si rivelano altro che arene di chiacchiere che coprono la continua ridefinizione dei rapporti di forza tra paesi non disposti a mollare un millimetro di terreno per quanto riguarda gli interessi nazionali in contrasto. In tale quadro gli Stati Uniti esercitano un ruolo, peraltro spasmodicamente cercato e difeso, di gendarme planetario, l'unico in grado (per ora) di garantire la stabilità dell'intero sistema capitalistico. Che poi questa aspirazione sbocchi nei risultati voluti è un altro discorso, dato che una serie di interventi locali, diretti o per procura, in molti casi aggravano la situazione invece di risolvere problemi. Il caso del Pakistan, del quale parleremo più avanti, è emblematico: oggetto di pesanti interventi americani sul suo assetto interno, con il cambiare della situazione locale dopo l'11 Settembre, è stato oggetto di altrettanto pesanti interferenze di segno opposto, tali da rendere la situazione interna ambigua e incontrollabile.

In Europa, l'impossibilità di varare una politica economica unitaria, di cui abbiamo parlato su altri numeri della rivista, evidenzia il decadimento della culla del capitalismo, iniziato al tempo della successione degli Stati Uniti all'Inghilterra. Ma non ci sarà un nuovo cambio della guardia. Anche i paesi cosiddetti emergenti come la Cina e l'India, soffrono di invecchiamento precoce: presentano un esubero di Capitali e di merci che devono trovare spazio al di là dei confini nazionali, e devono affrontare sommosse interne per tutta una serie di problemi che vanno dallo scontro etnico alla ribellione anti-statale, dalla lotta per il pane (o riso) alla classica lotta sindacale (come a Shenzhen, dove milioni di operai ormai da anni mostrano una combattività irrefrenabile).

Sul piano dello scontro mondiale fra il morente modo di produzione capitalistico e la nascente società comunista è abbondantemente dimostrato che, all'impossibilità delle borghesie locali di agire unitariamente sul piano globale, corrisponde una ormai collaudatissima capacità di coalizzarsi contro il proletariato, che è per definizione senza patria. E questo almeno dalla Comune di Parigi in poi. Tuttavia ciò non basta, di fronte alla progressiva disgregazione del tessuto sociale che si riflette nello Stato nazionale, a far sorgere un super-Stato sovranazionale. Il Leviatano politico ha i proverbiali piedi d'argilla.

Punto focale: Washington

Alla fine del secondo conflitto mondiale il capitalismo ha un nuovo paese guida. Con l'Inghilterra al collasso senile, gli Stati Uniti rappresentano lo strumento migliore del nuovo ordine planetario e le aree non americanizzate non ne sminuiscono la portata e la potenza, tanto che molto presto la nostra corrente ipotizza il crollo sovietico dovuto non tanto alle armi quanto alla potenza del dollaro. L'aspetto determinante è senz'altro quello della più ampia possibilità di circolazione e collocazione dei capitali, anche se ovviamente l'ampia disponibilità dei medesimi è sempre originata da un'ampia produzione di merci, che vanno vendute. Ancora a guerra non terminata, si procede, da parte degli Alleati, alla stesura di quello che sarà il piano fondamentale per costituire gli strumenti atti a garantire la regolazione dei flussi finanziari e del credito: Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale, Organizzazione Mondiale per il Commercio.

Il capitale ha necessità di queste forme istituzionali per favorire una specie di "pianificazione" legata alle esigenze della valorizzazione, e questo piano internazionale – in realtà un piano tutto americano cui si adeguano i paesi dell'alleanza bellica per via dei vantaggi della ricostruzione – dovrebbe essere un passo verso una forma embrionale di governo unico sovranazionale. Per il modo di produzione capitalistico è una contraddizione in termini, dato che questa formula potrebbe funzionare solo perché rappresenterebbe un'espansione esterna del governo di Washington. Comunque sia, l'operatività degli organismi sovranazionali è l'inizio di un lungo periodo in cui essi convivono con l'apparato ben più solido e sperimentato degli stati nazionali legati da comuni interessi. In tutto il dopoguerra lo sviluppo delle forze produttive si avvantaggia della crescente internazionalizzazione per il semplice fatto che la crescita dovuta alla guerra/ricostruzione non può più essere contenuta nello spazio angusto di nazioni, come quelle europee, ormai troppo piccole e con popolazione relativamente scarsa rispetto all'esuberanza del Capitale.

In tale contesto, il grande territorio degli Stati Uniti con la sua vasta popolazione in vertiginosa crescita è il trampolino ideale per l'estensione del Capitale rinvigorito verso il resto del mondo. Anche perché il sistema americano ingloba adesso la rete del predecessore imperialista inglese. Gli Stati Uniti, con l'Inghilterra in simbiosi condizionata, rappresentano e difendono non solo l'interesse americano ma il modo di produzione capitalistico in quanto tale, che lotta per non soccombere. Gli organismi sovranazionali, sotto l'influenza del capitale anglosassone, divengono lo strumento che in maniera crescente orienta gli sviluppi degli stati nazionali coinvolti, tutti "volontariamente obbligati" all'interscambio in dollari e alla formazione di riserve nella stessa valuta. Ne deriva che ogni singolo stato – e quindi lo Stato in generale – non esaurisce le sue funzioni interne e anzi le amplifica su pressioni provenienti dall'estero, ma nello stesso tempo le modifica proprio per adeguarsi alla nuova situazione internazionale sempre più interconnessa, integrata, socializzata. Alcune strutture portanti dello stato nazionale diventano quindi cinghia di trasmissione dall'estero verso l'interno e viceversa, provocando un curioso fenomeno che vede rafforzarsi lo Stato proprio mentre esso si deve fondere con una situazione globale che di fatto lo nega. Questo misto di controllo interno e subordinazione esterna obbliga le nazioni europee a coalizzarsi per rispondere meglio alla strapotenza americana. All'inizio tale aggregazione viene inglobata nel piano di sviluppo americano per la ricostruzione e nell'alleanza militare atlantica, in seguito farà qualche passo in autonomia ma ne risulterà un povero tentativo, un ibrido fra lo stato nazionale e il suo superamento.

Giovani paesi capitalisti nati vecchi

Nel secondo dopoguerra si conclude anche il corso dello schema colonialista classico. Il crescente dominio del capitale finanziario permette di controllare intere regioni del globo senza doverle annettere militarmente e governarle politicamente. Su questo terreno il colonialismo di nuovo tipo degli Stati Uniti si dimostra decisamente efficace ed è subito nemico di quello antiquato europeo. Il contrasto si manifesta sia attraverso il mancato appoggio alle potenze coloniali, sia addirittura in azioni militari contro la politica delle vecchie nazioni colonialiste, come a Suez, nel 1956. Nel frattempo, come sempre, i capitali dei paesi più sviluppati, trovando impieghi in altri paesi, vi accelerano l'accumulazione, per cui questi, da sbocchi vitali, diventano potenziali concorrenti. La prima fascia di paesi interessati da una tale dinamica, dopo quella rappresentata dai paesi vinti e distrutti nella guerra conclusa da poco, comprende Messico, Brasile, Argentina, Iran, Turchia, Corea del Sud, Taiwan, Hong Kong, Singapore, ecc. Gli ultimi quattro paesi beneficiano di un'alta densità di capitale in confronto alla loro estensione e popolazione e diventano velocemente un polo di sviluppo modernissimo, dove si mescolano settori ad altissima produttività e settori a bassa composizione organica di capitale. È una terapia energetica per il sistema, che contribuisce ad amplificare il processo iniziato con il Giappone, e consolida una nuova divisione internazionale del lavoro fino a comportare una relativa de-industrializzazione dell'Occidente.

A ritmi differenziati, velocissimi ad esempio per Taiwan e molto più lenti per il Brasile, procede dunque la centralizzazione del capitale locale e la sua finanziarizzazione, tanto che città-stato come Hong Kong e Singapore diventano città-banca, poli di attrazione di capitale finanziario nel senso moderno (cioè autonomizzato rispetto al mondo della produzione fisica). È evidente che, raggiunto un determinato grado di sviluppo medio del pianeta, i paesi che imboccano la via appena descritta non percorrono più la strada dell'accumulazione originaria. La centralizzazione dei capitali produce, nei paesi "emergenti", come un tempo in quelli occidentali, aziende multinazionali che raggruppano, sotto una sola direzione finanziaria, attività estremamente differenziate, speculative e industriali, in settori che vanno dalla cantieristica al software, dall'automobile alle produzioni di massa per i consumi minuti. Uno sfrenato ricorso alle tecnologie di automazione libera forza lavoro abbassando il saggio di profitto. Nello stesso tempo, il ricorso alla classica "controtendenza" che è quella dello sfruttamento assoluto di una forza-lavoro schiavizzata, sfruttamento di una ferocia inaudita, salvaguarda lo stesso saggio di profitto. Così gli enormi profitti si accompagnano all'estensione del carattere sociale della produzione e l'insieme capitalistico nega sempre più sé stesso.

La condizione primaria per la sopravvivenza di un tale sistema è la libertà di movimento del Capitale, la rottura di ogni vincolo geografico o nazionale, normativo o politico.  Con l'autonomia dei capitali rispetto ai loro possessori, e soprattutto rispetto alla produzione materiale, i fenomeni cosiddetti speculativi diventano dominanti. In realtà si tratta del normale funzionamento del Capitale giunto a questo stadio. Già dalla metà degli anni '80 il movimento internazionale di merci non supera in valore il 5% del movimento di capitali. Nel passaggio dalla concentrazione alla centralizzazione, interi complessi industriali vengono acquisiti dalle grandi holding multinazionali al solo scopo di utilizzarli come elemento materiale ultimo di garanzia per il loro capitale sempre più finanziarizzato. La grande industria viene smantellata, ridotta a piccole e medie unità che vanno a far parte di una rete basata su "filiere" produttive. Il complesso monopolistico di un tempo risulta apparentemente destrutturato, mentre in realtà, se si guarda alla griglia delle partecipazioni intrecciate, pochissimi colossi industrial-finanziari posseggono il controllo dell'economia mondiale.

Le trasformazioni sono molteplici. La dipendenza dell'industria dalla finanza e l'autonomizzazione di quest'ultima diventano così totali da prefigurare, come già aveva intravisto Marx, la soppressione della proprietà privata entro il sistema della proprietà privata. Le dimensioni di alcune "entità" capitalistiche fra quelle descritte sono tali che esse mettono persino in discussione i rapporti con gli stati nazionali, non pagano le tasse, sfuggono alle leggi, ne fanno approvare dalle loro lobby. Anche nei maggiori paesi di antica industrializzazione il capitale finanziario internazionale riesce a imporre la propria logica. I governi si inchinano ai "mercati" e sono costretti ad agire per non esserne travolti. La loro azione diventa dottrina economica e si radica nella società, e persino nazioni potenti come gli Stati Uniti diventano uno strumento di diffusione ideologica e prassi al servizio del Capitale. Negli stati più deboli dal punto di vista strutturale si determinano rapporti di dipendenza e subordinazione, finché non esplode qualche crisi interna che obbliga i governanti a rivendicare una qualche autonomia di azione. A questo punto entrano in gioco gli organismi internazionali come il FMI, le società di rating, le lobby disseminate negli organismi interstatali, gli stessi mercati, a riportare i soggetti indisciplinati entro i ranghi. Molto indicativo a questo proposito il caso della Francia di Mitterrand, partita, all'inizio degli anni '80, con velleità autonomistiche e costretta ad adeguarsi al clima imperante dell'epoca nel breve spazio di un paio d'anni.

Quando un singolo Stato, anche grande e potente, non è più in grado di determinare "autonomamente" le proprie politiche interne ed estere e anzi si fa strumento degli interessi astratti (cioè non più legati alla dinamica dell'accumulazione produttiva) di un Capitale ormai sganciato dai suoi possessori e dal loro controllo, significa che l'intero sistema capitalistico è in fase agonica, ovvero, come dice Marx, che ha già abbondantemente dimostrato la sua non-esistenza potenziale. Tuttavia esiste, persiste, combina sconquassi a livello planetario tutte le volte che si muove.

Ripercussioni all'interno degli Stati nazionali

In seguito a queste dinamiche, le banche centrali dei vari stati sono investite in pieno dalle trasformazioni del mercato mondiale. Dopo essere state per decenni (in qualche caso anche per secoli) i "guardiani" dell'indipendenza economica nazionale, sono obbligate a capovolgere il senso stesso della loro esistenza. Perduta la capacità di controllo dei meccanismi monetari interni, si sono tramutate in crocevia essenziali e decisivi dell'integrazione sovranazionale, adeguandosi agli input imposti dal mercato mondiale. Di conseguenza le strutture economiche portanti dei governi, come i ministeri preposti alla regolazione dei flussi monetari, Tesoro, Bilancio e Finanza, diventano terminali degli indirizzi di politica monetaria… voluti da organismi che a loro volta obbediscono alle esigenze del Capitale. Chi avesse dei dubbi su questa perdita generalizzata di autonomia osservi attentamente ciò che sta accadendo a livello governativo, dalla Grecia agli Stati Uniti, da quando è esplosa in modo visibile la presente crisi. Non passa giorno senza che i governanti non si appellino alla responsabilità e al senso di sacrificio delle popolazioni affinché siano soddisfatte le esigenze dei "mercati", dallo spread alle imposte, dalla riduzione del debito ai licenziamenti. I paesi d'Europa, che a differenza degli Stati Uniti hanno un sistema sociale meno selvaggio, sono così costretti a smantellare realizzazioni secolari, perfezionate con i fascismi ed ereditate dai demo-fascismi attuali.

