Drastiche conclusioni

Quanto più il mondo attuale, pigramente adagiato nell'omologazione capitalistica, produce le proprie antitesi in forma di anticipazioni della società futura (e lo fa in continuazione), tanto più sente il bisogno di produrre rassicuranti ideologie sulla propria eternità. Vi è quindi un bisogno fisico di opporre a questo andazzo un drastico rifiuto del grande Fronte Unico fra i detentori del potere borghese e coloro che di questo potere sono vittime consenzienti. Tutti sotto il grido unitario di "Liberté, égalité, fraternité" (e derivati, come dignité, droit, personalité, ecc.).

Nell'articolo sulla Guerra Russo-polacca riprendiamo un discorso già sfiorato in precedenza sul divario fra la situazione rivoluzionaria a livello mondiale durante il biennio rosso (1919-1920) e l'assetto politico dei partiti socialisti o comunisti, intenti a "far politica" mentre il proletariato insorgeva e veniva massacrato. Sullo sfondo di quello scenario, incominciavano a circolare strane concezioni secondo le quali la situazione sarebbe stata rivoluzionaria, peccato che i partiti sedicenti operai non fossero all'altezza. E specialmente guardando alla Germania del 1919 esse sembravano avere una loro giustificazione: centinaia di migliaia di operai si armavano, ma non c'era alcun partito che si proponesse di dirigere consapevolmente il movimento sociale. Questi sono i misteri della politica: nella vita quotidiana non succede mai che si dica: facciamoci un caffè, peccato che manchi la caffettiera. Non era l'unico mistero. Ad esempio si diceva che per arrivare alla società comunista bisogna "fare la rivoluzione". Ma si è mai vista nella storia una rivoluzione "fatta" da qualcuno? Le rivoluzioni sono terremoti sociali che scatenano un'energia enorme (proprio come i terremoti fisici), energia che non si "fa", si indirizza, sempre che esista qualcuno in grado di sapere come e dove. Nel 1919 veniva fondata la III Internazionale su basi disomogenee e perciò frontiste; nel 1920 quello che doveva essere il partito mondiale del proletariato apriva il proprio II Congresso all'insegna dei compromessi con gli eterogenei aspiranti membri, congresso di tipo demo-parlamentare, salvato solo dalla rivoluzione in corso che obbligava i congressisti ad essere più coerenti di quanto non sarebbero stati senza quella spinta. La guerra portata dall'Armata Rossa nel cuore dell'Europa in fermento, ai confini della Germania, infiammava tutti, ma nel momento decisivo, sul campo di battaglia, esplodevano le rivalità politiche fra i responsabili militari, tanto da influire sulla trasformazione della vittoria in disfatta. L'inaudito comportamento di tutti i partiti mentre il proletariato insorgeva spiega la mancata rivoluzione in Europa; nulla spiega però quel comportamento. Attribuire le responsabilità "all'opportunismo" è un'accusa facile ma priva di significato, per la semplice ragione che bisogna spiegare allora che cos'è l'opportunismo e perché si manifesta in quel modo. Anche gli opportunisti erano per il socialismo e la rivoluzione. Sta di fatto che tutti erano allineati nel considerare necessaria una politica frontista proprio nel momento in cui la politica frontista stava affossando la rivoluzione. Dunque la situazione non era rivoluzionaria, tranne che nel periodo in cui la rivoluzione era riuscita a trasmettere il proprio ritmo ai partiti… o meglio, al partito bolscevico e alla Sinistra Comunista "italiana". Sì, perché, tirando le somme, quelle erano le uniche due forze che la rivoluzione aveva potuto allineare con le proprie esigenze.

La prossima apertura della nuova sede centrale di n+1 ci dà l'occasione di affrontare il tema del "lavoro di partito" in assenza del partito formale. Questo tema, che ha surriscaldato gli animi per anni, sembra particolarmente ostico, ma è facilmente riconducibile a tre nostri classici: Lettera a un compagno sui nostri compiti organizzativi e Che fare, di Lenin, e Considerazioni sull'organica attività di partito quando la situazione è storicamente sfavorevole, della nostra corrente. Nell'articolo In senso lato e in senso stretto diamo una lettura inusuale di questi classici, soprattutto alla luce del marasma sociale che da un po' di anni porta in piazza milioni di persone.

