L'Italia nell'Europa feudale (7)
Il retroterra storico del capitalismo più antico del mondo

7. La grande "rottura longobarda"

L’espressione è del medioevalista Giovanni Tabacco. Gli storici sono concordi sulla differenza esistente fra l'invasione longobarda e le invasioni precedenti che avvennero sia in Italia che altrove. Ci sono ovviamente contrastanti valutazioni su ciò che rende differente l'invasione, aggravate dalle solite "questioni" che alimentano i dibattiti. Niccolò Machiavelli, Alessandro Manzoni, Ludovico Antonio Muratori, Cesare Balbo e molti altri hanno stiracchiato da una parte o dall'altra i discendenti di Alboino sia per dimostrare il loro apporto vivificatore alla civiltà in quanto ex barbari romanizzati, sia per denunciare la feroce bestialità di "tedeschi" invasori. Ecco un esempio di esagerata sopravvalutazione romantica della funzione germanica nella storia d'Europa:

"Nel marasma della sua vecchiaia l’Impero, che già agonizzava, fu distrutto alla fine dal più grande conflitto di popoli che la storia ricordi. Sulle sue macerie s’impiantò il germanesimo che, rinvigorendo col suo sangue giovane le stirpi latine, creò la nuova civiltà dell’Occidente, fondata sul principio della libertà individuale. Il crollo dell’Impero romano fu in realtà una delle più grandi benedizioni toccate al genere umano. L’Europa, infatti, cominciò a vivere una nuova vita e, anche se a prezzo di lotte lunghe e sconvolgenti, uscì dalla barbarie e si trasformò in un organismo articolato in nazioni numerose e autonome" (Ferdinand Gregorovius, Storia della città di Roma nel Medioevo).

D'altra parte, in clima risorgimentale, un Manzoni non poteva che fare l'operazione opposta, dato che gli invasori del momento erano di lingua tedesca. Lo fa però con altro stile, meno sfacciato, più problematico:

"Qual era, ne’ due secoli della dominazione longobardica, lo stato civile degl’Italiani, superiori certamente, e di molto, in numero alla nazione conquistatrice? Eran essi, come dice il Maffei, in vera servitù? Ma in qual grado? O eran rimasti padroni delle loro persone e delle loro proprietà, e la loro dipendenza era puramente politica? Ma com’eran protette quelle? e qual era la forma di questa? Erano state lasciate in piedi l’autorità subordinate che si trovavano al tempo della conquista? E da chi dipendevano? chi le conferiva? O eran cessate per cagion di quella? E qual fu, in questo caso, il nuovo modo d’azione e di repressione su quel popolo, o su quella moltitudine? Noi sappiamo, o poco o tanto, o bene o male, quali eran le attribuzioni de’ re, de’ duchi, de’ giudici longobardi, riguardo alla loro propria nazione; ma cosa erano tutti costoro per gl’Italiani, tra i quali, sopra de’ quali vivevano? Ecco alcune delle tante cose che ignoriamo intorno allo stato della popolazione d’una così gran parte d’Italia, per il corso di due secoli. Si può certamente rassegnarsi a ignorarle; si può anche chiamar frivolo e pedantesco il desiderio di saperle; ma allora non bisogna esser persuasi di posseder la storia del proprio paese. E quand’anche si conosca e la precipitosa invasione, e l’atroce convito, e l’uccisione a tradimento d’Alboino, le galanterie d’Autari, le vicende di Bertarido, la ribellione d’Alachi e il ristabilimento di Cuniberto, le guerre di Liutprando e d’Astolfo, e la rovina di Desiderio, bisogna confessare che non si conosce se non una parte della storia, per dir così, famigliare d’una piccola nazione stabilita in Italia, non già la storia d’Italia" (cfr. bibliografia).

