Necessarie dissoluzioni

"Sebbene limitato per la sua stessa natura, il capitale tende ad uno sviluppo universale delle forze produttive e diventa cosi la premessa di un nuovo modo di produzione… Questa tendenza è propria del capitale, ma al tempo stesso rappresenta una contraddizione col capitale in quanto forma di produzione limitata, e perciò spinge alla sua dissoluzione… [Ciò] distingue il capitale da tutti i precedenti modi di produzione e implica, al tempo stesso, che esso sia posto come semplice punto di transizione" (Marx, Grundrisse).

Sia nei Grundrisse che nel Capitale, Marx utilizza così spesso il verbo "dissolvere" in tutte le sue coniugazioni che è automatico ritenerlo una parola chiave. In particolare, nei Grundrisse, il succedersi delle forme economico-sociali è fatto dipendere, per così dire, da una serie di microdissoluzioni, veri "processi storici di dissoluzione", che hanno il loro coronamento nelle macrodissoluzioni dei modi di produzione. Lo sviluppo della forza produttiva sociale dissolve forme obsolete, e questa dissoluzione a sua volta sviluppa la forza produttiva. Il capitalismo è la società che più alimenta questa spinta esponenziale, quella che più dissolve forme precedenti o loro sopravvivenze, tanto da configurare sé stessa come forma di transizione per eccellenza. E poiché lo schema di Marx su questo argomento è collegabile alla nostra indagine sulla struttura frattale delle rivoluzioni, [1] proviamo a trattare alcuni esempi di microdissoluzioni alla scala storica dell'ultimo secolo sulla strada che ci sta portando al collasso finale. Naturalmente in questo ultimo secolo ci siamo anche noi e perciò questa è anche un po' la nostra microstoria.

Lezioni delle controrivoluzioni

Molti conosceranno la storiella dei carabinieri sulla "gazzella" in cui il maresciallo chiede all'appuntato di guardare se funziona la "freccia"; l'appuntato si sporge dal finestrino e dice: "adesso sì, adesso no, adesso sì, adesso no…". La rivoluzione non è come la "freccia" del carabiniere ma come la metafora di Marx: la società presente è gravida di quella futura, e la violenza sarà levatrice. Nel frattempo la rivoluzione si sviluppa, non si può essere incinte solo un poco o a giorni alterni. Dunque la rivoluzione c'è e fa orario continuato 24/24.

Riprendiamo un discorso, sfiorato più volte, sulle determinazioni che influenzano gli organismi politici, con speciale attenzione verso quelli che si richiamano a Marx ed Engels. E siccome ci sentiamo parte di una corrente storica precisa, il discorso dovrà partire dal punto in cui il lavoro di quella corrente si era interrotto. Anticipiamo subito che, nell'epoca del capitalismo stramaturo, tutti i movimenti sociali, anche quelli apparentemente interni a questo modo di produzione (lotte fra correnti borghesi, lotte rivendicative immediate della classe proletaria, sommosse interclassiste), sono in realtà manifestazioni dello scontro in atto fra modi di produzione. Sembrerebbe un po' azzardato sostenere ad esempio che una lotta intestina fra le componenti della borghesia è immediatamente scontro fra modi di produzione. O, che la battaglia politica storicamente imperante fra i diversi raggruppamenti che si richiamano al socialismo o al comunismo possa essere un sintomo della rivoluzione che viene. Teniamo presente che, per quanto riguarda la borghesia, non stiamo parlando della normale concorrenza che scatena guerre anche cruente (fallimenti, espropriazioni, dumping, spionaggio); e, per quanto riguarda gli organismi politici, della solita "Bisanzio socialista", che è il risvolto conflittuale della selezione imposta dal divenire storico per far emergere gli strumenti adeguati al cambiamento. Stiamo invece parlando della forte polarizzazione sociale che avviene a tutti i livelli quando non c'è più "spazio di manovra" per ognuna delle componenti della società che in essa si erano ritagliate il loro posticino un tempo tranquillo.

Quando la lotta incomincia a essere condotta non più per vantaggi futuri ma per non perdere risultati raggiunti nel passato, significa che una società non è più in ascesa ma al tramonto. Bella scoperta, si dirà, ma le cose non sono semplici come sembra. Ad esempio, Marx descrive benissimo la "traiettoria e catastrofe" di una forma sociale proprio per mezzo di una metafora conservatrice: in una lettera ad Annenkov contro Proudhon,[2] egli spiega come proprio la lotta generalizzata per conservare ciò che hanno obbliga gli uomini a rivoluzionare la società (e la piccola borghesia è la più esposta in questo senso). La grande controrivoluzione in corso esiste solo perché incombe il suo oggetto, cioè la rivoluzione.

In una situazione come quella in cui stiamo vivendo, è meno giustificato che mai il ricorso a strutture politiche e a programmi di azione presi a prestito da questa società. Ed è noto a chi ci conosce, che abbiamo sempre insistito nell'interpretare in senso forte la documentazione lasciata dalla nostra corrente in sessant'anni di storia. La rivoluzione borghese ha rappresentato la vittoria delle istanze democratiche e dei partiti a struttura rappresentativa, per cui l'intera società si è sviluppata su quel modello, ed è inutile chiedersi se quest'ultimo ha attecchito prima nei partiti, nei parlamenti e nei governi o nei consigli di amministrazione delle aziende.

È invece importante chiedersi come mai, nel tentativo rivoluzionario europeo dopo la Prima Guerra Mondiale, il modello borghese a democrazia rappresentativa sia stato adottato pari-pari nel partito, nello stato e nella gestione economica. E non è una spiegazione addurre a scusante l'arretratezza della Russia o, peggio ancora, che partito e stato erano saldamente in mano ai comunisti e che quindi si poteva stare tranquilli, era tutto sotto controllo. Nella struttura di Stato e rivoluzione Lenin non viene neppure sfiorato dall'idea che la dittatura del proletariato possa concedere qualcosa a elezioni democratiche, a parlamenti, alla messa in discussione della natura del potere proletario. La dittatura del proletariato, espressione che già con Stalin era diventata una pura frase, è l'antitesi della democrazia rappresentativa. Ogni giustificazione odierna a sostegno di quest’ultima non è solo una partigianeria con quello che divenne lo standard opportunista della Terza Internazionale (compresi i plotoni di esecuzione), ma la confessione che si è pronti a ripetere. È evidente che non c'è discussione possibile, si può solo auspicare che venga in fretta l'occasione per chiarire con "la critica delle armi" da che parte stanno le varie componenti sociali.

Il saggio di idoneità

Sappiamo quale importanza rivesta il problema della misura in campo scientifico. Si può addirittura affermare che non c'è scienza dove non c'è misura, dove non c'è ricorso al dato quantitativo al quale ricondurre anche gli aspetti qualitativi, dove non c'è possibilità di calcolo o perlomeno di schematizzazione. Una classica obiezione a questi postulati riguarda precisamente l'estensione della sfera scientifica: sembra naturale che essa abbia i suoi limiti là dove inizia il vasto territorio dell'arte e di qualsiasi disciplina basata prevalentemente sugli aspetti qualitativi, come il campo della "politica". Ciò non è esatto. Un qualsiasi sondaggio su un campione della popolazione trasforma in dati numerici opinioni e comportamenti. La sociologia ha escogitato complessi modelli matematici per indagare nella propria sfera e, se pur diamo per scontato l'uso classista di ogni ricerca del genere, prendiamo atto che un'altra barriera divisoria è caduta: possiamo trasformare il sorriso della Gioconda in bit di informazione.

Alcuni nostri sconosciuti corrispondenti hanno provato, indipendentemente l'uno dall'altro, a misurare il saggio di idoneità per l'appartenenza alla community denominata "n+1". Navigando sul sito di n+1 e giunti alla pagina "Lavorare con noi", hanno estratto dai vari punti un certo numero di enunciati. Con il criterio dei network tipo Facebook, hanno spuntato virtualmente, come si fa con il fatidico "mi piace", quelli in cui si identificavano. Ne sono venute fuori alcune "stringhe" binarie di "sì-no" dalle quali risultava un "saggio di quinternità" medio del 50% ("quinterna" è il nome del nostro dominio internettiano, ricavato dal titolo delle nostre vecchie pubblicazioni Quaderni Internazionalisti). Questa specie di autosondaggio non dice quasi nulla sulle tendenze di coloro che l'hanno escogitato nei confronti del nostro progetto di lavoro; e anche se fosse ripetuto mille volte con mille persone diverse il grado di affidabilità non migliorerebbe. In realtà, infatti, ciò che si è misurato non è il "saggio di quinternità", bensì il saggio di compatibilità fra ciò che hanno in testa i nostri simpatici interlocutori e ciò che loro credono abbiamo in testa noi.

Ciò è stato più interessante della eventualità che avessero risposto con un grado di sintonia del 100%, perché si è reso evidente che la mancanza di polarizzazione sociale aveva loro fatto leggere la nostra pagina attraverso un filtro storico, per cui avevano pregiudizialmente già accettato o rifiutato i vari punti in modo del tutto indipendente dal contesto, com'è poi stato confermato dalle corrispondenze successive.

Tuttavia è vero che noi, osservando i dati, siamo riusciti a dare una connotazione numerica a un raffronto politico. Anche se è ben poca cosa dal punto di vista conoscitivo (non riusciremo mai, a trarre misure certe confrontando quelle che normalmente vengono chiamate "posizioni") ci sono comunque dei numeri, una percentuale, una metodologia di ricerca, una disposizione per insiemi. Quindi, se da una parte non possiamo sapere, basandoci su ciò che ognuno dice di sé stesso e di altri, a che punto sia l'avversione per questa società, che cosa comporti la lotta per la difesa di ciò che si sta per perdere, quale sia il punto di svolta oltre al quale si innescano meccanismi di catastrofe, dall'altra avremmo dati sufficienti per una generalizzazione non appena si potesse superare il raffronto individuale.

Normalmente si dice che il comportamento di massa è profondamente collegato a un andamento materiale rivelato dai dati statistici. Ciò è addirittura lampante, tutti vedono con facilità il nesso tra il numero dei disoccupati, l'abbassamento del salario, il calo della produzione industriale, la povertà assoluta, ecc., e il marasma sociale che da tre anni investe il mondo, fa scendere in piazza milioni di persone, fa vacillare gli stati e in alcuni casi trascende in guerra. Ma non c'è alcun rapporto diretto, meccanico, fra il marasma sociale e il cambiamento effettivo che esso può produrre. Anzi, il più delle volte, nell'immediato, si verifica un assestamento sociale, un aggiustamento che neutralizza o addirittura elimina le cause delle rivolte. Viene destituito un dittatore, cambiato un governo, soddisfatta una rivendicazione e tutto torna (apparentemente) come prima. Altre volte una situazione conflittuale si cronicizza, come nel caso eclatante della Palestina.

