37. Utopia, scienza, azione (4)
Rapporti all'incontro tra compagni e lettori. Roma, 25-27 aprile 1997

Per "entrare nello specifico"

Ora però la Sinistra ci insegna che non si può fare un'analisi brutalmente statistica dell'intera società per trarne conclusioni particolari. D'altra parte c'insegna che non si può fare il conto in tasca ad un singolo capitalista per trarne conclusioni generali. Bisogna fare un conto di classe. Ovvero: prendere le cifre ma utilizzarle secondo le nostre categorie, non semplicemente secondo le categorie borghesi. Bisogna cioè fare un'altra piccola operazione: capire effettivamente che cosa succede all'interno dell'intera classe proletaria. Per quanto riguarda i borghesi la cosa è abbastanza semplice. Chiunque recepisca plusvalore direttamente possiamo tranquillamente classificarlo nella classe borghese. Per quanto riguarda le altre classi, la cosa è più sfumata. Se noi delimitassimo gli insiemi che rappresentano il proletariato, le mezze classi e il sottoproletariato, avremmo delle sovrapposizioni tra gli insiemi puri. Però non ci interessano assolutamente i particolari delle sfumature, quanto il fatto che queste sfumature esistono. Se vogliamo andare al sodo, dato che ci serve analizzare la situazione concreta con metodi concreti per sapere concretamente che cosa vogliamo fare, dobbiamo sgrossare la questione e capire che cosa significa effettivamente proletariato da un punto di vista generale di classe.

Allora, la Sinistra ci aiuta, in un paio di Fili del Tempo, a capire come affrontare la situazione degli insiemi sfumati. Noi dobbiamo definire una classe particolare, il proletariato, secondo le sue determinazioni ad essere contrapposta al Capitale. Ciò significa in primo luogo mettere i lavoratori produttivi dell'industria, del commercio e dei servizi tutti insieme. Poi aggiungervi i disoccupati e quelli in cerca di primo lavoro. Poi la grande schiera dei senza-riserve in generale.

Possiamo ricavare le cifre direttamente dai dati forniti dalla borghesia. In Italia ci sono 57 milioni di abitanti. Dal punto di vista dell'occupazione questo paese è veramente il più moderno del mondo: pochissimi lavorano e tanti vivono del lavoro altrui. Nessun altro paese ha una simile sovrappopolazione relativa. Su 57 milioni di abitanti gli occupati sono soltanto 22 milioni (38%), quindi una percentuale molto bassa in confronto ai maggiori paesi industriali che hanno invece una quota di popolazione attiva che si avvicina e in alcuni casi supera il 50%.

Il numero dei lavoratori produttivi, secondo il criterio che abbiamo adottato, corrisponde esattamente alla metà degli occupati, cioè 11 milioni di unità. Se vogliamo entrare nel dettaglio, abbiamo: 4,9 milioni nell'industria, 0,6 milioni nell'agricoltura, 5,5 milioni nei servizi "vendibili". Vediamo subito un dato interessante: gli addetti dell'industria sono di molto inferiori a quelli dei servizi produttivi e bisognerebbe tener conto che all'interno dell'industria vi sono servizi non produttivi che però non sono rilevati dalle statistiche. Se ne tenessimo conto i risultati cui vogliamo giungere sarebbero più marcati. Stiamo quindi procedendo ad una dimostrazione con largo margine di sicurezza. La massa del plusvalore prodotto in un ciclo alla fine risulta provenire da ben pochi addetti alle attività produttive e distribuita a troppi che invece ne sono beneficiari.

