Marx: 1818-2018 (2)

Illuminismo, romanticismo, hegelismo.

Siamo di fronte a un unico filone filosofico? Si può dire. Ma solo per la Germania. Forse è più pregnante la definizione "Epoca romantica". L'illuminismo che prepara la Rivoluzione Francese e che in genere è meglio conosciuto di quello tedesco, più tardo, è al culmine di un processo scientifico materialista quale si vede nell'Encyclopédie. La summa delle conoscenze dell'epoca è rappresentata, in questa meravigliosa macchina per conoscere, da "voci" su uno stesso argomento, stese spesso da differenti autori e messe a confronto, o su argomenti separati, ridotti – con riferimento al riduzionismo – a descrizione, spesso illustrata. Il riduzionismo va affrontato rimanendo ancorati alla complessità del reale, ma è indubbiamente una macchina per conoscere, da Galileo a Kant, attraverso Cartesio, Newton e i redattori dell'Encyclopédie, adopera tasselli separati, argomenti finiti. Volendo, si può risalire agli atomi di Leucippo e Democrito, ai quali si contrapponeva il continuo della scuola eleatica, monista. Parmenide, considerato il fondatore di detta scuola, sosteneva che c'è una differenza sostanziale tra il mondo rilevato dai sensi, molteplice e mutevole regno dell'apparenza, e il mondo del pensiero dominato dalla ragione. Quest'ultimo è l'unico a potersi definire "esistente". L'Essere è dunque esente da contraddizioni, l'unica realtà possibile. Più di due millenni dopo, la filosofia tedesca riprende questi concetti (che del resto non erano mai scomparsi dalla scena filosofica).

La Germania non passa attraverso l'illuminismo, se si eccettua Kant. A differenza dei philosophes francesi, i romantici tedeschi non combattono la religione. La filosofia romantica non affronta il mondo fatto di grandezze discrete, finite, e tenta il salto nel mondo delle grandezze continue, infinite. Dio è una grandezza infinita. Ciò ha qualcosa a che fare con l'insistenza sul cosiddetto Assoluto. È vero che il mondo del continuo è fatto di assoluti, ma noi ci siamo evoluti passando attraverso la facoltà di agire su differenze, costituire insiemi, ordinare pezzi di realtà secondo criteri numerabili. Tante mele ma un flusso di acqua, che però viene subito discretizzato in numero di bicchieri. La trattazione formale del continuo viene tardi, non fa in tempo a far parte del bagaglio evolutivo.

Quando in un modello formale compare un infinito, bisogna correre ai ripari, escogitare espedienti per poterlo trattare. La natura è continua, le cose dell'universo non sono separate, sono in rapporto fra loro. Invece la nostra conoscenza si è maturata plasmando e facendo evolvere i nostri sensi, l'unica fonte, per milioni di anni, di informazione sul mondo. E questa informazione era di tipo discreto, numerabile. Il calore, la luce, l'aria, lo spazio, sono entrati a far parte delle nostre teorie sulla conoscenza da pochi millenni. I romantici, sia nella loro ingenuità, che nella loro spietatezza critica, avvertono che qualcosa non funziona se si cerca di superare il dualismo uomo-natura.

Il tentativo di unire il discreto e il continuo è recente ed è opera scientifica. Gli sforzi precedenti operati dalla filosofia avevano portato a paradossi come quelli di Zenone, che mostrano come il problema fosse sentito, non che si fosse giunti a una sua soluzione. Quando i romantici si accingono ad affrontare il problema della luce e dei colori, Hegel e Goethe entrano in conflitto con Galileo per il metodo e con Newton sul piano dell'esperimento: se prescindiamo dai fotoni, arrivati sulla scena a inizio Novecento, la luce bianca è un fenomeno continuo, ma passando attraverso un prisma si rivela composta da colori discreti. La prova consiste nel ricomporre il bianco facendo passare i colori attraverso un altro prisma. L'elemento soggettivo (la capacità dell'osservatore di recepire i colori) che Newton non prende in considerazione rende la sua teoria corretta anche se incompleta; Goethe ed Hegel negano che i colori dello spettro siano quelli primari che si compongono nel bianco e sostengono che occorre riferirsi al nero: i colori sarebbero un "offuscamento" della luce, il prisma sarebbe un elemento di alterazione dei sensi. I due diversi modi di procedere hanno a che fare con l'argomento che stiamo trattando: Galileo e Newton non avrebbero mai considerato diversi due oggetti che sottoposti a misura risultassero uguali; neppure se i sensi li avessero mostrati diversi. Un osservatore idealista partirebbe dal presupposto che l'insieme oggetto-soggetto è quello che conta, perciò se è diverso l'insieme, anche l'oggetto è diverso. Il metodo galileiano può avere adeguamenti e sviluppi sperimentali all'interno di una teoria perché l'esperimento e la ripetitività fanno parte del metodo. Il metodo idealista è rovesciato: la teoria è un frutto del pensiero, l'esperimento è un accessorio. Rudolf Steiner, seguace di Goethe, nelle sue conferenze sui colori si aiutava con esempi; ma non erano esperimenti, perciò la teoria di Goethe rimaneva quella che era duecento anni prima, una teoria sbagliata. L'omeopatia, che possiamo considerare un prodotto del romanticismo, è una pratica medica che non richiede spiegazione da parte dei sostenitori: nata nel XVIII secolo da un'osservazione empirica, si autosostiene da allora con forza propria, senza un riconoscimento da parte della scienza d'oggi (è un errore "scientifico" rifiutare pregiudizialmente un ambito di ricerca solo perché non supportato da prove).

Anche la teoria della guerra di von Clausewitz è un prodotto romantico dell'epoca. Le immani battaglie napoleoniche, guidate da un principio "assoluto" per il quale la guerra non è altro che la continuazione della politica con altri mezzi, ispirarono un testo che si può considerare come "filosofia della guerra". Von Clausewitz viene considerato un seguace di Fichte con il quale ebbe uno scambio di lettere. La guerra sarebbe interpretabile come un fatto di natura, naturalmente quella dominata dallo spirito: la coscienza di essa non si esprimerebbe attraverso un manuale sul come affrontare situazioni ma attraverso una teoria. La filosofia, anche in questo caso, sarebbe la struttura portante, la scienza sarebbe l'ausilio tecnico.

Sarebbe difficile immaginare come si possa guarire da una malattia o vincere una guerra con tali premesse, tuttavia la scienza sostiene, o dovrebbe sostenere, che della conoscenza acquisita non si butta via niente se prima non si è dimostrato che si può buttare. E anzi, abbiamo detto che la scienza positivista della nostra epoca può essere peggio della scienza di epoche precedenti.

Se volessimo dare un senso al romanticismo, andando oltre ai suoi fondatori e sostenitori, potremmo dire che esso fu un grande tentativo di conciliare discreto e continuo con tendenza a "trascendere" verso il continuo. L'operazione non è riuscita, ma se gli togliessimo questo merito, privilegiando aspetti marcatamente filosofici come quello di emettere opinioni invece di prove basate su leggi, rimarrebbe ben poco e oltretutto esposto con un linguaggio disumano, praticamente incomprensibile. Noi, avversari, cercando di capire che cosa sia successo in Germania in quel periodo, siamo meno intolleranti degli amici.

Il romanticismo, a dispetto della sua dottrina unificante, non è monolitico. Una raccolta di aggettivi ricavati dalle critiche spesso feroci che i romantici stessi muovevano gli uni agli altri è poco edificante: istintivi, sentimentali, fideisti, mistici, irrazionali. In genere si riconosce a Fichte e Schelling una ricerca razionale dell'infinito, ma anche in questo caso si conclude: tentativo non riuscito (Schelling verrà accusato di essere caduto nel misticismo irrazionalistico).

Essendo nemici della scienza, i romantici hanno molti nemici, specialmente sul fronte scientifico positivista. Il quale, naturalmente, abusa del suo nome, essendo nato invece come filosofia. Popper, filosofo liberale, studioso dei problemi legati alla metodologia di ricerca scientifica, è particolarmente astioso nei confronti di Hegel. Quest'ultimo, in quanto rappresentante del percorso idealista giunto al culmine, considerato l'ascendente di Marx, altro nemico di Popper, è particolarmente adatto ad una denigrazione tra filosofi:

"La fama di Hegel è stata costruita da coloro che preferiscono una rapida inizia­zione nei più profondi segreti di questo mondo ai faticosi tecnicismi di una scienza che, dopo tutto, può solo deluderli con la sua incapa­cità di svelare tutti i misteri. Infatti essi ben presto scoprirono che nulla poteva essere applicato con tanta facilità a qualsivoglia proble­ma e nello stesso tempo con tanto impressionante (anche se solo apparente) difficoltà e con un così rapido e sicuro ma imponente suc­cesso, nulla poteva essere usato a così buon mercato e con così pic­cola conoscenza e formazione scientifica, e nulla poteva dare una così spettacolare aria scientifica, quanto la dialettica hegeliana, l'ar­cano metodo che sostituiva la 'sterile logica formale'... l'inizio di una nuova era dominata dalla magia di parole altisonanti e dalla potenza del gergo" (Popper, La società aperta e i suoi nemici).