In tutti questi scenari, il determinismo soggiacente, supportato da una gran quantità di dati forniti dagli uffici appositi degli stati e degli organismi sovranazionali, sembra non avere la forza sufficiente per spingere al cambiamento radicale. Il saggio generale di idoneità degli organismi immediati espressi ex novo dalle lotte o, se pre-esistenti, spinti dalle stesse lotte alla loro testa, sembra spaventosamente basso. Non è un critica, perlomeno non lo è ancora, è una constatazione. Il movimento della cosiddetta primavera araba, che ha visto milioni di persone in piazza e ha lasciato sul campo migliaia di morti e feriti, ha portato a risultati assolutamente sproporzionati rispetto all'energia sociale scatenata. Così è stato per il movimento greco, per quello degli indignados in Spagna, per quello di Occupy Wall Street negli Stati Uniti o di piazza Taksim in Turchia, e via di seguito per quanto riguarda altri paesi in tutti i continenti.

È del tutto evidente che non si tratta di carenza di energia e nemmeno di organizzazione. Quasi ovunque non mancava il collegamento con il proletariato e, specie negli Stati Uniti, erano forti le spinte al rifiuto del capitalismo in quanto modo di produzione anti-umano. In generale, sembrava ci fossero tutte le classiche potenzialità di maturazione dei programmi politici nel corso della lotta. Negli Stati Uniti, ad esempio, le parole d'ordine interclassiste e confuse dell'inizio si erano precisate in alcuni punti della rete organizzativa in senso comunistico, parallelamente all'importante saldatura con frange del movimento operaio americano. Non una delle caratteristiche potenziali si è elevata allo stato effettuale. Perché? Una risposta potrebbe essere: perché non è ancora subentrato un nuovo paradigma, dato che quello vecchio non è morto. Si può infatti essere contro il capitalismo se non si precisa che si è a favore di una società nuova, e soprattutto non si ha idea di come arrivarci? Anche in Russia, nonostante l'insurrezione vittoriosa, il potere saldamente nelle mani del partito, un corpo di tesi poderoso, l'indeterminatezza sul traguardo e sulla strada per arrivarci fu disastrosa. Nel diffusissimo opuscolo ABC del comunismo Bucharin e Preobrazenski descrivono così, al capitolo "Caratteri del regime comunista" la società futura:

"La base della società comu­nista è la proprietà sociale dei mezzi di produzione e di scambio, cioè le macchine, gli apparati, le locomotive, i piroscafi, gli edifici, i magazzini, le miniere, il telegrafo ed il telefono, la terra ed il bestiame da lavoro sono pro­prietà della società. Nessun singolo capitalista e nessuna associazione di ric­chi può disporre di questi mezzi, che appartengono all'intera società… S'intende che una organizzazione così grandiosa presuppone un piano di produzione generale dal momento che tutta l'industria e l'agricoltura formano una unica immensa cooperativa… Ma l'organizzazione sola non basta. La cosa essenziale consiste in ciò: che questa è un'organizzazione soli­dale di tutti i membri della cooperativa. Oltre che per l'organizzazione, l'or­dinamento sociale comunista si distingue per il fatto che esso elimina lo sfruttamento, abolisce la divisione della società in classi". [3]

È evidente che siamo di fronte a una interpretazione perlomeno "popolare" del comunismo. Non basta assicurare che saranno aboliti sfruttamento e classi. Come, poi? Con un decreto dell'apposito commissariato del popolo? Nessun proletario rischierebbe la vita per diventare socio di una cooperativa. La nazionalizzazione dei mezzi di produzione non abolisce il capitalismo, il quale è nato statale e sta morendo statale. Il capitalismo è più virulento ancora senza gli inutili capitalisti, e purtroppo la Russia ha avuto quello che era inscritto nel suo programma.

Prima dissoluzione, il vecchio paradigma

Proviamo a scrivere il programma della rivoluzione in corso (dal 1848) utilizzando il linguaggio della III Internazionale. È stato fatto più volte, sia in corpose Tesi, sia in opuscoli divulgativi come il citato ABC del comunismo. La nostra corrente già negli anni '50 del '900 aveva constatato che quel linguaggio "ci accomuna a troppa gente" con la quale non abbiamo nulla da spartire. Eppure non possiamo farne del tutto a meno, perché un linguaggio diverso potrà sorgere solo quando il rivolgimento sociale sarà in atto. Perciò quello che possiamo fare è non essere "creativi", che poi vuol dire passare alla revisione non solo del linguaggio ma anche dei principii, e nello stesso tempo non essere pedestri. Una certa diversità di linguaggio scaturisce comunque, spontaneamente, non appena si abbia chiaro l'obbiettivo da raggiungere e come.

Se noi trasformiamo in "tesi" le due paginette del nostro sito richiamate dai corrispondenti in vena di auto-analisi, otteniamo un risultato che presenta notevoli differenze rispetto al linguaggio sclerotizzato della III Internazionale stalinista (vedi riquadro. I vari punti non sono nello stesso ordine rispetto a quelli elencati sul sito). Ovviamente il linguaggio è influenzato dal contenuto. Al primo punto, ad esempio, vi è una constatazione che ha valore di legge ma che nessun documento o tesi dell'Internazionale moscovita riporta . Eppure la nostra corrente l'ha posta nelle sue Tesi[4] rilevandola dai Grundrisse. Essa ha un significato enorme, perché ci dice che l'uomo è fondamentalmente comunista, che così ha vissuto per milioni di anni fino allo sviluppo di civiltà di transizione ancora permeate dal ricordo del comunismo originario, e che la parentesi delle società divise in classi è molto più breve, precaria e provvisoria di quanto sembri a chi la sta vivendo.

Un ragionamento del genere si può ripetere per ogni punto rilevando, con maggiore o minore pregnanza, la differenza con la concezione terzinternazionalista. Ancora un esempio: mentre in quest'ultima il comunismo è un "regime", cioè un modello sociale da "costruire", in Marx e nella nostra corrente è una dinamica che porta al comunismo sviluppato attraverso la dissoluzione dell'arco intermedio che ci collega al comunismo originario. Per cui la "dittatura del proletariato" non è più un governo-stato ma il superamento positivo di governo e di stato, è già altro rispetto alla società precedente (secondo punto). E così via: la III Internazionale aveva nel suo programma lo sviluppo della produzione al fine di soddisfare i bisogni di tutti; noi abbiamo nel nostro programma la drastica riduzione del quantitativismo produttivo, il cui imperversare ci permette di vedere alcune anticipazioni del comunismo futuro già nella società di oggi "così com'è" (Grundrisse, terzo punto).

- Tutte le forme sociali basate su proprietà e classi rappresentano un ponte che unisce la società originaria senza proprietà con quella senza proprietà di domani.

- La società futura non conserverà neppure una delle categorie attuali. Già nell'applicazione del programma immediato, inizierà la demolizione delle vecchie forme. Lo stato incomincerà rapidamente ad estinguersi.

- L'enorme sviluppo della forza produttiva sociale ha fatto emergere delle forme anticipate che sono leggibili già nella società presente.

- Il vero capitalismo di stato non è quello in cui lo stato controlla l'economia ma quello in cui l'economia controlla lo stato. Giunta a quest'ultimo livello ("fase suprema") la società è una forma di transizione.

- Il cambiamento che conduce da una società all'altra è una realtà in marcia e non un qualcosa da "fare".

- È possibile assecondare il cambiamento solo anticipando forme del futuro.

- Un'invarianza di fondo fra le fazioni borghesi (democrazia/fascismo) vieta al partito rivoluzionario e ai suoi militanti di schierarsi con quella "meno peggio" in caso di scontro.

- Sulla scena internazionale ogni partigianeria con gli stati impegnati negli schieramenti interimperialisti è controrivoluzionaria.

- Non c'è differenza fra cretinismo parlamentare e cretinismo extraparlamentare quando c'è di mezzo la democrazia (rappresentativa, diretta, ecc.).

- La grande massa dei "senza riserve" potrà meglio contribuire al processo rivoluzionario se organizzata in strutture di difesa immediata.

- Il partito della rivoluzione con i suoi militanti rappresenta l'anti-forma, quindi lotta contro ogni omologazione, sia quella riformista e conformista borghese, sia quella falso-alternativa.

- Il partito della rivoluzione non potrà organizzarsi come i partiti borghesi, bensì dovrà darsi una struttura compatibile con la società futura.

- Il partito della rivoluzione avrà caratteristiche "organiche", come un organismo biologico, composto da organi differenziati ma armonici entro un tutto unitario.

- Il partito della rivoluzione non potrà che chiudere con tutte le religioni e le filosofie, comprese quelle "marxiste".

- Il partito della rivoluzione incoraggerà la spersonalizzazione delle dinamiche sociali a partire dal rifiuto totale del culto di santini rivoluzionari e di tutti gli "ismi" collegati al loro nome.

- Il partito della rivoluzione rifiuterà anche le mistificazioni ideologiche sul "santo proletariato". Se non si "erge a partito" questa classe non è in grado di muoversi come classe "per sé", è solo una classe "in sé", cioè un mero insieme statistico.

Quando i nostri attenti corrispondenti si sono autoanalizzati per misurare il proprio "saggio di quinternità" sono quasi miracolosamente giunti a una proporzione intorno al 50%. Se fossero stati dei terzinternazionalisti avrebbero trovato affinità zero; idem se fossero stati anarchici come quelli di una volta o anarco-movimentisti d'oggi. Il contenuto dei punti e il linguaggio con cui sono presentati non hanno la possibilità di essere recepiti dalle correnti oggi attive sulla scena. Chi erano allora i nostri interlocutori? L'unica risposta possibile è in un esempio che adoperiamo spesso: più di una volta ci siamo sentiti dire dopo una riunione, una conferenza, una corrispondenza: "Pensavo le stesse cose ma non avevo il linguaggio per esprimerle". Questa è la chiave per capire che cosa sta succedendo.

Non è strano: con i criteri della democrazia, oggi un programma fondato sull'avvento della società comunista e sul percorso per giungervi non è nemmeno preso in considerazione dalla maggioranza delle persone. Ma non appena si ha la rara occasione di far emergere ciò che alcuni individualmente "sentono" rispetto al cambiamento, si ha subito l'impressione che le cose non stiano come sembra. Tutto ciò non deve essere scambiato per una qualche teoria psicologica: la precisa statistica delle compagnie di assicurazioni e simili denota una regolarità incredibile nonostante sia basata sulle infinite variabili del comportamento di ogni singolo individuo.

Le rivoluzioni "scoppiano" proprio perché si accumula un potenziale indistinto, somma di tante pulsioni individuali che, come le molecole di un gas riscaldato, sono riconducibili a una media che produce determinati effetti. Engels ricorda come covò e infine esplose il cristianesimo, cioè la società anti-forma rispetto alla società schiavistica. A dispetto di controlli, repressioni e minoritarismo fino all'inizio del IV secolo, il programma di cui si fecero portavoce i cristiani alla fine prevalse. E finì per prevalere il programma della rivoluzione borghese, anche se nei salotti di Madame Pompadour era discusso fra pochissime persone. Come nei bistrot frequentati dagli esuli russi, dove il programma bolscevico era addirittura deriso. Ma non appena scattò la soglia di sopportazione rispetto alla vecchia società, quei programmi diventarono operanti, anche se quasi tutti gli uomini che "fecero" la rivoluzione non ne lessero neppure una riga.

