Il grande collasso

"Per la dimostrazione che il sistema capitalistico deve cadere, non è condizione sufficiente la prova che sopravvivendo abbasserà il tenore medio di vita mondiale. Il capitalismo deve cedere a forme di più alta resa economica oltre che per le sue infinite conseguenze di oppressione, distruzione e di strage, per la sua impossibilità ad avvicinare gli estremi, non solo tra metropoli e paesi coloniali e vassalli, tra zone progredite industriali e zone arretrate agrarie o di agricoltura primordiale, ma soprattutto fra strato e strato sociale dello stesso paese, compreso quello dove leva la sua bandiera il capitalismo più possente ed imperiale" (PCInt., Imperialismo vecchio e nuovo, FdT1950).

163 paesi con problemi di stabilità

La borghesia ha una vocazione nazionale, ma si sta rendendo conto che a livello internazionale non può permettere la proliferazione di stati collassati o in via di collasso. Quando una borghesia nazionale non ha più il controllo del proprio territorio e cade preda della guerra civile endemica che colpisce buona parte del mondo, non ha più neanche la speranza che siano invertiti i processi in atto e si ritorni alla normale produzione e distribuzione. Oltre una certa soglia, il collasso locale può innescare un collasso globale, perché se si toglie al capitale la possibilità di circolare, investirsi e generare profitto le ripercussioni sui paesi apparentemente esenti da pericoli di questo genere possono essere catastrofiche. Ci sono degli esempi di pura e semplice scomparsa dello stato, di cui il governo non riesce a controllare che la capitale, o neppure questa, come in Somalia, in Libia, in Sud Sudan. In alcuni casi il governo controlla una parte del territorio, ma è perennemente impegnato in una guerra civile, come in Siria, Iraq, Afghanistan, Yemen, Congo, Niger. A volte il governo riesce a controllare il territorio, ma è costantemente impegnato a fronteggiare forze interne interpretate e temute come elementi disgregatori; pensiamo alla Turchia, al Pakistan, alla Nigeria, al Congo, e ad altri paesi, soprattutto africani.

Abbiamo citato degli esempi eclatanti, ma la lista è più lunga di quanto possa immaginare chiunque non vada a cercare direttamente i dati. Il Global Peace Index del 2015, ad esempio, elenca 163 paesi che sono in guerra o partecipano a guerre altrui o hanno problemi di stabilità interna. Solo 10 paesi nel mondo ne sono del tutto esenti. Secondo i parametri presi in esame dallo studio (morti, feriti, scontri, distruzioni, attentati, impegno militare, spesa, ecc.) i primi dieci posti sono occupati nell'ordine da Siria, Sud Sudan, Iraq, Afghanistan, Somalia, Yemen, Repubblica Centrafricana, Ukraina. Il Congo è al 12° posto, la Russia al 13°, la Turchia al 19°, l'Egitto al 22°, gli Stati Uniti al 61°, l'Inghilterra al 117°, la Francia al 118°, l'Italia al 125°. Questa situazione è costata agli stati coinvolti, a quelli che intervengono con le loro partigianerie e alle organizzazioni internazionali che cercano di ristabilire la pace, si occupano dei profughi o spediscono aiuti, 13.600 miliardi di dollari solo nel 2015. Una cifra vicina al PIL degli Stati Uniti, circa un quarto del PIL mondiale. Il guaio è, per il capitale, che la modifica dei rapporti interimperialistici e soprattutto la senilità dei maggiori paesi imperialisti non permettono più di far fruttare questa montagna di denaro per fare altro denaro ed essa va ad ingrossare il debito dei vari paesi, al massimo ad arricchire i mercanti di armi, vettovaglie o servizi, statali o privati che siano. Il collasso degli stati coincide in larga misura con il collasso delle loro economie.