La ripartizione del plusvalore all'interno della società italiana è piuttosto interessante e ci porta a fare una considerazione. Chi ha letto il nostro Quaderno sull'accumulazione, a un certo punto ricorderà la figura in cui è tracciata la parabola del plusvalore. Tale curva rappresenta la grandezza del plusvalore in funzione degli operai impiegati, ovvero in funzione della produttività del lavoro. Storicamente l'aumento della produttività del lavoro si traduce in una contraddizione: mentre aumenta il plusvalore estorto ad un singolo operaio, diminuisce la possibilità di estorcere più plusvalore a molti operai. Tale diminuzione assoluta rappresentata nello schema è compensata dall'allargamento della scala della produzione (riproduzione allargata) e quindi vi è un grado di indeterminatezza rispetto alle possibilità di previsione sul "quando" e sul "come" si potrebbe inceppare il meccanismo in un mondo finito che non può conoscere crescita capitalistica infinita. La simmetria insita nella forma della curva, simmetria nel disegno e nel significato opposto dei due zeri che troviamo agli estremi, ci indica che il culmine della parabola, cioè il massimo di plusvalore in funzione del numero degli operai, è quando la società esprime un saggio di plusvalore del 100%, ovvero, detto in altri termini, quando la giornata lavorativa sociale media di otto ore si divide in quattro ore di lavoro necessario e quattro di pluslavoro. Nel testo si abbina questo dato di fatto, espresso formalmente, con l'osservazione che in quel preciso punto il sistema raggiunge il suo massimo rendimento.

L'osservazione che facciamo ora è questa: abbiamo un sistema produttivo che nel tempo aumenta la sua forza, aumenta il numero delle merci prodotte mettendo in moto sempre più capitale con sempre meno uomini. Perciò se dovessimo muovere un punto significativo sulla parabola secondo il trascorrere del tempo, dovremmo avere un percorso, diciamo storico, dallo zero plusvalore rappresentato dal massimo di operai in una società che consuma tutto ciò che produce, allo zero plusvalore rappresentato da una società senza operai che produce tutto con robot.

Se noi assumiamo un saggio di plusvalore del 240% come quello indicato per il sistema produttivo italiano nel 1996, ci troviamo di fronte ad uno scostamento notevole dal culmine del massimo rendimento. Ci troviamo cioè molto spostati verso lo zero plusvalore dell'ipotetico punto limite in cui la produttività è infinita, essendo la massa della produzione interamente ottenuta senza operai.

Sia il nostro Quaderno, sia i Fili del Tempo ricordati, precisano che le nostre formalizzazioni hanno un carattere sociale, sono cioè espressione del rapporto fra la classe dei borghesi e quella degli operai. Quindi possiamo assumere che la curva rappresenti un andamento sociale. A questo proposito Marx nota che vi sono controtendenze ben individuate che rendono reversibile la legge di tendenza. Una di queste controtendenze è lo sviluppo di rami della produzione a bassa composizione organica di capitale, cioè rami in cui sia invertita la tendenza dell'alta produttività macchinistico-scientifica e si ricorra invece ad alti saggi di sfruttamento con un cospicuo utilizzo di forza-lavoro a basso prezzo. Ciò è anche necessario perché, come sottolinea Marx, nella società gran produttrice di merci vi è anche il problema della gran vendita delle stesse, altrimenti il plusvalore rimane allo stato potenziale e non può ritornare sotto forma di capitale al ciclo successivo. Ciò è coerente col fatto che nei passaggi che determinano la parabola del plusvalore, uno dei fattori fondamentali è la massa dei beni di consumo (espressi nel testo in unità adimensionali di prodotto) che vanno a ricostituire la forza-lavoro. Il valore di tali beni di consumo sta in rapporto inverso con la produttività del lavoro. Per questo motivo è assai importante per i capitalisti vendere una grandissima quantità di merci per sopperire con essa alla diminuzione del valore unitario; ma ciò è incompatibile con la formazione di una sempre maggiore umanità disoccupata non in grado di consumare.