Abbiamo visto che la molla che fa scattare la rivoluzione non è soltanto una miscela di miseria, precarietà, sofferenza. Non esiste limite a ciò che l'uomo ha dimostrato di saper sopportare senza ribellarsi. La soglia si raggiunge quando molti fattori incogniti entrano in sintonia e la società si polarizza in schieramenti opposti e irriducibili. Prima si muovono pance, gambe e braccia, per ultimo viene il cervello.

Le nostre tesine, ricavate da criteri di appartenenza al nostro lavoro, possono essere pure assurdità per gli adoratori della democrazia, ma per noi sono utilissime. Qualcuno potrà dire: ma se servono solo a voi, è come se non esistessero, non avranno nessun effetto per quanto riguarda il proselitismo, l'allargamento dell'attività, la diffusione della teoria. Non si tratta di questo. Per noi sono utilissime non tanto perché a qualcuno o a molti potrebbe venire in mente di "misurare" il proprio saggio di quinternità, ma perché ci permettono di fare a nostra volta dei raffronti. Non con ciò che la rivoluzione passata (e degenerata) ha lasciato in eredità, bensì con i movimenti di massa che in passato, ma specialmente in questi anni, hanno messo in subbuglio il mondo. Il vecchio paradigma è duro a morire, sta però emergendo quello nuovo; e il programma della rivoluzione, da cui abbiamo ricavato qualche atomo per le suddette tesine, serve da cartina di tornasole. Allora la situazione si rovescia: le tesine non servono a misurare la quinternità degli "altri", servono a misurare il grado di sopportazione del sistema da parte di masse di uomini. Quanto è vicino il movimento reale al modello della dinamica rivoluzionaria verso la società comunista? Secondo la teoria marxiana il divenire del comunismo ha determinate caratteristiche, di ordine pratico e teoriche. Sta nascendo un qualcosa che assomiglia a una appropriazione della teoria da parte di un qualche movimento?

La risposta non può venire dalle tesi terzinternazionaliste e nemmeno da quelle della "nostra" corrente, che hanno ancora meno diffusione. La risposta deve venire da un'adesione di massa a tesi che saranno di contenuto identico ma espresse con il nuovo linguaggio della rivoluzione che avanza. Il nuovo paradigma si farà strada attraverso una iniziale confusione che servirà a eliminare l'influenza funesta del vecchio paradigma.

Seconda dissoluzione: il linguaggio

Quando Marx ed Engels dovettero diffondere i risultati del loro studio sulla dinamica della rivoluzione in corso, adottarono in un primo momento la forma di "catechismo" strutturato a domande e risposte. L'abbandonarono a favore di quelle tesi formidabili raggruppate sotto il titolo di Manifesto del partito comunista. Quando la nostra corrente dovette rompere con i compagni che si facevano portatori di istanze terzinternazionaliste dopo che la Terza Internazionale era degenerata e scomparsa, le Tesi caratteristiche del partito furono chiamate, un po' per scherzo e un po' sul serio, "catechismo". Catechismo sono ad esempio le domande e risposte che si trovano sui siti internet (FAQ, Frequent Asked Questions). Ogni catechismo ha il compito di uniformare teoria e linguaggio in una struttura invariante, sia di un programma di ricerca che di una scuola scientifica o di un partito politico. In un catechismo non c'è democrazia, non è pensabile un dibattito su interpretazioni dei vari punti. La sua struttura è rigida e non permette elasticità di pensiero. Tuttavia, in determinate situazioni storiche, diventa il programma rivoluzionario di un'intera società (o, se non è adeguato, è eliminato e sostituito da uno nuovo).

Immaginiamo di non sapere nulla di processi rivoluzionari in corso, di non aver mai sentito nominare la III Internazionale, il PCd'I, n+1, la Comune di Parigi, il centralismo democratico e quello organico. Immaginiamo cioè, di essere nei panni di uno fra il miliardo e mezzo di salariati attualmente esistenti nel mondo, sottoposto alla pressione contraddittoria del suo essere un atomo della massa e un individuo che deve prendere decisioni nel raggio limitato del proprio ambiente. In una situazione di lotta economica, scontro politico, rivolta, i messaggi provenienti da partiti, sindacati, organismi vari sono molti e contraddittori. Come sa chiunque abbia partecipato a una qualsiasi lotta in clima di polarizzazione, anche minima, tali messaggi presi a sé non hanno alcun effetto. La massa sembra avere un'intelligenza propria, accumula in qualche modo informazione selezionata e così produce un aumento della polarizzazione. È a questo punto che ripone la sua fiducia in un programma che, se c'è, è quasi sempre quello che di più coerente esiste in quel momento dato. Naturalmente a prescindere dal contenuto più o meno "rivoluzionario". Quando è polarizzata, la massa informe è più "intelligente" delle sue singole parti, soprattutto di quelle che pretendono di rappresentarne la direzione. Essa oscilla per sua natura, ma giunta ad una determinata soglia si indirizza improvvisamente verso un solo traguardo.

Ovviamente questi fenomeni sono studiati in special modo dalla borghesia, che ha paura delle masse comunque, a prescindere dall'obbiettivo che esse si propongono, fosse anche, direttamente o indirettamente, a suo favore. Come nel caso delle tifoserie da stadio, che sono un prodotto dello sport usato in funzione di sfogo sociale, ma assumono sempre più spesso connotazioni anti-stato. La borghesia ha naturalmente ragione ad aver paura: siccome il suo stato non può fare a meno di generare fenomeni anti-stato, essa allarga il ventaglio della repressione. Di fronte a fenomeni sociali diffusi che muovono elementi di tutti gli strati sociali, le parole d'ordine classiche del movimento operaio, dei partiti comunisti, della tattica rivoluzionaria cadono in un ambiente che non le può recepire. Un po' come quando, durante il Sessantotto, gli studenti andavano alle assemblee operaie e gli operai andavano nelle facoltà occupate: a volte l'effetto dei linguaggi incompatibili era addirittura comico. Ma succedeva anche nelle assemblee in cui c'erano solo studenti. Appartenendo a classi diverse, si esprimevano con linguaggi diversi, dividendosi per giunta secondo le linee tradizionali destra/sinistra. Da questo punto di vista le assemblee operaie erano al confronto monolitiche e non presentavano quegli aspetti anarchicheggianti. Del resto lo stesso Lenin annotava che la "spontaneità" operaia era fortemente condizionata dall'abitudine all'organizzazione, dall'essere immersi in un razionale processo produttivo. In una situazione polarizzata, classe contro classe, l'influenza del proletariato organizzato trascina tutti i raggruppamenti interclassisti o semplicemente piccolo-borghesi. Prende allora il sopravvento il linguaggio della classe e del partito che domina la situazione. In simili momenti non succede che chi ha la direzione del movimento abbassi il linguaggio "a livello delle masse" ma al contrario, il linguaggio delle masse si eleva al livello rivoluzionario.

In tale contesto, la parola "linguaggio" non è equivalente alla parola "vocabolario". Non sono in gioco i vocaboli bensì la possibilità di trasmettere informazione di un certo tipo. Durante una importante fase di lotte nel settore petrolchimico, in risposta a quesiti posti sul tappeto da operai in sciopero, scrivemmo in una corrispondenza "aperta":

"La critica profonda al modo di produzione capitalistico non ha bisogno del ricorso a termini cui vengono affibbiati i più diversi significati, trasformati in luoghi comuni. E dunque lasceremo da parte termini come rivoluzione, comunismo, lotta di classe ecc. Ci basta una considerazione generalissima che è questa: il capitalismo è un modo di produzione che si basa sulle categorie di misura del valore, specificamente il valore di scambio. Esso si esprime attraverso la sua rappresentazione generale che è il denaro. Tutte le volte che non si esce dalle categorie di valore, non si esce dalla salvaguardia del capitalismo".[5]

Esiste un modo "comunista" per raggiungere un risultato nelle lotte immediate del proletariato? La risposta per noi è ovvia: esiste soltanto il modo più efficace, ed esso non ha aggettivo. Così come Trotsky scriveva, a proposito della guerra, che non esiste una specifica dottrina militare proletaria. Esiste solo il modo migliore per ottenere la vittoria.

Terza dissoluzione: fine dei programmi sincretici

Per quanto riguarda la marcia del proletariato verso la "conquista del potere", vale lo stesso discorso: nell'ambito di una concezione generale della storia e del succedersi in essa di forme sociali, l'importante è l'obbiettivo, e il modo per giungervi è una conseguenza obbligata. Poniamo di essere in una situazione di estrema polarizzazione sociale. Si scontrano sul campo le forze della borghesia e un movimento sociale che si appella al comunismo senza proporsi realmente di eliminare le categorie del valore, per cui proliferano compromessi con l'avversario. L'intelligenza della massa registra ciò che gli individui credono ancora un balletto della politica e scatta l'occasione, per forze che sono realmente riformiste ma non lo nascondono dietro una maschera rivoluzionaria, di salire al potere. L'ascesa del fascismo ha questi connotati: in tutta Europa, masse di uomini premevano per il cambiamento e infine hanno appoggiato chi meglio questo cambiamento rappresentava. Di fatto i fascismi non sono altro che "le dialettiche realizzazioni delle istanze riformiste". La storia è stata scritta dai vincitori democratici, ma è indubbio che queste masse di uomini hanno oscillato fra comunismo e fascismo perché dalla parte dei partiti comunisti non vi era il chiaro programma del cambiamento sociale, ma un Fronte Popolare rivoltante quanto i tradizionali partiti dichiaratamente borghesi.

La fondazione dei Fasci di combattimento in Piazza Sansepolcro a Milano (23 marzo 1919) e il programma pubblicato sul giornale di Mussolini dimostrano abbondantemente e precocemente questa specie di concorrenza riformistica instauratasi tra il fascismo e il comunismo terzinternazionalista. I punti dello stringato programma fascista avrebbero potuto benissimo essere stilati da un Radek nel corso di una delle numerose riunioni frontiste con esponenti socialdemocratici o comunque del nemico opportunista. Anzi, in quanto a "espropriazione degli espropriatori" superava tutti i programmi frontisti, mentre nelle dichiarazioni di Mussolini comparivano netti i caratteri riformisti della futura "nazione proletaria", laboriosa e sindacalizzata. Altre forze, nel frattempo, espressione della piccola borghesia rovinata dalla guerra, manifestavano il loro disagio più o meno sullo stesso piano, anticipando anch'esse il movimento social-fascista[6] che in pochi anni doveva estendersi all'Europa intera.

I comunisti italiani reagirono, naturalmente, e risposero con una organizzazione clandestina armata, ma furono sopraffatti. Sul fronte interclassista il fermento socialpatriottico che alimentava il movimento fascista generò la sua forma speculare con il movimento degli Arditi del Popolo, che radunava fuorusciti dai ranghi dei reduci, del movimento dannunziano e delle stesse milizie fasciste. Il loro programma era democratico e antifascista, orientato alla difensiva. Le loro milizie rispondevano con le armi solo se attaccate. Organizzazione, linguaggio e persino estetica erano quasi la copia di quelli fascisti, compresi i gagliardetti, i teschi con la baionetta fra i denti (ma con gli occhi rossi), il fascio tagliato da una scure.