Si può non essere d'accordo con l'impostazione politica del Manzoni in veste di storico, ma in questo vigoroso scritto c'è una critica seria agli accademici, utilizzabile anche per nostri contemporanei: i quali dovrebbero smettere di fabbricare storia con ciò che gli oggetti di ricerca dicevano di sé stessi; e anche di trasporre le categorie di oggi in tempi che con l'oggi non hanno nulla a che fare. Le robuste domande manzoniane restano senza risposta. Vedremo di superare questa mancanza di conoscenza per altre vie, facendo parlare i resti dei villaggi, gli oggetti delle tombe, la collocazione delle necropoli, le tecniche, l'arte militare, la densità demografica, ecc. Una cosa però è certa, almeno per noi: nella discussione sulla "questione longobarda" hanno torto sia i sostenitori di una schiavizzazione dei Romani da parte dei barbari, sia i sostenitori di un'assimilazione dei barbari da parte dei Romani. Le evidenze archeologiche parlano di una separazione profonda fra le due popolazioni.

I Longobardi in effetti vennero a riempire un vuoto: su terre devastate dalla decadenza economica, dalle guerre e dalle pestilenze, la popolazione romana, compresa quella di parte bizantina, assommava a forse quattro-cinque milioni di persone, mentre quella longobarda non poteva essere troppo superiore a quella arrivata in Italia con l'invasione, cioè circa centomila persone (teniamo presente anche le perdite nelle guerre contro i Bizantini). Tolti la metà femminile e un quarto di vecchi e bambini, la capacità di combattimento si basava infine su 25.000 uomini. È vero che i Longobardi avevano una struttura sociale incentrata sui guerrieri, e che a rigor di logica tutta la società (tutti i liberi) era composta da exercitales arimanni, combattenti dell'esercito. I numeri sono una nostra media fra diverse fonti (es. Jarnut), ma l'ordine di grandezza accettato dalla maggioranza degli storici, specie moderni, è quello. Tacito, molti anni prima, cita i Longobardi come poco numerosi ma forti combattenti, fatto che tiene alla larga anche nemici molto più numerosi. Nel V secolo i Vandali avevano conquistato buona parte del Nordafrica contro i Bizantini con 15.000 guerrieri. Era certamente possibile anche nel VI secolo per i Longobardi occupare vasti territori con pochi combattenti, il problema era governare e amministrare una popolazione incomparabilmente più numerosa. Il risultato fu che gli invasori riuscirono a conquistare il potere politico-militare mantenendolo magari con il terrore ma, essendo stanziati a macchia di leopardo entro ducati a loro volta non controllati centralmente, era loro preclusa ogni possibilità di "dominio", almeno nel senso romano del termine. Dovevano lasciare una vasta autonomia ai Romani conquistati, come successe mezzo millennio dopo ai Mongoli di Gengis Kahn in Persia.

Quale fu la conseguenza? Oltre alla possibilità che convivessero separati due popoli sullo stesso territorio, tale separatezza comportava due dati di fatto importantissimi: 1) la presenza longobarda impediva che altri barbari, a parte le numerose e violente scorrerie, si stabilissero in Italia; 2) lo sprezzante rifiuto di concedere alla romanità le leggi barbariche di stirpe, fece sì che i Romani continuassero la loro vita nonostante il collasso totale dell'Impero e gli impedimenti per la ripresa della produzione-riproduzione in altre forme. Pagarono il tributo agli invasori e, non avendo più la grinta dei loro antenati, sopportarono l'umiliazione (tale era per un Longobardo) di vedersi negato sia il diritto di portare la spatha sia l'assegnazione del guidrigildo (secondo il diritto barbarico la compensazione in bestiame, poi denaro, per la menomazione o uccisione di un uomo al fine di scongiurare la vendetta di sangue o faida).