Il progressivo divario fra ciclo di valorizzazione, accumulo finanziario di "lavoro morto" e possibilità di controllo dello stato nazionale investe l'insieme dell'architettura istituzionale obbligandola a ulteriori trasformazioni in un circolo vizioso infernale. Da un lato, l'esecutivo si centralizza in poche sedi decisionali in stretto rapporto con le istanze sovranazionali; dall'altro, dato che il ciclo economico non rispetta più le cadenze produttive ma si basa su transazioni in rete alla velocità della luce, si scatenano aspri scontri tra bande, lobby, consorterie che mirano esclusivamente a racimolare tutto quello che è possibile nel più breve tempo concesso dai ritmi attuali. Accentramento del potere, svuotamento delle istanze politiche "tradizionali" e guerre per bande fanno parte di un unico quadro che manifesta l'impossibilità di gestire e distribuire la ricchezza come in passato. Inoltre, nella condizione di progressivo irrigidimento dei rapporti tra le classi, le funzioni repressive di carattere preventivo assurgono a prassi quotidiana.

Nonostante il corso storico del capitalismo porti alle estreme conseguenze il processo di spersonalizzazione, cioè la scissione tra proprietà giuridica dei mezzi di produzione e la loro gestione/amministrazione, il processo di accumulazione rimane impossibile senza l'intervento dello Stato. Era così all'inizio del capitalismo mille anni fa ed è così ancora oggi,  perché il ciclo di valorizzazione travalica di gran lunga il solo aspetto produttivo, ha bisogno di infrastrutture complesse, così come un tempo aveva bisogno di fortificazioni e flotte. Ed è solo l'apparato statale che ne può permettere il progetto, la realizzazione, la manutenzione, anche quando all'apparenza esso procede alla privatizzazione estrema, fino a diventare un pozzo pubblico senza fondo nel quale attinge sguaiatamente l'avidità privata. Resistono quindi alla dissoluzione i meccanismi di regolazione della concorrenza per salvare il capitalismo da sé stesso, così come quelli delle relazioni commerciali con altri paesi, dei rapporti tra le differenti monete nazionali ecc. Questo è il motivo principale della parassitaria crescita della burocrazia nonostante le continue prediche sulla necessità di snellire lo Stato. Contro le tendenze selvagge del Capitale lasciato a sé stesso nasce entro il capitalismo una reazione, quasi come degli anticorpi, cioè un vero e proprio esercito di funzionari-guardiani preposti alla salvaguardia dei meccanismi della riproduzione del capitale che si connota per la sua natura in stretta sintonia con i settori capitalistici internazionalizzati. Per quanto famelico, corrotto fino all'indicibile e inefficiente, è un esercito necessario. Va da sé che proprio perché inefficiente è anche numeroso. Per questa ragione nessuno finora è mai riuscito a ridurre l'ascesa storica della spesa pubblica, e invano si alzano contro l'immane e poco maneggevole mostro i debolissimi lamenti delle borghesie nazionali. Esse sono coinvolte fino al collo nello "stato" e il piagnisteo contro la statalizzazione prima rampante e adesso stagnante è come quello del coccodrillo che versa lacrime per il troppo cibo ingurgitato. È ovvio che gli strati della borghesia che hanno necessità di collegarsi dall'interno ai circuiti internazionali o, all'opposto, quelli che dipendono per lo più dalla produzione di beni e servizi per l'interno, ricorrono a ogni sorta di strumento per difendere la loro condizione, dando luogo a spinte e controspinte a livello politico, spesso in stretta relazione con i partiti e la "politica" in genere, coinvolgendo vasti settori dell'amministrazione statale. In tal modo si formano alleanze eterogenee e corporative che sono spesso di ostacolo ai grandi movimenti dei settori puramente sovranazionali, che ormai "ragionano" in base a quadranti del pianeta contenenti masse critiche di consumatori valutabili in miliardi di unità.

Il divario crescente fra territori all'interno di una stessa nazione, la ripartizione politico-istituzionale fra diverse frazioni borghesi, il formarsi di troppi e diversi gruppi di interesse settoriale e localistico, l'attività frenetica delle lobby e la conseguente corruzione, la crescita esponenziale della "criminalità organizzata" che ormai non si distingue più dalle strutture istituzionali, il peso di tutto ciò sugli equilibri politici e il loro livello di internazionalizzazione, fa sì che l'apparato che chiamiamo "Stato" soffra di una condizione schizofrenica grave: le forme tradizionali della mediazione sociale tramite i partiti e le istituzioni parlamentari si rivelano sempre più inadeguate e incapaci di assicurare un minimo d'equilibrio tra tutte le componenti sociali. Gli interessi divergenti producono un aumento della conflittualità politico-istituzionale sfociando in scontri che in qualche caso si manifestano con estrema virulenza. Ne deriva una crescita significativa del "peso" specifico e numerico degli apparati giudiziari e dell'insieme delle strutture repressive. Essi si trovano così a giocare un ruolo di primaria importanza nel tentativo di mantenere regole che possano sintetizzare un interesse "collettivo". Ma l'azione giudiziaria è per sua natura altamente destabilizzante se incomincia ad occuparsi di ciò che succede nelle pieghe dello Stato e della sovrastruttura politica diventando in tale contesto un fattore di moltiplicazione dei conflitti, indipendentemente dai suoi successi o fallimenti nel breve periodo. Più uno Stato è maturo, più la magistratura è chiamata a dirimere conflitti.

Migrazioni

La storia della nostra specie, fin dai primordi, è contrassegnata da massicci spostamenti di popolazioni. Il capitalismo in questo campo, come in tanti altri, ha superato tutte le altre forme sociali, sia in numeri assoluti che in percentuali relative al numero degli abitanti delle aree coinvolte, con la sola eccezione di alcuni popoli nomadi dell'Asia antica. Ma con il capitalismo le determinazioni che provocano lo spostamento in massa delle persone cambiano di natura rispetto al passato. La società capitalistica avrebbe tutti i mezzi tecnici immaginabili per soddisfare i bisogni degli umani senza costringerli a spostarsi con la speranza di una vita meno grama. Perciò i flussi migratori attuali non sono dovuti a malfunzionamenti amministrativi ma a cause intrinseche al sistema socio-economico, che lo Stato non riesce a regolare. Il Capitale si fissa su un determinato territorio e lì accumula, concentra, stratifica lavoro morto (impianti, capitali) per assorbire lavoro vivo (forza lavoro). E quest'ultimo, attratto indipendentemente dalla distanza, si muove in massa verso i poli di accumulazione. Il capitalismo non porta le macchine agli uomini, porta gli uomini alle macchine. È un sistema che ha necessità vitale di rompere barriere, di sorpassare confini provocando grandi rimescolamenti di popolazioni, trasformandone la vita, cancellandone le radici etniche, precipitandole in un futuro di sfruttamento intensivo. Questa storia è conosciuta. Le tappe iniziali comportano l'esodo dei contadini verso le città e gli spostamenti conseguenti alla colonizzazione di nuove terre. Dopo la formazione di una forte classe operaia negli Stati a più vecchio capitalismo,  incominciano a verificarsi migrazioni dai paesi "poveri" verso i paesi "ricchi", si aggrava la concorrenza sul mercato del lavoro fino a produrre estremi limiti di sfruttamento, si stratifica ulteriormente la divisione del lavoro all'interno della classe sfruttata. Un tale rimescolamento all'interno della classe provoca tensioni più o meno evidenti che durano decenni e, insieme al cambiamento nelle condizioni di lavoro, sempre più precarie, produce cambiamenti profondi nella vita sui posti di lavoro, nell'azione sindacale e nell'assetto politico tradizionale.

Tuttavia, prescindendo dalle tragedie umane singole e collettive, il flusso migratorio produce in ogni epoca del capitalismo un amalgama di tipi sociali spingendoli per la maggior parte nella classe salariata, la quale si unifica internazionalmente, e vede elevarsi il proprio tenore di vita. Gli individui risultano così sottratti alla miseria assoluta e sono consegnati a una più consapevole lotta contro la miseria relativa, più inerente allo sfruttamento modernissimo. Anche se nei paesi di vecchio capitalismo la miseria cresce rispetto agli anni di boom, in realtà l'insieme mondiale del miliardo e mezzo di proletari puri marcia ancora mediamente verso un aumento del reddito e del consumo. È il raffronto con il plusvalore prodotto che ci dà la misura reale della miseria crescente, anche se relativa. L'esempio migliore arriva come al solito dal paese più rappresentativo del capitalismo: negli Stati Uniti, il crogiuolo etnico ha prodotto l'amalgama di cui sopra in relativamente poco tempo, in pratica nel tempo necessario al passaggio da una situazione di dorato isolazionismo alla piena globalizzazione. Oggi negli Stati Uniti, su 300 milioni di abitanti, sono circa 40 milioni gli stranieri che risiedono legalmente e 12 milioni i clandestini, quasi tutti proletari o proletarizzati. L'elezione di un presidente nero, per quanto valga simbolicamente, sembrava impensabile appena quattro anni fa (ricordiamo che Barack Obama ha ottenuto l'investitura elettorale in Iowa, lo stato americano con la più alta percentuale di bianchi, il 96%), mentre il movimento Occupy Wall Street pone sul tappeto, molto più che in Europa, sia l'oggettivo bisogno di un superamento del capitalismo, sia "l'unità di tutte le etnie nella salvaguardia della loro identità". Ovviamente questi sono dati relativi alla situazione così com'è fissata dalle statistiche odierne. Nelle Americhe, la quasi totalità degli abitanti è straniera: i nativi statunitensi rappresentano lo 0,8% della popolazione, gli abitanti di origine italiana in Argentina sono dal 40 al 60% della popolazione, i canadesi sono al 50% di origine britannica, al 35% di origine francese, all'8% di origine indiana e il resto tedeschi, italiani, asiatici, ecc. In Asia la Cina ha "esportato" all'estero 40 milioni di persone e "traslocato" al suo interno 400 milioni di ex contadini solo negli ultimi anni. E si potrebbe continuare per pagine e pagine.

Se dal nostro punto di vista la mobilità di masse umane sotto la spinta della proletarizzazione è un dato positivo, per gli Stati l'immigrazione sta diventando un problema grave. Tramontato per sempre il ciclo del capitalismo rampante, quello del capitalismo senile vede la nuova, enorme pressione migratoria come una minaccia. Gli ancora massicci spostamenti umani non producono più il marxiano "esercito industriale di riserva" ma una sovrappopolazione relativa e assoluta che il sistema non riesce ad assorbire. Si tratta sempre di una forza lavoro potenziale, ma nella sua "forma stagnante", disponibile a tutto pur di sopravvivere, in spietata concorrenza con quella locale. Davanti a pressioni sociali come questa lo Stato è impotente. Nemmeno la grande probabilità di morte sui tracciati terrestri e marini ferma i flussi migratori, e l'impotenza statale diventa vero e proprio assassinio di massa in quanto consapevole atteggiamento, nel momento in cui viene rifiutata l'opera di salvataggio, considerata stimolo attivo a ulteriore e più massiccia immigrazione.

Nelle metropoli dei paesi più industrializzati, che ormai non vuol più dire solo "occidentali", generazioni di esclusi dal ciclo produttivo si concentrano, spesso in ghetti, senza alcuna speranza di venire assorbite dal mercato del lavoro a qualsivoglia condizione, e i classici ammortizzatori sociali dello Stato non sono  più sufficienti. Vasti strati della popolazione diventano sempre meno "stranieri" ma sempre più alieni all'insieme della società. Nemmeno il settore della cosiddetta criminalità organizzata riesce ad assorbire a poco prezzo tanta disponibilità, per cui si sviluppano isole di sopravvivenza che riciclano al loro interno il valore prodotto o raccolto, dando origine a micro-attività economiche invisibili agli strumenti di controllo statale. Di fronte a una impossibile proletarizzazione, caratteri etnici, religiosi, nazionali, diventano motivi di aggregazione. Una vera e propria regressione sociale che cova fino a produrre una piccola borghesia locale, capace di produrre a sua volta una elementare ideologia del rifiuto, sufficientemente grezza e semplificata per combattere senza sfumature i tentativi statali di integrazione. La crescita del fenomeno porta inevitabilmente a un processo di autonomizzazione a macchia di leopardo, specie nelle metropoli sovraffollate. Non appena si allenta, il potere di controllo statale viene soppiantato da autorità locali sempre meno spontanee (mafie, ecc.), tanto che in alcuni casi lo Stato deve intervenire con armamento pesante e mezzi blindati. Tuttavia, anche senza arrivare a questi limiti, il rapporto Stato-cittadino è sempre più improntato alla violenza, anche quando polizia, istituzioni e poteri locali ricorrono a svariati strumenti di corruzione. Ad esempio l'apparato di assistenza sociale che, tramite le politiche di integrazione, provoca divisioni e odio nel campo stesso dei potenziali "assistiti" e diventa così un elemento complementare della repressione armata. Paradigmatica in tal senso è la situazione delle grandi città di Francia e Inghilterra, dove non si sa più se è la violenza sociale a provocare l'intensificarsi delle politiche di integrazione o se sono esse stesse a provocare la violenza sociale per il solo fatto di esistere.

Considerato il "vuoto istituzionale", reso evidentissimo nelle rivolte delle banlieue francesi e nei suburbi inglesi, non possono che rafforzarsi le strutture politiche e religiose che sostituiscono talune funzioni dello Stato in ambito educativo e assistenziale per gli immigrati. Nel quadro del degrado della spesa sociale, questa penetrazione "dal basso" nella società produce un crescente auto-radicamento col quale cresce di pari passo l'ostilità verso il vertice statale. Nei casi in cui lo scontro diventa endemico, può succedere addirittura che lo Stato abdichi alle sue funzioni lasciandole a dette strutture, con le quali spesso tratta nel disperato tentativo di alleviare la pressione sociale. La quale, naturalmente, produce anche, se non soprattutto, un costo economico.