Popper è un liberale positivista, quindi un chiaro nemico, ma le critiche arrivano anche dal versante degli "amici" idealisti, come Schopenhauer, che è ancora più velenoso:

"Hegel, insediato dal­l'alto, dalle forze al potere, come il Grande Filosofo autentico, fu un ciarlatano di mente ottusa, insipido, nauseabondo, illetterato che raggiunse il colmo dell'audacia scarabocchiando e scodellando i più pazzi e mistificanti non-sensi. Questi non-sensi sono stati chiassosa­mente celebrati come sapienza immortale da seguaci mercenari e prontamente accettati per tali da tutti gli stolti, che così si unirono a intonare un coro di ammirazione tanto perfetto quale non si era mai udito prima. L'immenso campo di influenza spirituale che è stato messo a disposizione di Hegel da coloro che erano al potere gli ha consentito di perpetrare la corruzione intellettuale di una intera gene­razione" (Schopenhauer citato da Popper in La società aperta e i suoi nemici).

Schopenhauer poteva permetterselo: fra tutti gli idealisti celebri, almeno riconosceva una interazione materiale fra natura e cervello:

"Siccome per me ogni forza della Natura è un fenomeno della volontà, così ne segue che nessuna forza può presentarsi senza un sub­strato materiale, e nessuna manifestazione di forza può aver luogo senza qualche modifica­zione materiale. Ciò concorda con l'affermazione dello zoochimico Liebig, che ogni azione dei muscoli, anzi, ogni pensiero nel cervello, deve essere accompagnato da una modificazione chi­mica di materia" (Filosofia e scienza della natura).

Schopenhauer è un filosofo idealista romantico atipico. Kantiano, ferocemente anti-hegeliano, critico di Leibniz e dei codini incipriati, ammiratore di Newton, ha una posizione decentrata rispetto agli altri filosofi del suo tempo in quanto fa incontrare la filosofia occidentale con quella orientale. Leggendolo è facile arguire, anche dal suo linguaggio facilmente comprensibile, che egli è sicuramente un prodotto della crisi di rigetto, dal suo interno, nei confronti della filosofia tedesca.

Sequenza: Kant, Fichte, Schelling, Hegel. Punto.

"Per quel che concerne la coscienza immediata delle cose esterne, ciò non vuole dire altro se non che si ha la coscienza sensibile. Ma l'aver noi siffatta coscienza è l'infima delle conoscenze. Ciò che importa, invece, è conoscere che questo sapere immediato dell'essere, delle cose esterne è illusione ed errore, che nel sensibile come tale non vi è verità alcuna; che l'errore di queste cose estrinseche è piuttosto alcunché di accidentale, di passeggero, un'apparenza" (Hegel, Enciclopedia).

Questa è una pietra miliare dei fondamenti dell'idealismo, sul significato della quale non possono esservi dubbi. Essa va presa alla lettera e implica

"la negazione di qualsiasi esistenza extra-logica… Implica che la materia non abbia verità così come appare fuori e prima del concetto." (Idem).

Nel primo capitolo della Fenomenologia la realtà è data per conoscibile anche se problematica, senza ulteriori complicazioni. Qui invece la sua conoscibilità è affrontata in modo più drastico. Oggi la struttura di pensiero dei romantici fa quasi sorridere, ma proviamo a metterci nei panni di un filosofo tedesco del XVIII secolo che non riesce a digerire i cambiamenti dovuti alla Rivoluzione borghese e si aggrappa a forme di conoscenza non troppo diverse da una religione. Kant considerava "dogmatica" tutta la filosofia che l'aveva preceduto, in quanto che emette enunciati senza sentire il bisogno di una prova. L'illuminismo rivoluzionario pretendeva di avere iniziato a scoprire un ordine interno della natura, ordine che si manifestava attraverso la scoperta di leggi. Kant non nega questo fatto, ma precisa che il vero "legislatore" della natura è l'io pensante. È l'uomo che "vede" leggi in un ordine che egli stesso ha inventato, la natura fa il suo corso senza percepire o scrivere leggi. Kant non era uno sprovveduto, non sentenziava a caso: la natura senza qualcuno che la pensa è una cosa in sé, non può quindi essere oggetto di conoscenza, studio, scoperte, leggi.

Fichte fu più radicale di Kant. Tutta la filosofia prima di lui, Kant compreso, sarebbe dogmatica, cioè avrebbe creduto nel dogma di una realtà indipendente dal soggetto pensante. Avrebbe creduto che la realtà oggettiva venisse prima del soggetto che la pensa. Fichte era convinto che si potesse raggiungere una "fondazione" ultima a partire dalla quale conoscenza, realtà, natura, sarebbero andate a formare un tutto unico con la filosofia, che a questo punto diventa una "dottrina della scienza". Il perché è chiaro a Fichte, molto meno a chi lo legge: la filosofia per lui è l'unica fonte di conoscenza; i suoi principi sono auto-reggenti, cioè spiegano sé stessi. Quindi la filosofia è la vera scienza. In una teoria della conoscenza o si parte dall'oggetto (cosa in sé? Realtà?) o si parte dal soggetto, dalla coscienza. Tutti i filosofi venuti prima di lui, dice Fichte, hanno ragionato partendo dall'oggetto; occorre d'ora in poi partire dal soggetto, dalla coscienza, dall'io. Ciò è sostenuto con una critica minuziosa a Kant: se la cosa in sé è per definizione inconoscibile (se fosse conoscibile non sarebbe una cosa in sé), rimane la coscienza.

"Nell'intelligenza dunque, per usare un'immagine, vi è una doppia serie, dell'essere e del guardare, del reale e dell'ideale; ed è appunto nell'indivisibilità di questa doppia serie che consiste la sua essenza, la quale è dunque sintetica, mentre invece alla cosa non compete che una serie semplice, quella del reale e cioè dell'esser posto. Intelligenza e cosa sono perciò direttamente opposte, si trovano rispettivamente in due mondi, tra i quali non c'è ponte di passaggio" (La dottrina della scienza).

Non ci lasceremo sedurre da questi eccelsi pensieri che riguardano infine l'eterno problema del rapporto soggetto-oggetto. È ovvio, l'argomento richiederebbe considerazioni molto più complesse e "profonde" della succinta e semplificata esposizione che ne possiamo fare qui, ma abbiamo voluto almeno descrivere il panorama che Marx ha davanti agli occhi quando inizia a lavorare ed elaborare, fino a giungere, procedendo per eliminazione, a Hegel e a una nuova visione del mondo. Comunque, per quanto faticosa, la lettura dei filosofi, per quel che ci serve, ci permette di far tesoro della critica reciproca. Conoscendo naturalmente la loro propria materia, e a quali espedienti tutti ricorrano per "dimostrare" le loro proprie scoperte, si demoliscono a vicenda con rara efficacia. La dimostrazione fichtiana della prevalenza universale dell'io passa ad esempio attraverso l'adeguata demolizione della poderosa struttura kantiana. Non è poco.

Fichte non è modesto: con molta convinzione sostiene che tutta la filosofia prima di lui, compresa quella di Kant, va sottoposta a critica. Quando si parla di oggetto, osserva, si innesca immediatamente un dualismo, dato che solo il soggetto può conoscere. La soluzione non può che consistere nell'abbinare oggetto e soggetto in un unico "ente". È un salto che ha qualcosa di grandioso, qualunque cosa voglia dire il superamento oggetto-soggetto in un sistema conoscitivo. Il filosofo-tipo tedesco, costretto nel miserabile ambiente della Confederazione Germanica, sogna in grande per reazione, supera i dualismi, operazione che è la premessa per una teoria filosofica del tutto. L'operazione è difficile, anzi, sovrumana, ma proprio per questo agli occhi dei romantici è attraente e degna di essere sperimentata.

Nel patrimonio scritto che ci ha lasciato la Sinistra, è ribadito esplicitamente: ogni volta che una barriera cade, la rivoluzione avanza; ogni volta che un dualismo viene superato, la nostra teoria della conoscenza si rafforza. Marx non assorbe niente dell'ideologia romantica tedesca, ma prende atto che la condizione particolare della Germania ha permesso il salto a una teoria del tutto. Forse si è anche accorto che Fichte non ragionava in base a un ordine cronologico, prima il mondo, poi un soggetto pensante, poi la sintesi filosofica; si trattava di giungere a una teoria-filosofia universale, dove la sequenza non è tracciata nello spazio-tempo ma in uno spazio suddiviso in fasi.

Schelling si oppone a Fichte sulla realtà della natura e Hegel, allievo di Schelling, eredita questo passaggio. È importante ribadire la posizione reciproca dei due filosofi perché hanno entrambe degli effetti, delle ripercussioni sulla sequenza che porta alla "dissoluzione dell'hegelismo" (Engels). Schelling e Hegel hanno fatto insieme un tratto del loro percorso filosofico. Il primo era più giovane, ma all'epoca del loro sodalizio aveva già raggiunto una certa fama, facendo scuola, mentre il secondo era ancora sconosciuto. Nel 1801, entrambi a Jena, sono considerati maestro e allievo. Lo stesso Hegel, in quel periodo, afferma che per lui la vera filosofia è quella di Schelling, tanto che i biografi commentano: era più schellinghiano dell'originale. Alcuni scritti di Schelling sembrano in realtà esposti con lo stile di Hegel, quasi che il maestro abbia fatto sviluppare all'allievo alcune parti del suo lavoro.