Mentre nel resto d'Europa e nel Nordafrica la romanità veniva spazzata via, in Italia si trasformò in qualcosa di nuovo. Un qualcosa che ebbe naturalmente i suoi nemici, dai Bizantini, che non cedettero mai le aree strategiche che avrebbero permesso l'unificazione dei ducati, ai Franchi, animati da una nuova spinta espansiva. I Longobardi vissero nella penisola per più di due secoli diventando romani, e quando arrivarono allo scontro armato con i Franchi rimanendone sconfitti, non furono cacciati, finirono anzi per essere assimilati un'altra volta, mentre altrove gli invasori avevano cancellato i caratteri della civiltà precedente. Da notare che i Franchi, di gran lunga superiori di numero, armati più pesantemente e alleati della Chiesa, tennero l'Italia solo una quarantina di anni. Dunque, per quanto Tabacco usi il termine "rottura" con molta cautela, i Longobardi rappresentarono effettivamente la differenza fra quanto successe in Italia e quanto successe nel resto dell'ex impero. L'invasione dei barbari più squinternati e sanguinari del mondo antico mise in moto un processo che, in capo a mezzo millennio rappresentò una singolarità storica in grado di ripopolare l'Europa, riempire gli spazi abbandonati, rimettere in piedi la rete economica e, soprattutto, rimettere la città al centro della vita economica e sociale. Sentite come tutto questo diventi altra cosa sotto la penna di un economista borghese come Giorgio Ruffolo:

"Diciamo la verità: all'Italia, forse per una oscura legge di contrappasso, sono toccati, in definitiva, i barbari meno intelligenti e più grossolani d'Europa. Totalmente incapaci di fondersi con il popolo vinto, allevatori di maiali e cacciatori forsennati, totalmente incapaci di lavoro produttivo, gente rozza senza idealità, senza poesia, senza leggi, senza ricchezza, senza patria (si scannavano tra loro, tradendosi continuamente), sono stati per l'Italia una vera maledizione. Hanno segnato il secolo più infelice della nostra storia" (Quando l'Italia…).

Questa brava gente non ce la fa proprio a studiare tranquillamente un problema e risolverlo possibilmente con dati oggettivi, deve assumere un piglio da crociata, strillare con qualcuno schierato da qualche altra parte, insomma, adoperare il problema invece di risolverlo. Il quadro ruffolesco può andar bene per tutti i barbari, ma la differenza non sta in valutazioni salite dai visceri, come direbbe Manzoni. La differenza è nella capacità di assorbire una civiltà e restituirla elaborata. All'Italia in realtà non sono toccati i barbari "peggiori", ma quelli meno in grado di dominare, perciò di distruggere. Se fossimo dei Ruffoli qualsiasi, diremmo che i Longobardi sono venuti in campeggio da noi, senza disturbare troppo, pretendendo, in cambio della protezione militare durata duecento anni, imposte pari al 30% del Prodotto Interno Lordo. Roma pretendeva di più. Oggi lo Stato pretende il 50%. Abbiamo fatto un affare: il lavoro produttivo l'abbiamo messo noi italici inguaribilmente romani, così abbiamo avuto infine le idealità, la poesia, la legge, la ricchezza e… gli economisti.

La facile invasione

Ancora oggi la facilità con cui una tribù composita di barbari germanici conquistò gran parte dell'Italia, riuscendo quasi a unificare l'intera Penisola, è oggetto di discussioni, ricerche, ipotesi. I Longobardi, spinti dagli Àvari verso i Balcani, si erano in seguito alleati con questi contro Bisanzio, avevano sterminato i Gepidi che reclamavano lo stesso territorio e, a capo di una coalizione con Eruli, Rugi, Alani, Sassoni e Gepidi sopravvissuti, avevano dato il via all'invasione. Il fenomeno era inedito. Per la prima volta un'intera orda di tribù miste, quindi intrinsecamente instabile, si era riunita con mirabile centralità di comando in un solo luogo per trasferirsi in massa in un altro. In precedenza, alcune delle tribù longobarde erano state ingaggiate come mercenarie dai Bizantini contro gli Ostrogoti di Totila, quindi conoscevano bene la debolezza dell'Italia, stremata dai vent'anni della Guerra Gotica e di pestilenze. Il giorno di Pasqua del 568 l'intera gente longobarda partì dalla Pannonia, con donne, bambini, bestiame, carri, per arrivare in breve tempo a Forum Iulii, che conquistò e rinominò Civitas Fori Iulii (Cividale). L'invasione era stata talmente fulminea che non era stata minimamente contrastata. Milano fu presa senza combattere nel 569 e l'orda dilagò nella Pianura Padana spargendosi poi sulla dorsale appenninica. Solo Pavia, più volte attaccata, resistette tre anni e fu infine presa nel 571. Ad avanzata conclusa, la situazione era quella mostrata nella figura 4.

