L'Italia nell'Europa feudale (1)
Il retroterra storico del capitalismo più antico del mondo

"In Italia, dove la produzione capitalistica si sviluppa prima che altrove, anche il dissolvimento dei rapporti di servitù della gleba ha luogo in anticipo sugli altri paesi. Qui il servo della gleba viene emancipato prima ancora di essersi assicurato un qualsiasi diritto di usucapione sulla terra, cosicché la sua emancipazione lo trasforma immediatamente in proletario nudo e crudo, che, per di più, trova già pronti i suoi nuovi padroni nelle città quasi tutte tramandatesi dall'epoca romana".(Il Capitale, vol. I, L'accumulazione originaria).

"La ciarla del Medioevo sopravvivente in Italia non solo dimentica che cosa fu il feudalesimo, ma dimentica che ve ne fu in Italia meno che altrove, e nel Sud meno che al Nord" (da Il rancido problema del Sud italiano, 1950).

Prenderemo spunto dalla "Questione meridionale", sempre in auge in Italia (fu uno dei cavalli di battaglia dello stalinismo), per continuare il lavoro sulla grande transizione dal comunismo originario al comunismo sviluppato attraverso le forme sociali intermedie. Com'è noto, Marx le individuava in: asiatica, antico-classica, feudale e capitalistica. Abbiamo già avuto modo di anticipare in articoli precedenti che ognuna delle forme sociali intermedie presenta, contemporaneamente ai suoi propri caratteri, tracce di quelli della società passata e caratteri della società a venire. Sembrerebbe quindi legittimo pensare che nel capitalismo sopravvivano forme antiche, ad esempio feudali. Siccome l'arretratezza del Sud italiano è stata fatta appunto risalire a permanenze di feudalesimo, riprendiamo una nostra vecchia critica a questa affermazione non solo per ribadirla ma per dimostrare con dati nuovi, oggettivi, che il feudalesimo in Italia non è mai stato in grado di assurgere a modo di produzione dominante, come invece nel resto d'Europa, né tantomeno in grado di trasmettersi a secoli di distanza con effetti sulla società capitalistica italiana d'oggi.

1. Secondo Risorgimento, Mezzogiorno e feudalesimo

Su che cosa verte esattamente lo storico dibattito sulla "Questione meridionale" in Italia? È noto che l'apparente disparità di sviluppo fra il Nord e il Sud italiani ha prodotto tante teorie quanti sono coloro che se ne sono occupati. Tuttavia è possibile suddividere tali teorie in gruppi più o meno omogenei. Ad esempio, alcune, in genere collegate agli studi risorgimentali, privilegiano il punto di vista storico e politico; altre sottolineano maggiormente il dato economico e sociale; mentre altre ancora si basano sulla dinamica storica di lungo periodo e sui caratteri ereditati dalle epoche passate. Il lettore avrà notato la sottolineatura di "apparente", con la quale ci siamo già schierati, come vedremo. Per adesso annotiamo un'osservazione di Marx: una società capitalistica è tanto più avanzata quanto più libera forza-lavoro, non quanto più ne occupa. La miseria può essere frutto di arretratezza o di troppa modernità.

Tornando alle varie ipotesi sul sottosviluppo meridionale, uno dei raggruppamenti possibili – ed è quello che qui ci interessa demolire – è quello che adoperò una teoria dello "sviluppo capitalistico ritardato" a fini politici immediati, con devastanti conseguenze, a causa della sua connessione con l'opportunismo e le conseguenti complesse implicazioni sul piano dei rapporti di classe. Ovviamente la devastazione non fu dovuta alla teoria in sé, da questo punto di vista piuttosto risibile e facilmente confutabile, ma al fatto che essa fu parte integrante di una aberrante "concezione dell'Universo" come ricordò la nostra corrente a Gramsci, per cui risultava giustificato il fronte con la borghesia per il "progresso sociale" piuttosto che la distruzione del suo potere politico che mantiene in vita il capitalismo.

In poche parole, lo "sviluppo ritardato" sarebbe da imputare a sopravvivenze di feudalesimo nell'Italia, non solo del Sud. Situazione che avrebbe comportato la necessità di un compimento della rivoluzione antifeudale borghese, "incompiuta e tradita" (Gramsci). In questa ottica, la Prima Guerra Mondiale sarebbe stata la "nostra" Quarta Guerra d'Indipendenza; l'antifascismo sarebbe stato la lotta contro i rigurgiti feudali; il fronte con la borghesia progressista, dall'Aventino in poi, sarebbe stato l'equivalente della lotta congiunta fra le classi moderne contro quella feudale. Per Togliatti ci si sarebbe dovuti addirittura sostituire alla borghesia, cogliendo il Tricolore dal fango in cui essa l'avrebbe lasciato cadere.