Citiamo questo particolare perché si legge nelle antologie o nelle biografie che essi avrebbero spezzato il sodalizio filosofico e personale a causa delle divergenze teoretiche maturate in quegli anni. In realtà una lettura d'insieme rivela che il dissidio filosofico era secondario, mentre assumeva grande importanza l'atteggiamento di Hegel nei confronti del mondo accademico e della sfera privata. Ora, non si può fare storia di qualsiasi ambito della conoscenza umana assumendo come base la sola psicologia di un individuo. A meno di non pensare che quella psicologia abbia a che fare con la spinta materiale di una particolare concezione del mondo esistente nella società e raccolta da alcuni uomini. Preferiamo pensare a Hegel come prodotto della condizione materiale della Germania così come descritta da Marx piuttosto che pensare allo stesso Hegel come fattore dell'ambiente filosofico.

L'ideologia tedesca senza Hegel non sarebbe andata lontano. Mostrava dei paradossi logici irrisolvibili che solo un salvataggio formale poteva superare. Per giungere a questo risultato occorreva un attacco massiccio con artiglieria di grosso calibro, una panzerkrieg devastante. Se ne occupò il cantore dello stato prussiano, con metodi poco edificanti dei quali non c'importa nulla, unificando la filosofia con la realtà, una realtà molto particolare, cioè molto tedesca. E siccome l'hegelismo si dimostrò materia di esportazione, la filosofia tedesca, invece di elevare la Germania al di sopra del 1789, vi precipitò correnti filosofiche di altri paesi.

Schelling aveva esaltato in Fichte la "scoperta" di un mondo come risultato del soggetto assoluto, risultato possibile grazie a un processo che si svolge all'interno dello stesso soggetto, una specie di autoproduzione come negli organismi viventi. Il fatto però che il mondo oggettivo dipendesse da quello soggettivo poneva problemi difficili da trattare.

Hegel introduce una dinamica nella realtà storica, che rifiuta di ridurre a semplici insiemi individuali, attribuendole una oggettività di cui nei suoi maestri non si trova riscontro. Essendosi interessato ai movimenti sociali, avendo seguito la politica contemporanea e studiato economia, non può affidare il corso della storia a una caratteristica dell'io individuale. L'hegelismo diventa una filosofia militante e semina un meme in grado di influenzare le più disparate correnti politiche; ma non è più compatibile con la situazione del mondo. Questa è la ragione principale per cui un seguace di Marx non può definirsi hegeliano: Marx è l'antitesi dell'ideologia tedesca, da Fichte a Hegel, specialmente nella sua forma ultima.

Hegel in qualche modo si differenzia dalle correnti kantiane e fichtiane: egli vi ha aderito e ne è stato influenzato, ma alcuni biografi (per esempio il filosofo liberale Martinetti) fanno risalire le sue posizioni di fondo addirittura al naturalismo e al razionalismo. La tesi è suggestiva: Hegel avrebbe corrotto la filosofia dei concorrenti infiltrandola con tesi sue travestite da tesi loro.

Marx, che ha respirato quell'atmosfera mefitica, va considerato come mutante (hopeful monster), non più facente parte di questo mondo ma in evoluzione verso un altro (è una sorta di trascendenza anche questa).

Tra il 1847 e il 1848, l'Europa è in subbuglio, matura la rivoluzione. Marx ed Engels pubblicano il Manifesto a Londra il 21 febbraio del 1848. Da dove scaturisce un testo di una simile potenza? È atipico, difficile da collocare in una evoluzione sociale, impossibile da catalogare fra i testi prodotti da quella rivoluzione. In chi o in che cosa va individuata la filogenesi del Manifesto? Non nella Lega dei Giusti, non nella Lega dei Comunisti, non nel socialismo dell'epoca in generale, criticato proprio nel Manifesto.

Forse nella filosofia? Se così fosse, come valutiamo la feroce critica alle condizioni tedesche? E poi: è possibile che Marx abbia Hegel come unico antenato? Questo è poco credibile, e non solo perché Hegel è il bersaglio principale della sua critica alla filosofia. Non resta che analizzare quel poco che Marx dice della società tedesca e di sé stesso e, l'anticipiamo, scopriremo un mondo più vasto di quanto sia abitudine ammettere.

Perché questa "abitudine"? Pigrizia mentale o incapacità di adoperare la tanto osannata dialettica? Incominciamo da quello che potrebbe essere un assioma: il materialismo obbliga a cercare i fattori invece di fermarsi ai prodotti. È vero che il Manifesto si presenta come un fulmine a ciel sereno, ma per ogni scintilla dev'esserci un accumulo di potenziale fra i reofori.

1837. Lettera al padre

Berlino, 10 novembre 1837. Marx ha 19 anni. E descrive il tormentato cammino della propria formazione. Nel rispetto del programma scolastico deve occuparsi di filosofia classica, ma al padre confessa di leggere i contemporanei. E non solo filosofi.

"Cercai di immergermi nella scienza e nell'arte… Conformemente alla mia situazione ed a tutto il mio sviluppo precedente, [la mia letteratura] era puramente idealistica. Un'assoluta mancanza di naturalezza, costruzioni del tutto chimeriche, il più completo contrasto tra ciò che è e ciò che deve essere, riflessioni retoriche invece di idee poetiche."

Marx sa bene che la sua formazione di base ha radici nell'idealismo romantico. Le sue opere poetiche giovanili lo attestano. D'altra parte, è anche cosciente del fatto che quelle basi sono per lui, insieme, necessarie e insufficienti. Sembra che esse gli siano in qualche modo ancora utili, che faccia fatica a staccarsene pur avendo più volte tentato di cambiar direzione, di imboccare altre strade, come ricorda.

"Prima veniva quella che io avevo benevolmente battezzato metafisica del diritto, e cioè principi, riflessioni, determinazioni concettuali stac­cati da ogni diritto reale e da ogni forma reale del diritto, come è il caso in Fichte… A ciò si aggiungeva, costituendo in anticipo un ostacolo alla compren­sione del vero, la forma non scientifica del dogmatismo matematico — in cui il soggetto si aggira sulla cosa, e va ragionando di qua e di là — senza che la cosa stessa si configuri come qualcosa di vivente che si dispiega in tutta la sua ricchezza. Il triangolo lascia che il matematico costruisca e dimostri, esso resta una semplice rappresentazione nello spazio, non si sviluppa in nulla di ulteriore; bisogna che lo si porti vicino a qualcos'altro, allora assume altre posizioni, e questi elementi messi variamente in relazione con esso gli conferiscono diversi rap­porti e diverse verità."

Marx riprende questa osservazione da Fichte, da Schelling e soprattutto da Hegel, ma le dà un'interpretazione diversa. Secondo gli idealisti, l'idea del triangolo precede il triangolo esistente in natura. Il teorema di Pitagora vale per tutti i triangoli rettangoli indipendentemente dal fatto che Pitagora l'abbia scoperto; il teorema di Pitagora, quindi, farebbe parte di un mondo assoluto in cui Pitagora è andato a curiosare. Hegel mostra avversione ideale verso i modelli analitici, che pure sono a fondamento della scienza; Marx annota semplicemente che essi hanno dei limiti esplicativi e che possono essere affiancati o sostituiti da modelli dinamici. Sarà il computer, un secolo dopo, a rendere possibili modelli di simulazione dinamica.

"L'oggetto stesso deve essere silenziosamente spiato nel suo sviluppo, non debbono essere introdotte suddivisioni arbitrarie, la ragione della cosa stessa deve svolgersi come qualcosa di in sé con­flittuale e trovare in sé la sua unità".

Questo svolgersi autopoietico dell'oggetto potrebbe essere derivato da Schelling. Marx stava cercando il nesso tra i comparti in cui l'uomo ha racchiuso la propria conoscenza. Non riuscendo a ricavare una risposta convincente dai filosofi, cercò di giungervi attraverso una ricerca appassionata:

"D'altra parte, così riuscii, almeno in certa mi­sura, ad appassionarmi alla materia e ad acquistarne una visione d'insieme... Mi accorsi dell'erroneità del­l'insieme, che nello schema fondamentale si accosta a quello kantiano, ma se ne allontana del tutto nell'esposizione, e di nuovo capii che senza filosofia non si poteva venire a capo di nulla. Così potevo but­tarmi un'altra volta nelle sue braccia con coscienza tranquilla, e scrissi un nuovo sistema metafisico di base, alla cui conclusione fui daccapo costretto a riconoscere l'assurdità di esso e di tutte le mie fatiche pre­cedenti... Come per un colpo di bacchetta magica, — ah! il colpo fu al­l'inizio sconvolgente — il regno della vera poesia mi balenò davanti come un lontano palazzo di fate, e tutte le mie creazioni si dissolsero nel nulla."

Da notare che Marx prova reiteratamente a imboccare nuove strade ma finisce per trovarle impraticabili rispetto al proprio programma. La delusione lo fa ammalare:

"Un medico mi consigliò la campagna, e fu così che per la prima volta, attraversata la città in tutta la sua lunghezza, capi­tai fuori porta, a Stralow. Non immaginavo affatto che là, da un ado­lescente gracile ed anemico quale ero, mi sarei trasformato in un giovane dal corpo saldo e robusto… Un sipario era caduto, il mio sacrario era spezzato, e nuovi dèi do­vevano essere insediati."