Ricordiamoci che stiamo seguendo il filo attraverso la teoria del valore per giungere a conclusioni circa alcuni effetti sociali constatabili nella cronaca quotidiana riportata da giornali e Tv, cronaca che di per sé non offre lumi sulle ragioni che provocano gli avvenimenti della politica e dell'economia. Seguendo l'esempio dei testi citati, abbiamo provato a fare, sulla base dei dati disponibili, quello che in essi viene chiamato "il conto di classe". La prima domanda cui vogliamo rispondere è questa: non ci troviamo per caso di fronte ad una sorta di causa antagonistica che blocca il calo di rendimento nel mondo della produzione? Basiamoci su di un dato fornito da Marx: l'aumento della produttività si traduce in una pletora di capitale, conseguenza diretta della pletora di merci. Questa pletora va riassorbita, altrimenti ci troviamo di fronte ad una crisi catastrofica. Di fronte a questo fenomeno la borghesia ha escogitato una serie di espedienti che vanno generalmente sotto il nome di keynesismo e che hanno rappresentato, come abbiamo detto più volte, terapie di rianimazione del cadavere capitalista. Ultimamente la borghesia ha constatato il venir meno dell'efficacia di tali espedienti e si trova schiacciata fra l'esigenza di sostenere la produzione tagliando sui costi delle vecchie politiche e, come dice Prodi, l'esigenza di eliminare i guai dell'economia senza ucciderla.

Facciamo il nostro "conto di classe"

Se, come detto, facciamo il "conto di classe", dobbiamo a grandi linee incorporare in un grande insieme tutti coloro che chiamiamo i "senza riserve". Costoro sono rappresentati dai lavoratori salariati produttivi (11 milioni), da quelli dei servizi improduttivi (4,3 milioni), dai disoccupati (2,7 milioni). In totale 18 milioni di persone in età di lavoro rappresentano il grande insieme di classe. Anche in questo caso azzeriamo arrotondamenti in più e in meno, assumendo che i 300.000 poliziotti, carabinieri e finanzieri siano compensati da altrettanti lavoratori in nero che non compaiono nelle statistiche e che, secondo una valutazione ufficiale, produrrebbero almeno un 25% del PIL da aggiungere al dato della contabilità nazionale. Comunque ci interessano gli ordini di grandezza e non le cifre esatte che non potremo mai dedurre statisticamente; infatti non possiamo metterci a disquisire sulla collocazione di un dirigente industriale che figura tra i salariati o sul disoccupato che si mette in proprio chiedendo la partita IVA e figura così fra i professionisti.

Rispetto alla cifra degli occupati complessivi, che sono 22 milioni, abbiamo per differenza 4 milioni di appartenenti alla borghesia e alla piccola imprenditoria bottegaia e artigianale delle mezze classi. Con questa nuova suddivisione a cui riferiamo le cifre riportate nel solito conteggio nazionale, abbiamo ora che i quattro milioni di "borghesi" percepiscono un "reddito" di 835.000 miliardi, quasi esattamente la metà del reddito complessivo (1.700.000 miliardi di lire).

Queste poche cifre ci dicono che, se facciamo i conti nei settori produttivi, abbiamo un saggio di sfruttamento medio del 240%, con punte anche superiori all'800%, come risulta dall'esempio di prima; mentre se facciamo i conti dal punto di vista del rapporto generale tra le classi, abbiamo un saggio di sfruttamento medio del 100%. Ciò significa che, all'interno della società, il governo della borghesia è stato costretto a prendere misure per la ripartizione del plusvalore al fine di evitare l'impoverimento totale di gran parte della popolazione, con il relativo crollo della produzione. Come risultato immediato un mucchio di borghesi, presi individualmente, vistisi portar via una parte dei profitti senza aver possibilità di capire che ciò era fatto nell'interesse generale della loro classe, hanno iniziato un movimento per il recupero del preteso maltolto. Che cosa importa al capitalista singolo la ripartizione del plusvalore all'interno della società? Il capitalismo nel suo complesso ne ha generato l'esigenza; ma il capitalista singolo non ne vuole mica sapere. A lui basta che le sue merci raggiungano il mercato e si trasformino al più presto in denaro sonante, profitto d'impresa, e non si occupa di come gli altri possano avere le tasche piene di denaro per comprarle.