Il Sud Sudan, al secondo posto nella lista, è nato con la secessione dal Sudan nel 2011 e non ha nemmeno conosciuto un collasso dello stato, dato che uno stato non era neppure riuscito a formarsi. In realtà un fiume di denaro e migliaia di consulenti non sono stati in grado di creare delle istituzioni che potessero avviare il paese (o meglio, quell'area) verso la formazione di un centro coordinatore, una capitale da cui potesse irradiarsi un controllo del territorio. Mentre in Somalia ad esempio, lo stato ha perso man mano il territorio controllato fino a scomparire, in Sud Sudan non è riuscito neppure un tentativo. E questo dopo una guerra civile costata due milioni di morti su una popolazione di 12 milioni. Eppure il Sud Sudan non è un territorio poverissimo, ha qualche risorsa petrolifera (30.000 barili al giorno), miniere, terreno agricolo, pastorizia. È chiaro che le risorse migliori sono gestite da multinazionali dei paesi imperialisti, ma ciò non è sufficiente a spiegare la difficoltà di organizzare uno stato. Che, tra l'altro, farebbe comodo anche agli investitori stranieri, in quanto potrebbero usufruire di servizi locali realizzati con risorse locali. La spiegazione più plausibile è proprio quella secondo cui nell'epoca della disgregazione degli stati diventa difficile anche costituirne di nuovi (era fallito anche il piano americano per il rebuilding di Afghanistan e Iraq nel 2001).

Lo stato, per funzionare ha bisogno di un esercito, ma in Sud Sudan buona parte dei 320.000 militari addestrati da consiglieri occidentali sono al servizio di signori della guerra i quali, più che pensare a rappresentare lo stato, si sono subito dedicati a utilizzare le armi di cui sono venuti in possesso per taglieggiare la popolazione e proteggere antichi interessi tribali. Naturalmente si può sostenere senza sbagliare che le difficoltà degli stati della periferia imperialistica sono dovute al supersfruttamento "neocoloniale" delle risorse da parte delle centrali imperialistiche, ma il fenomeno dilagante è troppo diffuso su di un ventaglio troppo diversificato per dipendere solo da uno sfruttamento che tutto sommato è sempre esistito da quando esiste il capitalismo. Dev'essere possibile collegare l'effetto sovrastrutturale (il collasso degli stati) alle materiali condizioni economiche della struttura produttiva e distributiva (la crisi sistemica in atto).

Dov'è finita la globalizzazione?

Si potrebbe obiettare che un conto è la Somalia, un conto è un paese sviluppato in cui si può verificare un malfunzionamento dello stato ma non sicuramente un'implosione paragonabile. Dal punto di vista della vitalità capitalistica un simile ragionamento è assai debole: nei paesi in cui lo stato non esiste o è ridotto ai minimi termini, la mancanza di controllo permette ogni genere di traffici e il capitale vi sguazza come un pesce nell'acqua. Ormai sono molte le zone franche in cui si incanala una parte del flusso mondiale di merci e capitali. Ovviamente dove manca il controllo circolano preferibilmente merci e capitali del circuito illegale, ma questo è indifferente, anzi, più una merce è proibita, più garantisce profitto là dove può circolare. Nella maggior parte dei casi il fenomeno dei "signori della guerra" moderni ha come sottofondo la garanzia che su determinati territori può circolare liberamente di tutto. Dal Mali alla Thailandia, dal confine siro-iracheno al Caucaso è un fiorire di traffici. Tra l'altro le attività illegali funzionano da poli attrattori di capitali, quindi facilitano una specie di accumulazione originaria residua, fuori epoca. Ben diversa la situazione di paesi come il Giappone o la Gran Bretagna, il primo asfittico, da trent'anni ad accumulazione zero, il secondo completamente deindustrializzato, entrambi capitalisticamente morti. Rimane il fatto che la perdita di controllo da parte degli stati si amplia e ne sono affetti anche i grandi stati imperialisti. Non potendo arginare questo fenomeno, ne prendono atto e si adeguano, magari sfruttando le circostanze vantaggiose, credendo di pilotare ancora la situazione. In realtà cercano di pilotare situazioni che non hanno voluto. Per quanto potenti, sono succubi di forze più grandi di loro.

Dal punto di vista della realtà e non da quello della politica degli stati che a volte arranca al seguito, il mondo si divide in aree di mutua influenza e, tra queste, alcune sono più individuabili di altre. La nostra corrente diceva, subito dopo la Seconda Guerra Mondiale, che la politica di Roma si decideva a Washington. Questa osservazione valeva per più di un paese: Berlino e Tokyo non erano in condizioni differenti. Anche la Gran Bretagna, pur essendo fra i vincitori della guerra, aveva passato il testimone e rientrava nel novero dei paesi alleati, quindi entro l'area di influenza americana, volente o nolente, tradizione imperialistica o no.