Interessante questo abbinamento fra salute fisica e salute mentale: insieme al corpo che si irrobustisce, anche la mente non rimane inerte e cerca nuove strade. Passando dall'idealismo, che a questo punto, cosciente o incosciente Marx abbandona, egli arriva a sentire che l'idea è da cercare nella realtà (natura):

"Dall'idealismo — del quale, sia detto per inciso, erano stati per me modello ed alimento quello kantiano e quello fichtiano — giunsi a cercare l'idea nella realtà stessa. Se prima gli dèi avevano abitato al di sopra della terra, ora ne erano divenuti il centro."

Questa è l'unione tra realtà e idea che, come abbiamo detto, è tipica di Fichte e Schelling. Fichte specialmente sottolinea che tutto il suo lavoro sull'idea trascendente è finalizzato a strappare a forza l'uomo dal sensibile per collocarlo, anzi elevarlo al sovrasensibile (Prefazione a La missione dell'uomo). Significativa anche l'immagine degli dei, strappati dal mondo iperuranico e incorporati al centro della Terra.

Questo che segue è uno dei passi più importanti della lettera di Marx. Dichiara di aver letto frammenti di Hegel e che non gli sono piaciuti (grotteschi e rupestri, qualcuno traduce rocciosi). Si rituffa nel mare dell'idealismo, ma questa volta armato di un argomento da cercare, non da farsi dettare: spirito e materia sono la stessa cosa, la stessa necessità (ricordiamo che qui necessità vuol dire determinismo non consapevole).

"Avevo letto frammenti della filosofia di Hegel, la cui grottesca melodia rupestre (Felsenmelodie) non mi era piaciuta. Volli ancora una volta tuffarmi nel mare, ma con la ferma intenzione di trovare la natura spirituale al­trettanto necessaria, concreta e saldamente conchiusa di quella fisica… Scrissi Cleante, o del punto di par­tenza e del necessario svolgimento della filosofia… Qui si univano in certa misura l'arte e la scienza, che prima si erano del tutto separate; come un robusto camminatore mi accinsi a quest'opera, intesa a mo' di un dispiegarsi filosofico-dialettico della divinità, così come questa mani­festa sé stessa come concetto in sé, come religione, come natura e come storia… Questo lavoro, per il quale mi ero procurato una certa conoscenza della scienza della natura, di Schelling e della storia, che mi era costato una fatica infinita, ed è scritto in un modo tale che adesso io stesso stento ad addentrarmici di nuovo col pensiero; questa mia creatura predi­letta, nutrita al chiaro di luna, mi porta come una sirena ingannatrice tra le braccia del nemico."

Senza uscire dalla prigione dell'idealismo non gli è possibile trovare le cose che cerca (e che ha già individuate). La malattia gli regala il tempo di leggere tutto Hegel.

"Durante la mia malattia avevo letto dal principio alla fine Hegel, insieme alla maggior parte dei suoi discepoli."

Riesce a non impazzire, ma non fa un commento: lo trova ancora grottesco e rupestre? Gli è in qualche modo ancora utile? Non ce lo dice. Leggendo tra le righe sembrerebbe un po' intossicato:

"Mi legai sempre più saldamente all'attuale filosofia del mondo, alla quale avevo pensato di sfuggire: ma ogni armonia si era ammutolita, e fui preso da una vera smania di ironia, come era assai facile che avvenisse dopo tante cose negate."

Armonie ammutolite, smania di ironia, troppe cose negate. Ma nello stesso tempo legame sempre più stretto con l'attuale filosofia del mondo. Come mai "filosofia del mondo"? non bastava "filosofia"? Non ci sono dubbi: la prima formazione di Marx è fortemente segnata dall'illuminismo idealistico e romantico tedesco, che aveva una filosofia del Mondo, cioè del tutto; segnata cioè dalla corrente Kant, Fichte, Schelling (Aufklärung). Non ci sono segni, in questo programma di lavoro, di una particolare preferenza per Hegel. Anzi.

Quale interesse ha per noi l'idealismo romantico tedesco?

Marx non ha contratto debiti con l'idealismo. Non con Hegel, nonostante sia questa l'opinione più diffusa, ma nemmeno con gli altri portatori di "ideologia tedesca". Se nella lettera al padre ammette di essere stato influenzato da quell'ambiente, lo fa risalendo a Kant e Fichte. Schelling viene nominato una volta sola a proposito della filosofia della natura "che studia con fatica infinita". Dice di aver letto tutto Hegel, benché non gli piacesse. Conosce Bauer, frequenta la sinistra hegeliana, ma poi, sopraffatto da uno spirito di ironia, la abbandona come si abbandona un nemico nelle braccia del quale si è momentaneamente caduti.

Quale può essere il suo rapporto con l'Aufklärung? L'interlocutore di Marx non è un movimento, è un insieme fatto di individui. La filosofia ha un tratto distintivo rispetto alla scienza: è soggettiva. Ogni filosofo tedesco non può fare a meno di esprimere in qualche forma la condizione in cui vive, ma questa condizione è quella molto particolare che plasma un uomo tedesco senza un territorio nazionale tedesco entro il quale l'aggettivo abbia un senso. Continua il giovane Marx nella Critica alla filosofia del diritto:

"Noi tedeschi abbiamo vissuta la nostra storia futura nel pensiero, nella filosofia. Noi siamo i contemporanei filosofici del presente senza esserne i contemporanei storici. La filosofia tedesca è il prolungamento ideale della storia tedesca. Se dunque noi critichiamo anziché le oeuvres incomplètes della nostra storia reale le oeuvres postumes della nostra storia ideale, la filosofia, la nostra critica si ritrova invero in mezzo ai problemi dei quali il presente dice: that is the question. Ciò che presso i popoli progrediti è rottura pratica colle moderne condizioni dello Stato, in Germania, dove tali condizioni ancora non esistono neppure, è innanzi tutto rottura critica con il riflesso filosofico di tali condizioni."

Altro che discendenza. Isolando l'elemento che riassume in sé l'intera ideologia tedesca, l'obiettivo da abbattere si fa chiaro e inequivocabile: analisi critica dello stato moderno e negazione del modo della coscienza tedesca, riassunto nella filosofia speculativa del diritto:

"La filosofia tedesca del diritto e dello Stato è l'unica storia tedesca che stia al pari col moderno presente ufficiale. Perciò la critica della filosofia dello Stato e del diritto, che con Hegel ha ricevuto la sua ultima forma più conseguente e più ricca, è l'una e l'altra cosa, sia l'analisi critica dello Stato moderno e della realtà ad esso connessa, sia la decisa negazione di tutto il modo precedente della coscienza politica e giuridica tedesca, la cui espressione più eminente, più universale, elevata a scienza, è appunto la filosofia speculativa del diritto" (id.).

I filosofi tedeschi dell'Aufklärung non sono legati da un vincolo nazionale. C'è chi viene dalla Baviera, chi dalla Sassonia, chi dalla Svevia o chi dalla Prussia. La Germania dell'epoca non è uno stato, è una confederazione di 39 staterelli. La particolare soggettività in cui si trova l'individuo si riflette nella sua filosofia, ed è una soggettività senza ancoraggi profondi. La confederazione germanica produce in quel periodo più filosofi (in buona parte teologi), di quanti ne produca l'intera Europa, ma non esiste una forza unitaria in grado di utilizzare maestria e talento, quando ci sono. Non trovando compattezza nella loro soggettività, la maggior parte dei filosofi finisce col dire e scrivere cose roboanti ma senza costrutto, precipitando spesso nell'esoterismo. Coloro che emergono devono darsi una base seria per essere presi sul serio. La filosofia tedesca dovrà "compenetrarsi" con l'Io assoluto, non con una meccanica risorsa razionale ma con sentimento e intuizione. Al posto del panteismo scientifico dei rivoluzionari francesi, i filosofi tedeschi adottano o elaborano un panteismo dell'Io. Una specie di mistica.

Come comanda la nuova "dottrina del tutto", raggiungono così, senza esserne consci, innegabili risultati sulla strada di una concezione unitaria del mondo, che alcuni dicono superare anche quelli cui erano pervenuti Kant e Fichte.

Affermando la prioritaria esigenza di unità nel conoscere, pur senza aggiungere novità rispetto alla generale concezione del mondo, i romantici tedeschi in un primo tempo progrediscono rispetto a Kant e Fichte con un lavoro minuzioso e, anche se non ne vedono gli sbocchi, introducono una visione modificata dell'universo. E scoprono l'inconscio, cioè tutto quell'insieme di azioni e comportamenti che si collegano al mondo involontario dell'azione umana.

Indagando sui legami tra natura e spirito, separati da un abisso che sembra incolmabile, finiscono per modificare il rapporto fra l'una e l'altro. Essendo la natura incosciente, essa è interpretata come "notte dello spirito", una specie di passato inerte di quest'ultimo. La nuova filosofia della natura si dedica a superare l'abisso considerando il mondo materiale come sviluppo graduale della coscienza. L'aspirazione, non realizzata, è quella di trattare il mondo come un immenso organismo vivente, i cui caratteri generali si riflettono in ciascuna delle sue parti in una struttura che oggi definiremmo "frattale". Di fatto, anche se il processo non è esplicito, in questa visione "olistica" dovrebbero scomparire le distinzioni dualistiche fra materia inorganica e materia vivente, fra corpo e anima, fra natura e spirito, fra maschile e femminile. In realtà si tratta di una tendenza, dato che sussiste la dicotomia fra materia e pensiero, ma essa è trattata come una polarità: non è più prioritario uno dei due poli ma entrambi partecipano ad una unità più vasta perché presuppongono una relazione indissolubile tra le varie particolarità dell'universo.