Se la classe borghese avesse coscienza dei meccanismi capitalistici, ciò si tradurrebbe nell'espressione di governi forti in grado di ripartire in modo più razionale ed efficiente il plusvalore nella società. Questa strada è già stata percorsa con i "fascismi" degli anni '20 e '30 che, in vario modo, dall'America alla Russia passando dall'Europa, cercarono di riorganizzare socialmente lo Stato. Ma la classe borghese è fatta di molti capitalisti che non hanno nessuna cognizione della necessità di uno Stato che funzioni da capitalista collettivo per salvaguardare gli interessi generali del capitale, anche se ciò significa colpire interessi particolari. Nella testa dei singoli borghesi si riflette l'anarchia del loro modo di produzione ed essi non hanno nessuna intenzione di rinunciare ad una quota ingente di plusvalore per finalità che non riescono a concepire.

Così, tornando ai personaggi già nominati, il rappresentante degli industriali Fossa reclamerà, a nome dei suoi iscritti, una politica economica favorevole alla non-ripartizione del plusvalore mentre il capo dell'esecutivo Prodi da una parte dovrà dargli ragione, entrando in conflitto con le esigenze del sistema, dall'altra dovrà salvaguardare le esigenze del sistema, entrando in conflitto sia con gli industriali che con il proletariato. Il governatore della Banca d'Italia Fazio dovrà far capire a tutti che chiunque, una volta al governo, dovrà prendere gli stessi provvedimenti e il leader della Lega Bossi dovrà rappresentare gli interessi di coloro che, schiacciati fra grande borghesia e proletariato, non sopportano più che ogni tipo di governo debba fare sempre le stesse cose.

Come si vede vi sono sintomi di quella conservazione di risultati raggiunti i quali non si possono difendere se non facendo saltare l'intero sistema. E vi sono anche evidenti dimostrazioni che il materiale preparato da questa società così com'è è più che sufficiente per l'attività dei militanti rivoluzionari senza che si parta alla ricerca di mulini a vento da assaltare. Vogliamo dire che la preparazione necessaria alla formazione e allo sviluppo del partito proletario dovrebbe partire almeno dalla comprensione di ciò che veramente succede nel mondo e che l'azione dei rivoluzionari dovrebbe essere in sintonia con ciò che realmente succede in modo da poter anticipare il futuro come esige Marx già nel Manifesto.

Abbiamo citato una situazione sociale molto concreta, quella di cui oggi parlano tutti, il Nord-Est italiano. Qui abbiamo una percezione immediata della reazione individuale o collettiva di persone che hanno raggiunto risultati e che non li vogliono perdere. È un buon terreno per le cosiddette analisi della situazione. Noi possiamo rappresentare la concretezza attraverso i meccanismi della legge del valore e trarne conseguenze. Qui i comunisti devono dire se siamo in presenza di fatti materiali che riguardano il movimento rivoluzionario.

