Fenomenologia di Umberto Eco

"Io ho fatto una distinzione fra le cose che fan bene ai poveri e le cose che fan bene ai ricchi, dove i termini 'poveri' e 'ricchi' non hanno una immediata connotazione in danaro. Un laureato è un ricco, un analfabeta è un povero. La televisione fa bene ai poveri e fa male ai ricchi: ai poveri ha insegnato a parlare italiano, fa bene alle vecchiette che son sole in casa. E fa male ai ricchi perché gli impedisce di andare fuori a vedere altre cose più belle al cinema, gli restringe le idee. Il computer in generale, e Internet, fa bene ai ricchi e fa male ai poveri. Cioè, a me Wikipedia fa bene, perché trovo le informazioni che mi sono necessarie. I ricchi sono coltivati, sanno confrontare le notizie" (Umberto Eco, intervistato da un esponente di Wikimedia).

Umberto Eco era l'esatto contrario di Mike Bongiorno, l'everyman di cui aveva tracciato la divertente e un po' razzista fenomenologia. Però politicamente era lui stesso un archetipo del luogo comune. Come un Einstein, tanto per dire. Eco era universalmente riconosciuto come intellettuale… universale. Corteggiato dai media, riusciva a non logorare la propria immagine. Essendo molto, molto "ricco", secondo la sua stessa definizione, non gli si chiedeva mai di recitarne la parte. Non aveva bisogno di sceneggiatura e regia. Per l'audience andava bene così, 42 lauree come biglietto da visita bastano e avanzano. Nel mondo manicheo di ricchi e poveri (in cultura), i comuni mortali non se la cavano così facilmente: essendo "poveri" hanno la facoltà di arricchire, ma che fatica. Per la massa, i vertici estremi sono contingentati. Secondo le leggi della statistica, per ogni ricco (in cultura) che possiede una biblioteca di 50.000 volumi ci sono milioni di poveri che ne hanno pochini ciascuno. Totalmente ne hanno sempre di più i poveri, ma non li adoperano insieme. Questo c'entra con quello che diremo fra poco: l'intellettuale supremo è solo; vorrebbe essere democratico, ma si colloca in una curva di distribuzione gaussiana inesorabile.

L'intellettuale ricco, insidiato dai media, è però profondo. Scrive un articolo e tutti sanno che è Lui, perché lo firma, attribuendo con ciò valore di dogma alla Sua opinione e valore in euro alla sua pregressa ricchezza non venale; il povero (in cultura) è superficiale, altrimenti detto "imbecille" dal ricco, perché twitta gratuitamente sciocchezze anonime, chatta scambiando mere chiacchiere, soprattutto imbratta la rete, mettendo le sue stupidaggini fianco a fianco con le eccelse elucubrazioni dell'intellettuale, che potrebbe anche essere un Premio Nobel. Non c'è più religione. Almeno prima faceva l'imbecille solo al Bar Sport con i suoi simili.

Ora, la scienza richiede che le proposizioni qualitative siano appoggiate su dati quantitativi. Dev'essere possibile, almeno da Galileo in poi, usare astrazioni, formulette, matematica o geometria. Oppure, in mancanza d'altro, un po' di statistica. Ebbene, l'intellettuale, che non per niente è "ricco", trova subito la cifra del fenomeno: trecento milioni di imbecilli hanno smesso di consultare Wikipedia perché si sono messi a twittare sciocchezze. E lo scrive sul giornale della Confindustria, che è il giornale dei ricchi, però questa volta nel senso del denaro.

Quando uno è povero, è povero, non c'è niente da fare. All'intellettuale (ricco) non viene neppure in mente che un paio di miliardi di primati, dotati di computer, furbofoni e altre diavolerie da comunicazione che li mettono in rete come neuroni, possano un giorno diventare un'intelligenza collettiva. E magari lo sono già, solo che non ce ne accorgiamo ancora. La proprietà privata serve solo a "privare" qualcuno di qualcosa, ma nel cervello collettivo l'operazione diventa sempre più difficile: un paio di miliardi di poveri messi in rete potrebbero avere a disposizione non 50.000 volumi ma tutti quelli che sono stati scritti dall'invenzione della scrittura in poi. Nel processo evolutivo il mutante promettente è il povero, il ricco è plafonato.