Questo tentativo di unificazione deve aver colpito Marx se ve n'è traccia nella lettera al padre. Indubbiamente quei filosofi erano inclini ad accettare quelle che erano all'epoca quasi superstizioni. Credevano che il magnetismo animale fosse unico in tutto l'universo e che detta forza vitale unisse l'uomo con le sfere celesti. Credevano che il moto dei pianeti fosse dovuto a tali forze spontanee e quindi non si sentivano in contraddizione antiscientifica quando si rivolgevano all'astrologia, perché lo facevano rimanendo fedeli ai loro principi unitari del mondo. Non sappiamo come potessero far rientrare in una qualche razionalità anche le sedute spiritiche, e certo una smisurata concezione dell'Io non li aiutava a sviluppare dottrine confrontabili a quelle che maturavano nei paesi non tedeschi.

Odiavano Newton, che consideravano, a ragione, come il principale esponente del meccanicismo, come colui che aveva tolto la vita ai corpi celesti trattandoli alla stregua di masse inerti; colui che aveva privato l'universo dell'aura mistica e l'aveva rapportato a un grandioso sistema basato su leggi fisiche e non su pensieri. Nella sua dottrina vedevano il vero lievito del materia­lismo: chi nega il vitalismo degli astri nega quello della Terra, nega l'uomo e deve infine negare lo stesso Dio. Se siamo fatti di materia inerte non è possibile alcuna evoluzione. C'è un poco di Epicuro nei romantici tedeschi del primo '800. Goethe li rappresentava tutti in quanto vedeva la natura come "vestito vivente della divinità"; con l'arte essi tentavano di supplire all'insufficiente ricorso alla scienza.

In Hegel il presupposto della critica a Newton non è di tipo razionale: egli prescinde da leggi, scoperte o verifiche. Le sue pagine dedicate alla natura dimostrano che, nonostante la sua idea del divenire storico, quando parla del mondo fisico non ne ha una visione dinamica. Non affronta i passaggi evolutivi dal rinascimento a Galileo-Newton, all'illuminismo enciclopedico. Quando parla delle leggi del moto e della gravitazione mette insieme parole che sono per noi prive di senso; quando deve parlare degli elementi adopera criteri aristotelici. È fin troppo evidente che è ben lontano dal capire ciò di cui sta parlando, e non se ne preoccupa nemmeno perché il metodo scientifico moderno non rientra nel suo modello universale.

Contrariamente a quanto afferma Mehring, Marx non legge affatto Hegel come leggerebbe un maestro: semmai lo legge per evidenziarne i limiti. Del resto, non è l'unico. Feuerbach, che invece era stato hegeliano, rappresentava una evoluzione dall'idealismo al materialismo. In Marx non c'è evoluzione ma rottura. Dice Engels di Feuerbach:

"La sua evoluzione è quella di un hegeliano, a dire il vero non del tutto ortodosso, verso il materialismo; evoluzione che porta, ad un punto determinato, a una rottura totale col sistema idealistico del suo predecessore" (Feuerbach e il punto d'approdo…).

Feuerbach come "rottura totale" rispetto a Hegel. E Marx invece no? Non sarebbe neppure all'altezza di Feuerbach? È noto che Engels avvalora la tesi di una discendenza di Marx e Feuerbach da Hegel. Ciò è in gran parte inevitabile perché effettivamente il materialismo tedesco è una reazione all'idealismo; e caposcuola dell'idealismo, il punto al culmine, fu Hegel. Ma se "rottura totale" ha senso, e l'ha; se "metodo scientifico" ha senso, e l'ha; se "concezione monistica dell'universo" ha senso, e l'ha, allora Marx non ha ereditato il sistema hegeliano rovesciandolo, bensì ha registrato nel proprio DNA filosofico-scientifico una mutazione genetica che ha dato corso a una nuova specie vivente.

Hegel come generatore di mappe chiuse

Nell'idealismo, la preminenza dell'idea sulla materia non è tanto una questione epistemologica quanto ontologica, cioè l'indagine idealistica non ripiega sul soggetto perché sia difficile o impossibile conoscere l'oggetto, bensì per il fatto che la natura (o Dio) ci ha dotati di un pensiero e lo dobbiamo adoperare ponendolo al di sopra di tutto. Noi siamo degli esseri darwiniani, il nostro codice genetico si è evoluto attraverso la selezione naturale che ha fissato caratteri ereditari plasmati sulla necessità di perpetuare la specie ad ogni costo. Ciò significa che la nostra percezione è prepotentemente orientata alla salvaguardia di ogni individuo con il suo bagaglio di istinti e conoscenze acquisite, in poche parole alla salvaguardia di quello che chiamiamo "pensiero". Anche quando l'azione diventa collettiva sussiste l'emulazione, l'agonismo, il primeggiare. Tutto ciò viene razionalizzato dal pensiero attuale fino a diventare in alcuni casi filosofia, ma non è stato sempre così.

Non si spiega diversamente la repulsione idealistica per la scienza (salvo chiamare "scienza" il proprio orizzonte di ricerca). La scienza è il superamento positivo dell'istinto e quindi è "rovesciamento della prassi", progetto. La filosofia è altro, non si occupa di progetto, non "conosce per", pretende di conoscere e basta. Marx al contrario afferma che l'uomo è veramente tale quando diventa industria, quando trasforma la materia, produce. È interessante ciò che sull'argomento ci dice la scuola di Geymonat. Nella grande Storia del pensiero filosofico e scientifico, alla voce "Hegel" (curata da Enrico Rambaldi) si dice in apertura che non si può capire il filosofo senza fare i conti con ciò che questi intendeva per scienza, senza dare una spiegazione razionale al fatto che, riguardo alla "filosofia della natura", sostenne per tutta la vita "concezioni profondamente erronee". E non si può studiare Hegel prescindendo da questi errori perché essi furono la causa, anche se non unica, "della gravissima frattura, creatasi dopo Hegel, fra il pensiero scientifico e larga parte del pensiero filosofico europeo".

Un sistema titanico come quello costruito da Hegel, proprio per la sua presunzione di spiegare l'universo esclusivamente attraverso il pensiero, dovrebbe essere auto-consistente, come cercavano di esserlo i sistemi unitari dei filosofi suoi contemporanei. Accettare invece un sistema che riguardo alla scienza conteneva "concezioni profondamente erronee" significava minare alle basi la credibilità del tutto. Non c'è genio filosofico che tenga quando nella propria Weltanschauung , la propria concezione del mondo, si pubblicano sciocchezze, specie su argomenti, come ad esempio la legge della gravitazione, già condivisi da secoli dalla comunità scientifica e diventati assiomi inattaccabili. L'attacco violento a Newton era tanto più grave in quanto si scagliava contro il metodo scientifico in generale: contro la matematica che ci permette di formalizzare i fenomeni e operare su modelli generalizzabili, e contro l'esperienza, che ci permette di ottenere verifiche sperimentali degli assunti teorici. Senza queste basi, da Galileo in poi, qualunque sistema filosofico diventa sterile, esce dal mondo reale per collocarsi in un limbo dove si può dire tutto e il contrario di tutto. Questa è già la malattia storica della filosofia, ma con Hegel diventa un cancro che semina metastasi, come riconosce, seppur con ingiustificata cautela, Rambaldi.

Citiamo, di Hegel, alcune frasi sul fenomeno della gravità.

"L'attrazione è, in generale, soltanto la rimozione dell'esteriorità reci­proca e dà luogo a mera continuità. La gravità, per contro, è la riduzione della particolarità, tanto scomposta quanto continua, all'unità come rela­zione a sé negativa, cioè alla singolarità, a un'unica soggettività (soggetti­vità, tuttavia, ancora del tutto astratta). Nella sfera della prima immediatezza della Natura, però, la continuità essente-fuori-di-sé non è posta ancora come sussistenza; solo nella sfera fisica, infatti, comincia la riflessione-entro-sé materiale. La singolarità, pertanto, è data, sì, come determinazione dell'Idea, ma qui, nell'imme­diatezza, è fuori della materialità.

La legge scoperta da Newton invece recita:

"Due corpi agiscono l'uno sull'altro con una forza che varia in proporzione inversa al quadrato della distanza tra loro e che varia in proporzione diretta al prodotto delle loro masse… Un corpo reagisce a una forza accelerando, ossia cambiando ogni secondo la sua velocità in maniera inversamente proporzionale alla sua massa" (Feynman).

Nell'Enciclopedia di Hegel la parte sulla filosofia della natura accosta pagine e pagine di mere "opinioni" sul suono, sugli elementi, sull'astronomia, senza naturalmente che compaia una frase che dia una qualche certezza. Le sue considerazioni sui fenomeni che affronta si riducono a sentenziosi enunciati. Una delle più eleganti formalizzazioni matematiche dei fenomeni naturali, una delle più potenti semplificazioni (modelli) che danno ragione delle leggi di natura, quella di Newton sulle leggi del moto e della gravitazione, è irrisa; com'è irrisa la sua teoria dei colori, o, con curiosa noncuranza, la tavola degli elementi di Lavoisier (1789), anticipatrice di quella di Mendeleev (1869), alla quale è contrapposto uno schema alchemico medioevale.