Non ci interessa se Bossi porta l'ampollina sul Po o fa le sue sparate contro i terroni avvolgendosi nella bandiera di Alberto da Giussano. Non ci interessa nemmeno giudicare un movimento attraverso ciò che tale movimento dice di sé stesso. Ci possiamo anche ridere sopra, ma nel frattempo abbiamo imparato dal metodo marxista che all'interno della società vi sono situazioni concrete che possono essere rappresentate attraverso i nostri schemi; su tutto questo dev'essere possibile fare delle proiezioni nel futuro. Abbiamo già, quindi, un embrione di risposta su ciò che può essere il fenomeno della Lega e su ciò che potrà rappresentare. Forse la Lega in quanto tale sparirà fra breve, ma non spariranno le ragioni materiali che l'hanno fatta nascere, sviluppare e agire contro legami rappresentati dall'esistente contro lo sviluppo delle forze produttive. La Lega è uno sguaiato coltellaccio per recidere dei legami che il Capitale trova in sé stesso, ma deridere le sue manifestazioni di cattivo gusto non è un buon indice di capacità analitica. Magari Bossi è ridicolo, dice delle stupidate, ma guardandogli attraverso possiamo agevolmente vedere che è sempre più difficile conservare l'esistente senza rompere qualcosa. Si era mai visto prima un partito democratico parlamentare elezionista e populista buttare a mare una novantina di possibili deputati per una questione di principio? Quali forze spingono la Lega ad una politica da toro nella cristalleria? Proviamo a fare una proiezione verso il futuro, cercando di capire che cosa potrebbe succedere in un paese come l'Italia, se lo Stato non potesse dare risposta ai fantasmi che agitano i Bossi, se l'Esecutivo non riuscisse a prendere decisioni inchiodato com'è ai numeri della democrazia elettoralesca, se i meccanismi che Marx ha individuato una volta per sempre nel Diciotto Brumaio si rimettessero ancora una volta in moto. E Marx ha già risposto una volta per sempre: "Ben scavato vecchia talpa!". Dovremmo sviluppare ulteriormente i temi legati a tutti questi "se" e vedere se per caso non possano trasformarsi in "quando". Certo, per noi che siamo in questa sala forse questo discorso è comprensibile, ma per la quasi totalità della parliamo arabo. Sappiamo che tutta la "sinistra" legata alla società civile, milioni di persone, aveva sfilato solo perché Berlusconi aveva formato un governo di "destra". E vediamo anche Bertinotti, con stalinisti e trotzkisti, partecipare elegantemente ad un governo di "sinistra" che sta facendo peggio di quanto avrebbe potuto fare Berlusconi. Persino Bossi ha dimostrato di non essere legato a quel pugno di lenticchie rappresentato dai cadreghini di governo. Non è un giudizio morale, il nostro; e, se per quanto riguarda i personaggi citati il discorso è scontato, ci sono molti "sinistri" che per entrare nel movimento non vedono l'ora di scodellare novità tattiche, per essere molto concreti e non farsi "scavalcare", come si suol dire. Il fatto è che quando non si valutano i fatti in base alle leggi che Marx ha scoperto, ma in base alla tempesta di idee che si scatena nei momenti delle emozioni, ogni concetto di tattica va a farsi benedire e si adottano teorie altrui, volontà altrui, come ricordato. Non abbiamo forse visto i grintosi quanto masochisti eroi dei centri sociali, quegli stessi che andavano allo scontro con i "traditori" sindacali ad ogni manifestazione, sfilare cantando Bella Ciao contro il fascista di Arcore a braccetto con i loro "nemici"? Questo è l'ambiente, questo è ciò che la società così com'è ci offre quotidianamente. Noi non abbiamo il compito di essere gradevoli a questa società e ai suoi rappresentanti. Nessun comunista dovrebbe fare l'errore di mostrarsi quale non è solo per "farsi capire", per sentirsi immerso nel cosiddetto movimento. Noi siamo dentro il movimento in un altro modo, con il nostro lavoro, a fare da detector, come Amadeo chiamava sé stesso, per vedere se c'è qualche comunista che venga a lavorare con noi sul terreno del Manifesto, formidabile cesoia delimitante fra i cultori di questa società e gli anticipatori di quella futura. E questa è azione.

Angosciosa ricerca di nuove utopie

È azione quella del capitalista Fossa, che organizza una manifestazione, per ora virtuale ma con migliaia di altri capitalisti on line, contro il capitalismo che espropria capitalisti, non dovrebbe essere azione la nostra, tesa a strappare militanti alla frase fatta, al luogo comune? Lo crediamo bene che Fossa sia preoccupato. Non sappiamo se il peso fiscale sui profitti delle aziende sia veramente del 70% come dice. Ma certamente se la sua azienda è di quelle che hanno un saggio di sfruttamento dell'800% non amerà di certo essere legato ad un sistema che ha un saggio generale pari a otto volte meno e che agli occhi del singolo prende senza offrire apparentemente nulla. Specialmente se il suo mercato è quello dell'Europa centro-settentrionale, che paga in marchi e non chiede ripartizioni interne di plusvalore. Ma Fossa è un capitalista vero, non è come Bossi che fa il politico rappresentante di una classe di mezzo. Fossa non spacca cristallerie, va dal notaio per far mettere a catasto i confini del territorio conquistato, perché vuole conservare le sue conquiste. Solo che il notaio (lo Stato capitalista collettivo) vuole la parcella per garantire che tutti i capitalisti non si sbranino a vicenda e distruggano l'economia. Inoltre sa che ogni singolo capitalista è concorrente di ogni altro e che il gioco della libera concorrenza ha per naturale sbocco il monopolio (23). Ovvio che in Italia ogni capitalista che non faccia parte delle poche famiglie che contano è penalizzato: anche Agnelli, monopolista assoluto dell'automobile, vuole conservare le sue conquiste. La Fiat ha più voce in capitolo dell'industrietta di Fossa. Il risultato è che lo Stato-capitalista collettivo, nel distribuire il plusvalore nella società affinché essa continui a funzionare, non può che togliere dove c'è abbondanza e mettere dove c'è carenza. Capita così che la Fiat, un po' perché ha un basso saggio di profitto, un po' perché ha una certa influenza, riceva sovvenzioni statali al posto di promettenti industrie che ne avrebbero bisogno.