Questa volta, però, ci sarà un'evoluzione un po' più veloce dell'ultima, che dall'australopiteco al sapiens ha richiesto un paio di milioni di anni. Pensiamo agli ultimi 50 anni e proiettiamoli nel futuro con tutta la loro scala logaritmica. Nel cervello non è mica intelligente ogni singolo neurone. Come diceva un altro intellettuale (uno scrittore che il Nostro avrebbe considerato con dotta sufficienza un esponente midcult) stanno nascendo i nuovi barbari, i poveri, proprio come una nuova specie. Ragionano in massa e sono in rete, non posseggono nulla e posseggono tutto. È l'unica specie attualmente in evoluzione, le altre (se non facciamo qualcosa) tendono all'estinzione. Apriti cielo. Gli aveva risposto un altro intellettuale, editore ricco, tutto d'un pezzo, educatamente indignato. Non scherziamo.

I nuovi barbari sono la quintessenza della superficialità, mentre la Cultura è indagine profonda, che solo degli individui superdotati possono affrontare (il ricco attrae la ricchezza, aveva scoperto Vilfredo Pareto ragionando sulla curva di distribuzione di quest'ultima. Solo la profondità è portatrice di conoscenza. Infatti pensiamoci bene: chi mai potrebbe scrivere che il mondo fa felici le vecchiette con la televisione che invece tarpa le ali agli intellettuali impedendo loro di andare al cinema? Lo può fare solo chi si è conquistato la profondità sul campo, che ha ricchezza accumulata spendibile. Se un primate povero, come uno qualsiasi di noi, si permettesse di dare dell'imbecille a trecento milioni di persone e sostenesse che c'è una differenza evolutiva tra ricchi e poveri (in cultura) lo manderebbero a stendere, altro che 42 lauree.

L'intellettuale supremo rappresenta, biologicamente parlando, un grado modesto di adattamento all'ambiente. Insomma, non è soggetto alle leggi del darwinismo. Invece di lottare per emergere come "fittest", il più adatto, si ritaglia un angolo di mondo in cui non lotta ma si adegua, nel senso che non porta mutazioni, cambiamento, che possano mettere in dubbio la sua esistenza. È capace di sfiorare le vette della conoscenza a profondità infinite, stupire il mondo per la quantità di cose che ha registrato nel cervello, ma quando parla della società spara cazzate incredibili, sottoscrivendo in pieno l'omologazione che richiede la classe dominante per la quale lavora.

L'intellettuale supremo non si vanta di essere colto, non prova il bisogno di farlo sapere perché lo sanno già tutti. Pone gran cura nel non strafare per mantenersi popolare, e quando parla di politica mette insieme, di proposito, parole chiare, comprensibili. Gli va dato atto che, rifiutando l'ipocrisia del politically correct, non ha cadute di stile. Per il contenuto invece è più spontaneo: la sua concezione del mondo (weltanschauung, direbbe) è una democrazia parlamentare basic, moderatamente centrista. È ovviamente antifascista, ma non lo sfiora il sospetto che il fascismo sia il modo di essere della società moderna, la sua struttura. Per lui il fascismo è simbologia, psicologia, raccolta di archetipi, insomma un elenco di qualità estetiche, una "cosa" che chiama Ur-fascismo ma che è ben lontana dall'essere una struttura economico-sociale. Per lui il fascismo nella scala storica è più antico della democrazia. Osservando empiricamente la storia che ha vissuto, non lo sfiora il minimo dubbio, non "vede" che razza di esempi gli ha messo davanti agli occhi il capitalismo di stato. Non quello delle Repubbliche marinare, ma quello ultramoderno che si è concentrato in pochissimi anni tra una guerra mondiale e l'altra: fascismo, nazismo, stalinismo, New Deal e altre forme come quelle asiatiche di Cina e Giappone. E naturalmente rimuove il fatto che dopo l'ultima guerra mondiale il fascismo è stato militarmente sconfitto ma ha vinto economicamente e politicamente, dato che lo stato permea la società molto più di prima. Ridurre il fascismo a un dato psico-estetico la dice lunga sulla capacità di analisi scientifica su tutto il resto.

