Attacco agli Stati Uniti

CONTROLLO GLOBALE

Avvenimenti come quelli di New York e Washington non possono certo essere commentati con una instant mail come questa. Più ponderoso lavoro dev'essere fatto a prescindere dalla ridda di informazioni, supposizioni e soprattutto dall'oceano di chiacchiere sulla "nuova Pearl Harbor", per ora etichettata come islamica. Tuttavia, a partire da cose che abbiamo già detto in passato e quindi non improvvisate, è possibile inquadrare il nostro lavoro in modo da non disperdere energie rincorrendo le news dei media e utilizzare invece le informazioni in modo mirato.

Questo lavoro iniziò vent'anni fa sui solidi presupposti gettati prima dalla Sinistra Comunista, poi dal Partito Comunista Internazionale che ne era la continuazione fisica. Individuammo tre pilastri principali:

- 1) l'incessante sviluppo della forza produttiva sociale come motore del cambiamento al di là della volontà di classi o governi;

- 2) il corso del capitalismo mondiale come verifica sperimentale della legge dei tassi d'incremento decrescenti prima all'interno dei singoli paesi e poi del mondo;

- 3) il corso storico del dominio di classe della borghesia nell'epoca del Capitale globale (sottomissione reale del lavoro al Capitale), dai rozzi tentativi locali di controllo del fatto sociale (fascismi, New Deal, stalinismi) a quello mondiale ancora appena abbozzato (cosiddetta globalizzazione).

Tra l'altro - ed è l'aspetto che qui c'interessa - nella dinamica del capitalismo verificammo la chiusura non solo del ciclo liberal-riformista, di quello sindacale classico e di quello rivoluzionario borghese (questione nazionale e annessa questione contadina, inquadrata, quest'ultima, nell'articolo L'uomo e il lavoro del Sole che apparirà sul n. 5 della nostra rivista), ma anche del ciclo storico più ampio riguardante la successione degli imperialismi, dalle repubbliche marinare alla Spagna, all'Olanda, all'Inghilterra e agli Stati Uniti come ultimi rappresentati del ciclo capitalistico.

Dopo l'ultima guerra mondiale, le guerre locali di Corea e Vietnam furono combattute soprattutto nella logica dei blocchi utilizzando carne da cannone altrui. Con la fine della coesistenza competitiva si affermò non solo il completo dominio economico e "culturale" degli Stati Uniti, ma anche l'impossibilità di muovere guerra a un paese così potente. Lo impedivano sia i rapporti di forza sia, soprattutto, l'interesse di tutti gli altri paesi all'economia americana, formidabile attrattore di merci altrui.

Nei testi del PCInt. dell'immediato dopoguerra si parlava di una possibile terza guerra planetaria o di uno stillicidio di guerre locali che l'avrebbero potuta sostituire. L'accento era già comunque posto sulla tendenza al dominio mondiale da parte del capitalismo più forte:

"Vediamo che razza di guerra sarebbe la eventuale prossima dell'America per cui si votano crediti militari immensi e si danno ordini e dettami strategici a paesi lontani. Potrebbe risultare la più nobile delle guerre, ma essa non indurrebbe i marxisti ad attenuare la lotta antiborghese e antistatale, ovunque; ad analizzare questa guerra e a definirla come la più clamorosa impresa di aggressione di tutta la storia. Non si tratta solo di una guerra ipotetica poiché essa è già in atto, essendo tale impresa legata da stretta continuazione con gli interventi nelle guerre europee del 1917 e del 1942, ed essendo in fondo il coronamento del concentrarsi di una immensa forza militare e distruttrice in un supremo centro di dominio e di difesa dell'attuale regime di classe. Tale processo potrebbe svilupparsi anche senza una guerra nel senso pieno tra Stati Uniti e Russia, se il vassallaggio della seconda potesse essere assicurato, anziché con mezzi militari, con la pressione delle forze economiche preponderanti. Sta di fatto che le prepotenze di quei citati aggressori storici europei che si dannavano per una provincia o una città a tiro di cannone, fanno ridere di fronte alla improntitudine con cui si discute in pubblico - ed è facile arguire di che tipo saranno i piani segreti - se la incolumità di Nuova York e di San Francisco si difenderà sul Reno o sull'Elba, sulle Alpi o sui Pirenei. Lo spazio vitale dei conquistatori statunitensi è una fascia che fa il giro della terra".

(Partito Comunista Internazionale, 1949)

Giusta questa premessa, abbiamo visto che ora non sono più possibili neppure le guerre locali classiche. Infatti, gli interventi delle forze coalizzate prendono la forma di operazioni di polizia internazionale, per esempio contro l'Iran (tentativo rozzo e fallito), contro l'Iraq (tentativo intermedio lasciato in sospeso), nei Balcani (tentativo in corso, in parte riuscito).

La tendenza alle operazioni di polizia mondiale si va precisando, sta diventando un tutt'uno con la globalizzazione (che comunque sarebbe meglio continuare a chiamare imperialismo). Sta anche provocando reazioni contro la potenza che, in via reale o immaginaria, rappresenta agli occhi di intere popolazioni la causa del loro malessere. La prossima propaganda tenterà di dare un volto a chi ha materialmente eseguito il pluri-attentato, ma in definitiva quest'ultimo non è che una pulsione dello stato di cose materiale. Qualunque giustificazione ideologica o religiosa accampi. Sta di fatto che, essendo impossibile da parte di chiunque una guerra aperta contro gli Stati Uniti, questa che vediamo oggi in forma così eclatante è la forma sostituitiva che prenderà piede nei prossimi anni.

