39. Il comunismo non è un'idea ma una forza materiale che anticipa il futuro (5)

La fondazione dei partiti operai nella storia

Domanda: Si è condannata una certa concezione creativista del partito, ma al tempo delle Internazionali Seconda e Terza i partiti furono fondati, così come furono fondate le Internazionali stesse. Non è una contraddizione?

Risposta: Per quanto riguarda i partiti della Seconda Internazionale, al di là dell'atto formale di fondazione, essi furono il prodotto di un periodo organizzativo seguito a forti lotte operaie e alla costituzione di reti cooperative, di mutuo soccorso ecc., elementi questi ultimi che avevano in sé i germi del riformismo, fase attraverso cui il movimento operaio doveva passare per superarla, come sottolineato anche nel nostro Tracciato. Con la "fondazione" dei maggiori partiti socialisti si prendeva atto di una situazione reale. Mentre i partiti nascevano con atto costitutivo come prodotto di una situazione storica all'apice di un arco di lotte, l'Internazionale si formava lentamente come una lunga serie di compromessi fra le varie componenti del movimento operaio. Le corrispondenze di Engels dal 1889 in poi confermano una serie di manovre contrapposte fra le varie frazioni per giungere al controllo dei congressi attraverso i delegati e quindi si vede già un notevole deterioramento della politica.

In questo senso è più materialisticamente comprensibile la "fondazione" dei partiti socialisti che non il processo di aggregazione che porta alla gestazione e poi nascita della Seconda Internazionale, quest'ultima con una forte connotazione volontaristica sottolineata dalla lotta politica per la conquista dell'egemonia.

Per quanto riguarda la Terza Internazionale, è noto che essa è figlia della degenerazione della Seconda, cui reagiva, e della Rivoluzione d'Ottobre. Nel contesto sociale dell'epoca né la "fondazione" dei partiti comunisti, né quella dell'Internazionale stessa si possono dire volontaristiche. Tra il 1919, congresso di fondazione, e il 1920, il secondo, che fu il vero congresso costitutivo, nacquero una settantina di organizzazioni operaie in cinquanta paesi e quasi tutte aderirono all'Internazionale pur senza essere, di nome e di fatto, comuniste. Gli unici due partiti comunisti degni di questo nome erano il russo e l'italiano, che fu fondato nel gennaio del 1921. Il fatto è che la situazione mondiale era rivoluzionaria e tutte le forze organizzate del movimento operaio erano spinte in avanti.

Si era comunque ben distanti da ogni forma di organicità, perché l'Internazionale non era un unico partito comunista mondiale ma ancora una federazione di movimenti eterogenei. Mentre però sull'ondata rivoluzionaria ciò dava un fastidio relativo, dal 1921 in poi, quando tale ondata incominciò a rifluire, anche l'organizzazione incominciò a dar segni di manìe "creazioniste", suggerendo fusioni, fronti politici, aggregazioni elettorali e manovre che non c'entravano per nulla con le finalità comuniste per il partito e soprattutto per la rivoluzione.

Fu proprio la Sinistra a battersi contro questo aspetto del creazionismo bolscevizzante. Ricordiamo che la bolscevizzazione fu molto di più che non un semplice invito all'omogeneità organizzativa: fu il tentativo, generalizzato attraverso la disciplina formalistica, di sopperire con ricette politiche alla caduta della tensione rivoluzionaria nella società. In questo senso la Terza Internazionale degenerata fu l'esempio volontaristico più significativo nella storia del movimento operaio.