Infatti, secondo l'intellettuale cosmico, la democrazia non è quella di maggioranze/folla ma quella della folla motivata. La prima dice che non bisogna pagare le tasse, la seconda che è giusto pagarle ma bisogna adoperarle bene. Rispettare in massa lo stato motivando: è la democrazia di Bottai.

Wikipedia sembra un ambiente anarchico ma funziona perché non è realizzata dalla folla tout court. Perlomeno non dallo zappatore analfabeta ma da qualcuno che sa usare il computer e per questo fa parte della folla motivata, cioè tendenzialmente colta, cioè ricca. Tendenzialmente, perché se fosse colta/ricca permetterebbe di firmare le voci. L'intellettuale vola così in alto che può fregiarsi di un'infantile sincerità. Folla non è forse la parola giusta, anche se si aggiunge "motivata". Dice: Peirce (matematico, filosofo, semiologo, logico) ad esempio parlava di "comunità scientifica", che è un qualcosa di più ristretto di una folla, anche motivata. Comunità, certo, andrebbe meglio, dà maggiormente il senso di uno strato intermedio tra la folla povera e la solitudine degli inarrivabili ricchi. Insomma, quando c'è bisogno di riferirsi a un'autorità che non sia lo Stato… la citazione aiuta.

L'autorità è importante, ecco perché Wikipedia non funziona, o almeno funzionicchia solo come luogo di prima ricerca: trovare una data dimenticata, vedere come si scrive un nome proprio, mettere insieme una bibliografia. Del resto l'autorità non basta, bisogna che provenga da fonti sicure perché "il mondo è pieno di esperti idioti". L'intellettuale supremo non si fida neppure dei suoi simili, nel senso di intellettuali. Perciò bisogna firmare la produzione intellettuale. Persino la tavola pitagorica è firmata. Chi controlla le opere anonime? E chi controlla i controllori? La Treccani non wikizza niente ed è il regno delle voci firmate. La voce "Fascismo" è firmata da Gentile, non la si può certo manipolare. Se ne può fare un'altra, a fianco, redatta da uno specialista attuale. Il Dizionario degli italiani ha provato a wikizzarsi proponendo la collaborazione esterna sulle voci, ma poi ha smesso perché costava di più farle controllare dagli editors che non pagare direttamente un esperto. No, l'intellettuale non ce la fa proprio a immaginare sé stesso come un qualcosa di diverso da un'indispensabile autorità per la Cultura a pagamento. L'opera firmata è quella valida, quella anonima uno strumento di lavoro. Il libro e il cacciavite.

E qui Eco si fa un autosgambetto: critica Croce perché "non capiva niente" ed ha rappresentato per generazioni un'autorità dannosa; ma era proprio Croce quello che riponeva la vera conoscenza nelle discipline umanistiche, mentre la scienza era solo la cassetta degli attrezzi. Libro e cacciavite. Su Croce possiamo essere d'accordo, anche se forse è meglio dire che capiva quello che serviva al ruolo che si era dato.

Il nostro intellettuale supremo afferma di comportarsi empiricamente e perciò difende la fonte del pane quotidiano, diciamo così ("sono uno che campa sui guadagni della proprietà intellettuale"). Ma è famoso, e ciò fa la differenza rispetto a un altro magari più bravo ma sconosciuto. Se è oggetto di pirateria intellettuale, a lui che vende milioni di copie non succede quasi niente, ma se piratano 100 copie a chi ne vende mille la cosa cambia. (Pirateria? "Dovrei preoccuparmene. Perché mi disinteresso? Potrebbe essere che guadagno a sufficienza anche così. Oppure che sono un buon democratico").

Quando hanno allegato il suo libro più venduto a un quotidiano, non ha contrattato la percentuale ma un forfait. Poi ha saputo che se ne sono venduti due milioni di copie in un solo giorno e s'è pentito un po'. E comunque dai rilievi risultò in seguito che quelle copie non avevano minimamente intaccato le vendite in libreria, erano tutte in più, dovute solo al metodo di vendita. Forse c'entra con la democrazia, chissà: Google è attaccata dagli editori perché mostra estratti di libri. Eco la difende perché fa conoscere i libri : "serve a farne vendere di più, non di meno". Ah, ecco.