Sappiamo, non è una novità, che il cervello a riposo produce sogni, cioè configurazioni materiali di neuroni accesi/spenti che sembrano realtà ma che sono un suo surrogato. Lo sappiamo, ma nonostante ciò c'è ancora chi giura sulla preminenza del pensiero sull'essere o assunti del genere. C'è di sicuro ancora qualcuno capace, leggendo queste pagine, di infiammarsi contro lo "scientismo positivista", scattando in difesa di millenarie credenze invece di studiare i cambiamenti che intervengono nella conoscenza, specie in seguito alle rivoluzioni (e comunque, anche senza rivoluzioni, bisogna essere ciechi per non accorgersi che è in atto un movimento di unificazione delle conoscenze un tempo separate).

Schelling come generatore di mappe aperte

Abbiamo visto che l'idealismo in genere tratta i problemi della conoscenza dal punto di vista ontologico, cioè da quello di una materialità del mondo la cui conoscenza non deriva da indagine ma da semplice osservazione, alla quale si contrappone il fermento attivo del pensiero. All'interno del corso idealistico è però individuabile una corrente di ricerca che si basa sul presupposto che il mondo materiale sia da trattare come fase transitoria del pensiero, quindi da un punto di vista epistemologico, indagabile come un dato di fatto sul quale non si ha informazione sufficiente ma si può trovare. Questo mondo in fase di transizione (trascendente?) avrebbe proprietà euristiche, cioè permetterebbe un'indagine tesa ad aumentare la conoscenza su sé stesso. Schelling è a favore di questa tesi, e abbiamo visto che lo dice chiaramente individuando alcuni processi naturali di smaterializzazione. È chiaro che egli sfiora la magia quando paragona il magnetismo allo sviluppo di un'intelligenza della natura, ma intanto apre la possibilità di intaccare la concezione esclusivamente soggettiva. Quando dice che la scienza della natura giungerebbe alla sua massima perfezione se riuscisse a "spiritualizzare" tutte le leggi dell'universo, e in appoggio a questa tesi richiama alcuni esempi di smaterializzazione tratti dalla realtà (gravità, luce, magnetismo), non cade soltanto in una ingenuità, ribadisce un programma che è storico e non individuale.

La natura, scrive il filosofo, tende a manifestarsi con lo spirito (intelligenza), tant'è vero che in alcuni suoi fenomeni sparisce la materialità. Questi tentativi falliti di autocoscienza sono dei semilavorati abbandonati sulla strada della trascendenza, mentre la formalizzazione in leggi è prodotto maturo del pensiero. Il movimento verso il pensiero è quindi insito nella natura. A noi può sembrare una follia ma, a parte l'ambiente filosofico che digerisce ben altro, questa "idea" evoca una osservazione comune nell'ambiente positivista del tardo Ottocento: l'uomo non è altro che un espediente della natura per darsi memoria e intelligenza. Si trasforma l'oggetto "natura" in soggetto e si è fatto un passo verso la Grande Unificazione (e questa è una ricerca che il romanticismo tedesco ha in comune anche con la scienza contemporanea) senza più scomodare Trascendenze, Divinità e Assoluti. Facciamo un passo e, riportata la natura a soggetto, la facciamo capace di auto-organizzare la materia, la quale, evolvendo in miliardi di anni, giunge a forme viventi e infine intelligenti. Ancora un passo e con la meccanica quantistica potremmo scrivere il romanzo "ritorno a Schelling": le correnti estreme della fisica attuale sostengono che la materia non è altro che l'informazione da noi posseduta su di essa. Siamo ritornati a "una perfetta teoria della natura", non solo immaginata ma realizzata: la natura si è dissolta in una intelligenza immateriale, l'informazione.

I filosofi che oggi riabilitano Schelling dipingendolo meno idealista romantico di quanto non fosse (vedremo che gli attribuiscono un rovesciamento del Cogito ergo sum cartesiano), tutto sommato lo sminuiscono. Se facciamo il confronto fra i testi di Hegel e di Schelling, si coglie subito una differenza importante: benché entrambi i filosofi si dispongano a speculare sulla trascendenza dalla natura al pensiero, il primo si infila in un tunnel, il secondo si lascia uno sbocco per immaginare una natura che in qualche modo si dà un'intelligenza. Nel libro sulla trascendenza da cui abbiamo già tratto una citazione, più di duecento pagine vengono dedicate ai modi e al significato di tale trascendenza, ma intanto si è profilato un problema, anche se non risolto. L'apodittica hegeliana porta a un sistema chiuso, l'incertezza schellinghiana può addirittura evocare costruzioni teoretiche attuali, che vorrebbero l'intelligenza prodotto di un'evoluzione finalizzata. Se la natura si dà un'intelligenza facendo comparire l'uomo, se non c'è né caso né necessità, questo mondo è il risultato di processi evolutivi, abbastanza ben conosciuti, che hanno dato luogo a un'intelligenza non solo individuale e sociale ma diffusa, macchinizzata, che tra l'altro continua ad evolvere tutto intorno a noi. In qualche modo, i romantici avevano la capacità potenziale di innescare processi euristici.

Oggi si sa che natura e intelligenza non vanno trattati come se un insieme logico potesse contenere sé stesso. Ci vuole sempre un sistema di livello superiore per rendere completo e conoscibile quello di livello inferiore. Schelling sbaglia la mira sull'obiettivo reale, Hegel costruisce un obiettivo col pensiero e lo colpisce col pensiero. In questo modo non sbaglia mai. Può essere un metodo gratificante, certo; e infatti ha avuto successo.

L'idealismo romantico pecca allo stesso modo, ma almeno lo fa entro un quadro evolutivo che contiene in sé i germi del riscatto, elementi in grado di suggerire e permettere un apprendimento. L'hegelismo non è affrontabile in una ricerca critica, perché essa non può essere condotta con argomenti e linguaggio dai contenuti empirici. Per dirla alla Popper, Hegel non è falsificabile. Provi il lettore a confutare qualche frase di quelle citate (senza esagerare con l'impegno, perché siamo già quasi nella situazione rilevata da Aristotele: chi critica la filosofia con ciò stesso filosofeggia).

Il padre di Marx aveva voluto che il figlio studiasse a Berlino. All'inizio dell'800 questa scelta significava presentarsi nell'anticamera delle varie strutture dello stato prussiano. Entrare a far parte della élite politica, amministrativa e giudiziaria della Prussia richiedeva il pagamento del biglietto d'ingresso. Berlino era un laboratorio, non nel senso moderno di luogo dove si sperimenta e si produce, ma luogo dove si fabbricavano i custodi della reazione tedesca. Marx studia a Berlino e si laurea a Jena.

Nella lettera al padre, Marx espone il suo piano di studio e questo comprende inevitabilmente Kant, Fichte, Schelling e Hegel. Feuerbach verrà dopo, e quindi si può affermare con certezza che l'approccio del giovane Karl alla filosofia sia avvenuto attraverso l'idealismo romantico prima che attraverso altre correnti. Ce lo dice lui stesso e d'altra parte non poteva essere diversamente. Da notare che nella lettera Kant, Fichte e Schelling vengono citati come momenti di apprendimento nella maturazione, mentre Hegel compare come un capitolo a sé che bisogna studiare per forza, una rupestre melodia, come abbiamo già citato, poco gradevole all'orecchio.

Sono dunque Kant, Fichte e Schelling che aprono l'orizzonte al giovane, combinando filosofia, religione e scienza. È Schelling che apre la propria prima stagione portando a compimento il programma di Fichte oggettivando definitivamente la natura e aprendo la strada alla Naturphilosophie. È Schelling che, modificando il proprio programma in corso d'opera, giunge alla sua seconda stagione, una filosofia identitaria, nella quale il pensiero non affianca lo spirito ma è la stessa cosa e, in quanto tale, è la base su cui edificare un sistema dove Dio, spirito, filosofia e natura sono un tutto organico, come un organismo vivente. La terza stagione, coronamento delle due precedenti, è l'opposizione fra la filosofia negativa, quella che separa invece di unire ma fingendo di unire, come quella di Hegel, e quella – positiva – che non si accontenta di far dialogare la filosofia con la natura o entrambe con Dio ma li considera un Blocco Autosufficiente e quindi Autocosciente.

In Fichte la conoscenza era un tramite di legami, era volontà (essenza) in grado di sottomettere la natura (esistenza); in Schelling è amplificata l'auto-esistenza del mondo oggettivo. La natura non può essere solo "compresa" dall'indagine empirica e dalla teoria scientifica: può e deve essere interpretata come una realtà che di per sé produce conoscenza su sé stessa, magari attraverso la nostra intuizione o capacità speculativa. Da questo punto di vista si capisce che la natura è un organismo universale dotato di un'anima conseguente, un po' come immaginava Platone, ma diversamente da quanto pensavano alcuni illuministi francesi non idealisti approdati al panteismo.