Per il moderno osservatore borghese, come per il vecchio riformista superato dal fascismo, tutto ciò appare come un problema di più giusta e razionale ripartizione del plusvalore all'interno della società. Compaiono allora, tanto per citare alcuni personaggi che abbiamo studiato, i Rifkin, i Ruffolo, i Debenedetti, i Minc, i quali teorizzano un mondo non più basato sulle garanzie d'impiego e di assistenza, ma su una libertà totale concessa alle isole di produzione di plusvalore, alla quale dovrebbe corrispondere un uso razionale del plusvalore stesso nel resto della società, da parte dello Stato o da parte di volenterosi cittadini dediti ad attività non profittevoli, che vanno dall'assistenza ai vecchietti alla gestione del patrimonio artistico.

Queste nuove utopie, di cui abbiamo raccolto alcuni esempi nel corso di passati lavori, sono ideologicamente più indietro delle antiche utopie con cui abbiamo iniziato questa esposizione, per la semplice ragione che mirano a un impossibile capitalismo senza contraddizioni. Vecchia storia, ma ugualmente interessante, perché la richiesta di questo nuovo utopismo, fuori epoca due volte, ha il pregio di mostrarci esattamente la necessità di rompere i vincoli allo sviluppo ulteriore delle forze produttive proprio nel tentativo di conservare il sistema che crea e rinnova quei vincoli. Una volta di più vediamo che l'azione dei comunisti non può essere improntata a rappresentazioni arcaiche della società, a quadri del realismo socialista di marca staliniana anche se antistalinista. I Rifkin e i Ruffolo ci stanno dicendo senza saperlo che questa società è stramatura per far esplodere completamente l'energia delle sue forze produttive liberate e che una piccolissima parte del lavoro sociale oggi erogato può bastare per il soddisfacimento dei bisogni umani, mentre il resto potrà sfogarsi in nuovi campi oggi inimmaginabili.

In questi giorni è comparsa sui giornali la commemorazione dell'economista Federico Caffé. Era un keynesiano umanista, convinto che si potesse ripartire il plusvalore all'interno della società con metodi umani, trasformando il capitalismo dall'interno. Una quindicina d'anni fa scrisse sul Manifesto (no, non c'entra quello di Marx) un articolo intitolato La solitudine del riformista, dove diceva di preferire il poco al tutto e ciò che era realizzabile piuttosto di ciò che era utopistico. Ma quando si parla di capitalismo è proprio ciò che sembra realizzabile ad essere utopistico. Quando Taylor all'inizio del secolo pose le basi per l'organizzazione scientifica del lavoro si previde un mondo meraviglioso, reso possibile dalle produzioni in massa. Tra le due guerre Keynes era veramente convinto che l'umanità avesse trovato il modo di vivere felice producendo e consumando. E lo stesso negli anni '60, quando la scuola di Kahn sparse lattemiele a profusione con le teorie della crescita esponenziale infinita.