In Germania lo scenario, a parte l'organizzazione non confrontabile dei protagonisti, fu analogo. Il 24 febbraio 1920 fu fondato da Hitler il Partito Nazionalsocialista dei Lavoratori Tedeschi (NSDAP). Molti punti del suo programma erano comuni a quello fascista. La resistibile ascesa fu agevolata dal sistema democratico e addirittura assecondata dalla socialdemocrazia tedesca, non tanto con cedimenti tattici quanto con il passaggio diretto alla repressione del movimento operaio (il "noskismo"[7] sanguinario, fu premessa indispensabile al nazismo, il quale non avrebbe mai potuto vincere da solo contro masse di proletari armati. Ovviamente ebbero la stessa funzione i reiterati tradimenti dei vari partiti rispetto alle attese proletarie).

All'interno della socialdemocrazia anche l'antinazismo assunse aspetti "sincretici", compresa l'iconografia simbolica: nel 1931 nacque l'Eiserne Front (fronte di Ferro) come organismo militare di difesa armata. La SPD cercò di limitarne l'azione, ma gli operai tedeschi alimentarono la crescita del fronte che giunse a contare un numero enorme di aderenti.[8] Il suo simbolo, tre frecce inclinate verso il basso, fu disegnato da un comunista russo in esilio (oggi ripreso dal network RASH, Red and Anarchist SkinHead). Le frecce significherebbero i tre nemici da colpire: la monarchia, il nazismo e il comunismo (si trovano molte altre versioni del significato, ma questa è corroborata da un manifesto originale).

Il massimo di sincretismo si raggiunse in Francia. Il 6 febbraio 1934, in Place de la Concorde, a Parigi, dopo uno scandalo che coinvolse il governo frontista di Daladier, per la prima volta non vi furono dimostrazioni separate di destra e sinistra ma una grandissima manifestazione spontanea in cui gli schieramenti si mescolarono, specie quelli estremi, uniti nell'assalto alla Camera dei deputati (Palais Bourbon). Gli scontri con la polizia furono di una violenza inaudita. Fianco a fianco, letteralmente, rintuzzavano gli attacchi i giovani del Partito Comunista, gli studenti di ogni tendenza, i Camelot du Roi, i fascisti di Action Française, i presidi operai di Cintura Rossa, la Jeunesse Patriote, i comitati di ex combattenti Les Croix de Feu, i disoccupati. Vi furono 22 morti e 2.309 feriti.[9]

Drieu la Rochelle, intellettuale di destra, autore di un saggio intitolato Socialismo fascista,[10] condannato a morte per collaborazione con i nazisti, così descrive, in un romanzo, la situazione, dopo aver partecipato alla oceanica manifestazione contro il governo frontista:

"Ma non volete rendervi conto di ciò che sta succedendo? […] Ora che il furto e il sopruso trasudano, si affermano, gridano da ogni parte, [il popolo] non ha potuto più resistere ad un richiamo così potente delle Erinni ed è sceso nelle piazze. Ora tocca a voi, uomini politici, precipitarvi fuori davanti a lui. Uscite dai vostri corridoi. I capi si mescolino fra di loro, come hanno fatto i soldati. Perché i soldati si sono mescolati su quella piazza. Ho visto i comunisti vicino agli uomini dell'estrema destra; li guardavano, li osservavano turbati con uno strano desiderio dipinto sul volto. Per un pelo non si sono incontrati, in un miscuglio stridente, tutti gli ardori della Francia. Correte dai giovani comunisti, indicate loro il nemico comune di tutti i giovani, il vecchio radicalismo corruttore [… Ma nessuno] ebbe il coraggio di gettare il proprio destino sulla bilancia […] V'è un’immensa borghesia che assorbe ogni cosa e inghiotte gli aristocratici, i contadini, gli operai. La borghesia, questo immenso pantano putrido fuori dal quale non c'è più nulla. Siamo tutti degni l'uno dell'altro, tutti gli stessi azionisti della società industriale moderna del capitale di miliardi di carta e di migliaia di ore di lavoro fastidioso e vano. Che ciò sia a Kharlov o a Patin, a Shanghai o a Filadelfia, non è poi la stessa cosa? [...] Non esistano altro che i moderni, gente piena di affari, gente del plusvalore o del salario, che non pensa che a questo e non discute che di questo".[11]

Tre giorni dopo, una contro-manifestazione organizzata dalle sinistre "degenerò" a causa della ribellione dei giovani e gli scontri provocarono altri 9 morti e centinaia di feriti. Di fatto l'odio per la corrotta democrazia parlamentare si era diffuso a macchia d'olio, e la base dei movimenti estremi sfuggiva al controllo dei vertici assumendo atteggiamenti politici che, se da una parte erano imbarazzanti per i vertici stessi, erano anche un risultato diretto delle porcherie politiche, specie da parte "comunista", che i militanti non potevano digerire. In Spagna, ben prima che infuriasse la terribile guerra civile e gli stalinisti ammazzassero più anarchici e comunisti di sinistra che fascisti, la rivista La Conquista del Estado del 4 giugno 1931 esprimeva la tensione social-fascista con questo brindisi:

Lunga vita al nuovo mondo del XX secolo!

Lunga vita all'Italia fascista!

Lunga vita all'URSS sovietica!

Lunga vita alla Germania hitleriana!

Lunga vita alla Spagna che faremo!

Abbasso le democrazie borghesi parlamentari!

Da notare che il sincretismo sovrastrutturale è sicuramente il riflesso di un sincretismo più profondo: le analogie socio-economiche tra fascismo, nazismo e New Deal sono affrontate da un saggio interessante uscito qualche anno fa.[12] Aggiungeremmo lo statalismo immaturo di Mosca per completare il quadro. Questa situazione non si presenterà più perché essa rappresenta già l'apice del capitalismo.

Quarta dissoluzione: il centralismo democratico

Abbiamo un retroterra teorico dal quale possiamo attingere con molta precisione i caratteri del futuro scontro sociale e del partito che lo dirigerà. Non è una questione di intelligenza di personaggi che hanno scritto articoli e tesi ma del risultato definitivo di un già avvenuto scontro storico (negli anni '20 del secolo scorso). Il processo di chiarificazione avvenuto allora non è reversibile. Nessun organismo politico potrà sopravvivere alla prova storica mantenendo le strutture e le modalità di quelli già falliti allora. I quali avrebbero prodotto meno danno se fossero falliti subito. La tragedia fu che trasfigurarono invece in organismi puramente borghesi trascinando il proletariato nell'inferno paludoso e imbelle in cui si trova ancora.

Potrebbero sopravvivere solo mescolandosi ai ridicoli rimasugli della ex organizzazione di classe borghese (a classe superflua, partiti conseguenti). Questo molto semplicemente perché sono già sorti, nelle pieghe di questa società, gli anticorpi in grado di uccidere eventuali rigurgiti terzinternazionalisti. Ci riferiamo a quei saggi di comunismo più volte affrontati con il nostro lavoro e che abbiamo chiamato "capitolazioni" di fronte alla teoria rivoluzionaria. Non staremo a ripeterci, ci basta rimandare ai due articoli pubblicati sul n. 34 di questa rivista.

La nostra non è la storia di un gruppo di persone che per un qualche motivo si riunisce, decide di darsi un programma e si mette a lavorare per realizzarlo. Il nostro retroterra va interpretato in tutt'altro modo. Noi eravamo in una organizzazione che rappresentava la continuità fisica con la Frazione all'interno del Partito Socialista (1912-1921), con il Partito Comunista d'Italia (1921-1926), con l'Internazionale Comunista (1919-1926), con il Partito Comunista Internazionalista (1945-1982). Fra noi e Lenin ci sono solo due gradi di separazione, tra noi e il PCd'I ce n'è uno, cioè siamo contigui, dato che abbiamo lavorato con i compagni della vecchia guardia del '21. È bene che questo fatto sia chiaro. Quando fra il 1978 e il 1979 incominciammo a mettere per iscritto la nostra pretesa di continuare il lavoro iniziato dalla nostra corrente negli anni '20, avevamo ben presente che allora si era trattato di una denuncia lucidissima della deriva opportunistica infiltratasi nell'Internazionale. La nostra critica era una reazione dello stesso tipo, perché eravamo di nuovo di fronte a un rigurgito del passato, a un ritorno delle "vecchie questioni", la tattica del fronte unico, la questione sindacale, la questione nazionale, il centralismo organico, ecc. ecc.

Erano ricorsi storici dovuti al mancato superamento rivoluzionario del vecchio paradigma democratico. Le crisi del 1952, del 1964, del 1966 e del 1981-2 avevano ancora come retroterra una necessaria separazione dal terzinternazionalismo, separazione già avvenuta nei fatti tra il 1924 e il 1926. È da quella data che ogni tentativo di raccogliere le forze attorno al significato di quell'evento storico che fu il Congresso di Lione fallisce regolarmente. Eppure è lì che vi fu il titanico scontro fra due modi di produzione, non solo fra correnti politiche. Vinse democraticamente[13] la concezione del "comunismo-regime", del partito come sua segreteria e dello stato come cantiere per la costruzione del socialismo. Fu sconfitta la concezione del comunismo come dinamica complessiva che porta alla società futura, del partito come anticipazione di questa società futura, dello stato come necessità transitoria da porre in estinzione già con il programma rivoluzionario immediato. Naturalmente la sconfitta epocale della Sinistra comunista "italiana" (virgolette, perché aveva risonanza e sostegno a livello internazionale) non poteva essere definitiva, e infatti abbiamo dimostrato che i temi centrali della sua anatomia del capitalismo ultramaturo stanno prendendo la loro rivincita e già vi è chi, senza saperlo, se ne fa diffusore.

Come nel percorso scientifico, il terzinternazionalismo, diventato democratico e frontista, con le sue spaventose oscillazioni tattiche e le sue decisioni slegate da ogni seria valutazione materiale delle forze in campo, entra a far parte del percorso complessivo come le ultime ipotesi dell'alchimia entrano a far parte della prima scienza. Ma per essere riconosciuto e rifiutato. Mentre invece a volte risorge, si innesta nella struttura dei programmi politici e ne diventa la base pratica anche quando dal punto di vista teorico i suoi seguaci spergiurano sui sacri testi dei Padri Fondatori.