Capitalismo senile e sintomi di collasso nei paesi avanzati

Il carattere globale della produzione, della distribuzione e della circolazione dei capitali si riflette su ogni territorio in maniera differente. All'interno dei singoli paesi le suddivisioni amministrative e produttive (regioni, province, comprensori, distretti industriali o commerciali) hanno tempi di reazione diversi rispetto a un movimento che è planetario e ovviamente le sovrasta. Alcune aree possono attirare in breve tempo capitali, investimenti e strutture, altre che sono magari a poca distanza no, risultando "depresse". Il fenomeno è generalizzato e ha pure una spiegazione matematica ben studiata dagli economisti: il Capitale si sposta di preferenza dove già ce n'è, insomma, tende a piovere sul bagnato. Lo Stato in genere interviene legiferando a favore delle aree depresse per contrastare la tendenza "naturale". Normalmente questo intervento non ha efficacia e le cose rimangono grosso modo come sono, soprattutto perché l'elefantiaca spesa pubblica non può essere aumentata oltre un certo limite. Tuttavia i fattori di accumulazione locale sono influenzati da questa situazione, e in ogni singolo capitalista si rafforza la convinzione che parte del valore che egli produce vada arbitrariamente ad altri. Essendo la situazione generalizzata, ecco che produce un'ideologia conseguente di autonomia quando non di secessione, con tanto di movimenti politici che convogliano il malcontento.

Fenomeni analoghi esistono in ogni paese abbastanza grande da poter sviluppare delle differenze economiche al suo interno. A questo fenomeno si abbinano spesso problemi etnici non risolti, attuali o arcaici che siano. L'ideologia autonomistica o secessionistica è alimentata da situazioni industriali favorevoli che, fornendo produzioni particolari per la loro qualità o capacità di concorrenza economica, riescono a non essere sopraffatte dal mercato globale e addirittura se ne avvantaggiano. Si tratta di aree spesso integrate, in cui ogni singola unità produttiva è come il reparto specializzato di una unità più grande, e l'infrastruttura fornita dallo Stato è il tessuto connettivo, come una grande linea di montaggio che trasporta i semilavorati alle singole fasi di lavorazione. La situazione di dette aree è paradossale, perché reclamano a gran voce un'autonomia dallo Stato ma hanno bisogno delle infrastrutture che solo lo Stato può loro fornire, specie in rapporto con altri paesi ("corridoi", ecc.). In più, esse non sono affatto autonome perché sono fortemente collegate ai flussi di materie prime, semilavorati e aree di sbocco del mercato globale. Infatti molto sovente un movimento autonomista o secessionista è anche favorevole all'aggregazione "spontanea" con aree o distretti analoghi in altri paesi.

Per quanto lo Stato intervenga, le differenti velocità di crescita e il legame più o meno proficuo col mercato mondiale comportano una crescente frantumazione del tessuto connettivo unitario. L'iniziale differenziazione cresce con effetto-valanga, perché a questo punto anche le aree meno sviluppate possono avere la "loro" rivendicazione, cioè rendersi autonome da uno Stato che non le tutela. È evidente che più aumentano le differenze di valore prodotto, e perciò di reddito medio, di pressione fiscale e di spesa pubblica, più si rafforzano gli interessi localistici. Le risposte politico-istituzionali che, in diverse condizioni, i paesi avanzati hanno fornito, si sono rivelate medicine peggiori della malattia. Concessioni federalistiche, politiche di decentramento dei poteri verso le istituzioni locali, manovre sulla pressione fiscale locale non hanno fatto altro che ingigantire l'apparato burocratico raddoppiando inutilmente funzioni tecnico-amministrative con il seguito di clientele, corruzione, ecc. Il federalismo, movimento transnazionale presente in tutti i maggiori paesi europei, per qualcuno è etichetta ideologica, per altri è vera e propria secessione, rottura dell'unità nazionale. In ogni caso, il variegato movimento autonomista rappresenta uno dei sintomi della perdita di potenza dello Stato etico nello stesso momento in cui lo Stato si deve rafforzare come baluardo armato in difesa del capitalismo.

Stati di antica storia unitaria vivono o rivivono tensioni autonomistiche interne sempre più acute, per cui minoranze linguistiche, etniche o altro spingono verso soluzioni radicali sullo sfondo di ben determinati interessi economici. È indicativo che questo genere di problemi riguardino non solo casi storici di antiche nazionalità inglobate, come in Spagna (Paesi Baschi, Catalogna), in Canada (Quebec), in Inghilterra (Scozia), in Belgio (Valloni e Fiamminghi), ecc., ma anche paesi, come l'Italia, dove il millenario passaggio di popoli d'ogni sorta avrebbe dovuto vaccinare i cittadini contro il virus etnico. Non ne è indenne nemmeno la Francia, dove la tradizione statale è forte a causa della radicale rivoluzione borghese, ma dove spira qualche brezza progressista (nel senso della moda federalistica), che sembra ora procedere verso un decentramento amministrativo di portata storica. Essendo uno dei paesi dal carattere ancora fortemente centralizzato, ha una delle spese pubbliche più alte del mondo in rapporto al PIL e cerca di rovesciare sulle sue propaggini periferiche le spese di carattere sociale come assistenza e prevenzione per le popolazioni più anziane, spesa sanitaria, servizi sociali di vario genere concernenti la gestione del territorio. È anche per questo che, in un recente dossier, The Economist ha considerato la Francia come "la bomba a orologeria nel cuore dell'Europa".

Demandando alla periferia le sue funzioni sociali, lo Stato centrale si riduce a titolare di soli tre ministeri: Interni, Esteri e Difesa, per cui poco alla volta perde definitivamente capacità di controllo locale. Per di più, limitando la spesa centrale per le istituzioni periferiche, favorisce la differenza sociale fra aree di uno stesso paese. Dove il reddito locale medio (leggi plusvalore + salario) è alto, si accentuerà l'egoismo autonomistico economico, mentre dove è basso, si accentuerà il malcontento autonomistico da miseria crescente. Il minor controllo centrale farà saltare la funzione mediatrice della politica fiscale che garantisce un regolare processo di riproduzione del Capitale e quindi una maggiore coesione sociale.

Il tentativo da parte dello Stato di conquistare consenso contenendo la pressione fiscale, o addirittura riducendone il peso, ha aggravato la scomposizione territoriale senza tuttavia risolvere alcun problema. I movimenti contro il prelievo fiscale sono antichi, ma nell'epoca presente sono espressione specifica del disagio crescente della piccola e media borghesia. Basti pensare al poujadismo francese o al movimento antitasse che portò Reagan alla presidenza degli Stati Uniti. Artifici come il federalismo fiscale sono in realtà espedienti politici e ottengono l'effetto di incrementare ulteriormente i fattori di instabilità sociale, sono benzina sul fuoco. Dove questa differenziazione territoriale non porta ad aperti movimenti di separatismo "politico" si verificano fenomeni per certi versi ancora più disgreganti. L'esempio di alcune regioni italiane è molto significativo. Nel 2002, la Lombardia aveva immesso sui mercati finanziari americani obbligazioni per un miliardo di dollari. La risposta degli operatori finanziari era stata entusiasmante in quanto la Lombardia e il Nord-Est godevano di ottima considerazione nei circuiti internazionali. Le obbligazioni avevano portato alla regione una quantità di fondi superiori alle attese; ciò aveva consentito una maggiore possibilità di spesa, quindi possibilità di erogare più servizi rafforzando legami con imprese di varia natura e consolidando clientele e sottosistemi di potere. È evidente che su un piano più generale la Lombardia, grazie a questa condizione privilegiata sui mercati finanziari, si differenzia da altre regioni, drenando denaro a largo raggio, ma utilizzandolo solo in casa. Il processo di ineguaglianza rispetto alle regioni meno "redditizie" ne risulta amplificato. L'esempio dei bond regionali è solo più chiaro di altri, ma si capisce che il meccanismo si può applicare all'intera economia regionale.

Un'area autonoma in un contesto capitalistico poco regolato si arricchisce inesorabilmente a scapito di altre. Alcune regioni avevano provato a imitare l'intraprendenza finanziaria della Lombardia. Essendo però meno favorite dal Capitale, avevano tentato di "coprirsi" acquistando prodotti derivati ad alto rischio, tanto che la magistratura aveva ipotizzato truffe delle banche internazionali nei confronti degli enti pubblici. Con l'emissione di titoli locali esse si sganciavano in certa misura dal legame con lo Stato, lucrando o rischiando a seconda della forza contrattuale sui mercati. Di fatto il Capitale si è intrufolato, nella sua forma finanziaria, anche nelle pieghe della società civile un tempo dominate dallo Stato.

Ancora più singolare è quanto hanno riportato gli organi d'informazione rispetto ai distretti del Nord-Est italiano: una nutrita schiera di imprenditori medio-piccoli "esacerbati dalla eccessiva ed esosa pressione fiscale" si è dotata di strutture private nelle quali far confluire i profitti, sottraendoli così alle indagini delle autorità centrali e istituendo una sorta di circuito finanziario alternativo rispetto ai tradizionali istituti di credito. Il fatto fu scoperto alcuni anni fa, ma tutto venne, velocemente e in sordina, riportato alla normalità. Il verificarsi di queste situazioni dimostra l'alto grado di conflittualità nei confronti di uno Stato che, per quanto riguarda la politica fiscale e la spesa pubblica si "mangia" quasi la metà del valore prodotto e si dimostra recalcitrante, per mancanza di fondi, ad accollarsi le perdite e ad alimentare profitti. D'altra parte, oltre allo Stato "pappone", di fronte al capitalista grande o piccolo si erge la Banca "vampira", altro nemico storico del povero capitalista sfruttato. Si capisce che quest'ultimo cerchi in tutti i modi di sottrarre il proprio capitale alle fameliche doppie ganasce.

Si riproduce in piccolo, a livello nazionale, ciò che in grande fanno le potenti multinazionali, che invece riescono con estrema facilità a sottrarsi ai controlli statali con lo shadow banking o le operazioni over the counter. In tutto ciò non si può fare a meno di osservare una sorprendente analogia con le attività delle mafie internazionali che tendono a sviluppare il controllo dei propri flussi di credito/debito completamente off shore, cioè al di fuori dei sistemi economici nazionali. Una istituzione fiscale forte, snella e affidabile è tradizionalmente uno dei requisiti di uno Stato forte ed ha come complemento una Banca Centrale in grado di governare i flussi monetari. Ma se a causa della pressione fiscale i capitali si sottraggono al controllo interno, la Banca Centrale incomincia ad essere esautorata di fronte al peso soverchiante dei capitali in movimento per il Globo e dall'esistenza di istituti internazionali cui quelli nazionali devono piegarsi. Il fenomeno del decentramento in generale, e di quello fiscale in particolare, è nello stesso tempo prodotto e fattore della perdita di energia da parte dello Stato borghese. Formalmente può apparire come un alleggerimento della spesa pubblica centrale e della pressione fiscale; in realtà dal punto di vista del conto economico non cambia nulla, mentre cambia invece la struttura di controllo economico-sociale della classe dominante.

Controtendenze mondiali all'impotenza dello Stato

La situazione che abbiamo cercato di sintetizzare, la perdita di controllo politico da parte dello Stato proprio mentre si gonfia la sua presenza economica nella società, produce naturalmente delle controtendenze. Molti organismi sovranazionali, con sigle che quasi nessuno sente mai nominare, rappresentano in effetti un tentativo di superare l'impotenza suddetta attraverso accordi multilaterali. Ovviamente se funzionassero a questo scopo i tre già nominati, cioè il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale e l'Organizzazione per il Commercio Mondiale, non ci sarebbe bisogno di una proliferazione di altri istituti che hanno grosso modo gli stessi obiettivi in aree specifiche. D'altra parte gli organismi sovranazionali non hanno né possono avere un esercito per far valere le proprie direttive. Anche l'ONU può solo disporre, e non sempre, di truppe nazionali che agiscono sotto una bandiera internazionale ma obbediscono a comandanti nazionali i quali a loro volta obbediscono ecc..

Nel secondo dopoguerra, il primo tentativo di aggregazione di interessi economici sotto l'egida di una istituzione sovranazionale fu la Comunità Europea del Carbone e dell'Acciaio (CECA). Si capisce dal nome che il forte binomio energia-acciaio era lo specchio dell'impellente ricostruzione post-bellica. Tale istituzione doveva evolvere negli anni, sopravvivere alla fine del Piano Marshall (prestiti americani) e diventare la base per l'attuale Unione Europea. La guerra aveva inoltre prodotto un trattato militare detto del Nord Atlantico anche se si spingeva soprattutto nel Mediterraneo (NATO). Dato che il mondo era allora diviso in due blocchi, anche quello orientale si dette un'analoga struttura con il SEV (Sovet Ekonomičeskoj Vzaimopomošči, o COMECON) e il Patto di Varsavia. Quella quadruplice esperienza servì da modello ispiratore per molte altre sparse per il mondo, ed esse si moltiplicarono al punto da non poterne più tenere il conto.