A differenza delle tribù degli Sciri e degli Eruli guidati da Odoacre e a differenza degli Ostrogoti guidati da Teoderico, i Longobardi guidati da Alboino non erano romanizzati. Erano ancora pagani adoratori di Wotan quando erano partiti da oriente dell'Elba ed erano diventati ariani durante gli spostamenti verso la Pannonia. Estranei al tessuto economico che avevano trovato, non l'avevano modificato. Si erano mossi organizzati in fare (forse dal tedesco fahren=andare), unità di spostamento su base tribale, militarizzate, con a capo un dux. La loro ferocia divenne proverbiale. In battaglia erano molto mobili e potevano contare su spade leggendarie per la loro efficacia. Sembra che praticassero il cannibalismo rituale, comune fra i guerrieri barbari, mangiando pezzi di organi dei nemici uccisi per assorbirne la forza. Alcuni storici ritengono che la leggenda di Rosmunda non sia altro che una trasposizione di queste pratiche (Marcello Rotili). Alboino aveva fatto decapitare il re dei Gepidi e sposato Rosmunda, sua figlia. Ricavato un calice dalla calotta cranica del vinto, aveva invitato la figlia a bere. Paolo Diacono, longobardo e storico ufficiale dei Longobardi, conferma di aver visto con i suoi occhi lo stesso calice in mano a un altro re.

Sembra evidente che la "questione longobarda" si debba risolvere con l'osservazione che Longobardi e Romani erano rimasti assolutamente incompatibili almeno per un secolo a partire dall'invasione. Le fonti originali rimarcano la separazione, che del resto ai Romani conveniva: pagavano il tributo richiesto di un terzo del prodotto e continuavano la loro vita di sempre, oltre tutto rimanendo padroni della maggior parte delle terre. I Longobardi non abitavano neppure nelle città. Popolo nomade, sembra che non sopportassero i luoghi chiusi. Avevano occupato i palazzi del potere dell'ex impero, ma abitualmente abitavano sui carri e, più tardi, in villaggi fortificati con fossato, palizzata e case di legno con tetto di paglia, forato per far uscire il fumo del focolare.

Ai Romani non era riconosciuto lo status sociale longobardo, perciò non potevano portare la spada e continuavano a seguire le loro leggi basate sul diritto romano. Gli invasori avevano un proprio codice non scritto, e quindi tutta l'area occupata, costellata di ducati come centri del potere, viveva sotto due statuti giuridici separati. L'archeologia dell'Alto Medioevo non ci fornisce molta informazione sull'agricoltura longobarda. Come tutti i Germani, erano certo dediti all'agricoltura nei periodi in cui non migravano, ma sembra che le loro abitudini fossero legate più alla pastorizia che alla coltivazione (sono state trovate però anche officine per la metallurgia e per la fabbricazione di ceramiche). Oltre che i terreni per i villaggi e gli accampamenti avevano occupato zone in rovina dell'ex impero, e soprattutto i castra sparsi un po' ovunque nel territorio. Le loro necropoli ci sono pervenute numerosissime e quasi sempre distanti dalle città romane. Seppellivano i morti in piena terra o in tombe poco elaborate. Vi posavano oggetti simbolici, gioielli, suppellettili e, per i guerrieri, soprattutto armi.