Storicamente, se si parla di dissoluzione – l’abbiamo visto con le categorie del capitale – si parla di un qualcosa che si dilegua a causa della maturazione di certe condizioni, e questo dileguarsi favorisce il sorgere di condizioni nuove. Con la scomparsa della concezione democratica e mistificatoria della rivoluzione e del suo partito scomparirà un'epoca ma se ne aprirà un'altra. Uno studio appena un po' approfondito sulla variante americana dei movimenti che hanno scombussolato il mondo negli ultimi anni (Occupy Wall Street)[14] ci mostra che questa volta un grande movimento di massa è riuscito a evitare di darsi una struttura "marxista-leninista", cioè democratico borghese. Ciò non perché sia anticomunista (in un certo senso lo è, data la fine che ha fatto il termine comunismo), ma perché quella struttura non è più adeguata a un movimento che funziona come un network. E comunque è sbagliata la tesi secondo cui si tratterebbe di un movimento interclassista piccolo-borghese: la composizione sociale dei manifestanti, e soprattutto le spinte materiali che li animano, sono in perfetta sincronia con quanto previsto dalla Sinistra Comunista a proposito di proletarizzazione della società moderna.

Come nel caso delle banlieue francesi, la composizione di classe è data da un carattere comune a milioni e milioni di persone, specie giovani, che non hanno nulla da perdere e tutto da guadagnare in un drastico cambiamento sociale. Si tratta di "senza-riserve", precari che non solo non hanno "reddito", ma ne avranno sempre di meno lavorando sempre di più quando non siano disoccupati. Con la prospettiva di arrivare alla vecchiaia senza uno straccio di pensione. Negli Stati Uniti essi si sono dati un'unica parola d'ordine: "Siamo il 99% contro l'1% e non accettiamo il vostro sistema". Hanno percorso la via della realizzazione di comunità locali connesse a livello globale e si sono saldati al proletariato sindacalizzato e non. Hanno rifiutato la solita solfa delle assemblee congressuali dove si chiacchiera in pubblico e si dirige dietro le quinte, dove si "discutono" i programmi politici. Hanno rifiutato contaminazioni politico-parlamentari, non hanno fondato l'ennesimo partito e non hanno rivendicazioni immediate da soddisfare con "concessioni" o riforme. Non hanno leader e odiano il culto dei capi. Nelle loro assemblee si pianifica semplicemente che cosa fare e l'ideologia è lasciata fuori. Sembrano a-politici ma in realtà stanno praticando l'unica politica non omologata che al momento esiste al mondo. Sembrano anarchici ma sono ben lontani dal quadro che oggi presenta l'anarchia. Capita di vederli rivendicare Marx, Gandhi, la Comune, Trotsky e persino Gesù Cristo, ma si tratta di minoranze che cavalcano il movimento, come sempre succede quando questo ha successo. Infine hanno subìto un collasso che li ha ridotti allo stato quiescente. Ma la rete organizzata ormai c'è e non la cancella più nessuno. Può darsi anzi che ci si trovi davanti a un'altra dissoluzione: è morta Occupy Wall Street, viva Occupy the World.

Quinta dissoluzione: dalla Linotype all'hashtag

Il mondo è fatto a sfera con superficie finita, e i continenti, con tutto ciò che contengono, sono determinati da un punto di vista geologico prima che geostorico.[15] È vero che oltre ai deserti e alle foreste pluviali ci sono differenziali di sviluppo, paesi vecchi e giovani, correnti di merci e capitali che a volte invertono la rotta; ma ormai, in generale, quello che è fatto è fatto, almeno fino all'avvento di una società nuova. Occorre allora verificare se l'osservazione di Marx, ripresa da Mehring e utilizzata dalla nostra corrente, secondo cui la rivoluzione marcia da Occidente a Oriente, è ancora valida.[16] Intanto stabiliamo che per quanto riguarda lo spazio l'elemento di demarcazione è l'Oceano Pacifico, altrimenti gli Stati Uniti sarebbero a Oriente… della Cina; per quanto riguarda il tempo, invece, la demarcazione è l'epoca della rivoluzione industriale, cioè l'epoca in cui la rivoluzione attuale incomincia ad agire in profondità. Scenario quindi spiccatamente eurocentrico, perfettamente in linea con l'imperialismo fase suprema del capitalismo e con i planisferi in vendita nei negozi europei.

Il raccordo con l'osservazione geostorica è indispensabile perché abbiamo appena parlato di un caratteristico fenomeno sociale sviluppatosi negli Stati Uniti ma giunto dal Nordafrica passando per l'Europa. Questo percorso è riconosciuto formalmente dal sito di OWS-New York, per cui saremmo di fronte a un'eccezione rispetto alla regola: il movimento è iniziato effettivamente con la Primavera araba, è stato recepito dagli indignados spagnoli ed è approdato a New York espandendosi fulmineamente in centinaia di città americane. Un percorso inverso rispetto a quello previsto da Marx? Sembra, ma non è così. Il soggetto della marcia da Occidente a Oriente è la "rivoluzione". La Primavera araba ha dato il via a un processo oggettivo importante, ma i suoi contenuti soggettivi non avevano nulla di rivoluzionario. La stessa cosa vale per il movimento spagnolo (o greco, o turco, o bulgaro, ecc.): oggettiva polarizzazione sociale intorno a problemi gravi, addirittura di sopravvivenza, ma soggettivo pacifismo sociale (appelli non violenti alla polizia, sit-in passivi, grandissime manifestazioni in stile sinistrese, cioè senza finalità se non il numero (da non confondere con l'assenza di rivendicazioni, che invece è un importante segno di transizione verso il superamento delle istanze riformistico-sindacali).

Appena varcato l'Oceano, il movimento si trasforma. Influenzato dalla realtà americana, cioè dalla precarietà assoluta, dalla mancanza di un retroterra ideologico terzinternazionalista e dallo stadio raggiunto dalle comunicazioni e delle reti, con relative teorie e realizzazioni pratiche, Occupy Wall Street proclama immediatamente 1) la propria struttura di classe; 2) un atteggiamento anticapitalistico; 3) l'esigenza di realizzare "qui e subito" una anti-società. Non comitati, consigli, assemblee costituenti con delegazioni da inviare presso le "autorità" per una qualche trattativa, ma una anti-società che non ha nulla da dire e soprattutto da "chiedere" alla società, alla quale, anzi, volta le spalle. Se tutto ciò pone dei problemi dal punto di vista della politica tradizionale, rafforza d'altra parte la coesione e la prospettiva di diventare una antitesi rispetto all'esistente.

Tutto ciò era già successo in rete. Sintetizzando all'estremo, diciamo che da molto tempo erano nate numerose community in cui singoli individui mettevano a disposizione spazi, conoscenze, software, progetti, ecc., tutto senza passare da criteri di valore, insomma, un trionfo del peer to peer, fenomeno oggettivamente anticapitalistico. Per la prima volta nella storia dei movimenti sociali, si è constatata la formazione di una autentica anti-società che non si autoconvoca più in congressi o cose del genere per confrontare ideologie od opinioni contrastanti, ma che semplicemente esiste per sé, nell'indifferenza verso il denaro, il capitale e la classe avversaria (l'1% simbolico).

Marciando da Occidente a Oriente, dagli USA all'Europa, per il momento la rivoluzione non ha avuto sufficiente influenza per smuovere la melassa controrivoluzionaria ereditata dal "comunismo" moscovita (da Oriente a Occidente). Ma di sicuro niente sarà più come prima non appena ciò si verificherà. E non dovremo stupirci di quanto sarà rapida la penetrazione: non siamo più all'epoca delle Linotype che fondevano piombo con cui il compositore impaginava e lo stampatore inchiostrava per stampare; oggi la rete elettronica non può neppure essere considerata un mezzo più moderno e sofisticato, più immediato veloce, in grado di rendere indifferenti spazio e tempo. La rete è un’altra cosa: è un'estensione del nostro sistema nervoso, una protesi del nostro cervello, in grado di mettere in moto energie prima inimmaginabili. Non può essere paragonata a una macchina meccanica.

Sesta dissoluzione: il Battilocchio[17]

Nelle Tesi di Milano, dell'aprile 1966, una parte è dedicata alla spersonalizzazione del lavoro e ad alcune precisazioni sul centralismo organico. Le Tesi in questione sono un supplemento a quelle dette di Napoli che risalgono all'anno precedente. Un corpo di Tesi viene scritto in genere per rispondere sinteticamente a esigenze pratiche, per fornire un indirizzo rispetto a qualcosa che è avvenuto o deve avvenire, come un congresso, una tattica che impronti l'azione, un aspetto della teoria che qualcuno mette in discussione. In effetti qualcosa stava succedendo, tanto che verso la fine dello stesso anno alcuni militanti lasciarono il partito. Al di là della documentazione prodotta per spiegare l'accaduto, le motivazioni in sostanza riguardavano – tanto per cambiare – uno scontro fra la "risorgente e tenace" concezione terzinternazionalista e una versione modificata della concezione organica. Si erano create due fazioni che, volendo reciprocamente espellersi avevano fatto appello al Grande Capo affinché condannasse o assolvesse. Il quale se ne guardò bene e lasciò che lo scontro facesse il suo corso: la rivoluzione non era in pericolo, il partito storico nemmeno. Nelle Tesi fu scritto:

"La organicità del partito non esige affatto che ogni compagno veda la personificazione della forma partito in un altro compagno specificamente designato a trasmettere disposizioni che vengono dall’alto. Questa trasmissione tra le molecole che compongono l’organo partito ha sempre contemporaneamente la doppia direzione; e la dinamica di ogni unità si integra nella dinamica storica del tutto. Abusare dei formalismi di organizzazione senza una ragione vitale è stato e sarà sempre un difetto ed un pericolo sospetto e stupido".

Di crisi ce ne furono altre, ma il bilancio fra gli arrivi e le partenze rimase positivo fino alla fine quando, nel 1982, il partito collassò e si dissolse. Ritenemmo la dissoluzione utile e necessaria: il successo numerico degli ultimi anni non poteva ingannare e, nonostante il disastro quantitativo, ora si poteva continuare senza intralci il lavoro della Sinistra e dei "personaggi" che bene o male avevano rappresentato la continuità con il passato. Ormai quasi tutti erano morti, ma i sopravvissuti furono d'accordo sul fatto che ora avremmo potuto lavorare senza l'assillo dell'organizzazione. La nostra ipotesi di lavoro non si realizzò. Continuarono le rotture. I vecchi battilocchi furono sostituiti da fotocopie in sedicesimo. Si redigevano pagine e pagine di documenti (per chi volesse approfondire, per gli storici del futuro, per i semplici curiosi, i nostri archivi pieni di materiale "fondamentale" sono aperti). Ormai il cancro organizzativista aveva sparso le sue metastasi, i dispersi della diaspora volevano riorganizzare il vecchio partito. Persino i pochi vecchi compagni, amareggiati, cercarono disperatamente di ricongiungere quelli che chiamarono "tronconi". I vari gruppi locali continuarono a funzionare come "sezioni" di un partito che non c'era più. Nel 1983, dopo una riuscita riunione che aveva ossigenato gli animi, alcuni parlarono addirittura di un futuro Centro, della rete di sedi, di un periodico. Come se avessero potuto far girare all'indietro le determinazioni che avevano dissolto il partito. Eppure tutti sapevano quali fossero i criteri organizzativi che informavano il partito negli anni migliori, sapevano che in ben altra situazione, nel 1961, quando la rete organizzata era incomparabilmente più fitta, Bordiga aveva scritto, proprio a uno dei vecchi compagni che già allora volevano unire tutti ad ogni costo:

"Fino a che il movimento non ha diecimila iscritti basta il Commissario Unico e non vi saranno direzioni, comitati centrali e simili facezie. Anche dopo i diecimila basterà un esecutivino, senza dargli il nome burocratico, di compagni tutti della città centro, Milano. Forse dopo i ventimila sarà il caso di convocare compagni di quando in quando da tutta Italia o Europa per un piccolo sinedrio o gruppo di contatto. Mai, me presente, si faranno discussioni per approvare o disapprovare il 'centro anonimo' o per fare elezioni di cariche. Con questo non si perderanno occasioni storiche perché per il riordinamento della dottrina, che come sai abbiamo non dal 1922 ma da un secolo e che tuttavia è andata ramenga, abbiamo più tempo di quel che noi decrepiti avremo da campare: questo è certo".[18]

È possibile lavorare con strutture leggere, antiburocratiche, in grado di allontanare i battilocchi e le loro sacre opinioni? Noi crediamo di sì e possiamo certamente affermare che abbiamo anticipato, riprendendo semplicemente le Tesi, gli organismi leaderless tipo OWS. Siamo il prodotto delle stesse determinazioni, e in un certo senso la rivoluzione sta adoperando tutti quanti per affinare gli strumenti definitivi che devono ancora arrivare. Il partito-comunità-futura sarà un qualcosa di completamente diverso da ciò che abbiamo conosciuto finora. Non accettiamo più la vecchia forma organizzativa ma non abbiamo ancora quella nuova, ciò crea qualche problema. Citiamo da Russia e rivoluzione nella teoria marxista, 1955:

"Il possesso della teoria rivoluzionaria fa del partito il serbatoio della posizione del futuro uomo sociale comunista. In questo senso in più testi scrivemmo che in esso vive anticipata la società futura senza classi e senza scambio; in esso sta la morte dell'individualismo e di ogni ideologia e prassi personale".[19]

Settima dissoluzione: il partito-apparato

Il Partito Comunista d'Italia aveva alla sua costituzione 43.000 iscritti, decine di federazioni, giornali, periodici, una struttura clandestina, una forte rete sindacale, un gruppo parlamentare e funzionava con un esecutivo di cinque persone. Non aveva una grande struttura organizzativa perché il responsabile di un certo lavoro non aveva alcun bisogno di avere chi gli dicesse cosa fare; lo sapeva fare, lo faceva e basta. La struttura era semplice, rendeva molto e costava pochissimo. Da Continuità d'azione:

"E' nell'esercizio delle sue funzioni, tutte, non una, che il partito crea i propri organi, ingranaggi, meccanismi; ed è nel corso di questo stesso esercizio che li disfa e li ricrea non ubbidendo in ciò a dettami metafisici o a paradigmi costituzionali, ma alle esigenze reali e appunto organiche del suo sviluppo. Nessuno di questi ingranaggi è teorizzabile, né a priori né a posteriori".[20]

Il partito bolscevico dopo la conquista del potere si ingrandì notevolmente burocratizzandosi, tanto che Lenin propose e attuò un'epurazione che ridusse del 30% gli iscritti.

La III Internazionale ebbe subito un apparato pletorico composto da migliaia di responsabili gerarchicamente distribuiti. L'eccessiva burocratizzazione è sempre indice di corruzione, ma nel caso di organismi politici, per di più rivoluzionari, la corruzione è anche ideologica perché gli apparati incominciano ad auto-alimentarsi, ad avere una vita propria indipendente, ad auto proteggersi. Diventano insomma degli elementi di conservazione dello stato che li esprime o che li ospita.

Il partito rivoluzionario è l'antitesi rispetto a qualsiasi altro organismo politico entro la società borghese. Essendo un elemento anticipatore della società futura, non ne esprime soltanto i caratteri generali, ma anche quelli particolari, ad esempio la leggerezza, dato che la società comunista è anti-dissipativa e nega il quantitativismo produttivo. Da Vulcano della produzione o palude del mercato? 1954:

"In un certo senso il partito è l'anticipato depositario delle sicure consapevolezze di una società ancora da venire e successiva anche alla vittoria politica e alla dittatura del proletariato".[21]

Nel partito organico non può esistere il gran capo, il condottiero o segretario che dir si voglia del tipo di quelli delle società divise in gerarchie e classi. La nostra corrente non ha mai negato la necessità di una differenziazione degli incarichi e delle responsabilità, così come negli organismi biologici è indispensabile il contributo differenziato delle cellule, dei tessuti e degli organi. Non ha mai negato la funzione utile del principio di autorità. Ha invece negato che singole persone possano individualmente arrogarsi la pretesa di guidare la storia o anche il partito della rivoluzione.

Nei partiti tradizionali, il Grande Capo geniale osannato dalle masse è in realtà, com'è ovvio, un battilocchio che non riuscirebbe a combinare granché se non avesse alle spalle un apparato di partito. Ecco quindi che un partito senza apparato è anche una garanzia contro il sorgere dei battilocchi, così come l'individuazione dei potenziali battilocchi è una garanzia contro la tendenza di costoro a darsi una milizia personale attraverso la creazione dell'apparato.

Il Partito Comunista d'Italia fu l'unico partito dell'Internazionale Comunista a non avere un apparato, almeno fino a quando l'Internazionale non decise di sostituire il gruppo dirigente. Abbiamo già accennato al fatto che la sua organizzazione era snella e antiburocratica. Ciò fu possibile grazie all'applicazione naturale, non formale, del centralismo organico, anche se all'epoca questa proprietà del partito non era ancora stata sviscerata. Vi sono testimonianze dalle quali risulta chiaramente come la disciplina, ad esempio, fosse un fatto spontaneo e persino entusiastico. Certo, Bordiga era riconosciuto come un grande organizzatore e leader politico in grado di rintuzzare a livello internazionale le derive opportunistiche, ma perché semplicemente questo faceva, tra l'altro dimostrando una capacità di lavoro di cui gli avversari avevano paura.

Nel 1924, alla Conferenza di Como, la Sinistra aveva ancora la schiacciante maggioranza degli iscritti dalla sua parte, circa il 90%. Bordiga era un semplice iscritto, uno dei cinque membri del Comitato Esecutivo, la figura del segretario non c'era. Invece i centristi e la destra, con il 10% circa degli iscritti, avevano già un loro apparato, come risulta dalle circolari segrete che dimostrano il lavoro sotterraneo per scalzare la Sinistra, in combutta con l'IC. Giudicando con criteri opportunistici, specie quelli feroci e senza scrupoli di oggi, la Sinistra sarebbe stata capeggiata da un branco di stupidi, se con una maggioranza del genere era riuscita a farsi soffiare il partito. È sicuro che se essa si fosse costituita un apparato politicantesco, piazzando i suoi uomini in tutti i posti chiave e negando nel contempo l'accesso ai mestatori centristi, avrebbe consolidato la maggioranza nei successivi congressi esautorando l'opposizione. Ma successe esattamente il contrario per la semplice ragione che ragionava in termini storici e non contingenti, e la grande ondata storica era passata senza dare la vittoria alle forze genuinamente comuniste. Il compito immediato non era certo quello di mettersi a contare le tessere e crearsi apparati difensivi contro le coltellate alla schiena. Per di più stava avanzando il fascismo e gli opportunisti non cessavano di scendere a compromessi; anzi, con la pagliacciata democratoide dell'Aventino salvarono Mussolini (come ricordò Turati in una lettera alla Kuliscioff). Occorreva salvare il salvabile per il futuro.

Ottava dissoluzione: la lotta politica entro il partito

Naturalmente parliamo del futuro partito rivoluzionario, degli altri c'importa solo in quanto sono avversari. In un partito organico la lotta politica non dovrebbe neppure essere pensabile. Di fronte all'impatto con elementi estranei come virus, batteri, veleni e anche corpi in grado di ferire meccanicamente, un organismo biologico risponde con mezzi di auto-riparazione, produce anticorpi, alza la temperatura, riconnette tessuti, ecc. Quindi è ben possibile che l'organismo "partito" subisca attacchi, infiltrazioni, traumi di ogni genere, in fondo si tratta di fenomeni naturali, ma ciò che proprio sembra fuori posto è il modo in cui partiti sedicenti rivoluzionari rispondono a eventi simili, giungendo fino all'eliminazione fisica di una parte dei membri della stessa organizzazione. Prassi da basso impero.

L'esistenza di una lotta politica all'interno di un partito è sicuramente indice di disorganicità, anche se non è detto che la mancanza di lotta politica voglia dire il contrario. Comunque, da un partito che nel proprio codice genetico (la propria storia, le proprie battaglie, il proprio patrimonio teorico) conserva una configurazione organica si potrebbe pretendere una capacità congenita di superare la lotta politica. Sarebbe sufficiente riconoscere l'agente estraneo e liberarsene come fanno tutti gli organismi biologici, metabolizzandolo. E se la malattia è grave, come nel caso di cellule mutagene che diffondono metastasi, può darsi che in casi estremi l'organismo-partito muoia; ma se la rivoluzione ne ha bisogno, esso rinascerà.

Abbiamo visto all'inizio che la lotta politica all'interno del partito rivoluzionario è un effetto dello scontro fra modi di produzione. Non è altrimenti comprensibile il suo sviluppo fra individui e in piccolissime compagini umane. Se lo scopo è conquistarne il controllo, dal punto di vista pratico che conquista è se esse hanno un'influenza sul mondo "pari allo zero e alle sue frazioni"? Ci sembra dunque evidente che si è di fronte non a lotte per conquistare l'influenza sulla società in situazioni date, ma a lotte perenni come perenne manifestazione di un dualismo sociale, un allenamento continuo della rivoluzione che ci usa nell'eventualità che davvero si renda necessario conquistare il controllo di eventi catastrofici. Altrimenti dovremmo analizzare certi comportamenti con criteri zoologici, pensare a un branco di bisonti o altri animali gregari che si incornano con rituali etologici al solo scopo di far emergere il più cornuto. Ma non vogliamo pensare di essere "scimmie nude" fino a quel punto.[22] Proviamo a riprendere il discorso sulla crisi del 1966 cui abbiamo già fatto cenno. Citiamo dalla dichiarazione di uno dei protagonisti di quegli eventi:

"A una riunione tenuta nel 1966 a Milano Amadeo aveva insistito sulla necessità di discutere con calma, di non lanciare degli anatemi sui compagni ecc. Questo perché all'occasione noi, ed io particolarmen­te, avevamo formulato una domanda di espulsione rispetto a compagni che negavano il partito, negavano la continuità, insultavano i militanti migliori che erano anche i più umili. Questa nostra ri­chiesta fu accolta con una reazione violentis­sima da parte del compagno Amadeo. Personalmente la ricordo con commozione, fu una strigliata enorme che ci stupì. Pensai: deve esserci qualcosa sotto; se Amadeo ha una reazione così violenta devono esistere delle cose che noi ignoriamo... Molto tempo dopo [quando fummo espulsi noi] abbiamo pensato: ah! dunque Amadeo sapeva che questo pericolo esisteva ed è perciò che abbiamo preso la lavata di capo ed aveva ragione di darcela. Ab­biamo capito fino a che punto arrivava la nostra in­genuità malgrado tutte le letture e la grande esperienza di partito".[23]