In reazione alla presenza del capitale nordamericano in America del Sud, ad esempio è nato da tempo il Mercosur, associazione fra Argentina, Brasile, Paraguay, Uruguay e Venezuela (con l'adesione esterna di Bolivia, Cile, Colombia, Ecuador, Perù; osservatori: Messico e Nuova Zelanda). Il processo di aggregazione è stato faticoso, dato che i vari paesi non sono politicamente omogenei (il Venezuela è appena stato accettato e il Paraguay, ostile al suo ingresso, s'è appena allontanato), ha però rappresentato un tentativo di mercato comune sudamericano per limitare la debolezza intrinseca delle divisioni nazionali in rapporto all'unità del capitale nordamericano. Date comunque le differenze politiche, l'accordo riguarda solamente le regole elementari di circolazione delle merci e dei capitali, all'interno e nei confronti di paesi terzi, mentre sono esclusi centralizzazione bancaria e rapporti militari. Il Mercosur allo stato attuale è più o meno nelle condizioni in cui si trovava il MEC (Mercato Comune Europeo) all'inizio degli anni '60 del secolo scorso. In tale situazione, la cessione di poteri da parte dei vari Stati all'organismo sovranazionale è piuttosto blanda. Rimane il fatto che simili esperienze sono una via obbligata. Lo dimostra il fatto che il Mercosur, nonostante abbia avuto vita assai tribolata proprio a causa dei veti incrociati fra i differenti paesi, ha visto aumentare le adesioni e anche l'effettiva collaborazione interstatale.

Dalla parte opposta dell'Oceano Atlantico, quindici paesi dell'Africa Australe (Angola, Botswana, Repubblica Democratica del Congo, Lesotho, Madagascar, Malawi, Mauritius, Mozambico, Namibia, Seychelles, Sudafrica, Swaziland, Tanzania, Zambia, Zimbabwe) hanno dato vita a un accordo dello stesso tipo, il SADC (Southern Africa Development Community). Ovviamente qui la situazione è diversa: mentre persistono le differenze politiche, è indubbio che la leadership dell'intera aggregazione è saldamente in mano al Sudafrica, che, in quanto potenza locale non confrontabile a quella dei vicini, tende a estendere il proprio controllo su un'area vastissima e ricchissima di materie prime, quindi ad acquisire crescente influenza su buona parte dell'Africa. Nata dall'iniziativa delle nazioni formatesi nel periodo della decolonizzazione (Front Line States) la comunità prevede non solo la regolamentazione dei rapporti economici ma anche quella della sicurezza militare e una blanda cooperazione politica locale coordinata con quella continentale dell'Unione Africana. In questo caso la cessione di sovranità dei differenti paesi non è tanto nei confronti dell'organismo sovranazionale quanto verso il paese egemone.

Di particolare interesse, per l'enorme importanza strategica dell'area che coinvolge, è il CCG (Consiglio di Cooperazione del Golfo), organismo che unisce l'Arabia Saudita agli altri paesi del Golfo della penisola arabica (Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Oman, Qatar). L'integrazione di questi paesi è della massima importanza, sia perché nel loro sottosuolo è concentrata una rilevante parte delle riserve petrolifere del pianeta, sia perché gli ambiziosi progetti di sviluppo e d'investimento hanno trasformato l'area in uno dei massimi attrattori di capitali a livello mondiale. In tale contesto, è in corso di attuazione un progetto di Mercato Comune del Golfo, al quale dovrebbe aderire anche lo Yemen, con l'adozione di una moneta unica, il Khaliji. La potenza economico-finanziaria derivata dalla rendita petrolifera, attribuisce al CCG un notevole potere politico, già manifestato sia durante tre guerre del Golfo (Iran-Iraq, Iraq-Kuwait, Invasione dell'Iraq da parte degli Stati Uniti), sia nella cosiddetta Primavera Araba, durante la quale l'Arabia Saudita ha compiuto operazioni militari di portata regionale invadendo il Bahrein. La "capacità di contrattazione" del CCG a livello internazionale è robusta, basti pensare al reiterato annuncio dell'intenzione, per ora mai attuata, di sostituire il dollaro come moneta di riserva e di scambio, con l'euro e altre valute. Date le dimensioni del flusso di capitali in entrata e uscita è facile intuire quanto pesi un simile ricatto. Anche in questo caso, la cessione di sovranità statale all'organismo sovranazionale si riduce ad una delega nei confronti dell'Arabia Saudita, soprattutto perché gli Stati in questione, pur modernissimi, hanno caratteristiche tribali, religiose, ecc. che ostacolano una vera comunità economica.

Uno dei trattati più importanti è quello fra i paesi dell'ASEAN (Association of South-East Asian Nations), siglato negli anni '60 del secolo scorso fra Indonesia, Malesia, Filippine, Singapore e Thailandia. Nata sotto tutela americana, questa aggregazione sovranazionale si è ingrandita accorpando nuovi paesi non appena la situazione geopolitica in quello scacchiere è cambiata con la fine della guerra vietnamita. L'ingresso di Birmania, Brunei, Cambogia, Laos e appunto Vietnam ha stravolto lo schieramento originario, limitando la sovranità nazionale dei paesi fondatori, precedentemente raggruppati sotto l'ombrello della potenza americana per via della cosiddetta Guerra Fredda. Perduta la forte connotazione politico-militare iniziale, l'ASEAN è diventata sempre più una comunità economica e commerciale sul modello europeo anni '60. Con la differenza che è in progetto una riforma verso condizioni unitarie "avanzate", il che, qualunque cosa voglia dire, ha già scatenato una discussione a livello di vertici interstatali che ha coinvolto Cina, India e Stati Uniti. Per questi ultimi è di vitale importanza che la cessione di sovranità statale di ogni paese non si concretizzi in una effettiva autorità di livello superiore in sostituzione alla frammentazione precedente, assai più controllabile. Di conseguenza, per il loro verso, India e Cina hanno tutto l'interesse ad avere rapporti stretti nel tentativo di sostituire l'influenza americana. Il meccanismo che si è messo in moto sarà difficile da contrastare: l'ASEAN organizza regolari incontri con i suoi partner riconosciuti, che essa stessa raggruppa in un organismo parallelo chiamato "ASEAN dialogue partners", i cui membri sono Australia, Canada, Cina, Corea del Nord, Corea del Sud, Giappone, India, Mongolia, Nuova Zelanda, Russia e Stati Uniti. Oltre a questi partner, l'Associazione inserisce nella propria strategia economica altri paesi d'Asia e soprattutto l'Unione Europea. Questa miscela esplosiva aveva suggerito ad alcune componenti dell'amministrazione di Washington, sotto la presidenza Bush, una politica estera specifica per uno scenario che secondo loro rappresentava il maggior pericolo sul medio e lungo periodo per gli interessi americani.

Come al solito, ogni tentativo di risolvere problemi inerenti alle possibilità di accumulazione, sfocia in un problema ancor più difficile da risolvere. Il movimento oggettivo verso il superamento delle singole dimensioni nazionali da parte dei paesi "minori", porta quelli "maggiori" ad escogitare ogni mezzo per far valere il loro controllo sui tentativi di aggregazione. Cercano perciò di privilegiare rapporti bilaterali in luogo di quelli fra paesi associati, ma finiscono per creare tensioni fra i grandi paesi singoli (che poi singoli non sono affatto, come vedremo). Nel caso specifico dell'ASEAN il tentativo egemonico unilaterale rispettivamente di Cina, India e Giappone si risolve in un aumento del loro contenzioso geopolitico.

Accordi generali per il libero commercio

Suggeriamo un esperimento: si vada su Internet in uno dei siti che mostrano in sintesi il profilo socio-economico dei vari paesi, ad esempio il Factbook della CIA, e si veda l'elenco dei trattati, accordi, cooperazioni, ecc. che collegano un paese all'altro. Salterà subito all'occhio una rete estesissima, con migliaia di relazioni, assai simile a quella delle partecipazioni incrociate fra le aziende. Ogni nazione partecipa a più trattati, e questi stessi si sovrappongono a seconda delle aree. Ad esempio, i paesi del Sud-Est asiatico membri dell'ASEAN si affacciano quasi tutti sul Pacifico e quindi sono coinvolti in un altro trattato, più vasto, che raggruppa ventuno paesi bagnati da quell'Oceano, l'APEC (Asia-Pacific Economic Cooperation): Australia, Brunei, Canada, Cile, Cina, Corea del Sud, Filippine, Hong Kong, Giappone, Indonesia, Messico, Malaysia, Nuova Zelanda, Papua Nuova Guinea, Perù, Russia, Singapore, Stati Uniti, Taiwan, Thailandia, Vietnam. Come si vede, questo insieme di livello superiore contiene grossi calibri imperialisti. Esso rappresenta il 55% del PIL mondiale e il 44% del commercio. La missione è la solita ed è la stessa dell'insieme inferiore: liberalizzazione del commercio e degli investimenti, corsie preferenziali per gli affari, cooperazione economica e tecnico-scientifica. C'è da chiedersi a che cosa servano due trattati per missioni analoghe riguardanti gli stessi paesi. Ad ogni modo il trattato è aperto e promette di diventare ancora più vasto: l'India ha chiesto di entrarvi anche se a rigor di logica non è sul Pacifico. Evidentemente i criteri sono elastici perché sono in lista d'attesa Bangladesh, Colombia, Costa Rica, Ecuador, Laos, Mongolia, Pakistan, Panama.

Negli ultimi anni è aumentato il numero di trattati bilaterali o multilaterali tra Stati per la totale o parziale abolizione delle barriere protettive contro la circolazione di merci e capitali. La prima osservazione che viene in mente è: dunque le barriere persistono alla faccia della globalizzazione, e il commercio non è affatto libero se occorre "liberarlo". Ma andiamo avanti. Le aree di libero scambio sono sempre esistite, tuttavia prendono piede specialmente nel secondo dopoguerra. Lo scopo generale dei paesi che ne fanno parte è quello di incrementare i loro commerci, ma per la precisione l'ideale è un rapporto fra paesi con produzioni ed esportazioni complementari, ad esempio un paese importatore di materie prime ed esportatore di manufatti con un paese a situazione invertita.

La versione moderna di questi accordi denominati Free Trade Agreements è particolarmente sponsorizzata dagli Stati Uniti. Essi incominciarono ad essere siglati alla fine degli anni '80 e determinarono la nascita delle Free Trade Area (FTA). Il primo accordo su posizioni complementari venne stipulato tra Israele e Stati Uniti. L'eterna situazione di conflitto con i palestinesi e le conseguenti spese militari avevano provocato in Israele un'inflazione al 400% e un debito pubblico pari al 266% del suo PIL. Per ridare ossigeno all'economia, Gerusalemme diminuì il ricorso agli aiuti diretti e integrò parte della sua struttura produttiva a quella del più potente alleato. Il settore che ottenne maggiori benefici da questa strategia fu, manco a dirlo, quello delle produzioni belliche ad alta tecnologia, molto concorrenziali rispetto, ad esempio, a quelle giapponesi. Oggi, a 25 anni dalla firma di quell'accordo, le esportazioni israeliane negli Stati Uniti sono nell'ordine di grandezza degli aiuti finanziari di Washington.

Già dalla fine del secolo scorso assistiamo alla messa in atto, da parte degli USA, di una strategia sistematica per siglare accordi del tipo appena descritto. La grave crisi del Messico nei primi anni '90 provoca l'intervento finanziario degli Stati Uniti i quali, per garantirsi il ritorno del capitale, integrano il paese centro-americano nella struttura FTA che già comprendeva USA e Canada. Il nuovo organismo, NAFTA (North American Free Trade Agreement), è revisionato per l'occasione sul modello CEE più volte qui ricordato. Tutta la parte settentrionale del continente viene quindi a trovarsi integrata. Ciò non succede solo a livello del libero commercio ma anche a quello complementare della produzione. Infatti nascono come funghi, al confine fra il Messico e gli Stati Uniti, le maquilladora, fabbriche piccole e medie, spesso frutto di delocalizzazioni statunitensi, che producono a basso costo merci per il Nord, riducendo nello stesso tempo la pressione migratoria sul confine. A questo trattato ne segue uno ulteriore che integra i paesi meso-americani, il DR-CAFTA (Dominican Republic-Central America Free Trade Agreement). Ovviamente, a differenza del modello europeo, la soverchiante potenza degli Stati Uniti rende il trattato perlomeno particolare. Infatti un corollario è costituito da altri accordi con la Colombia, con il Perù e con il Cile, paesi che guarda caso non hanno mai aderito ai programmi nazionalpopulisti del bolivarismo. Alla complementarietà economica si aggancia il classico legame politico tipico delle aree di influenza.

L'attivismo degli Stati Uniti in questo campo è notevole. Nell'area mediterranea e medio-orientale, hanno siglato accordi di questo tipo, oltre che con Israele, anche con la Giordania, il Marocco, l'Oman e il Bahrein, paesi di provata fede filo-occidentale. Attualmente il loro interesse per le economie emergenti del sud est dell'Asia e in generale del Pacifico è molto elevato. I trattati firmati con Singapore e Australia fanno da battistrada per giungere a quelli, ancora da puntualizzare, con la Corea del Sud. Ci sono trattative in corso con Indonesia, Kuwait, Malesia, Nuova Zelanda, Taiwan, Emirati Arabi Uniti e Thailandia. L'uso di questo tipo di accordo trova spazio di diffusione in quanto la struttura preposta ad armonizzare il commercio mondiale, la già ricordata WTO (World Trade Organisation), si rivela troppo lenta rispetto alla sempre maggiore difficoltà a conciliare i diversi interessi, mentre le intese bilaterali su aree specifiche sono più facili da raggiungere e garantiscono maggiore efficacia.

Alcuni accordi si limitano ad aspetti puramente commerciali. In altri casi, invece, la firma dell'accordo sancisce delle significative trasformazioni che, attraverso la libera circolazione delle merci e dei capitali,  accelerano il processo di socializzazione del lavoro e favoriscono l'integrazione tra economie di diversi paesi. Venuta meno, in determinate aree, la necessità delle barriere commerciali, svanisce di conseguenza la necessità di dazi e dogane e  si modifica lo stesso concetto di "commercio estero" basato sulla capacità concorrenziale di contenere le spese, abbassare il costo del lavoro e aumentare la competitività delle merci attraverso lo strumento dei cambi.