La situazione non è troppo diversa oggi. Rimane assodato che la politica di Roma e altre capitali si decide a Washington, ma non è più chiaro come un tempo dove si decida la politica americana. Qualcosa di profondo è cambiato, dato che di certo a Pechino c'è molta attenzione rispetto a ciò che succede a Washington. La Cina, infatti, detiene una buona parte del debito americano, e questa sola circostanza obbliga Washington a tener conto della nuova situazione. Anche il fatto che sia nata una parvenza di Unione Europea modifica le relazioni tra Europa e Stati Uniti. Oltre a tutte le relazioni inevitabili entro il capitalismo globale nell'epoca imperialistica, un'influenza tangibile è messa in atto dal sistema industrial-finanziario degli Stati Uniti, se non altro perché esso muove cifre che si contano a trilioni di dollari.[1] Secondo la dottrina marxista del modernissimo capitalismo di stato (sussunzione dello stato al capitale), tali cifre sono in grado di influenzare il governo di una nazione più di quanto possa farlo una guerra.

Fra tutti gli argomenti utilizzati da Donald Trump per farsi eleggere presidente degli Stati Uniti, quello della globalizzazione ha un posto in prima fila.[2] Il neopresidente non nasconde la propria antipatia verso le multinazionali, e la manifesta con lo stesso linguaggio popolare basato su considerazioni empiriche, come l'apertura di fabbriche straniere sul suolo americano, la ricollocazione di fabbriche americane all'estero, l'invasione di prodotti stranieri (soprattutto cinesi) in America, e naturalmente l'invasione di stranieri che porterebbero via il lavoro agli americani. Com'è possibile che in pochissimo tempo la classe dominante sia passata dall'elogio della globalizzazione alla denuncia dei suoi effetti perversi? Tra l'altro il concetto di globalizzazione suscitava, da Seattle in poi (1999), la propria negazione, con manifestazioni violente e scontri con la polizia; avevano dunque ragione i Black Bloc? Le attività economiche di un paese imperialista all'estero sono la conseguenza diretta proprio del suo divenire imperialista, e il fatto di proiettarvi la propria potenza produttiva e finanziaria non fa che rafforzare la sua imperialistica essenza.

Trump ha vinto le elezioni ed è diventato presidente del maggior paese imperialista, tuttavia non è l'inventore della politica che ha sbandierato per farsi eleggere. Egli utilizza un linguaggio insolito e diretto ma non è altro che l'interprete di un movimento economico già in atto da diversi anni. In questo senso non può essere considerato semplicemente un reazionario perché non ha evocato i bei tempi passati e si è messo in sincronia con i tempi attuali, mentre altri sono rimasti indietro. La campagna di "addomesticamento" delle multinazionali, cioè il proposito di riportarle a casa, è iniziata ufficialmente con la convocazione dei maggiori rappresentanti del capitalismo americano. Di fatto, con la promessa di facilitazioni fiscali a chi resta o ritorna, il governo invece di schierarsi con famigerate aziende assassine viene in aiuto a vulnerabili aziende che già stanno rientrando. Gli effetti sul commercio mondiale saranno eclatanti: è storicamente e matematicamente provato che il protezionismo produce più protezionismo, e che quindi la chiusura del maggior paese imperialista provocherà una reazione a catena, perciò un aggravamento della crisi.