Da Piero Gobetti e Antonio Gramsci a Emilio Sereni

L'iniziatore della teoria fu Piero Gobetti, seguito a ruota da Gramsci che del giovane liberale aveva stima e rispetto. La teoria fu poi ripresa nel secondo dopoguerra ad opera di Togliatti & Soci, elaborata da vari esponenti del PCI stalinista e adoperata come s'è visto. All'interno della teoria non poteva mancare, oltre alla fraseologia marxisteggiante, un riferimento alla "questione agraria", dato che nella tradizione rivoluzionaria gli storici rapporti fra operai e contadini si riflettono in quelli fra Capitale e terra in un tutto indissolubile. Uno degli esponenti stalinisti che lavorarono sulla teoria del "ritardo" collegata ai (presunti) residui feudali nel Mezzogiorno d'Italia fu Emilio Sereni, esperto in economia agraria, due volte ministro, direttore di Stato operaio e di Critica marxista:

"Lo sviluppo capitalistico, unificando il mercato nazionale, trasforma in un contrasto quella che era una semplice disparità, una differenza nel grado di sviluppo tra Nord e Sud [...] I residui feudali nell'economia dell'Italia centrale e meridionale, in particolare, ostacoleranno assai gravemente in queste regio­ni la separazione dell'agricoltura dall'industria, lo sviluppo mercantile e capitalistico dell'agricoltura, la formazione del mercato interno per la grande industria; daranno a tutta l'economia la loro impronta di arretratezza e di primitività; faranno dell'economia italiana un'economia tipicamente ritardataria. Certo, questi residui feudali non varranno ad arrestare la marcia del capitalismo italiano; ma questo si presenterà per lungo tempo in una forma ibrida e spuria, intricandosi in sempre nuove contraddizioni interne, che si inacerbiranno, innestandosi nel vecchio tronco feuda­le. Dell'Italia si potrà, per molti decenni, dire quel che Marx diceva della Germania del suo tempo: che essa soffriva ad un tempo del capitalismo e del suo deficiente sviluppo".

Prima di proseguire, rammentiamo un fatto assai curioso: Emilio Sereni fu allievo della prestigiosa scuola agraria di Portici, incaricata dal governo, nell'Italia post-risorgimentale, di analizzare l'agricoltura meridionale al fine di applicare vaste riforme. Il principale rappresentante di quella scuola fu il liberale Oreste Bordiga, che condusse in prima persona l'indagine agraria capeggiando una squadra strappata dagli uffici e fatta operare sul campo in sopralluoghi e spostamenti continui. Quell'indagine aveva portato a conclusioni opposte rispetto a quelle cui l'allievo giungerà, evidentemente tradendo il maestro col farsi fuorviare dalla politica ufficiale del partito collaborazionista borghese.

Eredità moderna dell'agricoltura antica

Nel Mezzogiorno d'Italia era praticata una moderna ed efficace coltura intensiva, integrata, a seconda delle condizioni del terreno, da quella estensiva. Le aziende agricole comprendevano, oltre alle terre ottimamente dissodate e fertilizzate, grandi estensioni di terra povera, da alcune delle quali veniva ricavata una magrissima produzione con molto lavoro, mentre su altre poteva sussistere solo la pastorizia e su altre ancora dominava l'abbandono ("assenteismo agrario"). A parità di reddito, era chiaro che le aziende con terre fertili e produttive ne possedevano meno ettari di quelle con terre a coltivazione estensiva, dedicate alla pastorizia o abbandonate a sé stesse (latifondi). Ma questo dipendeva più dalla natura del terreno e dal clima che dal modo di produzione; anche se l'ampiezza di un territorio poco "attrezzato" può far pensare, nel secondo caso, ad arretratezza.

Siamo dunque di fronte a interpretazioni assai forzate: a parte i "residui feudali" di cui parleremo in seguito, l'agricoltura meridionale italiana non aveva nulla da invidiare a quella di altre zone, tenendo conto, ovviamente, della differenza di clima, di suolo e di acqua fra – poniamo – l'entroterra siciliano e la pianura lombarda, fra la capillare distribuzione idrica araba e quella massiva delle "marcite" realizzate dal sistema dei liberi Comuni padani. Il cosiddetto assenteismo agrario non è altro che il banale effetto della legge della rendita agraria: sui terreni migliori si ricava una rendita differenziale, su quelli peggiori la rendita minima permessa dal tipo di coltura possibile. Se la rendita si abbassa al di sotto di un certo livello, il terreno peggiore rimane incolto. Per riportarlo a coltura, occorrono due fattori: 1) il prezzo delle derrate che vi si possono coltivare deve crescere; 2) deve essere disponibile una quantità di capitale sufficiente ad apportare migliorie alla produzione, vuoi attraverso la modifica delle condizioni naturali (dissodamento, bonifica, scasso profondo, ecc.), vuoi con la modifica di quelle artificiali (tecnologie, macchine, chimica, sementi migliorate, ecc.).