Gli effetti di questo processo si riflettono sulle istituzioni politiche, rendendo obsolete o marginali alcune strutture statali. Le misure per stimolare il libero commercio quando produzioni complementari lo rendono vantaggioso vengono decise dietro la spinta dei maggiori paesi, negli organismi sovranazionali (soprattutto Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale), nelle banche centrali dei singoli stati e nei ministeri finanziari. Sono tutte azioni tese ad uniformare la circolazione delle merci e di capitali, a renderla più dinamica. Ricavate per la maggior parte dall'esperienza evolutiva (o involutiva) dell'Unione Europea, non ne riproducono l'edificio politico-formale, che è piuttosto barocco e farraginoso. Il livellamento delle varie economie per la realizzazione di un interesse comune, almeno per aree, produce un rafforzamento dei legami internazionali, che produce a sua volta delle ricadute politiche e militari. Ad esempio gli Stati Uniti, mettendo in moto un processo di integrazione di tutto il continente americano dall'Alaska alla Patagonia, vanno ben al di là della semplice integrazione dei mercati. Essi pongono in essere una potenziale rete di alleanze per recuperare l'influenza perduta nel continente e per affrontare diversi livelli della concorrenza nella attuale situazione di crisi economica e di inadeguatezza delle strutture statali tradizionali.

In questo processo, non è strano che si incontrino interessi specifici anche al di fuori di una contiguità geografica. Un esempio è ben rappresentato dalla trattativa "anomala" tra Brasile, Sud Africa e India che ha dato vita all'IBSA Trilateral. A prima vista non si scorge un motivo valido per un trattato fra paesi così differenti e poco complementari, situati in tre continenti separati da due oceani. La sintesi del trattato presente sul sito ufficiale non dà spiegazioni a questo proposito e l'elenco delle "missioni" è del tutto generico, come quello di qualunque altro trattato di interscambio economico, culturale, etico, ecc. Si tratta certo di tre paesi importanti e situati in posizione strategica lungo la fascia oceanica che nella vecchia geopolitica rappresenta il "ring" sotteso a sud del "heartland" ("il cuore del mondo") centroasiatico: paesi che tendono a diventare potenze regionali di primo piano e quindi necessariamente interessati a una strategia economico-militare legata a una ben individuata area. Stessa strategia, stessa politica estera e così via. Nessun paese che superi una certa soglia critica di popolazione e di accumulazione può sottrarsi alla necessità di proiettare all'esterno alcune delle proprie prerogative statali, perdendone quindi il controllo, delegandole a organismi sovranazionali. È impossibile capire se le ragioni economiche hanno causato la strategia o se esse sono conseguenti, per convenienza, alla definizione della strategia stessa. Sta di fatto che l'IBSA Trilateral genera – o è generata da – uno "spazio economico" che comprende 800 prodotti delle industrie, dell'agricoltura o delle miniere locali, un paniere produttivo-mercantile gestito in modo unitario da un vertice sovranazionale espresso da paesi che apparentemente non hanno niente da spartire fra loro.

All'IBSA si è sovrapposta un'altra realtà sovranazionale ben più imponente, il cui acronimo, BRICS, raggruppa cinque paesi: Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica, con un sesto candidato che ha già partecipato ai lavori congiunti, la Turchia. Quasi la metà della popolazione mondiale, i cui rappresentanti hanno a tutt'oggi organizzato quattro summit e uno è in preparazione per il 2013. La potenza del Capitale che piega paesi anche grandi alle proprie esigenze è evidente. Le singole unità statali sono ormai troppo piccole per un Capitale diventato troppo grande. Se questi processi continuano, fra pochi anni dovremmo avere un superorganismo che rappresenti la totalità della popolazione mondiale. Ma non ve ne sono già altri?

Globalizzazione islamica

L'internazionalizzazione del Capitale ha prodotto un'altra originale forma di aggregazione tra Stati, confinanti o no. Mentre l'utopia dell'unificazione araba si è schiantata contro la pragmatica storia del separatismo delle aree via via conquistate dalle popolazioni di origine beduina e sabea, la religione islamica ha sempre rappresentato un potente collegamento, anche quando era dominante il separatismo tra Stati. Nell'epoca attuale, in cui sono tracciati confini per lo più arbitrari a causa della colonizzazione europea, il mondo islamico manifesta entro i suoi confini aggregazioni analoghe a quelle fin qui analizzate. Gli otto paesi islamici con popolazione più numerosa, Bangladesh, Egitto, Indonesia, Iran, Malesia, Nigeria, Pakistan e Turchia, organizzano periodicamente conferenze comuni (Developing Eight Group) in sostanza per le stesse esigenze che portano altri paesi a stilare trattati. Essi rappresentano buona parte della popolazione islamica del mondo e sono strettamente collegati a paesi meno popolosi ma assai più ricchi di risorse, particolarmente petrolio. Del resto oggi la popolazione islamica mondiale ammonta a 1,57 miliardi di persone in rapida crescita demografica (Pew Research Center), ed è ovvio che rappresenti per il Capitale un formidabile "bacino di utenza unitaria".

Il "risparmio islamico" è una piccola parte del mercato bancario, dall'1 al 2% di quello mondiale, ma cresce a un ritmo del 15% all'anno, mentre la raccolta di risparmio nel resto del mondo agonizza. E comunque un insieme di popolazione e di risorse come quello islamico è di per sé estremamente dinamico, e probabilmente il fenomeno è largamente sottostimato dalle cifre ufficiali. Come è noto, l'Islam proibisce qualsiasi forma di usura e quindi dovrebbe proibire anche qualsiasi forma di operazione bancaria del tipo creditizio-speculativo. La prescrizione viene rispettata con l'ipotesi che il risparmiatore partecipi all'investimento della banca e quindi ricavi degli utili. In tal modo la banca non praticherebbe usura ma si farebbe semplicemente pagare un servizio, e il beneficiario non percepirebbe un interesse speculativo ma il risultato di operazioni realmente effettuate con il finanziamento della costruzione di immobili, impianti produttivi, infrastrutture ecc. Sembra che con questo meccanismo i capitali affidati al circuito bancario islamico offrano un rendimento più alto della media. Ciò spiegherebbe l'anomala crescita, ma soprattutto renderebbe evidente di quale grande potenziale di raccolta l'islamic banking possa disporre sul terreno della concorrenza fra istituti di credito. Se pensiamo che per il momento la rendita petrolifera è impegnata per lo  più in attività internazionali, specie sul mercato finanziario anglosassone, possiamo immaginare quale sferzata potrebbe avere quello islamico se dovesse attrarre anche solo una parte modesta di tale rendita.

Dev'essere anche per questo motivo che i paesi della Conferenza di Sviluppo hanno scelto il criterio della maggior popolazione per accordarsi:   l'Arabia Saudita e gli altri paesi arabi del Golfo maneggiano una tale quantità di capitali che all'interno di questo organismo sarebbero destabilizzanti rispetto al loro reale peso demografico. È molto significativa una proposta dell'Iran per un Trattato Comune di Commercio Preferenziale, in pratica un'altra FTA. La conferenza, a livello di ministri economici e di governatori delle banche centrali, si dovrebbe tenere a Teheran e i lavori dovrebbero articolarsi intorno a cinque proposte operative: 1) raddoppiare il volume dell'interscambio, attualmente giunto a 70 miliardi di dollari; 2) intensificare gli investimenti diretti incrociati nell'industria e nell'agricoltura; 3) intensificare lo scambio di conoscenze e brevetti in campo scientifico e industriale; 4) massimizzare le risorse tecniche e finanziarie nella ricerca sull'energia da fonti rinnovabili; 5) proteggere questa zona di interscambio dalle fluttuazioni delle valute dominanti. In un comunicato emanato dalle Camere di Commercio dell'Iran si afferma: "Resta centrale nella visione economica del Gruppo [cioè della Conferenza di Sviluppo] il ruolo dello Stato come catalizzatore della crescita economica all’interno di un processo di sviluppo guidato dal sistema privato". Paesi capitalisticamente giovani si preoccupano della perdita di autorità dello Stato nei confronti del Capitale e ribadiscono il ruolo di controllo del primo sul secondo. Per noi è invece evidente che proprio la necessità che li fa riunire e legiferare internazionalmente dimostra che è compiuto il passaggio dalla subordinazione del Capitale allo Stato alla subordinazione dello Stato al Capitale.

Nell'epoca della globalizzazione le borghesie nazionali rimaste ai margini del processo generale devono escogitare nuovi strumenti per difendere il loro spazio economico. Nello stesso tempo, però, devono partecipare a quello globale senza fare la fine dei vasi di coccio fra quelli di ferro. La vecchia religione utilizzata in modo nuovo diventa uno di tali strumenti, dato che si presta a polarizzare, influenzare, orientare il comportamento economico di masse enormi. L'Islam, a differenza di altre religioni, ha ancora integra questa capacità di orientamento. È chiaro che se norme applicate con convinzione influiscono su miliardi di comportamenti individuali, si genera per questo solo fatto una modifica importante degli equilibri altrove dovuti alla concorrenza. Si genera cioè un'enorme area protezionistica non sanzionabile dagli organismi internazionali messi a guardia dei mercati.

Come in piccolo le reti di Hamas o Hezbollah sostituiscono lo Stato nei servizi essenziali alla sopravvivenza di popolazioni martoriate, così in grande alcuni effetti di una religione con una presa sociale ancora consistente sostituiscono lo Stato anche in paesi dove non imperano la miseria e il massacro. O addirittura in ambito internazionale, dove forze economiche potenti concorrono a unificare aree economico-politiche sotto l'egida di organismi sovranazionali. Adeguare le forme della concorrenza e superare gli strumenti che storicamente sono stati assicurati dallo stato, anzi ne costituivano una prerogativa fondante, non è fenomeno da poco e provoca contrasti sempre più stridenti. Elementi del passato come le gerarchie religiose e gli stessi costumi della vita quotidiana cozzano contro una disponibilità di capitali che proietta nel futuro capitalistico un mondo materiale scintillante di grattacieli, di banche e di ipermercati. Far coincidere le severe leggi del Profeta con la trivialità capitalistica è un'operazione sempre più ardua e rasenta la bestemmia.

Il panarabismo, lo Stato e le milizie islamiche

Proprio mentre si manifestano al massimo i segni di debolezza e di perdita di controllo all'interno dello Stato, la crescita della sua importanza nelle manifestazioni esterne è ben esemplificato nella situazione in cui si trovano numerosi paesi islamici, specie arabi. Ciò è sicuramente in relazione anche con le rivolte della cosiddetta Primavera araba del 2011, e non è difficile che esse si ripetano dato che le cause non sono state rimosse in nessuno dei paesi coinvolti.

In quanto espressione delle necessità del commercio tramite i mercanti itineranti, l'espansione araba si caratterizza per l'assenza di forme statali così come si sono evolute altrove, sia in presenza di società stabili ("asiatiche"), sia in presenza di società dinamiche (antico-classiche, feudali o mercantili). Il mondo arabo (da non confondere con l'insieme più grande che è il mondo islamico) è storicamente costituito da formazioni economico-sociali molto elastiche. Anche quando l'Islam arabo, ai suoi albori, si scontrò con le forme urbane, queste ultime erano luoghi di culto diventati prima accampamenti di carovane, poi città carovaniere, come La Mecca o Medina, mentre al tempo dell'Egira la meridionale Arabia Fertile (Felix), urbana e semi-agraria, era già in decadenza da secoli. Nella logica del pastore o del mercante che si muove su grandi distanze ogni restrizione o impedimento di natura esterna alla tribù è deleteria, e di ciò si è mantenuto il ricordo anche quando le tribù nomadi si sono sedentarizzate e urbanizzate a partire dall'epoca dei califfati. Nella storia recente, invece, la forma statale ha preso il sopravvento e, abbinandosi con l'industria moderna e il Capitale, ha assunto subito l'aspetto centralizzato e totalitario. L'Egitto di Mehemet Alì, nella prima metà dell'800, rappresenta bene il binomio esercito-industria su cui in seguito si baseranno gli Stati arabi, seppellendo per sempre ogni possibilità reale di "riscossa" panaraba.

Il fenomeno del cosiddetto fondamentalismo islamico e della sua espansione è stato analizzato da molti punti di vista, ma soprattutto sulla base di due categorie apparentemente opposte: la prima è quella che lo definisce come un ritorno al medioevo e all'oscurantismo, la seconda quella che individua nell'antimperialismo l'elemento centrale. Nessuna delle due categorie permette di comprendere un fenomeno che non è evidentemente un prodotto del pensiero e nemmeno il risultato di una determinata politica e dei suoi effetti materiali. In generale è vero che il movimento di decolonizzazione e la formazione conseguente di nuovi paesi ha stimolato quasi ovunque il nazionalismo riformistico stataleggiante, cui si contrapponeva o affiancava a seconda dei casi il movimento islamico. In tale clima, le nuove borghesie nazionali giunte al potere hanno cercato di utilizzare o hanno represso tale movimento nel tentativo non solo di consolidare sé stesse ma anche di elevarsi nel contesto internazionale come interlocutori delle borghesie vetero o neo-colonialiste, in grado di ridurre la dipendenza da esse con programmi di riforme agrarie e industriali. In ogni caso, sia che i nuovi Stati reprimessero i movimenti islamici, sia che li utilizzassero, il risultato fu che questi crebbero d'importanza agli occhi della popolazione. Anche perché l'accumulazione in quei paesi non era uno scherzo per quanto riguardava lo sfruttamento, l'espropriazione e spesso la brutale repressione delle correnti avverse al regime del momento.

