Acciaio

L'annunciata chiusura degli stabilimenti siderurgici inglesi di Port Talbot in Galles ripropone la vecchia diatriba sulla necessità o meno di mantenere sul suolo patrio produzioni "strategiche" come quella dell'acciaio. A parte la prevista cancellazione di 15.000 posti di lavoro più altre migliaia nell'indotto (una goccia nel mare della sovrappopolazione relativa), gli economisti si chiedono se abbia ancora senso, in un mondo globalizzato, fare discorsi sulla "strategia" per quanto riguarda le materie prime o altri settori dell'industria e dei servizi. Probabilmente per un paese qualsiasi vendere le banche all'estero comporterebbe qualche problema, specie nell'epoca del capitalismo basato quasi completamente sul capitale fittizio. Ma quella dell'acciaio è una produzione storica, che ormai ha traslocato per la maggior parte nei paesi a giovane capitalismo. Se ci fosse una difficoltà mondiale nell'approvvigionamento dell'acciaio, le preoccupazioni strategiche non sarebbero al primo posto. Tanto più che, per quanto riguarda la Gran Bretagna, lo stabilimento in questione è di proprietà della Tata, una multinazionale indiana della siderurgia e della meccanica.

Farà impressione ai patrioti inglesi subire una colonizzazione da parte di ex colonizzati, specie in campo siderurgico, vecchia gloria britannica, come le miniere di carbone. Ma la realtà storica si mostra nelle cifre: i prezzi in calo non sono più compatibili con i costi esistenti nei paesi a vecchio capitalismo. Se il prezzo di produzione si forma nella media dei mercati internazionali, il prezzo di costo si forma all'interno dei singoli paesi. Di qui la storica delocalizzazione che marcia in parallelo con l'aumento della divisione del lavoro mondiale.

La produzione globale di acciaio ha raggiunto 1,6 miliardi di tonnellate, e la Gran Bretagna ne produce 11 milioni in un contesto, quello dell'OCSE, che denuncia una sovraccapacità produttiva di ben 600 milioni di tonnellate. Si capisce che, davvero, più che di strategia si tratta di nostalgie romantiche. Politici e attivisti sono perdenti in partenza se il loro unico argomento è la conservazione di un ricordo. Tata presenta i conti: ha pagato l'azienda 6,2 miliardi di sterline nel 2007, ne ha spesi 2 per rimetterla in sesto, e al momento perde 350 milioni all'anno per tenere aperta un'azienda che sul mercato non si può nemmeno vendere perché vale zero. Tata è il padrone e può raccontare frottole, però fa notare che nessuno vuole gli stabilimenti neanche in regalo.

È interessante osservare come nella patria del libero scambio, proprio nell'era della globalizzazione, a livello di parlamento si discuta se sarebbe il caso di introdurre dazi protettivi, specie sull'acciaio cinese che ha prezzi da dumping. Ora, a parte il fatto che il protezionismo ha sempre portato a ritorsioni e la Gran Bretagna non se lo può permettere, è davvero significativo che il paese capitalista un tempo padrone del mondo sia costretto a usare tali argomenti in un mondo globalizzato e a proposito dell'acciaio, simbolo della rivoluzione industriale, ma del tempo che fu, come il carbone. Vale a dire che il paese-rentier per eccellenza sembra ritornato allo scontro interno tra minatori e il resto della società, come all'epoca della Tatcher quarant'anni fa. Con qualche differenza non da poco: l'Economist, settimanale liberale e reazionario, a proposito della discussione fra conservatori, laburisti e sindacati, oggi scrive: "Lo scopo della politica dovrebbe essere quello di proteggere i lavoratori, non i posti di lavoro".

Rivista n. 39