Nel suo mestiere l'intellettuale è profondo, abbiamo detto. Quando era giovane aveva pubblicato una raccolta di scritti in cui teorizzava che l'opera d'arte dev'essere aperta. Chiamava in causa la teoria dell'informazione: se un autore ti dà troppi dati, il tuo cervello va in riposo, non ha bisogno di elaborare. Prendi la Gioconda ad esempio. Perché il mondo intero parla di lei? Perché lo sfumato di quel furbone di Leonardo ti dà solo cenni d'informazione, il resto te lo devi elaborare con il tuo cervello. Qualche anno dopo l'intellettuale scrive un altro libro, Lector in fabula. Già dal titolo si capisce che il discorso è lo stesso, anche se esposto con altro linguaggio.

Ad un certo punto il Nostro rinnega però l'uso della teoria dell'informazione per quanto riguarda il campo dell'espressione artistica. Lì per lì ci viene in mente il discorso crociano sul libro e il cacciavite. Poi arriva la verifica sperimentale: il grande semiologo scrive un romanzo. Lasciamo perdere quei buontemponi che trovano il plot un po' troppo somigliante a quello di un libretto uscito anni prima, ma ciò che è veramente sbalorditivo è che il romanzo è scritto con criteri che nulla hanno a che vedere con quanto teorizzato. Da una parte, altro che teoria dell'informazione: esso non mette in moto nessun cervello perché ti dice tutto, anzi, ti manda in overdose di informazione; dall'altra, non si può dire che ti scaldi il cuore, perché è freddo come una macchina, didascalico come una collezione di cartoline, crudele come il verbale di un inquisitore. Però è sapientemente confezionato secondo criteri televisivi: insegna ai poveri, intrattiene le vecchiette, procura agli uni e alle altre un senso di soddisfazione culturale come se fossero esperti di Medioevo. Di più: accontenta anche i ricchi perché non è ordinario. Il subdolo autore, lui sì esperto, ha introdotto un digest culturale che accomuna tutti. Geniale, non c'è che dire. E democratico, naturalmente.

Il successo è strepitoso. Neanche Alessandro Dumas, che pure aveva inventato la catena di montaggio letteraria e taylorizzava bravi scrittori detti "negri", vendeva a quel modo. Le recensioni non riguardano quasi mai il romanzo ma il significato che sarebbe stato immesso dall'autore nel romanzo. È opera aperta o chiusa? E come la mettiamo con la teoria dell'informazione, l'entropia, i livelli semiotici ? L'editore raccoglie un'antologia di recensioni dottissime di fronte alle quali il romanzo sembra un tema da corso di scrittura per apprendisti romanzieri. Davvero, nell'originale tutta quella roba non c'è. Ma vende pure l'antologia. Fanno un film e vende pure quello. Aveva ragione Pareto, la ricchezza chiama ricchezza: nessuno vuole perdere il treno, e giù con i significati e le chiavi di lettura neanche si trattasse di Dante. Domanda: perché il primo romanzo fu incensato e tutti gli altri no? Risposta: perché non si era fatto avanti, da subito, nessun Fantozzi con il grido: "È una boiata pazzesca!".

Letture consigliate

  • Umberto Eco, Opera aperta, Bompiani. Lector in fabula, Bompiani. "Fenomenologia di Mike Bongiorno" (in Diaro minimo, Mondadori). Il fascismo eterno, (pubblicato con il titolo Totalitarismo fuzzy e ur-fascismo su La Rivista dei Libri, n°7/8 Luglio/agosto 1995). "Quanti sono gli imbecilli nel mondo?", Il Sole 24 Ore del 24/1/2016.
  • Renato Giovannoli (a cura di), Saggi su "Il nome della Rosa", Bompiani.
  • Un inserto esaustivo in memoria di Umberto Eco è stato pubblicato da La Repubblica il 21 febbraio del 2016. Il discorso originale sugli imbecilli è su YouTube.

Rivista n. 39