Nelle aspettative dei suoi ideologi il nazionalismo arabo avrebbe dovuto cementare l'intera area che va dall'Oceano Atlantico all'Oceano Indiano passando dalla Mezzaluna fertile. In realtà agli impedimenti storici interni si sommarono le esigenze dei maggiori paesi imperialisti che produssero una divisione per schieramenti, da una parte gli alleati degli Stati Uniti, dall'altra gli alleati dell'URSS. L'indicatore più significativo della dipendenza di un paese da uno schieramento piuttosto che da un altro è l'organizzazione del suo esercito, soprattutto per quanto riguarda l'armamento di cui è dotato. Perciò, sotto l'egida militare di USA e URSS procedettero di pari passo sia il potenziamento degli eserciti e dei loro armamenti, sia il controllo dello Stato sulla società, esasperando nazionalismo, militarismo, corruzione e violenza. Il bisogno di ricorrere alla fede e ai servizi di coloro che rappresentano il divino su questa terra ne risultò grandemente amplificato.

Ovviamente non possiamo che procedere qui per grandi linee, sta di fatto che la statizzazione, e in alcuni casi la militarizzazione, delle società arabe produssero una crescita forzata e caotica, una certa industrializzazione e di conseguenza la proletarizzazione di larghi strati di contadini, piccoli commercianti e artigiani. Accanto a questa crescita caotica, non si svilupparono però le strutture statali necessarie a garantire un minimo di protezione sociale, perciò ingigantì il divario fra la ricchezza sfrenata e la miseria nera. Ecco perché, venute meno le illusioni di uno sviluppo autonomo senza entrare nella competizione internazionale, era di vitale importanza riuscire a gestire in qualche modo una situazione sociale esplosiva. Ed è in tale contesto che l'unico "strumento" ideologico in grado di assorbire contraddizioni così gravi era la religione. Nella fattispecie quella precisa religione.

Il tramonto del panarabismo classico coincide quindi con l'ascesa del nuovo Islam che, per quanto riguarda i paesi arabi, ridiventa un potente veicolo di identificazione che surclassa lo Stato. Tutti gli elementi di mutamento presenti in forma caotica che distruggevano tradizionali modi di vita del passato potevano essere reinterpretati e riportati sotto controllo attraverso lo strumento della religione. L'organizzazione dei nuovi bisogni sociali che altrove sono a carico dello Stato, come l'assistenza medica, il sostegno ai poveri e ai disoccupati, la scolarità diventa appannaggio delle strutture religiose, o comunque esse se ne  occupano per consolidare la propria autorità presso la popolazione. Con l'aggravarsi della situazione economica internazionale, tutti i paesi arabi hanno dovuto attuare piani di drastica riduzione della già esigua spesa sociale. Questi tagli hanno finito col rafforzare le reti islamiche e produrre ovvie ricadute di carattere politico. Infatti, grazie all'enorme flusso di capitali derivati dalla rendita petrolifera si è consolidato un sistema di pressione politica che fa leva sull'Arabia Saudita e sulle monarchie del Golfo. Questi Stati riversano una quantità non indifferente di denaro (miliardi di dollari) alla rete delle organizzazioni islamiche, influenzandone gli indirizzi e di conseguenza gli scopi. Attraverso questo intreccio di interessi e conquista di autorità presso le popolazioni, le reti islamiche non solo riempiono un vuoto lasciato dallo Stato, ma rappresentano l'unico punto di riferimento per masse esauste da conflitti fra Stati o guerre intestine. In tutti i casi del genere – e il mondo arabo ha esportato questo modello presso altri popoli anch'essi islamici – le reti islamiche "di interesse" che riescono ad avere questo rapporto di fiducia presso le popolazioni, in caso di situazioni pericolose tendono ad armarsi e a sviluppare strategie di difesa e di attacco. L'organizzazione di milizie a sfondo religioso tende di per sé a semplificare l'insegnamento coranico a scopo propagandistico e politico, quindi a far rispettare questo insegnamento elevato a legge contro ogni altra interpretazione, specie se più adattata ai tempi e al contesto scientifico-industriale. Dove lo Stato si rivela particolarmente debole e scisso, queste forze coese e armate prendono il sopravvento, amministrando non più solo l'assistenza sociale ma direttamente i poteri legislativo, esecutivo, giudiziario e militare. Le milizie islamiche si rivelano un mezzo a volte feroce ma sempre efficace per continuare a mantenere il controllo di territori altrimenti ingovernabili. E in un mondo in cui solo i rivoluzionari comunisti possono riuscire a non essere partigiani di nessuno, il militantismo islamico ha un sacco di "tutori" di alto livello. Va da sé che non è raro osservare milizie che cambiano tutore o tentano di mettersi in proprio.

Turchia

In questa sequenza di tentativi volti al superamento dei limiti nazionali mentre si allentano le capacità di controllo interno, vi è il caso particolare della Turchia, che va affrontato con il nostro classico criterio dello sviluppo geostorico dell'intera area in cui un dato paese si inserisce.

Per anni, durante la guerra fredda e anche successivamente, la Turchia è stata un pilastro della politica mediterranea degli Stati Uniti. Il peso considerevole che l'esercito ha occupato per decenni nelle dinamiche di sviluppo del paese custodendone allo stesso tempo la stabilità politica ne ha fatto un alleato sicuro e affidabile entro la NATO. Poi, con il crollo dell'URSS, lo scenario si è trasformato, e per la Turchia si sono aperti scenari fino a pochi anni fa neanche ipotizzabili. Le ex repubbliche sovietiche dell'Asia centrale sono ora, formalmente, stati indipendenti, e in quest'area si concentrano enormi risorse, soprattutto gas e petrolio, ma anche minerali di ogni tipo. Si tratta di una situazione di per sé in grado di mobilitare le attenzioni dei maggiori paesi imperialisti, ma anche le potenze locali non sono indifferenti. Ne risulta che l'Eurasia è una polveriera che al momento è instabile, ma che in futuro potrebbe esplodere. La caratteristica di questa area immensa che comprende sei paesi e va dal Caspio al Xinjiang in Cina, è di essere abitata quasi senza soluzione di continuità (al di qua del Caspio la Turchia è separata dal territorio delle sue origini da uno spazio relativamente piccolo che comprende parte della Georgia, l'Armenia e l'Azerbaigian) da una fascia di popolazioni turcofone, fascia che si chiama ancora oggi Turkestan, suddiviso fra occidentale e orientale.

La Turchia evita intelligentemente ogni riferimento a una "Grande Turchia" per non attizzare le preoccupazioni delle grandi potenze, ma è in buona condizione oggettiva per sfruttare questa affinità etnica, e lo fa, tanto più che ha ormai lasciato in secondo piano la piena adesione all'Unione Europea, stupidamente sabotata da Bruxelles. Ovviamente per impostare una politica estera in uno scacchiere mondiale in cui si scontrano gli interessi di Stati Uniti, Russia, Cina, India, Pakistan, Iran e Arabia Saudita, oltre alle nazioni limitrofe, occorre estendere alcune prerogative dello Stato verso quella regione, stringere accordi, ecc., come abbiamo visto fin qui. Di fatto un compito immane per lo stato di un paese emergente. Tanto più immane in quanto lo stato turco incomincia a mostrare al suo interno gli stessi sintomi di perdita di controllo che abbiamo individuato altrove. La caparbia difesa della rivoluzione borghese e dei suoi risultati laici e statalisti è in crisi, indebolita da un malessere sociale che ha provocato un risveglio delle componenti islamiche un tempo assopite. L'esercito, garante dei principi suddetti, s'è corrotto e non ha più avuto la forza e la coerenza che un tempo spingeva fino al colpo di stato. Così ha subìto un'epurazione che ha semplicemente rappresentato il corollario della suddetta perdita di controllo da parte dello Stato.

Ora, uno stato con debolezze interne semplicemente non può dispiegare delle forze esterne. Ma il grandioso progetto panturco vagheggiato dalla destra nazionalista fa parte del bagaglio nazionale, anche se con diversissime sfumature, quindi non può essere semplicemente eluso. Una riuscita anche solo parziale dei progetti di cooperazione in corso con i paesi turcofoni porterebbe a variazioni assai impegnative nell'assetto di tutta l'Eurasia, con ripercussioni fino all'interno della Cina, dove peraltro ci sono già state rivolte dei turcofoni Uiguri contro il governo centrale. Da paese islamico in rapporto con altri paesi prevalentemente islamici, una Turchia espansionista produrrebbe catastrofici cambiamenti anche su quel versante, dove si scontrano ad esempio gli interessi sauditi e quelli iraniani, che si manifestano da una parte con l'integralismo antistatalista wahabita d'Arabia e dall'altra con l'integralismo verticista-statalista sciita d'Iran.

Iran

L'Iran dal punto di vista generale è in una situazione non troppo diversa rispetto a quella della Turchia, ma dal punto di vista della struttura statale interna se ne differenzia molto. È un grande paese con una storia importante. Ha raggiunto una identità nazionale borghese attraverso una "rivoluzione dall'alto". Mantiene contatti con genti persiane presenti in Afghanistan, Tagikistan, Uzbekistan, specie con quelle che risiedono verso il confine occidentale dell'Afghanistan (anche se questi contatti sono trascurabili rispetto a quelli dei turchi verso i Turkestan). Ha una forte tradizione statalista. È un paese islamico. Per quest'ultima analogia occorre specificare: l'Iran è uno stato teocratico retto dal clero islamico sciita e non esiste alcuna corrispondenza con le strutture religiose del mondo sunnita. Un'altra precisazione va fatta riguardo all'importanza assunta anche in Iran dalle forme di assistenza legate alla religione: la "decima" versata al clero e la raccolta delle elemosine a favore dei poveri non sono fenomeni che hanno riempito un vuoto lasciato dallo Stato ma sono state istituzionalizzate dallo Stato stesso a fini sociali fin dai tempi degli scià. In questo caso l'abdicazione dello Stato è stato un fenomeno anticipato rispetto agli schemi attuali che stiamo scorrendo: i Pahlevi, invece di regolare storicamente i conti con lo strapotente clero sciita, hanno preferito inglobarlo nelle strutture statali, fino a permettergli una rappresentanza fissa nel parlamento e a consegnargli il monopolio dell'assistenza pubblica. Il risultato finale non cambia di molto: secondo lo schema fin qui esposto, le organizzazioni islamiche hanno ben volentieri riempito lo spazio loro lasciato e quando è caduta la monarchia erano abbastanza potenti e influenti sulla popolazione da scalzare tutti i tentativi costituzional-democratici della piccola e grande borghesia urbana.

Siamo di fronte a uno dei tanti casi di borghesia inconseguente. Ovviamente la monarchia rappresentava una facciata che non aveva nulla a che fare con la struttura pienamente capitalistica del paese, e lo scià con tutti i suoi antiquati lustrini era comunque costretto a dare impulso alla modernizzazione. Aveva esiliato, insieme a molti oppositori, i più estremisti rappresentanti del clero, ma aveva esitato di fronte all'invadenza del clero stesso che all'interno, di fronte all'incalzante industrializzazione, rappresentava il passato. Ovviamente neanche il clero sciita, caduto lo scià e insediatosi al potere, aveva potuto opporsi alla ulteriore espansione industriale del paese e anzi, l'aveva assecondata dando vita a un ibrido mostruoso fra strutture moderne e sovrastrutture pre-feudali. La borghesia inconseguente aveva dunque permesso una deriva anomala al suo stato: la struttura di dominio di classe veniva affiancata da forze che ne assumevano i compiti ma allo stesso tempo rappresentavano un anacronistica forza frenante. La rappresentanza politica e l'esecutivo finivano sotto controllo del clero, coadiuvato da milizie integrate nell'esercito come quelle dei pasdaran, o utilizzate per compiti di polizia come quelle dei basiji.

Questa apparente dualità di controllo, da una parte forze emerse dal passato, dall'altra il Capitale autonomizzato come in qualsiasi altra area del mondo, non esprimeva ovviamente alcuna "partecipazione popolare" alla vita del nuovo stato iraniano, come invece pretendevano gli ayatollah nella loro propaganda. Si trattava piuttosto di un'ulteriore manifestazione della crisi dello Stato. Il clero non poteva sottrarsi alla funzione di strumento del Capitale ma non poteva neppure negare sé stesso; e quindi lo Stato non poteva che assumere una forma "dirigista" in bilico fra quella di tipo moderno e quella patriarcale antica, due aspetti che in parte si elidono abbattendo il rendimento del sistema. La rigidità sciita non ha permesso al clero di adeguarsi a un mondo globalizzato, mentre la mancanza di strutture dell'Islam sunnita (non esiste un clero sunnita) s'è dimostrata più consona alle esigenze del capitalismo dell'epoca attuale. In ogni caso uno Stato che delega massicciamente le proprie funzioni a entità religiose perde gran parte del suo peso politico all'interno della società, e alla lunga lo perde anche a livello internazionale. Nel capitalismo è il Capitale che ingiunge a tutti, a cominciare dallo Stato: "Non avrai altro dio all'infuori di me".