Emilio Sereni teorizzava basandosi su dati quantitativi e non qualitativi: se si teneva conto unicamente del rapporto fra il valore prodotto dall'industria e quello prodotto dall'agricoltura, fra il numero degli operai e quello dei contadini, fra i numeri relativi all'Italia e quelli relativi alla Germania o all'Inghilterra, allora sì, l'Italia risultava essere in buona parte agricola. Lenin trovava inaccettabile questa volgare concezione statistica persino per la Russia che era quasi totalmente agricola. Lo stesso Sereni d'altronde pubblicava osservazioni e cifre che lo smentivano: l'agricoltura italiana partecipava al mercato mondiale in un rapporto completamente capitalistico non solo per l'uso di tecniche moderne, credito ipotecario, assicurazioni, ma per l'impatto speculativo del capitale finanziario, parassita e decadente. L'arretratezza di alcune aree, anche vaste, era certo visibile, ma era più del tipo descritto da Steinbeck per gli Stati Uniti che non di quello di un paese "in via di sviluppo": all'espropriazione ed espulsione dei contadini dalle campagne non corrispondeva una pari capacità di assorbimento da parte dell'industria. Non tanto perché quest'ultima fosse "poca" e "arretrata", ma proprio perché era moderna ed efficiente nelle sue punte avanzate. La miseria italiana aveva effettivamente delle radici antiche, ma esse non affondavano nel feudalesimo. Affondavano nel capitalismo più vecchio del mondo, sopraffatto dalla sua stessa esuberanza in anticipo sul resto d'Europa cui faceva da banca internazionale.

La cambusa delle flotte mercantili

L'apparente (sottolineiamo di nuovo) divario nel grado di sviluppo economico (non solo agrario) fra Nord e Sud non è quindi soltanto materia per nostalgici neoborbonici o professori in cerca di notorietà attraverso teorizzazioni negazioniste di moda. Il processo di unificazione nazionale mise a confronto realtà differenti, ma tutte tipiche del capitalismo sviluppato dell'epoca. Il modello agrario lombardo descritto da Carlo Cattaneo non era affatto un caso isolato ma si intrecciava con la grande proprietà terriera estesa intorno alle ville che furono parte integrante della potenza di Venezia. L'agricoltura ultra-intensiva dell'orto ligure si intrecciava con quella piemontese della vigna, della risaia e della produzione di carne in cascina. L'estensione degli uliveti, dai grandi laghi del Nord all'estremo Sud, forniva olio all'intera Europa, per l'alimentazione e per l'illuminazione. La cultura alimentare dell'insaccato, del formaggio stagionato e soprattutto della galletta di grano duro era diventata industria specifica di supporto alle Repubbliche marinare. La pasta essiccata, industrializzata a Genova, era diventata un pilastro dell'industria alimentare di tutto il Mezzogiorno insieme con la frutta secca e le conserve. Le coltivazioni meridionali erano quasi interamente dedicate al mercato delle materie prime per l'industria e al mercato estero (arance, limoni, vino marsala, essenza di zagara e bergamotto, grano duro, mandorle, noci, pistacchi, legumi secchi, frutta candita, ecc.). La "civiltà del castagno" era estesa dalle Alpi alla Sicilia passando dall'intera dorsale appenninica, e forniva, oltre che una gran quantità di cibo altamente calorico, legname da carbone e da ardere, foglie da strame.

Mediamente la proprietà agraria era molto frazionata, ma dominava quella estesa, specie al Sud, dove il sistema di masserie si alternava con il latifondo non abitato sul quale si recavano i contadini residenti nelle città. A ben vedere, l'agricoltura italiana, compresa quella del Mezzogiorno, non era quantitativamente inferiore a quella di altri paesi d'Europa e dal punto di vista qualitativo era addirittura superiore. Non era povera l'agricoltura, erano poveri coloro che lavoravano la terra, piccoli proprietari o braccianti che fossero. E nell'agricoltura italiana, subito dopo le annessioni piemontesi, il bracciantato moderno non solo rappresentava "massa lavoratrice", ma era in grado di scatenare imponenti lotte. Non correva ai forconi né assaltava i forni, ma si organizzava in una rete territoriale di mutuo sostegno scontrandosi con le guardie regie e, spesso, con l'esercito neo-unitario.

Rivista n. 35