Questa politica dell'Internazionale non ha nulla a che fare con la volontà espressa dal partito nella situazione rivoluzionaria, quello che abbiamo chiamato "rovesciamento della prassi" e su cui ci siamo estesamente soffermati. Nel nostro concetto di volontà, che politicamente spetta solo al partito, non ci sono elementi generalizzabili a qualunque situazione. La manifestazione di volontà da parte del partito è in stretta relazione ad un movimento storico effettivo, quando si è di fronte non solo alla rivoluzione come processo ma alla serie di biforcazioni sconfitta/vittoria. E' un po' come se ci fossero due centrali di scambi ferroviari, quella borghese e quella comunista, che cercano di prendere il sopravvento nella guida del treno rivoluzionario verso la stazione della dittatura proletaria o verso quella della dittatura borghese nel complesso sistema delle ferrovie.

Anche in questo caso prevale il concetto di non-creazione, dato che il miglior partito comunista non può manifestare la sua volontà su qualcosa che non c'è.

La Sinistra comunista, l'opportunismo e il Partito

Domanda: Si è parlato molto di opportunismo. Non vi è una connotazione moralistica in questo concetto? E non ha la Sinistra dato risposte più precise rispetto alle formulazioni di Lenin? Non si dovrebbe giungere a "dare la colpa all'opportunismo" se la situazione è negativa, ma capire bene che cosa debbono fare i comunisti in tale situazione. Perché rifiutate di organizzarvi in partito?

Risposta: Prima abbiamo fatto una galoppata attraverso il tema del comunismo e abbiamo appena sfiorato l'enorme problema di che cosa sia effettivamente l'opportunismo, quale forza rappresenti all'interno di questa società. Il termine in sé stesso è ammesso da Marx ed Engels, ma viene usato massicciamente, come artiglieria pesante, solo con Lenin. La definizione classica, un po' soggettiva ma valida per descrivere l'atteggiamento di quei partiti che tradiscono, è questa: "sacrificare la rivoluzione di domani in cambio di un effimero risultato di oggi".

Come si vede è la precisa contraddizione rispetto al concetto di rivoluzione in permanenza di cui abbiamo parlato. Ma per la Sinistra, giusta la domanda, l'opportunismo non è un fenomeno di natura soggettiva, la cui origine possa essere ricercata nella corruzione morale o politica di individui e organizzazioni. Il fenomeno è invece di natura storica e sociale, per cui il proletariato, come è detto nelle nostre tesi (34), invece di schierarsi compatto su di un fronte di battaglia contro l'altro fronte compatto della borghesia, in certi momenti si trova a combattere su di un terreno composito, dove le forze sono sparpagliate e l'avversario si mescola e compenetra con le organizzazioni rivoluzionarie. In queste situazioni, l'influenza delle classi intermedie, che costituiscono non un blocco ma una sfilacciata rete stesa su tutti i fronti, diventa determinante per l'affermazione di teorie imbastardite da interessi in bilico fra l'esproprio, quindi la proletarizzazione, e la tendenza ad andare verso la borghesia, oggetto di invidia sociale.

Le situazioni negative per il proletariato non sono il prodotto dell'opportunismo, semmai ne sono il fattore. E' tipico delle mezze classi infiltrarsi negli spazi sociali che le due grandi classi antagoniste lasciano momentaneamente scoperti. Nelle nostre Considerazioni sull'organica attività del partito quando la situazione è storicamente sfavorevole, del 1965, alla domanda fin troppo classica che ci è stata appena posta, cioè "che fare?", si risponde semplicemente: tutto. Poi viene aggiunto, in coerenza con la concezione antivolontarista e antivelleitaria dei comunisti: tutta l'attività tipica del partito rivoluzionario nei momenti favorevoli nella misura in cui è consentita dai rapporti reali di forza. Come si vede, tutto si gioca sulla precisazione, sulla capacità di capire quali sono i veri rapporti di forza e quindi le possibilità di azione non velleitaria.

Abbiamo visto che per Marx ogni tentativo di rovesciare questa società sarebbe donchisciottesco se non esistessero in essa gli elementi materiali di quella nuova; allo stesso modo ogni azione immediata sarebbe donchisciottesca se non esistessero possibilità materiali di trarne risultati (o insegnamenti, il che è lo stesso).