Lo spontaneo sviluppo del commercio estero e la conseguente emigrazione di alcuni settori della produzione aveva comportato una specie di arbitraggio mondiale della produzione. L'arbitraggio si riferisce normalmente al mercato valutario: acquistando valute nei mercati in ribasso e vendendole nei mercati in rialzo, non solo si guadagna sulla differenza, ma si contribuisce a livellare i prezzi mondiali delle valute (essi cioè si alzeranno dove si è comprato e diminuiranno dove si è venduto). La notevole mobilità delle multinazionali ha permesso loro di guadagnare enormi somme sfruttando il differenziale dei costi di produttività, servizi, fisco, ecc., e in più ha prodotto, come risultato, un gigantesco arbitraggio, influenzando i costi, le strutture produttive, la qualità dei prodotti, e non da ultimo il valore dell'imponente debito mondiale, pubblico e privato.[3]

Globalizzazione, che pacchia

Producendo nei paesi a bassa composizione organica di capitale, dove i salari bassi permettono un alto saggio di profitto, e vendendo nei paesi ad alto reddito relativo, le multinazionali realizzano un plusvalore elevatissimo con un numero limitato di salariati. Quelle che svolgono la maggior parte della loro attività all'estero impiegano solo il 2 per cento della manodopera di tutto il mondo, ma la filiera delle loro produzioni dà luogo ad un interscambio che rappresenta il 50 per cento del commercio internazionale e il 30 per cento della capitalizzazione delle borse. Non sono importanti solo per l'impatto fisico sull'economia globalizzata, esse hanno il monopolio sulla creazione/soddisfazione di bisogni (cioè di valori d'uso delle merci) per i sette miliardi e rotti di esseri umani che abitano questo pianeta. E hanno anche il monopolio dei brevetti e dei diritti d'autore, dall'ingegneria genetica ai farmaci, dalla moda allo spettacolo, dagli armamenti al cibo.

L'apertura totale dei mercati – non tanto in seguito al crollo dell'URSS che aveva mandato in visibilio i capitalisti americani, quanto per l'inizio della crescita economica della Cina – era stata una boccata d'ossigeno per il capitalismo. Gli investimenti erano aumentati, le singole aziende si erano specializzate ulteriormente andando a far parte di catene produttive controllate da gruppi industrial-finanziari ultradinamici, vera espressione di quella centralizzazione del capitale che ha ormai sostituito la concentrazione.[4] Poteva succedere che una azienda americana aprisse una fabbrica in Cina con mezzi di produzione tedeschi, vendesse in Giappone, portasse i profitti in una banca londinese e pagasse le tasse in Lussemburgo. Una pacchia. I paesi emergenti presi di mira erano stati al gioco e avevano assorbito l'ondata produttiva mettendo a disposizione schiavi salariati e facilitazioni di ogni genere. I governi dei paesi sviluppati avevano visto di buon occhio l'espansione della loro industria pensando che ne avrebbero ottenuto un ritorno economico, ad esempio importando merci a buon mercato, cosa che abbassava il valore della forza-lavoro locale. L'ottimismo si basava sul fatto che tutto ciò funzionava. Su questo, estimatori e detrattori erano d'accordo: l'azienda globalizzata era una cornucopia di profitti, nulla sembrava poter intralciare il suo operato, anche perché era mediamente più grande e potente della maggior parte degli stati esistenti sulla faccia della Terra. Per gli uni era il salvataggio del capitalismo, per gli altri era un pericolo demoniaco.

Non era né l'uno né l'altro. Semplicemente il capitalismo, con l'azienda globale, aveva scodellato uno dei suoi prodotti rivoluzionari e l'aveva subito trasformato in routine, per passare a quello successivo, altrettanto rivoluzionario, come la robotizzazione, l'espandersi dell'economia "a costo marginale zero", la smaterializzazione della produzione, ecc. Ma in seguito i paesi che rappresentavano la meta degli investimenti si erano sviluppati, i differenziali di salario si erano mitigati, il profitto delle multinazionali era sceso. Negli ultimi cinque anni il tracollo: i profitti (1000 miliardi di dollari) sono scesi del 25 per cento, quasi la metà delle multinazionali ha realizzato un ritorno sul capitale investito inferiore al 10 per cento (percentuale considerata insufficiente per rimanere sul mercato),[5] la quota dei profitti globali è passata dal 35 al 30 per cento, e così via. Un sintomo del declino delle grandi multinazionali classiche è il fatto che le aziende legate alle nuove tecnologie sono nate e sono rimaste locali, non si sono mai globalizzate nel senso della ricollocazione, anche quando producevano in fabbriche di altri paesi. Per tutti questi motivi, gli economisti prevedono un'ondata pesantissima di ristrutturazioni per recuperarecompetitività, specialmente ricorrendo alla smaterializzazione di attività controllate e all'acquisizione di altre come Uber, Deliveroo, Airbnb e simili, già smaterializzate.