Schelling, stranamente, battezzò il suo sistema "Idealismo trascendentale". Stranamente, perché si trascende da un livello inferiore a uno superiore, mentre sembra di capire che questo universo unitario autocosciente e auto-operante è già per conto suo al livello superiore. Comunque, a noi non interessa partecipare a un dibattito filosofico fuori secolo; a noi interessa constatare che il periodo in cui Marx studia, in cui perciò non può fare a meno di essere "allievo" di qualcuno o di qualcosa, produce in lui considerazioni sul tutto organico autocosciente che fa da culla alla rivoluzione e, soprattutto, produce in lui una critica profonda a una ideologia della libertà "del cinghiale", che va sostituita con il passaggio dal regno della necessità al regno della libertà, intesa quest'ultima come progetto sociale. Kant e Fichte avevano teorizzato un sistema che giungeva al suo apice attraverso la morale come fatto soggettivo. Schelling teorizzò che la mente soggettiva funziona piuttosto come nell'atto creativo di un artista: di getto, si ha subito il risultato. Anche la natura produce risultati subitanei. Abbiamo dunque il genio umano dell'artista che funziona come la natura e la natura che funziona come il genio umano. Solo che la natura lo fa automaticamente, mentre il genio lo fa intenzionalmente. Tutto ciò ricorda assai da vicino la riunione di Firenze del 1960 sulla teoria della conoscenza, tenuta da Bordiga, specie nel finale dove il relatore grida il manifesto della rivoluzione oggettiva, quella che rovescia la prassi a partire dall'intuizione e dall'istinto per arrivare al partito.

Si dice che Hegel, pur impressionato e affascinato dal sistema dell'amico, lo trovasse irrazionale, per cui Schelling modificò il sistema ponendogli alla base le vecchie dicotomie, il finito e l'infinito, l'oggettivo e il soggettivo, il reale e l'ideale, ecc. Il guaio di questa impostazione, i cui elementi costitutivi sono l'uno il contrario dell'altro, non permette la formazione di insiemi logici. L'autocoscienza dev'essere anche autoconsistenza, assenza di contraddizione. Un insieme non può contenere tutto e il contrario di tutto e pretendere di spiegare l'universo. Questo sistema rimase incompiuto.

Marx è un materialista della complessità. Se analizziamo il linguaggio e il contenuto delle teorie dei filosofi che egli ha studiato, vediamo da chi può essere stato influenzato. In questo senso si potrebbe inserire Hegel nella linea genealogica di Marx: non perché Marx sia stato un suo continuatore, ma perché Hegel è stato un elemento di selezione darwiniana nel tragitto della teoria della conoscenza. Se non fosse stato così, avremmo un Marx tributario di tutto l'idealismo romantico sul quale invece egli scatena un bombardamento a tappeto. Il mondo organico (in senso biologico) di Schelling è molto più carico di promesse che non le vuote costruzioni enigmistiche di Hegel. E ancora una volta è la religione che traccia il confine. Nell'ultima stagione di Schelling, quella di Berlino, Dio esce dalla concezione medioevale che pretendeva di dimostrare la sua natura per via speculativa (negativa): Dio dev'essere sperimentato empiricamente. Per questo il filosofo descrive il proprio sistema come "empirismo metafisico". È un ossimoro. Poiché è impossibile sperimentare il "fondamento assoluto di tutte le cose", solo l'automanifestazione di Dio attraverso di esse ci può dire qualcosa. E siccome l'esistenza di Dio non può essere provata per via epistemologica, sarà provata per via ontologica.

Filosofia della natura di Democrito e di Epicuro

Secondo Mehring, Marx dimostrerebbe di essere allievo di Hegel proprio a partire dalla sua tesi di laurea. Lo dimostrerebbe il linguaggio e soprattutto il modo di trattare la materia. Vada per il linguaggio, ancora universitario, ma per il resto non ci troviamo d'accordo.

Nella tesi Marx riconosce in Democrito il vero e originale iniziatore della fisica atomica (come la poteva intendere Mehring), ma, rispetto ad Epicuro, che pur ne era tutto sommato un ripetitore, Democrito viene quasi messo da parte.

Hegel non amava il materialista Democrito e ancora meno il prometeico Epicuro. La dissertazione di Marx è una presa di posizione contro Hegel.

Apparentemente i due filosofi antichi si differenziano solo per la famosa questione della declinazione (la variazione di stato nel tempo) delle traiettorie. Mentre Democrito sarebbe un semplice osservatore della realtà, Epicuro sarebbe un interprete capace di giungere a una verità attraverso il pensiero. Mehring nei suoi commenti si ferma alla superficie. Prima di tutto perché nella tesi lo scontro fra i due grandi filosofi non è un fatto marginale, un problema "filosofico", bensì un problema pratico: senza la declinazione ogni cambiamento sarebbe impossibile. Poi, perché la presenza non spiegata della declinazione assomiglia troppo all'assetto dell'Io assoluto autosufficiente e autogenerante dei romantici non hegeliani, comprendente Dio e la Natura, la filosofia e la scienza, l'arte e la vita. Non c'è niente di più autopoietico della creazione.

"Hegel ha certo fissato con esattezza le linee generali dei sistemi filosofici greci; ma da una parte [con il suo sistema] era impossibile entrare nei particolari, dall'altra al gigantesco pensatore la sua veduta intorno a ciò che egli chiamava speculativo per eccellenza impediva di riconoscere l'alta importanza che questi sistemi hanno per la storia della filosofia greca e per lo spirito greco in generale. Tali sistemi sono la chiave della vera storia della filosofia greca." (Marx, Dissertazione…).

A noi sembra addirittura che Marx faccia dell'ironia chiamando Hegel "gigantesco pensatore" nel momento in cui ne rileva l'incapacità di riconoscere l'importanza dei sistemi filosofici greci. Nello stesso tempo, Marx sottolinea che nel passaggio all'ellenismo la filosofia greca si comporta come un organismo vivente. Non è difficile vedere un legame con il vitalismo idealista tedesco. Il tutto sembra molto schellinghiano: la storia come realtà organica, come forma di vita.

"Alla filosofia greca sembra capitare ciò che capitare non deve ad una buona tragedia: un finale fiacco. Con Aristotele, l'Alessandro Magno della filosofia greca, sembra che termini la storia obbiettiva della filosofia in Grecia… Lo stesso declino è preformato nella realtà vivente; la sua forma si potrebbe perciò cogliere in una specifica particolarità proprio come la forma della vita… Questo esempio lo scelgo nel rapporto della filosofia naturale di Epicuro con quella di Democrito. Non credo che esso sia il punto di attacco più comodo. Da un lato infatti sta il vecchio accettato preconcetto della identità della fisica democritea e della fisica epicurea, che ha portato a vedere nelle modifiche arrecate da Epicuro solo delle trovate arbitrarie; dall'altro sono costretto, per quanto concerne i particolari, ad incorrere in apparenti micrologie perché le differenze sono così nascoste da scoprirsi, per così dire, solo al microscopio" (Dissertazione…).

Aristotele era stato precettore di Alessandro Magno ed entrambi erano rappresentanti dell'ellenismo, il culmine della filosofia e della civiltà greca. È la realtà vivente che pre-forma lo schema inesorabile. L'accostamento della storicità greca a Democrito ed Epicuro non è certo casuale. Qual è il nesso? La storia ufficiale dice che Epicuro non è diverso da Democrito. Marx sostiene, con un ragionamento ardito, che è così solo apparentemente, perché Epicuro dice esattamente il contrario di quanto gli vogliono far dire: il mondo di Democrito è immobile, non cambia. Quello di Epicuro declina, cioè varia. Sono manifestamente due concezioni opposte. Ma se si arriva a questa conclusione è perché si sostiene che la storia (filosofica o meno) è un divenire organico, vitale, biologico; Epicuro ha fatto un passo verso una concezione unitaria del mondo incompatibile con gli Assoluti, le dicotomie, i pensieri creatori. Possono esservi premesse uguali e conclusioni diverse o anche premesse diverse e conclusioni uguali, ma la regola in fisica è che da premesse identiche si arrivi a conclusioni identiche.

Dopo aver preso in esame la critica degli avversari antichi, medioevali e moderni di Epicuro, Marx si chiede come sia possibile il mistero della transustanziazione dell'atomo declinante.

"Oltre alle testimonianze storiche, molto depone a favore della identità tra la fisica democritea e quella epicurea. I princìpi - atomi e vuoto - sono innegabilmente gli stessi. Solo in singole determinazioni sembra sussistere un'arbitraria e pertanto non sostanziale diversità… Rimane però, in tal modo, uno strano, insolubile enigma: due filosofi insegnano l'identica dottrina, nell'identica maniera, ma - quale incongruenza! - essi sono diametralmente opposti l'uno all'altro in tutto ciò che riflette verità, certezza, applicazione della dottrina e, in generale, rapporto tra pensiero e realtà."

La nostra conoscenza del mondo, dice Democrito, deriva dalla percezione dei sensi. Essa non si può attribuire agli atomi, è una interazione fra noi e gli atomi stessi, una parvenza soggettiva. Sappiamo che Marx dice di essersi formato all'idealismo di Kant e di Fichte; proprio di Fichte è una ricerca sulla soggettività delle percezioni. È un problema che si trascina irrisolto da millenni. Lenin si scaglia contro Mach a proposito della ricerca di quest'ultimo sul tema. Dunque, il vero fondamento del mondo è l'oggettività degli atomi, mentre il resto sarebbe apparenza soggettiva. Ma il mondo è uno, per risolvere la contraddizione bisogna dividerlo in due, il mondo degli atomi-realtà e quello delle percezioni-apparenza, dell'intuizione sensibile. Queste due parti si scontrano. L'antinomia non è scomparsa. Epicuro ne ricava un'osservazione categorica sulla validità dei sensi:

"Il saggio si comporta dogmaticamente, non scetticamente. Anzi, la sua posizione di vantaggio di fronte a tutti sta proprio nel fatto che egli sa con convinzione. I sensi tutti sono araldi del vero. Niente può confutare la percezione sensibile" (Dissertazione…).