Noi, per esempio, facciamo attività sindacale "normale". Cosa vuol dire normale? La cosa più semplice di questo mondo, quella che anche consigliava Lenin: lavoriamo nei sindacati così come sono, anche se non sono come vorremmo, anche se sono integrati completamente nello Stato, anche se non si può fare quasi niente al di fuori dell'intervento nelle assemblee, l'organizzazione di qualche sciopero, insomma, le solite cose. Tutto ciò per alcuni è "poco". Siamo d'accordo. Ma non parteciperemo mai, solo perché si può far poco, alla criminale seminagione di teorie sulla cosiddetta questione sindacale e quel che è peggio ai vari tentativi di "importare" queste stupidaggini all'interno della classe operaia, scimmiottando alcuni insegnamenti di Lenin senza capirli. Magari contribuendo anche alla proliferazione di sigle e siglette sindacali dietro cui quasi sempre c'è meno che niente.

Allo stesso titolo ci rifiutiamo di costruire nuovi partitini che vadano ad aggiungersi ai troppi che ci sono già solo perché si è disintegrato quello in cui noialtri si militava. Quello era un partito che aveva dignità di esistenza per via di una storia che si collegava all'Internazionale Comunista e anche prima. Nessuno riuscirà mai a cavare dalle tesi della sinistra giustificazioni per le diffuse idiozie sulla fondazione di partitini e sindacatini. Per il risultato di un momento si sacrificano possibilità della rivoluzione futura. E ognuno ha la sua ricetta.

Noi siamo ben consapevoli di non avere ricette e non facciamo come il nostro ex partito che, persa la bussola, da ranocchia si gonfiava immaginando di diventare come un toro. Sappiamo come è finita. Ci siamo trovati nella diaspora di "Programma" e abbiamo combattuto la tendenza a fondare un altro partito. Dicevamo ai nostri compagni: questo non c'entra con la volontà comunista, questo è volontarismo, è voler far girare indietro quel piccolo pezzo di storia che ha portato alla scomparsa del partito, non ricordate quel che Amadeo disse nel '25, cioè che la Sinistra non si sarebbe sentita in dovere di fondare un partitino solo perché quattro militanti si trovavano a spasso?

La nostra volontà oggi si può manifestare in dosi microscopiche. I libri, per esempio, non nascono sugli alberi, li dobbiamo stampare. E li stampiamo perché vogliamo farlo. Non che ci sia un "mercato" ad attenderli, ma lo vogliamo fare perché non possiamo fare molto di più, vogliamo rendere disponibile il patrimonio della Sinistra per i giovani di oggi e soprattutto di domani. Naturalmente non stampiamo solo libri, chiamiamo altri a lavorare con noi e, si sa, l'unico modo per lavorare seriamente è farlo in modo organizzato. La "struttura" del nostro lavoro la si trova nelle Tesi di Napoli, gli obiettivi anche, perché vogliamo aderire al programma che altri ci hanno lasciato in eredità. Questo è il nostro piccolo, minuscolo, rovesciamento della prassi.

Il mito come ponte fra umanità antica e futura?

Domanda: Premesso che trovo interessante il vostro approccio "inconsueto" ai temi del marxismo, mi chiedo se nella ricerca sul divenire del comunismo, come l'avete esposto, non vi siano da prendere in considerazione alcuni fenomeni sociali tipici del capitalismo fascista, supersviluppato. Mi riferisco al sorgere di temi ripresi dai miti, specialmente da parte del nazismo ("sangue e terra", saghe nordiche, tutto un mondo mutuato da società antitetiche rispetto al capitalismo) e mi chiedo: se il mito classico è un precedente e un esempio per il mondo reale dell'epoca (35), non si può forse rovesciare la questione? Cioè dire che alcuni miti antichi resuscitati dal capitalismo sono un'esigenza della società futura che preme?