Pakistan e Afghanistan

Nella visione geopolitica dell'impero britannico il controllo del "Cuore del mondo" avrebbe comportato il controllo sul mondo. Sconfitti gli inglesi dai duri montanari afghani, nell'800, l'Asia centrale fu lasciata al suo destino, fino alla vittoria della Rivoluzione Russa che unificò politicamente un immenso territorio che su parte di quel Cuore del mondo si estendeva. Quello che non riuscì agli inglesi sembrò riuscire ai sovietici, che invasero l'Afghanistan nel 1979 dopo che un governo riformatore filosovietico era stato abbattuto. Il Pakistan, confinante e avversario dell'India, era già diventato un baluardo filo-occidentale e assunse ancora più importanza strategica nella nuova situazione. Con l'aiuto massiccio degli Stati Uniti i guerriglieri afghani, addestrati in territorio pakistano, costrinsero alla ritirata l'esercito invasore e prevalse fra i vari gruppi la tendenza fondamentalista dei talebani, forgiata dai servizi segreti e dagli eserciti di Stati Uniti e Pakistan. Tendenza che annullò completamente il tentativo di modernizzazione sociale avviato dai filosovietici e dissolse addirittura la struttura dello Stato. Con il crollo dell'URSS e lo sfaldamento territoriale che ne seguì, il vecchio tema strategico caro all'imperialismo di stampo britannico ritornò in auge, anche se adattato ai tempi, dato che in tutta l'Asia centrale stavano venendo alla luce importanti riserve di petrolio, gas e altri minerali.

Con lo sviluppo di due colossi come la Cina e l'India, divoratori di energia e materie prime, era inevitabile che questa parte del mondo diventasse uno dei punti nevralgici delle frizioni interimperialistiche. Tanto più che fra i maggiori paesi dell'area persistono numerosi e irrisolti contenziosi territoriali e geopolitici. Lo stato di scontro militare perenne e la lotta feroce tra frazioni della borghesia islamica hanno determinato la formazione di potentati territoriali a macchia di leopardo, spesso con numerosa popolazione, che sfuggono a qualsiasi autorità centrale, perciò disposti a mettersi al servizio di chiunque a seconda della convenienza. Alcuni "signori della guerra" afghani trattano direttamente con gli eserciti d'occupazione, mentre la fascia di confine tra Afghanistan e Pakistan è da tempo in mano a tribù che riescono a interdire il territorio sia alle forze armate dei due paesi, sia agli invasori occidentali stanziati in Afghanistan. Da quei territori partono operazioni militari contro tutti, ormai rintuzzate solo con robot volanti che partono dalle basi americane.

La totale debolezza dei due Stati, ammesso che quello afghano si possa chiamare così, ha le sue radici nella storia dei due paesi, plasmata dagli scontri fra i grandi paesi imperialistici. Questi ultimi hanno in special modo "sorvegliato" la crescita economica, demografica e militare del Pakistan, per contenerne l'espansione in quanto potenza regionale. Nazione del tutto artificiale, nata a tavolino e separata in due parti poste agli estremi occidentale e orientale dell'India, non ha potuto sviluppare una borghesia all'altezza dello sviluppo economico, che fosse in grado di perfezionare il proprio strumento di dominio. Per questo è sempre stata in balìa di servizi segreti interni ed esterni e di un esercito fondamentalmente golpista, tanto che quella pakistana è stata soprannominata "democrazia a intermittenza".

Con questo retroterra storico non è strano che anche qui, forse più che altrove, le reti religiose svolgano in pieno la funzione sociale cui lo Stato non può far fronte. In sostanza le debolezza strutturali di questi non-Stati, la frammentazione delle loro borghesie secondo etnie e in alcune zone secondo gruppi tribali locali, le componenti religiose in contrapposizione tra loro, le pesantissime ingerenze delle grandi e medie potenze dell'area, interessate sia alle materie prime dell'Asia centrale che a una presenza politico-militare in loco, hanno prodotto uno degli esempi più eclatanti della forma moderna dei conflitti interimperialistici, in cui non esiste un fronte di guerra definito e in cui nazioni ridotte a non-Stati combattono guerre altrui. La popolazione civile (i due paesi contano circa 230 milioni di abitanti) ne è investita in pieno e, spinta da situazioni insostenibili, è portata a scontri continui, spesso molto sanguinosi, fra i diversi gruppi che la compongono.

Casistica del collasso

Come abbiamo visto, seppure di sfuggita, al di là delle specifiche condizioni odierne vi sono fattori preesistenti che segnano pesantemente la struttura delle singole formazioni statali. In particolare è spesso necessario fare riferimento al momento della decolonizzazione per misurare il grado di solidità delle singole borghesie nazionali. Estremamente fragili sono ad esempio le nazioni africane che si sono formate liberandosi dal colonialismo europeo durante gli anni '60. Più fragili di tutte sono quelle che non sono nate in seguito a una reale guerra di liberazione nazionale ma da accordi fra gli ex colonizzatori e le élite locali più o meno rappresentative rispetto agli interessi di deboli borghesie e di masse contadine. Si sono così "costruiti" organismi politico-statali fittizi che spesso non hanno in comune neanche una lingua. Abbiamo appena visto i casi di Pakistan, Bangladesh e Afghanistan, un tempo riuniti sotto il dominio inglese. Ma scorporate le parti islamiche, occidentale ed orientale, a loro volta assurte a Stati indipendenti, l'insieme rimasto non è che sia tanto più omogeneo. Di "chi" è il Kashmir, tanto per fare un esempio? Su di un territorio grande quasi quanto l'Italia, con una decina di milioni di abitanti tra musulmani, indù e buddisti, sono accampate in pianta stabile truppe di India, Pakistan e Cina, tre paesi che rivendicano tutti una parte della regione.

La struttura delle "nazioni" uscite dalla fine del periodo coloniale è portatrice di conflitti infiniti, dato che alcune inglobano più etnie, altre suddividono in regioni diverse la stessa etnia. Anche l'Europa non è esente da retaggi del genere, pur essendo il continente dei colonizzatori piuttosto che quello dei colonizzati. Comunque, esaurita la spinta dell'ondata anticoloniale, finita l'illusione di uno sviluppo al di fuori delle regole del mercato mondiale dettate dagli ex colonizzatori, quasi tutte queste nazioni si sono trovate alla deriva, prese nel vortice dei problemi interni e della concorrenza internazionale. La loro fragilità si manifesta attraverso guerre intestine, interetniche, religiose, per cui intere aree geostoriche vengono sconvolte e subiscono profonde trasformazioni nelle loro strutture economiche e sociali.

Nella tendenza generale descritta nei paragrafi precedenti, si possono individuare degli insiemi coerenti di aree geografiche sottoposte ad una avanzata disgregazione (o mancata stabilizzazione) della struttura statale. Una situazione frequente è quella in cui, data la presenza di importanti ricchezze, prevalentemente minerarie, i differenti potentati locali frazionano il territorio in modo da poter gestire, ognuno, un rapporto diretto con le multinazionali e con gli investitori internazionali. L'unità nazionale, esistente o in formazione, lascia il posto a notabili locali, spesso cosiddetti signori della guerra con i loro eserciti privati, che diventano i veri padroni delle singole regioni. Emblematico è il caso dell'Afghanistan, il più conosciuto. Quello della Somalia è il più caotico e sanguinoso: lo stato unitario è stato frantumato da vari movimenti armati in "Stati" separati: Somaliland, Puntland, Maakhir,  Galmudug, Northland, Southwestern. Questa condizione ha come inevitabile conseguenza una situazione di guerra perenne, perché nel momento in cui una componente sembra avere il sopravvento, le altre si coalizzano per impedirle di ottenere una vittoria stabile (la Conferenza di Pace di Gibuti, del 1997, tentò di far raggiungere un accordo fra 26 fazioni variamente coalizzate fra loro). Una delle conseguenze è che la popolazione, spossata dal continuo stato di guerra, ha abbracciato l'Islam fondamentalista, nel frattempo organizzatosi nella "Unione delle Corti islamiche", organismo con buona capacità militare tanto da conquistare Mogadiscio, subito attaccata dai signori della guerra per una volta uniti dall'aiuto americano.

Un altro caso importante di sfacelo statale è quello che vede la progressiva autonomizzazione di un territorio sulla base della produzione o il commercio di sostanze stupefacenti. Di isole del genere ne esistono dal Sudamerica alla Thailandia passando per l'Afghanistan. In questo caso, i potentati locali si comportano come mafie che dirigono e organizzano la vita nei villaggi contadini di vasti territori sottratti al controllo dell'autorità centrale. Ciò è tollerato perché la produzione e il commercio della droga si rivela uno dei pochi settori ad altissima valorizzazione del capitale investito, e quindi uno dei rarissimi casi in cui una frazione marginale di borghesia può trasformare radicalmente la sua condizione e corromperne un'altra. Nessuno degli attori "legali" del mercato finanziario mondiale ha interesse a che questa fonte di capitali venga meno, anzi. Il punto di contatto tra le grandi mafie internazionali e il circuito legale del mercato mondiale è il momento in cui questi capitali devono essere "ripuliti" attraverso catene di attività tradizionali, le cosiddette "lavanderie". Tale movimento di capitali è così vasto e capillare che la guerra dichiarata dagli Stati per riprendere il controllo delle zone franche ha un bilancio decisamente fallimentare.

Nel panorama delle frantumazioni territoriali degli ultimi due decenni, oltre agli scontri etnici si sta aggravando la contrapposizione religiosa come causa di divisione fra le popolazioni. In Egitto, Sudan, Nigeria, Kenia, ecc. per quanto riguarda l'Africa, e in tutto il subcontinente indiano in Asia, si è passati dalla frizione sociale alla guerra tra fronti contrapposti, con un numero crescente di vittime. Anche in questo caso gli Stati non possono che manifestare una debolezza intrinseca: eserciti e polizie riproducono al loro interno le divisioni che esplodono sul territorio.

La stessa gestione degli aiuti umanitari e degli organismi per la cooperazione internazionale incide sulla compattezza delle strutture statali. Flussi di denaro e di aiuti in beni fisici vengono erogati e gestiti con il coordinamento di tre elementi mediatori: 1) lo stanziamento dei fondi e il reperimento dei beni avviene in generale all'estero, tramite organismi sovranazionali o soggetti privati, fondazioni, chiese, ecc.; 2) la modalità di assegnazione di queste somme e beni è invece decisa dai ministeri dei singoli Stati beneficiati, il che significa decisa da personale che si è formato nelle università dei paesi "benefattori" e spesso legati ai loro interessi; 3) la gestione pratica degli "aiuti" è affidata a organizzazioni non governative, ormai provenienti da – e infiltrate in – ogni angolo del globo. Quando si parla di aiuti, abbiamo presenti le interessate briciole che i paesi imperialisti spargono come avanzi sugli affamati, ma il circuito della raccolta e della distribuzione di questi aiuti è assai lucrativo e la loro massa non è affatto insignificante rispetto all'economia degli Stati che ricevono. È evidente che questi ultimi non hanno possibilità di controllo sulle politiche di gestione degli aiuti e più in generale della spesa pubblica cui essi sono collegati, dato che gli aiuti risultano distribuiti da mille canali che hanno radici altrove. Senza contare che in molti Stati dei paesi "poveri", la "politica sociale" è spesso gestita in maniera diretta o indiretta dagli organismi internazionali.

Sempre in relazione alla perdita di controllo e alla generale malattia per indebolimento, incominciano anche a verificarsi dei veri e propri paradossi entro lo Stato. In Bolivia, sembra a seguito di errati calcoli sulle entrate fiscali previste per alcune concessioni a multinazionali del settore energetico, s'era creata una situazione di pre-fallimento alla greca. Come al solito lo Stato aveva dovuto procedere a tagli drastici nella spesa pubblica, toccando ampi settori della sua stessa struttura, comprese le forze di polizia. I proletari erano scesi in sciopero e nel momento culminante delle manifestazioni, con i minatori tradizionalmente alla testa, i poliziotti si erano rifiutati di reprimere per paghe da fame, per cui era stato necessario chiamare l'esercito. Numerosi poliziotti erano stati licenziati. Un fatto analogo si è registrato anche in Ecuador, dove in seguito a pesanti tagli degli stipendi del pubblico impiego, alcuni settori della polizia si sono rivoltati in difesa delle proprie condizioni economiche. Recentemente sono state riportate notizie di proteste pubbliche da parte dei poliziotti in Spagna (luglio), in Grecia (settembre) e in Italia (ottobre).

Una situazione estrema è quella di Haiti, il paese più povero dell'emisfero boreale, dove alla borghesia locale è stato sottratto completamente il controllo economico e sociale. Tutto dipende dall'estero, compreso il mantenimento dell'ordine, delegato alle truppe dell'ONU che presidiano tutto il territorio. Dopo il terremoto, con curioso tempismo, gli Stati Uniti hanno inviato un notevole contingente militare e sono stati subito accusati d'invasione da alcuni governi sudamericani. In effetti neppure dopo l'uragano che a casa loro aveva distrutto New Orleans erano stati così solerti e "generosi" nei soccorsi. C'è ovviamente una logica: occupati gli aeroporti e i centri nevralgici, ad Haiti dirigeranno di fatto tutto quel che si muove. Gli aiuti "umanitari" e la loro logistica embedded sono a pieno titolo un'operazione di guerra. Esiste anche un livello di scontro militare elevato con la popolazione, a prima vista inspiegabile. Secondo la propaganda ufficiale le bande armate che si scontrano con le truppe dell'ONU sono legate allo spaccio della droga. Molto più probabilmente, come sempre più spesso si manifesta anche in altre aree del mondo, il problema è semplicemente il cibo. La "guerra alla povertà" diventa sempre più spesso guerra ai poveri. Questa sovrabbondanza di manodopera che non ha alcuna prospettiva di essere inserita nel circuito produttivo è sempre più nel mirino delle armi.