Anche gli attivisti politici preferiscono il poco al tutto e ciò che è realizzabile alle utopie. Ma sono così poco pratici e così poco concreti da non imparare nulla dalla banale esperienza. Ciò che per loro è realizzabile non si realizza mai e dev'essere proprio frustrante vivere un continuo fallimento. L'azione del rivoluzionario marxista trova invece sostanziali conferme nel comunismo che cambia lo stato di cose presente. Perché fa parte di un'altra scuola. Invece dell'agitazione scomposta del momento fuggente per lui è fondamentale - quindi da tenere bene d'occhio - la rivolta inevitabile contro le catene allo sviluppo delle forze produttive. D'accordo, facciamo anche tutto il resto, distribuiamo volantini, partecipiamo od organizziamo manifestazioni e scioperi dove ci siamo e ci riusciamo, ecc. Ma nell'ottica generale di ciò che realmente sta succedendo. Ci chiediamo: se è vero che l'umanità non vuole perdere ciò che ha raggiunto, non sta forse dimenandosi nella contraddizione estrema dell'unione degli opposti, conservazione-distruzione? Comunque sia, in questa azione conservatrice-distruttrice, gli uomini tendono a scatenare ancora di più le forze produttive, le quali si trovano ancor più incatenate...

Abbiamo visto il passaggio dall'utopia alla scienza della previsione su dati materiali. Certo, ci siamo arrivati utilizzando solo un frammento infinitesimo della teoria marxista, ma ci dovrebbe bastare per capire che l'azione conseguente, la prassi, non può essere su di un piano estraneo. Anche la prassi dei rivoluzionari è soggetta ai processi storici. Marx nel Manifesto avanzava un programma in 10 punti, molti dei quali non hanno più senso oggi: l'imposta fortemente progressiva è ormai legge da tempo; il controllo, se non il monopolio, delle banche da parte dello Stato è un fatto; trasporti ed energia sono pubblici; l'istruzione pubblica gratuita ai fanciulli c'è. La realizzazione delle istanze prima rivoluzionarie e poi riformiste è un dato storico e non obbliga i marxisti ad insistervi. Anche la campagna politica è soggetta alle stesse determinazioni: quando Lenin spingeva calorosamente alla campagna di denuncia della società zarista non c'era la televisione, e soprattutto non c'era la lotta politica degenerata di oggi che utilizza le campagne di denuncia nella guerra tra le fazioni borghesi. Anche la lotta sindacale non comporta più nessuna difesa delle organizzazioni esistenti, ormai integrate in pieno nell'ingranaggio borghese. Noi siamo costretti a lavorare nel mondo che c'è e non in quello che vorremmo, ma non per questo lo difendiamo: l'importanza del terreno sindacale vale per noi come valeva per Lenin, ma certamente la borghesia ha sottratto anche il sindacato dal largo ventaglio di strumenti disponibili. Non è compito della classe operaia lamentarsi perché la borghesia elimina uno per uno gli strumenti di difesa entro questa società. Solo Pannella vuole più democrazia rappresentativa, ma per il proletariato non è più un soggetto di rivendicazione da un secolo; nessuno oggi potrebbe piangere sulla distruzione di questi sindacati: il proletariato ne costituirebbe altri se servissero, oppure sarebbe costretto a fare a meno di rivendicazioni immediate per fare il salto nella battaglia politica per il potere. Per il comunista criticare il sindacato non ha più senso del criticare un borghese; solo di fronte agli operai e per fatti precisi ha senso denunciare le fregature, e le nostre esperienze dirette provano che l'opportunista più è carogna più teorizza che gli "operai non capiscono". Tutte balle, gli operai capiscono benissimo.

Ma queste sono ancora piccole cose in confronto al compito immenso dei comunisti, quello di rappresentare un ambiente assolutamente ostile a tutto ciò che è capitalistico, unica risorsa per non essere omologati tra le catene che vincolano l'esplodere della forza produttiva sociale verso una forma nuova. È da questo ambiente che risulterà possibile il rovesciamento della prassi quando sarà richiesto dal movimento rivoluzionario. Un partito che sia organico al movimento di distruzione del presente potrà essere organico ad un movimento di massa, ma immaginare il rovesciamento della prassi legato all'attivismo di individui o gruppi è semplicemente una cretinata. Con questo tipo di atteggiamento molti pensano di essere in regola con il rapporto teoria-prassi: facciamo questo e quest'altro così avremo questi e quest'altri risultati. Come se i legami con le masse si potessero "volere". La Sinistra ci ha insegnato che questa corbelleria è proprio quella che frega i militanti allontanandoli dalla possibilità del partito.