Attenzione alle argomentazioni di Marx: Democrito è apparentemente il materialista, ma riduce il mondo sensibile a parvenza soggettiva; Epicuro sarebbe l'idealista ma considera il mondo sensibile come manifestazione oggettiva, afferma di condividere in generale i principi atomisti con tutte le conseguenze sulla teoria della conoscenza ma non scende a compromessi sul fatto di considerare mere opinioni le qualità rilevate dai sensi. Noi oggi sappiamo che anche le manifestazioni dei sensi, le informazioni che essi raccolgono e ci inviano, sono fenomeni fisici oggettivi, è il modo soggettivo di utilizzo e di analisi che li rende soggettivi.

Democrito gira il mondo per cercare, ma non trova. Epicuro dice di aver trovato senza cercare:

"Mentre Democrito si studia di apprendere dai sacerdoti egiziani, dai Caldei persiani e dai Gimnosofisti indiani, Epicuro si vanta di non aver avuto nessun maestro, di essere un autodidatta. Mentre infine Democrito, disperando del sapere, si acceca, Epicuro, allorché sente avvicinarsi l'ora della morte, scende in un bagno caldo, e chiede del vino schietto."

Alla storia passa dunque la leggenda: Democrito sarebbe il determinista, Epicuro si affiderebbe al caso e le argomentazioni di ognuno dei due sono usate per criticare le asserzioni dell'altro. È evidente che la "figura" della declinazione o meno dell'atomo è un supporto simbolico alle opposte posizioni; ma:

"Giustamente dice Lucrezio che, se gli atomi non solessero declinare, non si sarebbero prodotti né urti reciproci né incontri tra gli stessi atomi, e non si sarebbe mai formato il mondo… la declinazione ha mutato tutta la struttura interna del mondo degli atomi, in quanto per suo mezzo ha luogo la determinazione della forma e si attua il contrasto insito nel concetto di atomo. Epicuro ha pertanto affermato per primo, anche se in forma sensibile, la natura della repulsione, mentre Democrito ne ha conosciuto soltanto l'esistenza materiale … Epicuro sente perciò che le sue precedenti categorie qui crollano, che il metodo della sua teoria muta. E il significato più profondo del suo sistema, la sua conseguenza più rigorosa è che egli sente ciò e lo esprime con piena consapevolezza."

Sembra di capire, se usiamo definizioni d'oggi, che Democrito viene considerato come un riduzionista cartesiano, mentre Epicuro sarebbe un sostenitore della scienza della complessità. Non ci sembra azzardato un paragone fra Epicuro e un materialista del '900, d'Arcy Thompson, che in Crescita e forma tenta di dimostrare come le forme del vivente siano determinate da fatti materiali, leggi fisiche e meccaniche, che tracciano la variabilità delle forme, appunto, con il disporsi degli atomi secondo spinte dell'ambiente (es. una goccia d'inchiostro nell'acqua limpida tende ad assumere la forma di una medusa per la differenza di peso fra gli atomi di inchiostro e gli atomi dell'acqua).

È inevitabile pensare anche alla differenza tra panteismo illuminista francese e panteismo idealista romantico tedesco: il secondo critica il primo per la sua semplicità arbitraria e gli oppone un panteismo problematico. Non un Dio-natura ma una natura così com'è permeata da Dio così com'è, tutto spiegato da una filosofia compresa nel sistema. In tal modo si profila un universo unico e vitale, un tutto che si autosostiene e si autospiega.

A parte il linguaggio, che è quello dell'epoca filtrato attraverso la dittatura di quello hegeliano (e probabilmente obbligatorio di fatto per non scontentare troppo i potenti professori), Marx recupera Epicuro in quanto più attrezzato, in quanto più completo: egli non butta via i "triangoli" del matematico, ma gli affianca il ragionamento deduttivo, li confronta con ciò che dicono i sensi come verifica sperimentale.

Oggi sappiamo che i sensi valgono quasi zero rispetto alla potenza di altri modelli di realtà. Se è corretta la nostra interpretazione, Marx non sta difendendo attraverso Epicuro la prassi elevata a teoria, ma l'unità fra teoria e prassi.

Come si vede, è più facile individuare in Marx un po' di complessità romantica che una plumbea impronta hegeliana, ma meglio sarebbe non indulgere in analogie quando bisogna andarle a cercare col microscopio. Ciò nonostante Marx vi ricorre perché se le analogie fra i due filosofi greci sono evidenti occorre invece evidenziare le differenze; quel che non si può/deve fare è l'operazione di Mehring, che vede analogie dove ci sono solo differenze:

"Marx non contestò in nessun modo l'irrazionalità fisica di Epicuro… Spiegò che per Epicuro la percezione sensibile era stata l'unica prova di verità. Il sole lo credeva largo due piedi perché lo vedeva così. Ma Marx non si accontentò di liquidare con un qualche epiteto queste evidenti pazzie, piuttosto cercò la ragione filosofica in questa irrazionalità fisica. Egli procedette conformemente alla bella osservazione da lui scritta in una nota del lavoro in onore del suo maestro Hegel e cioè che la scuola di un filosofo che ha fatto ricorso a un accomodamento, non deve incolpare il maestro, ma chiarire l'accomodamento."

Accomodamento, parola che si adatta bene alla socialdemocrazia. Per Mehring la tesi di Marx dimostra che l'allievo ha superato il maestro, anche se la tesi stessa è ancora tutta dentro al terreno idealistico hegeliano. Non possiamo essere d'accordo: la tesi di Marx si discosta da questo modello. Egli critica Democrito perché questi sottovaluta la realtà percettiva abbassandola a immaginazione soggettiva, mentre eleva la necessità a legge assoluta. Epicuro, invece, parte dalla realtà sensibile, rifiuta di interpretare la necessità come un assoluto e apre al caso e alla libertà. È evidente che Marx prende le distanze da Hegel. Il cosiddetto maestro fa cadere la libertà dalle altezze siderali dell'autocoscienza assoluta, mentre il cosiddetto allievo ne ha abbastanza di questo sentenziare e indirizza strali contro Hegel un attacco risalente dal basso, dall'inferno della vita reale. Il modello è Prometeo, amico dell'uomo, non il Dio dei filosofi (Marx inizia la tesi proprio con Epicuro che irride agli dei).

Secondo Marx l'introduzione della deviazione degli atomi dalla caduta rettilinea è un'ipotesi che rafforza una concezione materialistica, non il contrario. Perciò, se non si rinuncia al determinismo, il divenire dei fenomeni complessi risulta un qualcosa di diverso rispetto alla necessità meccanica. Il cambiamento, associato al divenire, introduce una novità nella filosofia greca, abituata all'astrologia e alle predizioni degli oracoli, processi contro i quali l'uomo è disarmato (Afrodite aveva spinto Elena nelle braccia di Paride; quando Cassandra, dopo la caduta di Troia, la vorrebbe uccidere, Elena risponde: "che cosa può fare una donna, benché regina, contro una dea?").

La declinazione dell'atomo permea tutta la filosofia di Epicuro, "come si comprende a prima vista, la determinatezza [di detta declinazione] dipende dalla sfera nella quale si applica" . E ancora: "L'astratta individualità appare nella sua suprema libertà ed autonomia, nella sua totalità". Un determinismo che si applica a sfere diverse e dà risultati diversi. Una necessità che nello stesso tempo è libertà? Sarebbe troppo. La declinazione, l'autodeterminazione che tanto scandalizza Cicerone, l'ambiente autopoietico probabilmente non voluto da Epicuro ma descritto da Marx in base alle conseguenze della declinazione atomica, ricordano più Fichte e Schelling che Hegel.

Il significato che i tradizionalisti hegelo-marxiani attribuiscono alla tesi del giovane Marx, quello dell'autocoscienza, è pretestuoso: tutti gli idealisti di allora, da Kant a Hegel, passando da Fichte e Schelling ponevano l'autocoscienza come tema centrale delle loro ricerche. E lascia piuttosto sconcertati sentir dire che Hegel giudicava "mistica" la posizione di Schelling. La mistica occidentale greco-cristiana è l'esperienza che mette in contatto con il divino attraverso una sensibilità che non ha bisogno di spiegazioni. Se di mistica si deve parlare, lo si può fare agevolmente nel campo romantico.

Nella sua tesi Marx si avvicina sicuramente al materialismo, perciò è arbitrario attribuirla all'influenza di qualcuno in particolare: non c'erano materialisti contemporanei nell'orizzonte tedesco del 1841. Come altre opere successive, essa è figlia della ricerca tratteggiata nella lettera al padre. Anzi: è figlia delle reiterate sconfitte, dei vicoli ciechi cui portava l'idealismo, che Marx aveva dichiaratamente abbracciato da ragazzo.

Rivista n. 44