Assottigliamento dei margini di manovra

Esiste una qualche relazione tra lo storico percorso dei singoli Stati nazionali, la sua irreversibilità e le conseguenze sociali su quell'insieme un po' astratto che definiamo "borghesia nazionale"? Sembra di sì. Come abbiamo visto, la presenza dello Stato nell'economia si fa sempre più pesante, mentre procede la sua disgregazione. La classe proprietaria vede modificarsi sensibilmente la propria identità, e di fronte alla propria inutilità storica non sa fare altro che balbettare formule di rito. In effetti non è cosciente della situazione in cui si trova ma, continuando a immaginare il capitalismo come una società eterna, moltiplica il suo attivismo escogitando a ritmo accelerato rattoppi che a volte sono peggio del buco. Teorizza la globalizzazione, ma procede alla realizzazione di centinaia di accordi parziali, locali, specifici, che finiscono per suddividere il mondo in aree chiuse. Vorrebbe un "libero mercato", ma con lo Stato a protezione dei propri interessi contro l'ingerenza degli altri Stati. Predica l'alleggerimento dello Stato nell'economia, ma preferisce il dogma intoccabile della privatizzazione dei profitti e la socializzazione delle spese e delle perdite.

È in tale clima che una specie di fibrillazione esistenziale modifica la natura stessa di questa classe che non è solo superflua ma ormai mero intralcio sulla scena storica. I "suoi" capitali sono maneggiati da altri, senza possibilità di controllo. Ha delegato alla gestione delle "sue" aziende funzionari stipendiati che decidono da sé stessi remunerazioni insensate. Ha messo nelle mani di immani apparati speculativi la propria liquidità, liberandola per il mondo, dando vita a un universo di carta, anzi, di bit di cui nessuno ha più conoscenza anche solo vagamente riferibile a una teoria. Non è la "rivoluzione manageriale" descritta da Bruno Rizzi e James Burnham, è una disfatta globale. Una piccola parte di questa classe residuale si internazionalizza al seguito del Capitale. Un'altra parte, più consistente, agonizza entro i confini nazionali occupandosi ancora della produzione di beni e servizi, senza la quale il capitale fittizio non avrebbe alcun modo di far credere che esistano garanzie sulla propria consistenza. Una terza parte, la più consistente di tutte, si stacca dal mondo reale e si consegna al Capitale, limitandosi a strappare cedole senza preoccuparsi d'altro. In questa condizione cadono persino alcune industrie, che hanno ormai più entrate dagli interessi di titoli acquistati che dai profitti. Una quarta parte, pur rimanendo nell'ambito nazionale e nazionalista, cerca di non esserne schiacciata e vagheggia una ricomposizione "frontista" con la borghesia di altri paesi in difesa di un'identità minacciata dalla globalizzazione.

Quest'ultima, uscita dalla fogna dei parlamenti nazionali, tenta in qualche modo di riprodurre a livello globale ciò che avviene a livello nazionale, cioè gli accordi, le partecipazioni incrociate, le regole per la concorrenza, ecc. Ovviamente per superare parlamenti non sa fare altro che moltiplicare parlamenti, si chiamino essi ONU, NATO, FTA o UE. Accordi con forte connotazione politica e costrutto economico quasi nullo si sovrappongono a quelli tradizionali contribuendo alla moltiplicazione del parassitismo borghese. Un esempio è fornito dal cartello anti-statunitense "socialista" Alianza Bolivariana para los Pueblos de Nuestra América (ALBA), cui partecipano Antigua, Bolivia, Cuba, Ecuador, Repubblica Dominicana, Nicaragua, Saint Vincent-Grenadine e Venezuela. Questo ennesimo cartello sta progettando addirittura una valuta comune, il Sucre.

Lo Stato dissipativo nazionale esporta quindi le sue inefficienze a livello internazionale, coinvolgendo larghi strati di stipendiati che, siano essi travet o manager di lusso, affollano il confine fra le due grandi classi avverse. L'Onu ha per esempio 60.000 dipendenti fissi, la Commissione Europea circa 30.000, ma intorno alle varie organizzazioni si muovono complessivamente centinaia di migliaia di persone in tutti i paesi del mondo, che lavorano e alloggiano in vere e proprie città-satellite (la NATO ad esempio sta costruendo un faraonico complesso immobiliare per la sua sede a Bruxelles, che comprende gli alloggi per 4.500 dipendenti). Questa massa complessiva riproduce a livello internazionale funzioni che sono già svolte entro gli stati nazionali e che basterebbe coordinare con i moderni mezzi di comunicazione. Lo Stato quindi non solo si disgrega, ma paga profumatamente i fattori della propria abdicazione.

Per chi sia attento al comunismo in quanto "movimento reale che abolisce lo stato di cose presente" la perdita di potenza dello Stato è molto interessante, anche se crescono sia la sua invadenza economica che il suo armamentario repressivo. L'invadenza economica è un elemento di dissoluzione del capitalismo, non perché l'economia statalizzata abbia un qualcosa di socialista, come credono ormai solo i superdestri americani o gli stalinisti europei, ma perché dimostra l'altissima dissipazione di un sistema che ha bisogno di droghe sempre più forti per stare in piedi, che è vicino a crepare per overdose di tutto. La proiezione all'estero delle funzioni statali è un risvolto dello stesso fenomeno: il Capitale, globalizzandosi, vuole droghe globali, e gli organismi di cui ci siamo fin qui occupati svolgono quella funzione. Quando il processo rivoluzionario in corso giungerà al suo punto di rottura, cioè alla svolta epocale cosciente verso la negazione del capitalismo, la forma Stato sarà già pronta per essere archiviata. Abbattuta nella configurazione borghese, sopravviverà per il tempo strettamente necessario alla transizione nella configurazione proletaria. È già predisposta per questo, in crisi come non mai, internazionalizzata quanto basta, persino sottratta al controllo della classe di cui dovrebbe essere lo strumento di dominio.

Il futuro in arrivo

Per molti questa visione globale della rivoluzione continua, con i suoi punti di catastrofe nelle transizioni di fase, è difficile da digerire. Per i liberali il modo di produzione capitalistico avrebbe grandi capacità di autoriparazione e quindi sarebbe potenzialmente eterno. Per i riformisti classici, ora estinti, esisteva solo la parte evolutiva continua del cambiamento e bisognava chiudere con la catastrofe rivoluzionaria. Per i libertari questa prospettiva dello Stato come elemento fondamentale della transizione sarebbe pericolosa dato che lo Stato per sua natura perpetuerebbe sé stesso. Con gli anarchici condividiamo i fini ma siamo in totale disaccordo sia sul percorso per giungervi, sia sulla teoria che permette di derivare questo percorso dal movimento materiale in atto. Assolutizzando lo Stato, pensano che esso non cambi natura col maturare delle condizioni in cui si è formato e sviluppato fino alla struttura attuale. Soprattutto pensano che non cambi natura a seconda che sia nelle mani di una classe o di un'altra. Non riescono a immaginare il partito come organo della classe e poi (e quindi) della specie umana. Alcune loro correnti, basandosi sulla degenerazione della Rivoluzione d'Ottobre, identificano addirittura il Partito con lo Stato. Noi cerchiamo di individuare la traiettoria storica del capitalismo, anzi, del divenire di tutte le società divise in classi fino al punto in cui ci sarà una congiunzione, condizionata dallo sviluppo intermedio, fra il comunismo originario e quello sviluppato della società futura. Per noi, dunque, anche la forma Stato non rappresenta un assoluto ma un percorso.

Molti degli articoli pubblicati in questa rivista sono tratti da relazioni esposte a nostri incontri generali. Questo in particolare si basa, con l'aggiornamento di alcuni dati, su di una riunione registrata un paio di anni fa. Non sono molti, ma possiamo già dire che nel frattempo abbiamo potuto osservare verifiche importanti. Lo scopo della relazione era quello di dimostrare la crisi dello Stato come fenomeno globale che si manifesta oggi in ogni situazione socio-economica. La cosiddetta Primavera Araba e altri fenomeni contemporanei come la crisi libica, la guerra civile siriana, l'involuzione confessionale di Israele, la pressione sociale repressa in Iran, le grandi manifestazioni di nuovi movimenti in Europa, Americhe, Cina ecc. sono tutti fenomeni che possono essere ricondotti alla perdita di controllo economico e sociale da parte dello Stato. La crisi economica ha influito, ma anch'essa è un fenomeno così grave proprio perché sono esauriti gli espedienti degli Stati per risollevare l'economia. Non è un caso che dal basso salga, contemporaneamente al richiamo per le manifestazioni di piazza, anche un marcato disgusto per la "politica", e che si incomincino a sentire discorsi anticapitalistici anche all'infuori degli ambienti tradizionali dei gruppi che si collegano al marxismo o alla tradizione anarchica.

Il contesto è sempre più chiaro. Partiamo dall'Europa: la Grecia non ha più uno Stato, è un paese ridotto alla camera di rianimazione, dove le decisioni vengono prese altrove. Il piccolo Belgio è rimasto 500 giorni senza governo e non se n'è accorto nessuno. La Spagna sta scivolando su una china greca e l'Italia le sta appresso. Entrambi i paesi hanno preso misure che abbattono l'economia invece di risollevarla. La Francia e la Germania, che sembravano dettar legge in tema di stabilità dello Stato, rivelano talloni d'Achille nascosti e devono intervenire con leggi speciali. Persino i paesi scandinavi, che vantavano una robusta stabilità dovuta a una massiccia presenza dello Stato nell'economia e nella società, devono correre ai ripari. Certo, il governo non è lo Stato, dovrebbe essere piuttosto la rappresentanza della borghesia che adopera la macchina dello Stato, specie in situazioni di emergenza. Ma evidentemente lo Stato non è più maneggiabile. Se ci spostiamo in altre aree del mondo, vediamo che ovunque è così. Una grande potenza come gli Stati Uniti ha un governo che invece di governare (cioè prendere in mano rudemente le sorti dell'economia) si limita ad ascoltare gli echi dei "mercati" e vi si adegua, emettendo moneta fittizia. La Russia non solo non riesce a controllare la propria (non)economia, basata sull'esportazione di materie prime così come quella dei paesi emergenti, ma neanche il proprio territorio, entro il quale si stanno rafforzando poteri locali ostili a Mosca. La Cina dal possente Stato ultra-centralizzato, oltre a rassegnarsi alle ormai consuete centomila rivolte all'anno, non riesce a dominare l'anarchia produttiva, distributiva e amministrativa che le provoca. L'India non ha il controllo centrale su tutti i suoi 28 stati federati. E così via.

Lasciamo per ultimo un caso da manuale: la guerra in Libano del 2006, studiata dagli esperti militari di tutto il mondo per le sue anticipatrici caratteristiche. Di fronte all'invasione israeliana del Libano meridionale, lo stato libanese si era letteralmente dissolto senza riuscire ad allestire non diciamo una difesa militare ma neppure un minimo di assistenza alle popolazioni colpite, un ripristino delle comunicazioni distrutte, un servizio medico d'emergenza. L'organizzazione della controffensiva militare e di tutte le funzioni dello Stato era stata assunta da un non-Stato cioè dall'organizzazione islamica Hezbollah. Questa non solo aveva bloccato l'avanzata di terra delle truppe israeliane, ma aveva già una rete propria alla quale era stato sufficiente collegare un piano di assistenza e di ricostruzione operante nelle centinaia di luoghi colpiti dai bombardamenti, piano rimasto operativo fin dopo la guerra per aiutare le famiglie a ricostruire le case distrutte. Oltre al collasso dello Stato, la guerra del Libano ha evidenziato per la prima volta su scala interstatale uno scontro ibrido generalizzato fra un esercito regolare, uno irregolare e la popolazione civile.

In fondo il percorso che conduce alla società futura è punteggiato di estinzioni, che Marx nelle Formen chiama "dissoluzioni". Ai suoi tempi registrava la prossima estinzione della borghesia, "classe superflua". Nel XX secolo abbiamo assistito all'estinzione della "questione contadina" e della "questione nazionale e coloniale". Oggi s'intravedono sintomi reali di estinzione dello Stato. Il mondo capitalistico sembra ancora fortissimo, ma lo è solo in relazione alla debolezza del suo nemico storico. È un pallone talmente teso che non sopporta più di essere ulteriormente gonfiato, un dinosauro in estinzione proprio perché s'è ingrossato troppo.

Letture consigliate

  • Arrighi Giovanni e Silver Beverly, Caos e governo del mondo. Come cambiano le egemonie e gli equilibri planetari, Bruno Mondadori, 2006.
  • Burnham James, La rivoluzione manageriale, Bollati Boringhieri, 1992.
  • Engels Friedrich, Il socialismo dall'utopia alla scienza, Editori Riuniti, 1976.
  • Kreps Sarah, 2006 Lebanon war: lessons learned, US Army War College, Spring 2007, http://www.carlisle.army.mil/usawc/parameters/Articles/07spring/kreps.pdf.
  • Lenin Vladimir Ilich Ulianov, Stato e rivoluzione, Editori Riuniti, ristampa 2012.
  • Marx Karl, Critica al programma di Gotha, Editori Riuniti, 1976.
  • Marx Karl, Critica della filosofia hegeliana del diritto e Introduzione,  Opere Complete vol. III, Editori Riuniti 1976.
  • n+1, Globalizzazione, 1999. L'autonomizzarsi del Capitale e le sue conseguenze pratiche, 2005.
  • Rizzi Bruno, La burocratizzazione del mondo, Colibrì 2002.
  • Suter Keith, Il futuro dello Stato nazionale nell’era della globalizzazione, Sito web Il federalista, http://www.thefederalist.eu/.
  • Van Creveld Martin, The rise and decline of the State, Cambridge University Press 1999. Sull'argomento vedi una conferenza dell'autore tradotta in italiano all'indirizzo https://francescosimoncelli.blogspot.it/2012/01/lo-stato-la-sua-ascesa-ed-il-suo.html.

Rivista n. 32