Risposta: Può darsi, ma non siamo esperti di miti e non conosciamo studi materialistici su questo argomento. Il legame "terra e sangue" ci risulta essere alla base del diritto ereditario germanico e non ne sappiamo niente sui possibili legami con le saghe nordiche. D'altra parte il capitalismo odierno porta a chiamare "mito" Marilyn Monroe e i ragazzini hanno il loro "mito" nel cantante del momento, per cui sembra che la società odierna sia addirittura nella fase di abolizione del mito attraverso la sua volgarizzazione estrema.

Ogni fenomeno sovrastrutturale ha certo spiegazioni materiali complesse, ma in genere sono gli idealisti che si appropriano dell'argomento, come i Bachofen, gli Eliade, i Jung, gli Evola. Anche se le spiegazioni di costoro sono più godibili di quelle dei positivisti e degli storicisti, forse manca una letteratura marxista sul mito e, come al solito, se qualcuno ha voglia e tempo, approfittiamo per suggerire una ricerca sull'argomento (inviateci poi però i risultati).

In Psicologia di massa del fascismo Wilhelm Reich, citando Marx, parla dell'ideologia come fatto materiale in quanto essa ha un'azione retroattiva sul processo economico, quindi vede il mito nazista non tanto come rivisitazione del passato ma come razionale utilizzo moderno, seppure inconscio, di irrazionalità arcaiche. Analizzando passi tipici della pubblicistica nazista egli dimostra come, nell'ideologia tedesca di quegli anni, siano esaltati nello stesso tempo il dispotismo patriarcale, incarnato dalla famiglia come nucleo basilare dello Stato tecnologico, e l'ancestrale culto della madre, identificata con la Germania in quanto Terra sacrale, ma anche in quanto patria del capitalismo tedesco bisognoso di crescita come un pargolo cui difetti il lebensraum, lo spazio vitale. Sappiamo che Bachofen, individualmente reazionario ma arguto tessitore di relazioni fra le discipline, fu collocato dagli intellettuali nazisti tra i loro precursori proprio in quanto storico del matriarcato.

Forse più che negli archetipi di Jung, radicati nella storia antica che ognuno di noi si porterebbe dentro, vediamo nella via psicoanalitica-sociale di Reich un modo interessante per parlare del mito. Se non altro perché Reich, pur senza essere un buon marxista come invece immagina, giunge ad una buona descrizione del nazismo e dello stalinismo (che occupano nel suo libro lo stesso spazio) attraverso negazioni di umanità, non nel senso morale ma di specie. La parte sullo stalinismo è per esempio migliore di quella sul fascismo in quanto egli può ironizzare sui pretesi rivoluzionari che predicano l'estinzione dello Stato e della famiglia cercando di instaurare nuovi miti, mentre non fanno che piombare nella più triviale apologia di entrambi.

Di primo acchito sembrerebbe dunque escluso un revival del mito che sia spiegabile attraverso la spinta di elementi di comunismo presenti in questa società. E' vero che, se anche così fosse, le manifestazioni del mito sarebbero mascherate in mille modi dalla natura capitalistica dei rapporti sociali, ma sembra difficile, soprattutto per quanto riguarda il mito come anticipazione del futuro.

La Lega bossiana sembra aver avuto bisogno, ad un certo punto, di rispolverare i miti celtici, la sacralità del Po e amenità del genere, ma il contesto non garantiva nessuna serietà al fenomeno e sembra che la cosa sia finita lì. Forse sarebbe più promettente l'indagine sul rigurgito millenaristico di irrazionalità pura, capire per esempio come si possano vendere a decine di milioni i libri sulle "canne" di Don Juan e sulle profezie di Celestino o trovare sfogo nelle mille fughe nel misticismo oggi di moda.