BALCANIZZAZIONE DEL MONDO

Ci auguriamo che, come era successo durante la Guerra del Golfo, gli avvenimenti odierni polarizzino l'attenzione su alcuni dati di fatto acuendo l'intelligenza collettiva. La balcanizzazione... dei Balcani ha portato per ora alla formazione di alcune entità statali che hanno brutalmente risolto o stanno per risolvere alla borghese annose "questioni nazionali" in sospeso da secoli. La Slovenia, la Croazia e la Macedonia sono formalmente indipendenti. La Bosnia, con una situazione etnica più complessa, è per ora sotto tutela internazionale ma si sta avviando o verso una forma federativa o verso una spartizione fra i confinanti. La situazione albanese sta evolvendo lentamente verso una "Grande Albania", sfacciatamente assecondata dalle armi occidentali. La Serbia potrebbe ancora vedersi sfuggire il Montenegro.

Per quanto nella prospettiva rivoluzionaria siano preferibili gli Stati unitari piuttosto che queste polverizzazioni etno-statali, è certamente in corso, sotto la pressione enorme del capitalismo globalizzato, una crisi mondiale che ha fra gli altri effetti quello di mettere le etnie le une contro le altre. La disgregazione dell'ex Unione Sovietica ha per esempio trasformato l'Asia Centrale in una polveriera, su cui si innesca l'attività islamica, all'inizio foraggiata proprio dagli USA in funzione anti-russa.

Questa è la situazione che, classicamente, si rivolta contro gli Stati Uniti e che essi saranno necessariamente portati a risolvere. Il potenziale esplosivo del mondo, specie se la crisi attuale dovesse durare nel tempo o addirittura cronicizzarsi più di quanto non lo sia già, si manifesta per ora con fenomeni superficiali, sintomi di una malattia profonda che per ora sfociano in movimenti ultra-integrati come quello no global oppure apparentemente fuori controllo come alcune forme di terrorismo.

In questa ottica, non ha più nessuna importanza la ricerca sul chi abbia reclutato, addestrato e indirizzato il piccolo e preparatissimo esercito che è stato necessario a scatenare il massacro multiplo sul suolo americano (nei prossimi giorni, a televisioni spente, il termine "dirottatori" apparirà in tutta la sua insufficienza). Il terrorismo privatizzato del miliardario saudita, quello dell'Esercito Rosso giapponese o quello statale di qualche "paese-satana" della lista americana trova truppe ovunque vi siano disperati o infuriati, senza bisogno di esporsi in prima persona.

Gli Stati Uniti, dopo questo atto di guerra che, date le premesse, non possiamo neppure chiamare "impropria", si sentiranno liberi di agire fino in fondo, allargando le aree "sensibili", come si dice in gergo militare, ed estenderanno il loro intervento ovunque vi sarà un focolaio di "disordine" in grado di mettere in discussione l'ormai improcrastinabile "nuovo ordine mondiale". E non lo faranno da soli, perché per prima cosa hanno proprio evitato di catalogare l'attentato come atto terroristico e l'hanno considerato subito "azione di guerra". In tal modo possono invocare l'automatico coinvolgimento delle altre potenze nella risposta militare.

NON E' PEARL HARBOR

E' profondamente inadeguata l'immagine, molto presente sui media, di una "Pearl Harbor" alla quale gli Stati Uniti potrebbero rispondere con una ritorsione all'israeliana nel mondo intero. Per due motivi: 1) nel '41 essi erano in procinto di diventare i dominatori del mondo ed ebbero perciò un atteggiamento attivo, anche nel lasciarsi affondare le vecchie e inutili corazzate mentre mettevano al sicuro la flotta delle nuove portaerei con le quali avrebbero spazzato via il Giappone; oggi sono già dominatori del mondo, quindi hanno un atteggiamento passivo, di difesa, di fronte ad un sistema che li sta rigettando; sono obbligati ad intervenire per la loro stessa sopravvivenza; 2) la soluzione all'israeliana gli è negata, perché Israele è un piccolo Stato dall'economia isolata e fasulla, che può solo imbastire delle ritorsioni locali con le spalle coperte dagli americani, mentre gli Stati Uniti devono programmare un tessuto mondiale di rapporti che permetta il loro flusso vitale di merci e capitali in entrata e in uscita.

I fatti, gli esperti, e persino la letteratura e il cinema, hanno già ampiamente mostrato l'estrema vulnerabilità di qualunque Stato di fronte al terrorismo internazionale. Organismi ufficiali e gruppi d'informazione militare come Jane's ritengono che la diffusione delle tecniche nucleari e il traffico di materiale fissile, specie dopo la disgregazione dell'URSS, rendano a portata di chiunque la fabbricazione di bombe atomiche rudimentali con un minimo di mezzi.

Tutto ciò impone a una potenza planetaria come gli Stati Uniti di varare una politica altrettanto globale di azione alla fonte. Ma questo è impossibile finché viene rispettato anche solo parzialmente il concetto di sovranità nazionale. E' per questo che i pluri-intervistati osservatori americani (il più chiaro di tutti è stato il solito Luttwak) recitavano all'unisono il ritornello: il mondo dev'essere solidale con gli Stati Uniti nella lotta al terrorismo, ma non si può lottare contro di esso se vi sono ostacoli giuridici, economici e politici che si frappongono continuamente.

Volenti o nolenti che siano le borghesie nazionali, l'11 settembre 2001 è una data che segna l'inizio della globalizzazione nel vero senso della parola. Oppure, se il deterioramento dei rapporti internazionali dovesse rivelarsi più profondo di quanto non appaia oggi, l'inizio della disgregazione del sistema che s'impernia sugli Stati Uniti. In entrambi i casi un formidabile slancio di tutti i fattori della rivoluzione.

Newsletter inviata agli abbonati il 12 Settembre 2001

Volantini