Non può esserci rovesciamento della prassi quando non vi è lo schema completo che prevede tutti gli elementi collegati in un'unica realtà: spinte materiali, rapporti di classe, formazione e sviluppo del partito, influenza reciproca e contraria dell'ideologia borghese e del comunismo, ecc. Chiunque pensasse di rovesciare la prassi con il solo strumento di un gruppetto e della volontà di qualche militante senza che vi fosse contemporaneamente tutto il resto, non solo sarebbe fuori dal marxismo, ma anche un po' malato di megalomania incosciente.

Speriamo che il nostro piccolo apporto di oggi chiarisca ai compagni perché la teoria di Marx, basata sulla legge del valore, sia di tipo catastrofico. Se ci è consentito prendere a prestito dei termini dalla teoria delle catastrofi, un ramo della scienza borghese recente, diremo che non vi sarà morfogenesi, cioè nascita di forma nuova, finché non sarà intaccata la stabilità strutturale della forma vecchia. Ora, tale stabilità è garantita da un solo fattore, come il nostro piccolo esempio di prima conferma: l'estorsione sempre più accentuata di plusvalore e la sua distribuzione a quella parte di società che ne consuma sempre di più senza produrne. La Sinistra ha chiamato questo fenomeno col nome del maggiore freno allo slancio ulteriore delle forze produttive russe nell'epoca staliniana: colcosianesimo. I colcosiani erano contadini legati a miseri interessi, all'economia dell'aia e del pollaio. La distribuzione di garanzie di esistenza ai senza-riserve nei paesi più sviluppati è colcosianesimo industriale. Molto più che in passato, la lotta per la ripartizione sociale del plusvalore è dunque alla base dei prossimi movimenti sociali. La prassi? Esistere, farci conoscere, adoperare meglio questi strumenti d'indagine, coinvolgere altri militanti ecc. in modo da non giungere un giorno a capitolare, come la stragrande maggioranza, di fronte alle esigenze del capitale, e magari a richiedere di fronte ad un forte esecutivo borghese, veramente progressista, cioè superfascista, la "difesa degli spazi democratici" perduti. Chi non si aggrappa con tutte le proprie forze all'analisi marxista fotte la prassi e si schiera con l'avversario nei momenti decisivi. Lo sappiamo già, la storia del movimento rivoluzionario è maestra. Chi ha una visione democratica della rivoluzione difenderà la democrazia contro la rivoluzione; chi ha una visione pacifista della questione militare andrà in guerra non appena gli offriranno una giusta causa; chi crede di fare la rivoluzione farà qualcos'altro quando la rivoluzione invece sarà, a sua insaputa; chi crede di essere l'individuo più importante del mondo sarà lasciato dalla rivoluzione a fare l'individuo e sarà trascurato dalle agognate masse.

Ora siamo ancora a piccole manifestazioni di episodi cui pochi danno importanza. La potenza delle recenti tecnologie non si è ancora espressa del tutto, così come non sono del tutto definiti gli effetti del crollo dell'Est. Una nuova generazione si affaccia alla nostra propaganda ed è insensibile al linguaggio sclerotizzato della vecchia politica, mentre il marxismo liberato dalle incrostazioni degenerative si presenta chiaro e forte a orecchi che degenerati non sono. Non vogliamo giungere a conclusioni affrettate, ma pensiamo di aver individuato un trend, una tendenza generale del capitalismo attuale, dalla quale ci aspettiamo, specialmente da parte dei giovani, una maggiore comprensione del marxismo come scienza della società. E quindi ci aspettiamo anche un allargamento del lavoro organico intorno a questi temi, oggi accennati, unico modo per giungere a risultati più alti.

Note

(23) Negli USA i meccanismi anti-monopolio sono in vigore da più di un secolo, eppure un mostro come la AT&T ebbe per anni il monopolio assoluto delle telecomunicazioni raggiungendo il milione di dipendenti (998.000 per la precisione) prima di essere scorporata a forza. La Microsoft di Bill Gates ha in pratica il monopolio mondiale del software di base.

Lettere ai compagni