L'uomo come progettista di sé stesso

In una buona teoria della conoscenza non può mancare un capitolo sulle macchine per conoscere. Così in un nostro testo del 1947, Elementi dell'economia marxista, si definiva la funzione dei formalismi matematici, degli schemi e dei modelli che ci aiutano a capire la realtà. Macchine in senso metaforico, in quanto invenzioni che ci assistono come ci assistono quelle non metaforiche, di cui ormai è permeata l'intera società. È facile capire come la matematica, ad esempio, aiuti il cervello potenziandone alcune facoltà, ma siamo mediamente meno sicuri che le macchine vere e proprie, quelle di metallo e altri materiali, con motori e ingranaggi, svolgano la stessa funzione. Siamo cioè meno sicuri che la macchina abbia sull'uomo un effetto evolutivo. Il quesito sull'effetto evolutivo degli strumenti di lavoro e di produzione è marxisticamente ortodosso: per Engels mano, utensile e cervello evolvono insieme a partire dalla preistoria.

Finché si parlava di macchine tessili, di torni e di fresatrici, era difficile immaginare un loro effetto sull'evoluzione dell'uomo e del suo cervello, ma con l'avvento del computer e delle reti è risultato più naturale disquisire sull'uomo simbionte, sul ciber-organismo, insomma sul binomio ormai inseparabile uomo-macchina. Non ci troviamo di fronte a processi a senso unico del tipo: l'uomo immagina, progetta e costruisce una macchina e con essa produce, ecc. Una volta costruita e posta insieme a tutte le altre, è la macchina stessa come sistema che contribuisce a "fare" l'uomo. Questo contributo non è immediatamente percepibile, data la differenza di tempo fra l'evoluzione biologica dell'uomo e l'evoluzione "minerale" del macchinismo, ma il modo di pensare è stato senz'altro rivoluzionato dalle macchine e dalle conseguenze del loro uso. Osserviamo ad esempio un bambino alle prese con uno smartphone e proviamo a immaginare quanto sia più facile per lui maneggiare un potente computer in miniatura che non per un bambino del paleolitico foggiare e maneggiare un'ascia di pietra.

Una buona teoria della conoscenza prescinderà dunque da semplificazioni come quelle che compaiono spesso sugli organi d'informazione quando si parla in positivo o in negativo di nuove tecnologie legate allo sviluppo scientifico. Sarà il frutto di sconfinamenti in campi nuovi, non certo di conservazione "avanzata" in campi vecchi. C'è differenza fra il fermento che aleggia intorno alle macchine elettroniche che ci stanno effettivamente cambiando e la tensione spasmodica per produrre un dinosauro come l'automobile con linee avveniristiche completamente robotizzate. C'è differenza fra le reti di qualsiasi genere e la robotica domestica che dovrebbe rivitalizzare la casetta della famigliola mononucleare proprietaria e consumatrice. Possedere un aspirapolvere automatico o un'auto che si guida da sola non è certamente un evento che può cambiare il mondo.

Una buona teoria della conoscenza non può trattare le macchine, specie gli automi (che funzionano tantomeglio quanto più si discostano dall'aspetto umanoide), come se fossero un mondo a parte, un insieme eterogeneo di attrezzi in un cassetto. L'uomo stesso è una macchina per conoscere; e se fabbrica macchine, siamo sicuri che le adopera in quanto, appunto, macchine per conoscere, che ne sia cosciente o meno. Per questo nell'articolo "Fare, dire, pensare, sapere" abbiamo insistito sul fatto che una macchina, una volta inventata, comporta automaticamente lo sviluppo della teoria necessaria a perfezionarla. Come nel caso della macchina a vapore, che ha prodotto una spinta enorme verso l'ulteriore conoscenza della termodinamica, della meccanica, dei materiali, dell'organizzazione. O nel caso della pila elettrica, della dinamo e del motore, o di tutte le altre scoperte e invenzioni.

Abbiamo sempre sostenuto che ogni teoria della conoscenza (i borghesi coltivano le loro, specie in campo filosofico) è in fondo teoria del rovesciamento della prassi: l'uomo "fa" in un primo tempo utilizzando conoscenze approssimate, e su ciò che ha fatto costruisce una struttura teorica; così procedendo, si dà gli strumenti per ritornare al "fare" con cognizione di causa, con una teoria solida e una prassi conseguente in grado di assicurare risultati previsti. L'articolo "Dalla necessità alla libertà" affronta questo tema orientando la ricerca sulla funzione delle macchine proprio nel rovesciamento della prassi. Sviluppando una capacità di conoscenza coadiuvata da macchine più o meno intelligenti, l'uomo costruisce degli strumenti per conoscere. E infatti in tutta la storia dell'Intelligenza Artificiale l'interazione fra macchina e uomo è stata pressoché totale, finché la ricerca non è giunta a un punto morto. È in quel momento che ha preso il sopravvento un pessimismo etico, una paura atavica di aver suscitato forze non controllabili. I vecchi mostri della letteratura e del cinema erano esseri la cui potenza era sfuggita a ogni controllo, però alla fine soccombevano. La nuova paura si basa invece su di una forza che viene ritenuta non solo incontrollabile ma in grado di controllarci. Ciò è sicuramente un riflesso del vicolo cieco in cui è piombata la scienza borghese, che ormai non è più in grado di avanzare, eanzi presenta sintomi di regressione rispetto ai risultati raggiunti.

Così è messa in crisi non soltanto una teoria della conoscenza ma la stessa possibilità di avere una teoria qualsiasi della conoscenza. A riprova del fatto che si è giunti a un punto di svolta e a una situazione incancrenita, esimi scienziati si lanciano in congetture catastrofiche. Il fisico Stephen Hawking, pur dipendendo completamente da sofisticate macchine per vivere e comunicare a causa di una malattia paralizzante, ha affermato in una intervista alla BBC che le tecnologie attuali stanno evolvendo troppo velocemente in confronto all'evoluzione umana, per cui c'è il reale pericolo, se non si corre ai ripari, di venire dominati dalle macchine, se non addirittura annientati da esse come specie. Le attuali forme primitive di Intelligenza Artificiale – egli precisa dall'alto della cattedra che fu di Newton –sono ancora nei limiti di una utilità benevola, ma tenendo conto della velocità del loro sviluppo, occorre preoccuparsi per una possibile perdita di controllo, perché fra poco le macchine potranno essere in grado di svilupparsi da sole.

Al celebre fisico ha fatto eco Elon Musk, il miliardario che ha escogitato PayPal, che è presidente della fabbrica di automobili elettriche Tesla Motors e promotore della prima spedizione con equipaggio su Marte. Su Twitter sta pubblicizzando un libro intitolato Superintelligence: Paths, Dangers, Strategies, di Nick Bostrom. Nei suoi tweet, Musk definisce l'AI "più pericolosa delle armi nucleari, una vera minaccia per tutta la razza umana". Come affermazione non sembra troppo coerente da parte di chi sta lavorando attorno a un'automobile elettrica senza guidatore, in grado di sgattaiolare da sola nel traffico cittadino. Se escludiamo gli scopi pubblicitari, l'unica spiegazione è la cecità dovuta alla mancanza di una teoria della conoscenza attraverso la quale fondare previsioni oggettive sul rapporto uomo-macchina. E all'incapacità di vedere che la macchina non è solo un oggetto fisico con parti in movimento e finalizzato a uno scopo, ma è soprattutto parte di un sistema che obbliga a pensare, cioè a evolvere.

Rivista n. 38