Gli espulsori finirono espulsi, normale. Ma nel vivo racconto c'è qualche ingenuità di troppo. Non è che Amadeo nascondesse qualcosa, che sotto-sotto ci fosse qualche mistero. Amadeo, semplicemente, aveva già vissuto la lotta politica a livello mondiale, quando l'azione di milioni di uomini dipendeva dalle indicazioni dell'Internazionale. Aveva vissuto la lotta interna al partito in Russia e aveva ben individuato gli schieramenti che rappresentavano il ricordato scontro fra modi di produzione, prevedendo che il fronte staliniano contro Trotsky si sarebbe sfaldato e che Zinoviev e Kamenev sarebbero passati all'opposizione. Con Stalin era in un primo tempo rimasto Bucharin, ma non erano le singole persone che stavano facendo la storia, era la storia che stava facendo muovere le singole persone: come Zinoviev non poteva schierarsi con Stalin contro Trotsky, così Bucharin non poteva appoggiarlo contro Zinoviev. Il criterio dello scontro fra modi di produzione suggeriva che nessun comunista della vecchia guardia sarebbe rimasto con il potente segretario del partito. Di fronte ai plotoni di esecuzione, si chiede Bordiga in una riunione da noi pubblicata da poco, chissà se qualcuno si è ricordato che la Sinistra li aveva avvisati.

La tragedia mutata in farsa nel 1966 ha comunque una morale: Amadeo sapeva. Non cose nascoste ma cose vissute a ben altra scala. Sapeva che la lotta politica è distruttiva, non perché abbia il potere immanente di distruggere, ma perché quando si manifesta è già un sintomo di distruzione avvenuta. Per questo non la può arginare nessuno ed è meglio prenderne atto senza perdere troppo tempo nel tentativo di "raddrizzare le gambe ai cani". Per questo atteggiamenti come le reciproche espulsioni sono ridicoli. Per questo Amadeo, a parte la sfuriata, non prese alcuna decisione e lasciò che le cose accadessero. Per questo, infine, nello stesso anno, incominciò a non partecipare alla vita pubblica del partito. I vecchi compagni dissero che era vecchio e malato. È sicuramente vero. Ma forse è altrettanto vero che voleva allontanarsi dalla lotta politica entro il partito. Più la rivoluzione matura, più diventa chiaro il fine e il percorso. Se è vero, com'è vero, che l'avvicinarsi della resa dei conti fra classi elimina incertezze e fumisterie, anche la lotta politica entro il partito finalmente comunista sarà dissolta.

Nona dissoluzione: le famigerate "questioni"

Questo argomento si potrebbe liquidare con poche parole: le grandi "questioni" del passato sono quasi tutte risolte dalla storia e non dovrebbero più produrre scontri politici come un tempo. Potrà certo esserci qualche nostalgico attaccabrighe che le fa resuscitare collocandosi nel passato, ma di ciò è responsabile egli stesso e potrà trovare interlocutori solo fra altri che si trovino arenati allo stesso modo. Le "questioni" sono state uno scoglio assai duro da superare perché ovviamente non sorgono dal nulla ma hanno una base materiale: la massa contadina è ancora enorme e questo argomento può alimentare una "questione agraria"; il nazionalismo non è affatto morto e ciò può alimentare una "questione nazionale"; così dicasi per la guerra, il sindacato, la famiglia e il sesso, il mezzogiorno. Affermare che le "questioni" capaci un tempo di infiammare gli animi individuali, i congressi e le piazze, non hanno più ragione di esistere non significa negare la persistenza di dati fenomeni, significa semplicemente negare che questi ultimi abbiano ancora una funzione storica in grado di modificare la tattica rivoluzionaria. Forse è opportuno fare esempi concreti elencando un serie di "questioni" che effettivamente furono legate alla tattica. Vediamo di farlo nell'ottica della definizione tratta da un noto vocabolario:

"Questione. Situazione che per la sua rilevanza e complessità è stata a lungo dibattuta con varie proposte di soluzione, assumendo una denominazione specifica: una lunga, annosa, eterna, controversa questione politica, sociale, letteraria, linguistica. In particolare: dibattere, risolvere la questione sociale, economica, come problematica di varî paesi o gruppi di paesi, o di regioni e zone".[24]

Questione agraria: non c'è più ragione di mettere in discussione differenze tattiche perché i contadini non hanno sulla società la stessa influenza di un tempo. Numericamente sembrano ancora un'enormità perché sono 1,5 miliardi e, con le famiglie, arrivano a 4,5 miliardi. Tuttavia si tratta per la maggior parte di piccoli e piccolissimi proprietari che pongono problemi economici più che di classe. Quando in Occidente c'erano ancora moltissimi contadini poveri e braccianti super sfruttati dai grandi proprietari, le "questioni" vertevano sulle lotte dei braccianti, se essi dovessero o meno essere alleati con il contadiname parcellare o ibrido, sull'espropriazione della terra o sulla sua distribuzione, sulla cooperazione produttiva o/e distributiva. Nel secondo dopoguerra c'era il problema, più elettorale che pratico, delle "riforme di struttura", che prevedevano in modo del tutto demagogico l'eliminazione del latifondo e la distribuzione della terra ai contadini. A parte il fatto che c’era stato un tentativo del fascismo in questo senso con il solo risultato di sviluppare dei nuovi centri urbani a scapito di un'agricoltura comunque da fame,

"Il gioco della 'riforma di struttura' tra proprietario contadino e Stato non è che una stupida lustra. Non abbiamo bisogno di ricordare che la rivendicazione sociale proletaria è una cosa cento volte più grande di un riparto del 'reddito nazionale' intorno a cui si arrabattano i cerottatori della politica concreta".[25]

Come abbiamo dimostrato,[26] in tutto l'Occidente e nei maggiori paesi del resto del mondo l'agricoltura si è oggettivamente staccata dai criteri di scambio secondo valore; in quanto settore assistito, cioè senza un suo ciclo capitale/terra come base per la formazione dei prezzi, essa è diventata ovunque una specie di entità statale per l'alimentazione pubblica, per cui i generi alimentari sono distribuiti a prezzo politico. Il residuo contadiname da piccola proprietà (classe reazionaria al massimo grado) non va ingannato con il miraggio di una impossibile espansione della terra o del reddito, ma assorbito dalla classe proletaria urbana e contadina. Infatti la terra non dovrà essere ulteriormente spezzettata ma, al contrario, integrata in grandi unità produttive condotte con metodo industriale. Tutto il resto non è che demagogia.

Questione nazionale. Il nazionalismo politico ed economico basato sul profitto è l'unica ideologia della classe borghese. La parte "filosofica" è stata subappaltata alla piccola borghesia. Il nazionalismo è rivoluzionario e appoggiato dal proletariato quando è alla base della formazione o liberazione delle nazioni. In tutti gli altri casi è un problema esclusivo della grande e della piccola borghesia. Quando il proletariato lotta a fianco della borghesia rivoluzionaria, lo fa in modo del tutto autonomo, senza confondersi con la classe che gli è storicamente nemica. Oggi non ci sono più nazioni in corso di formazione o liberazione.[27] Tutti i movimenti nazionalisti odierni sono raggruppabili sotto l'etichetta "diritto all'autodeterminazione". Il "diritto" è una categoria che non appartiene neppure alla rivoluzione borghese ma alla borghesia consolidata nel suo stato.[28] I popoli con problemi nazionali possono sperare in una sistemazione territoriale solo nell'ambito di una rivoluzione, che ovviamente non sarà più borghese. Oppure in una guerra fra stati, come nel caso dei Curdi iracheni, cui l'esercito invasore americano ha affidato un ricco territorio autonomo.

Questione sindacale. La nostra corrente ha specificato che i sindacati sono organizzazioni in cui vi sono soltanto proletari, e quindi per i comunisti rappresentano in situazioni normali l'unico terreno di intervento per le lotte immediate. I comunisti non appoggiano scissioni sindacali e anzi sono per l'unità dei sindacati esistenti. Ciò vale fino a quando i sindacati non siano emanazione diretta dello stato e non pretendano dai loro iscritti l'adesione a determinate ideologie o programmi borghesi. La "questione" storica sorgeva riguardo al partecipare o meno al lavoro nei sindacati, al partecipare o meno al lavoro in quelli sotto controllo opportunista, al privilegiare soluzioni tipo sindacati di soli comunisti o tipo consigli/soviet. Il problema odierno, superate nei fatti le altre soluzioni, consiste nello stabilire se oggi i sindacati sono o non sono emanazione diretta dello stato e se quindi ha ancora senso lavorare al loro interno. La risposta è che, per quanto essi siano corporativi, cioè una specie di emanazione del Ministero del lavoro, non sono un organo di stato come sotto il fascismo. In moltissime occasioni l'esperienza diretta ci ha dimostrato che, a seconda dei rapporti di forza, è possibile partecipare a episodi di lotta e anche dirigerli indipendentemente dal fatto di essere iscritti o meno. Siccome le soluzioni future avranno carattere di singolarità, non è possibile fare ipotesi sui particolari. Per l'oggi ogni vecchia formula è semplicemente obsoleta, essendo l'unica possibilità oggettiva rimasta quella di lottare con i mezzi e le modalità dettate dai rapporti con i lavoratori più che col sindacato. A volte ci si dimentica che la lotta di tipo sindacale non sopporta di essere abbinata a formule ideologiche ed è meglio capita se la si affronta con criteri di efficacia rispetto agli obbiettivi.

Questione militare. La maggior parte dei testi riguardanti tale questione è stata prodotta nel periodo intorno alla Prima Guerra Mondiale. Gli argomenti sono quasi tutti specifici di quel periodo e sono stati letteralmente spazzati via dalla Seconda Guerra Mondiale. L'antimilitarismo, la fraternizzazione dei soldati al fronte, le ragioni materiali della guerra, la trasformazione della guerra imperialista in guerra rivoluzionaria, il lavoro tra i soldati, sono tutti temi che oggi devono essere affrontati tenendo presente lo sviluppo avvenuto nella società e soprattutto nella teoria e pratica della guerra. È di per sé evidente che oggi l'antimilitarismo non può più essere quello che fu diretto contro la casta militare ereditata dagli stati dall'epoca delle guerre dinastiche. La lotta contro la guerra assume quindi aspetti anticapitalistici diretti, dato che industria e apparato di guerra sono ormai la stessa cosa, come diceva Eisenhower. I soldati non possono fraternizzare al fronte se il fronte non c'è più. Trasformare la guerra imperialista in guerra civile non ha più senso quando la borghesia stessa dichiara di prepararsi alla guerra civile sullo scenario delle megalopoli. Così come lavorare tra i soldati è perlomeno problematico quando il soldato moderno è un robot assassino volontario, strapagato e telecomandato da una base operativa remota.