La morte di Umberto Eco ci obbliga a trasformare in necrologio un articoletto che avevamo abbozzato qualche settimana fa, quando sul Sole 24 Ore egli aveva ribadito i già esternati insulti ai navigatori internettiani che abbandonavano Wikipedia a favore dei social network e delle chat, imbrattando la rete e, soprattutto, ponendosi sullo stesso livello, poniamo, di un premio Nobel ("imbecilli", li aveva chiamati). Umberto Eco sarà stato un grande semiologo, teorico della comunicazione, medioevalista e tutto quanto, ma sul piano politico era un atleta del luogo comune, un Nobel del buon senso popolare. Tanto da far sorgere qualche dubbio anche su ciò per cui era famoso. Eco aveva certo in testa un "sistema", e ogni sistema vive ed evolve grazie a connessioni interne invarianti. Se la natura non ci permettesse di osservare degli invarianti, non sarebbe possibile la scienza. In un buon sistema non dovrebbero coesistere una parte scientifica sulla teoria e una parte trash sulla pratica. Non dovrebbero ma coesistono, perciò, per commentare la contraddizione, avevamo adoperato come canovaccio il suo famoso articolo su Mike Bongiorno. Quell'articolo (che, a dire il vero, ci è sempre sembrato socialmente un po' razzista) era scritto con tecnica straordinaria: aveva un struttura così perfetta che bastava cambiarla di segno per avere il ritratto fenomenologico di chi l'aveva escogitata. La negazione di Mike Bongiorno dava Umberto Eco!

Per la rubrica dedicata alla rassegna di fatti significativi, più o meno recenti, abbiamo scelto un argomento guida che raggruppa notizie sulle condizioni limite in cui versa il capitalismo. I cinque capitoletti, dedicati ognuno a un aspetto della sovrapproduzione, ci danno la chiara visione di una forma economico-sociale non più in grado di rivitalizzarsi, nemmeno cancellando capitale fittizio per mezzo di quella che tutti si ostinano a chiamare "crisi". Nel corso degli anni, fin dal nostro primo Quaderno sulla "Crisi storica del capitalismo senile", dove già facevamo notare come il termine fosse improprio, come la difficoltà di accumulazione fosse storica (cioè irreversibile), come il capitalismo fosse ormai senile (cioè moribondo), abbiamo ricevuto vibrate proteste perché, secondo alcuni nostri inveterati critici, avremmo sottovalutato l'elemento soggettivo della rivoluzione immaginando un capitalismo che si elimina da sé. Ora, fino a prova contraria in tutti questi anni l'elemento soggettivo non risulta tanto sottovalutato quanto inesistente, mentre il capitalismo si sta dando un gran daffare per eliminarsi da sé. Noi non crediamo affatto in un suo suicidio, come non crediamo affatto al santo proletariato che fa miracoli di volontà. Molto più terra-terra crediamo che il processo rivoluzionario sia quello delineato nel 1922 dalle Tesi di Roma, cioè una interazione di elementi oggettivi e soggettivi, in coerenza con una sana concezione materialistica della storia.

L'altro argomento sul quale abbiamo dovuto essere drastici, è quello delle manifestazioni in Francia contro la nuova legge sul lavoro. Ora, se c'è una rivendicazione sindacale sostenuta da lotte si va alla manif e ai picchetti, se serve. Ma in questo caso si è ripetuto ciò che era successo – sempre in Francia – all'indomani degli incendi delle banlieue, quando in diverse città erano scesi in piazza tre milioni di persone contro il CPE (Contrat Premier Emploi). All'epoca era subito balzata all'occhio la differenza fra i banlieusard, disperati senza-riserve e i giovani studenti che volevano contrattare l'entità delle riserve. Oggi c'è l'aggravante costituita dal fatto che sono passati dieci anni e nel frattempo il mondo ha conosciuto movimenti radicali di piazza in un crescendo che ha avuto il suo culmine in Occupy Wall Street, l'unico che ebbe oggettivi contenuti anticapitalistici. Si può rientrare nella "tipologia standard" (smartphone, twitter, facebook, occupazioni di piazze-simbolo), ma se manca quel contenuto anticapitalistico già raggiunto, prende il sopravvento inesorabilmente la vecchia solfa nauseante della democrazia, dei diritti, delle libertà, delle rivendicazioni, delle trattative.

Rivista n. 39