Significativo editto

Nel 636 Ròtari era diventato re dei Longobardi e aveva unificato l'Italia del Nord. Il suo celebre editto offriva per la prima volta una legge scritta, ma essa continuava ad essere valida solo per i Longobardi:

"Io Ròtari, diciassettesimo re della stirpe dei Longobardi, nell'ottavo anno del mio regno, nel trentottesimo anno d'età e nell'anno settantaseiesimo dopo la venuta in Italia dei Longobardi, essendo in quel tempo re Alboino, mio predecessore, saluto. Il presente editto delle nostre disposizioni, che abbiamo composto con il favore di Dio, con il massimo zelo, ricercando e ricordando le antiche leggi dei nostri padri che non erano scritte, e che abbiamo istituito, ampliandolo, con pari consiglio e consenso con i principali giudici e con tutto il nostro felicissimo esercito, quanto giova al comune interesse di tutta la nostra stirpe, abbiamo ordinato che sia scritto su questa pergamena. Dato a Pavia nel palazzo reale. Quanto sollecitamente ci preoccupò e ci preoccupa il benessere dei nostri sudditi dimostra il contenuto della presente legge. Siamo soprattutto preoccupati tanto per le frequenti vessazioni cui sono sottoposti i poveri, quanto per le non necessarie esazioni che vengono praticate da parte di coloro che son ritenuti uomini di più alto lignaggio: abbiamo saputo che i miseri subiscono violenza e perciò, richiamandoci alla grazia di Dio onnipotente, abbiamo ritenuto che fosse necessario correggere la legge vigente".

Così, senza l'unità territoriale e senza quella della popolazione sotto una stessa legge, una stessa lingua e una stessa tradizione, prevaleva per la massa della popolazione il diritto preesistente e consolidato, che era quello romano. Data la mancanza di un'amministrazione centrale, l'intera economia, pur ridotta ai minimi termini, era lasciata a sé stessa, per cui era permessa, o perlomeno non contrastata, l'accumulazione di denaro. Si era creato di fatto un dualismo di sovrastruttura su di una sola struttura economica, quella romana. Di feudalesimo nemmeno una labile traccia.

Tuttavia l'editto registrava un cambiamento in corso: molti dei villaggi sparsi o erano stati abbandonati con le loro necropoli o erano diventati città fortificate. I duchi risiedevano in queste oppure nelle città romane. L'unità economica di base più citata era la curtis, ben definita, protetta da leggi severe la cui infrazione comportava pene pesantissime. Il passaggio dalla villa romana all'economia curtense, pur non producendo "rese" per unità di superficie molto più elevate in termini di derrate e materie prime, induceva effetti macroscopici sull'assetto della società. Mentre nelle città "barbare" risiedevano di preferenza artigiani e salariati, le città romane diventavano residenza, fra gli altri, dei grandi proprietari agrari. Ai romani dominati, la mancanza del riconoscimento barbarico del guidrigildo e della spatha non impediva l'accesso alla proprietà, quindi i ricchi acquistavano terreni facendoli lavorare ad altri (persisteva la schiavitù anche se stava scomparendo). E dato che gli ex schiavi di Roma erano diventati servi dei Longobardi e che presso questi ultimi non era bloccata del tutto la mobilità sociale, molti romani al servizio dei guerrieri barbari, non avendo accesso alla terra, si specializzavano in attività urbane. Durante la Guerra gotica gli eserciti di Goti e Bizantini si erano talmente assottigliati che era diventata consuetudine liberare schiavi e servi dell'avversario in cambio della fedeltà militare (i Bizantini ebbero al massimo, con Belisario, circa 24.000 uomini e al minimo 15.000; i Goti, con Totila, rispettivamente 20.000 e 1.000). I Longobardi continuarono tale pratica durante le "loro" guerre. Dunque sempre più uomini potevano portare la spatha; ma soprattutto, cosa ben più importante dal nostro punto di vista, potevano acquistare e vendere terra e case senza il consenso di alcuno.