Scambiare la causa con l'effetto

A proposito di smaterializzazione, le prime 50 multinazionali americane ricavano attualmente il 65% dei loro profitti all'estero dai ricordati brevetti industriali, royalty varie e operazioni finanziarie, mentre dieci anni fa ne ricavavano il 35%. E non c'è prova che stiano pensando di poter ripetere un ciclo neocoloniale in Africa, come alcuni prevedevano. In realtà le odiate multinazionali si stanno sgonfiando: nel 2000 ogni miliardo di dollari di investimenti all'estero rappresentava 7.000 posti di lavoro e 600 milioni di dollari di esportazioni annuali; oggi ogni miliardo supporta 3.000 posti di lavoro e 300 milioni di dollari di esportazioni.

Donald Trump è dunque l'espressione di un movimento economico in corso da tempo e incarna la speranza di un ritorno all'epoca d'oro, esattamente come otto anni fa Barack Obama era l'espressione dell'impoverimento della classe media americana, la quale sperava in un presidente che a parole si presentava come raddrizzatore di torti.

Ma se anche avvenisse il rientro completo delle multinazionali auspicato da Trump, cosa impossibile, esse non potrebbero portarsi dietro tutti i salariati che oggi vi lavorano nei vari paesi. E quei salariati non sarebbero sostituiti da salariati americani, a meno che questi ultimi non accettassero di lavorare con salari messicani, cinesi, coreani o vietnamiti. Ogni ristrutturazione prevede l'adozione di nuove strutture organizzative, metodi, tecnologie. Gli effetti combinati di questi fattori e delle tipologie di servizi offerti (smaterializzazione) comportano l'accelerazione estrema di fenomeni che precedentemente hanno richiesto magari molto tempo per imporsi. E siccome la rete di aziende controllate da multinazionali è da decenni la struttura portante del capitalismo mondiale, il suo rivoluzionamento provocherebbe sconquassi economici e sociali. Paesi rentier come gli Stati Uniti e la Gran Bretagna sarebbero privati del flusso di capitali che la loro posizione di rendita garantiva, con effetto sui corsi azionari, sull'occupazione e sull'inflazione.[6]

In una certa misura lo sconquasso è in atto. Se non scambiamo cause ed effetti, l'ascesa irresistibile di Donald Trump ne è la conferma. Allora Washington si muove alla musica delle multinazionali e del capitale globale? Se è così (e per noi lo è), siamo all'inizio del caos. Non si tratta però del famoso battito d'ali di una farfalla che può concatenarsi a eventi minimi fino a provocare un tornado a mille chilometri di distanza. Al contrario: si tratta delle forze più potenti al mondo che vanno fuori controllo combinando disastri ai danni della farfalla. Dove si decide allora la politica di Washington? A Mogadiscio, Pechino, Kiev, Tripoli, Tokyo o Damasco? O in tutte queste capitali insieme?

Note

[1] Proprio mentre scriviamo, Standard & Poor's comunica che la capitalizzazione di borsa delle 500 maggiori aziende americane assomma a 20 trilioni (cioè 20.000 miliardi) di dollari.

[2] Cfr. La globalizzazione, Quaderni di n+1.

[3] Sottraendo al fisco e all'economia degli stati d'origine migliaia di miliardi di dollari, il sistema delle multinazionali non solo ha contribuito all'aumento del debito pubblico e privato, ma ha altresì accelerato la finanziarizzazione del capitalismo, riversando sulle banche una massa di profitti-rendita.

[4] Cfr. Elementi di economia marxista, Quaderni di n +1.

[5] In estrema sintesi: risultato operativo globale diviso per il capitale investito nel periodo (fatturato diviso per l'anticipo di capitale).

[6] Non sarebbe la piccola inflazione controllata, dovuta a ripresa produttiva, che auspica Draghi, ma una "stagflazione", con effetto sui salari, che vedrebbero decurtato il loro potere d'acquisto e perciò indicherebbero una diminuita capacità di consumo della classe proletaria.

Rivista n. 41