E si potrebbe continuare con la questione meridionale, la questione sessuale, la questione morale, la questione ebraica, la questione balcanica, la questione del partito, ecc.

Decima dissoluzione: il neo-luddismo

Da almeno trent'anni in ambiente "marxista" si ripete stancamente il solito ritornello stalinista contro la Sinistra, per cui la nostra corrente sarebbe in grado di capire qualcosa di teoria, ma sarebbe carente nella prassi, quindi in definitiva sarebbe astratta, dogmatica, settaria e attendista. Non potevamo sottrarci al nostro destino e anzi, adesso saremmo anche scientisti, antidialettici, materialisti di grado inferiore.

Sentito da che pulpito viene la predica, a noi sta benissimo che vi sia una distinzione profonda, di qualunque tipo. All'inizio degli anni '20 la Sinistra Comunista "italiana" aveva risposto inquadrando i problemi di teoria e tattica nella dinamica storica di una rivoluzione che stava correndo sul filo del rasoio, in bilico fra la vittoria che sembrava ancora a portata di mano e il disastro cui nessuno voleva credere nonostante le avvisaglie. All'inizio degli anni '80 noi non rispondemmo affatto, ci limitammo a raccogliere il materiale documentario sull'atteggiamento di Marx ed Engels sul "socialismo dall'utopia alla scienza". Certo la Sinistra non ebbe tempo e modo, negli anni '20, di sviluppare l'argomento, non si occupò specificamente dell'aspetto, caro invece a Lenin, "soviet + elettrificazione", quasi uno slogan futurista. Ma era implicito nel programma politico che non fosse possibile ridurre il marxismo a una "politica", quando la società intera si basava sul più complesso sistema di macchine mai conosciuto dall'umanità, sulla tecnologia, sulla scienza, sull'aumento continuo della composizione organica del capitale. Lenin era morto da un paio di anni quando la Sinistra fu liquidata, e l'occasione per dare una sistemazione scientifica alla teoria rivoluzionaria non arrivò che dopo la Seconda Guerra Mondiale. Uno degli aspetti di questo immane lavoro, fu lo studio specifico del capitalismo di transizione o in via di dissoluzione.

"La macchina sarà domani preziosa in un modo di produzione non mercantile, e la sua apparizione è stata altresì preziosa appunto per i rivoluzionari antagonismi che ha sollevato tra capitale e proletariato. È fuori dubbio che tali fermenti di trasformazione, il termine finale dei quali è la soppressione dell’antica divisione del lavoro, si trovano in aperta contraddizione colla forma capitalistica di produzione e con l’ambiente economico in cui essa pone l’operaio. Ma la sola strada regia per cui un modo di produzione e l’organizzazione sociale che gli corrisponde procedono verso la loro dissoluzione e la loro metamorfosi, è lo sviluppo storico dei loro immanenti antagonismi".[29]

Ora, è mai possibile ignorare di proposito il capitolo del Capitale sul quel sistema di macchine che è il capitalismo? È possibile sorvolare sul fatto che la biblioteca personale di Marx era composta per la maggior parte di libri scientifici e sul fatto che Engels raccolse per decenni materiale scientifico di supporto a una pubblicazione che doveva essere una vastissima panoramica sulla "dialettica della natura"? È possibile non chiedersi come mai Lenin avesse regolarmente contatti con gli ingegneri e i tecnici che lavoravano ai primi grandi progetti di ammodernamento della Russia? C'è un abisso fra la natura macchinista e scientifica del capitalismo e l'indifferenza con cui essa viene affrontata dai politicanti. Eppure la tecnologia, assassina sotto il capitalismo, è liberatrice in una società comunista:

"Quelli che sono rimasti più nell'imbarazzo dinanzi alla prospettiva di una produzione totalitariamente automatica sono gli innumerevoli marxisti di mezza tacca, che abbondano anche tra le non fitte schiere di quelli non legati allo stalinismo, e al post-stalinismo. Come faremo, si sono detti questi poveri uomini, a sostenere che tutto il valore che la società aggiunge in ogni ciclo della sua dotazione, deriva dal lavoro dei salariati, quando la produzione non richiederà più lavoro né sforzo alcuno? Cadrà la legge del lavoro che genera valore, e tutta la nostra costruzione critica della economia e della forma di produzione capitalistica. Ora il fatto è questo: che stavamo aspettandolo da un secolo, sebbene gli immediatisti si siano condannati a non capirlo per correre dietro a filosofie dello sfruttamento e dell'autonomia dell'esecutore dal dirigente. Al macero le leggi del valore, dello scambio equivalente e del plusvalore: con la loro caduta nel nulla cade la forma stessa di produzione borghese. Le prime valgono fino a che la seconda vive, e quando la scienza e la tecnologia, per quanto secolare monopolio di classe, le infrangeranno, non sarà che l'esempio supremo della rivolta delle forze produttive contro le forme che devono crollare. Questa dottrina dell'automatismo nella produzione si riduce a tutta la nostra deduzione della necessità del comunismo, fondata sui fenomeni del capitalismo".[30]

Contro l'immediatismo neo-luddista, primitivista e reazionario non poteva esserci sentenza più appropriata: il macchinismo, l'automazione, e oggi le reti, la comunicazione, l'elaborazione dei dati, sono tutti fattori di rivoluzione fondamentali, perché sono l'espressione di quella forza produttiva sociale che non si può mettere in catene con una forma sociale ormai inadeguata senza scatenare le forze della società futura. Gli immediatisti sono coloro che calcolano pedestremente lo sfruttamento sulla base del semplice divario fra lavoro pagato e non pagato, come se fosse un furto da giudicare con criteri morali:

"Questo antagonismo contabile chiuso in una busta, [si contrappone] allo scontro fra due epoche, due forme di produzione, due mondi, scontro che ha con l'episodio pecuniario un legame logico, ma dialetticamente mediato da passaggi rivoluzionari su antitesi di ben altra ampiezza di respiro, su archi immensi di tempi di spazi e di modi". [31]

Proviamo a immaginare l'intervento di un qualche sopravvissuto cultore del terzinternazionalismo a un'assemblea di Occupy Wall Street; immaginiamolo mentre, con la testa piena di "questioni", cerca di spiegare il primato della politica sulla concezione "tecnicista e scientista" della rivoluzione. E questo mentre è circondato da smartphone, tablet, collegamenti in streaming, reti mesh e social network di ogni tipo. A Denver era successo qualcosa del genere con un personaggio famoso che per un momento era salito sul pulpito. Per tutta risposta l'assemblea aveva eletto suo presidente un cane che passava di là.

Note

  • [1] Cfr. questa rivista n. 26.
  • [2] Marx a Pavel Vasilevič Annenkov, 1846, Marx-Engels Internet Archives (MIA).
  • [3] Nikolai Bucharin-Evgenij Preobrazenskij, ABC del comunismo, 1919, MIA.
  • [4] Considerazioni sull'organica attività del partito quando la situazione è storicamente sfavorevole, 1965, Archivio storico di n+1, www.quinterna.org.
  • [5] Quaderno di n+1 CVM, possiamo stare ragionevolmente tranquilli?, "Pubblicazioni", all'indirizzo: www.quinterna.org
  • [6] Da non confondere con il termine utilizzato dalla III Internazionale per definire l'opportunismo socialdemocratico. Erano accusati di "social fascismo" gli stessi partiti od organismi con i quali la IC aveva trescato per costituire fronti unici.
  • [7] Gustav Noske, Ministro della Difesa nella Repubblica di Weimar, appoggiò i gruppi paramilitari ultranazionalisti in funzione anticomunista.
  • [8] Alcune fonti citano la cifra di due milioni. Sembra documentata la presenza di 400.000 militanti solo in Baviera.
  • [9] http://fr.metapedia.org/wiki/6_f%C3%A9vrier_1934
  • [10] Pierre Drieu la Rochelle, Socialismo fascista, Ritter, 2009.
  • [11] Pierre Drieu la Rochelle, Gilles, Gallimard, 1973.
  • [12] Wolfgang Shivelbush, Tre New deal, Marco Tropea, 2008.
  • [13] "Si stabilì che tutte le tessere di iscritti per cui non risultava il voto né per la centrale né per la opposizione di sinistra si sarebbero calcolate come a favore della tesi della centrale", A. Bordiga, Il prog. Com. n. 12 del 1961. Siccome la preparazione del Congresso avvenne in condizioni di clandestinità e votarono ben pochi iscritti, con quel criterio fu facile "costruire" l'incredibile vittoria dei centristi con il 90% dei voti (la proporzione reale nel 1925 era rovesciata).
  • [14] "Occupy the World Together", cfr. Questa rivista n. 30.
  • [15] Sembra che il termine "geostoria" sia stato introdotto da Ferdinand Braudel. La nostra corrente utilizza lo stesso concetto dagli anni '50 del secolo scorso (cfr. ad esempio "Il pianeta è piccolo", in Battaglia Comunista n. 23 del 1950).
  • [16] "Russia e rivoluzione nella teoria marxista", Il progr. com. n. 1-8 del 1955.
  • [17] Il battilocchio per i napoletani è un individuo alto e allampanato che attira l'attenzione solo perché sporge al di sopra delle teste degli altri. Cfr. Il battilocchio nella storia, Il progr. com. n. 7 del 1953.
  • [18] Lettera a Bruno Bibbi, 8 aprile 1961. www.quinterna.org, Carteggi.
  • [19] "Russia e rivoluzione" cit.
  • [20] "Continuità d'azione del partito sul filo della tradizione della Sinistra", Il progr. com. n. 3 del 1967.
  • [21] "Vulcano della produzione o palude del mercato?", Il programma comunista dal n. 13 al n. 19 del 1954.
  • [22] Riferimento a Desmond Morris, La scimmia nuda, Bompiani, rist. 2001.
  • [23] Intervento a un incontro redazionale di n+1, gennaio 1993.
  • [24] Treccani.
  • [25] "Questione agraria e opportunismo", in Battaglia Comunista n. 46 del 1949.
  • [26] Cfr. questa rivista n. 5 del 2002, "L'uomo e il lavoro del Sole".
  • [27] Situazioni particolari come quella della Palestina, che avrebbero tutte le caratteristiche di una rivoluzione nazionale, sono pesantemente condizionate non solo da potenze avverse ma da una borghesia nazionale vile e inconcludente. Parlare di rivoluzione nazionale in Palestina è meno realistico che parlare di rivoluzione proletaria nel mondo. Tanto più che i palestinesi rappresentano ormai buona parte del proletariato mediorientale.
  • [28] Cfr. il discorso di Robespierre sul processo a Luigi XVI. La rivoluzione giacobina, Editori riuniti, 1975.
  • [29] "Anima del cavallo-vapore", Il programma comunista n. 5 del 1953.
  • [30] "Traiettoria e catastrofe della forma capitalistica", Il programma comunista nn. 19 e 20 del 1957.
  • [31] "Traiettoria e catastrofe…" cit.

Rivista n. 36