L'avanzata della ricchezza espropriatrice

Dal prologo dell'editto di Ròtari si desume la fine del residuo comunismo gentilizio e l'avvento della divisione in classi proprietarie (l'editto era scritto anche per difendere i deboli dalle sopraffazioni dei potenti, e questo vuol dire che si erano precisati i confini delle classi ed era aumentato il divario fra di esse). Comparivano, e sono citate, due figure essenziali per l'economia in transizione: 1) i magistri comacini, maestranze edili salariate, organizzate in una sorta di cooperative (non ancora corporazioni) e itineranti con officine mobili e ponteggi (cum machinis); 2) i livellarii, cioè affittuari di terreni, che si affiancavano agli allodiali e ai coltivatori in enfiteusi. Entrambe le figure saranno più tardi veicolo di accumulo e circolazione di valore monetato al posto di scambi in natura. Ciò è molto interessante perché quando si parla di forma sociale lo studio della proprietà ha sempre contenuti ermeneutici, cioè fornisce molti elementi per l'interpretazione dei dati collegati. L'Editto di Ròtari ci informa con la sua struttura che la società barbarica si sta evolvendo dentro quella romana proprio mentre quest'ultima sta evolvendo per andare fuori dall'alveo antico-classico. Dalla forma di proprietà collettiva della gens si passa dunque a un tipo di proprietà meno sfumata, compatibile con quella del diritto romano.

Il regno longobardo raggiunse il suo massimo splendore con Liutprando (re nel 712). Egli conquistò Ravenna e attaccò Roma, entrambe città-chiave per l'unificazione della Penisola, ma perdette di nuovo la prima e fu fermato dal papa alle porte della seconda. Le nuove leggi sancivano ancora la divisione tra Longobardi e Romani per quanto riguardava il diritto, ma, consapevole della situazione anacronistica, il re emanò una specie di legge-ponte: nei contratti i contraenti avrebbero potuto scegliere fra diritto longobardo o romano. È evidente che la semplice consuetudine porterà non solo al superamento di fatto della legge barbarica ma anche a quello della legge romana. La capitale fu di nuovo Pavia, nel frattempo diventata città palatina, cioè residenza effettiva del re, con il suo palazzo-simbolo. I Longobardi, ormai pienamente urbanizzati e romanizzati, dovettero constatare che la circolazione del denaro era in mano ai Romani. Il lavoro salariato era sempre più diffuso perché gli schiavi, e spesso anche i servi, venivano liberati in modo incontrollato, semplicemente perché costavano troppo ed erano inefficienti. Non si trattava ancora di vera e propria forza-lavoro, ma certo la prefigurava. I nuovi liberi vagavano infatti per le campagne e si arrangiavano con lavori saltuari nelle città dove, tra l'altro, dal tempo di Ròtari era proibito entrare e uscire senza farsi riconoscere.

Come scrisse Cattaneo, con l'occupazione longobarda non si spezzò la romana complementarietà fra città e campagna, anzi si rafforzò, dato che i ricchi cittadini non erano più agrari inurbati come in Roma antica, né agrari di villa come nel tardo impero, né nobili cavalieri assegnatari di terre come era norma nel resto d'Europa, in evoluzione verso il feudalesimo. Le produzioni complementari urbane e agricole produssero una ricchezza di tipo nuovo, mercantile, dinamica, espropriatrice. Rimaneva in sospeso, non risolto, il grande problema della divisione del regno in due parti, la Langobardia maior al Nord, la Langobardia minor al Sud. Al centro, il taglio netto dell'Esarcato bizantino lungo l'antica Via Flaminia, da Ravenna a Roma.

Rivista n. 35