Ma su questo possiamo dire poco, come poco può dire la moderna sociologia. Tuttavia c'è un mito che ritorna alla ribalta prepotentemente sia nelle politiche dei governi che nelle parole della Chiesa, queste ultime sempre da ascoltare attentamente (duemila anni di esperienza le permettono di anticipare i problemi sociali). Non è un caso che il disfacimento sociale di quest'epoca produca un ritorno della famiglia come problema e come vagheggiata soluzione. Non è un caso che la borghesia, nell'estremo tentativo di salvaguardare sé stessa, ricorra alla famiglia come elemento fondamentale capace di cementare ciò che il capitalismo disgrega. Che poi la famiglia stessa riesca a rappresentare una soluzione è un altro discorso, ma intanto, tra ammazzamenti, torture e stupri incrociati fra i vari gradi di parentela, la famiglia ridiventa un ammortizzatore sociale. Non è un caso che la stragrande maggioranza dei giovani, oggetto di sondaggi a raffica in quanto consumatori, ripongano nella famiglia le loro aspirazioni.

La parte più interessante, nel libro di Reich, è quella dove viene minuziosamente descritta la rinascita del mito della famiglia nell'URSS, attraverso il fallimento delle comuni e il sopravvento delle esigenze produttive del capitalismo in marcia. E il parallelo col nazismo - parallelo che non ha nulla a che fare ovviamente con le moderne sciocchezze antitotalitarie - in Reich è particolarmente tragico, anche come effetto letterario.

Stati alterati di coscienza dell'esistente

Domanda: Se la Chiesa è preoccupata del ritorno di certe forme di irrazionalismo misticista che non rientrano nei suoi canoni, anche la borghesia lo è, tranne poi mercificare al massimo anche questi fenomeni e trarne profitto. D'altra parte vi sono movimenti contro la proprietà privata e contro la mercificazione dilagante. Pensiamo agli hackers che lottano contro ogni forma di copyright. E comunque non sono modi di pensare che esulano in qualche modo, anche se in forme patologiche, dall'ordine di cui avrebbe bisogno la borghesia?

Risposta: Il ritorno all'irrazionalismo è un fenomeno di massa che può coesistere con le esigenze della borghesia e della scienza di questa epoca. Pensiamo soltanto alla letteratura cosiddetta cyberpunk o simili, dove la tecnologia e la scienza vanno a braccetto con le manifestazioni oniriche più disparate. Pensiamo a quella setta di programmatori e tecnici cibernauti che ha voluto raggiungere la pace eterna nel segno della cometa che si avvicinava (sempre che i giornali non ci abbiano raccontato balle).

Certo, gli organi ufficiali della borghesia prendono le distanze, trattando la questione sociologicamente, tant'è vero che sulle riviste scientifiche, per fare un esempio, non è raro trovare articoli di qualche ultrà scientista che si scaglia contro l'ondata New Age in difesa del materialismo come lo intende lui. Ci vuol altro. Per noi non ha senso, sarebbe come fare la critica delle maree: esistono, hanno degli effetti; a noi interessa capire come e perché si manifestano, quali sono le forze che le muovono.

La borghesia non può fare a meno di utilizzare tutto ciò che la società capitalistica suscita; e naturalmente cerca di utilizzarlo per la propria salvaguardia, oltre che per vendere, che è poi la stessa cosa. Ora, tutte le tendenze orientaleggianti, para-olistiche, mistiche, ecologiche ecc. sono terribilmente simili. Esse prendono lo spunto da società antiche o da risultati moderni che hanno in comune la vita di specie e il suo cervello collettivo, il superamento dell'individuo e la sua armonizzazione con l'universo. Si nutrono di paroloni presi a prestito da una sapienza che manco poteva immaginare l'alienazione capitalistica. Eppure giungono sempre al contrario di ciò che esse stesse prendono per base, giungono cioè sempre all'esaltazione dell'individuo, alla potenza della sua mente, alla giustificazione dell'impotenza altrui, alla chiusura verso il mondo da parte dei loro adepti.

Potrebbe essere (ma non esiste ancora un modo marxista di affrontare la psicologia) che questa società susciti un bisogno di comunismo e che nello stesso tempo lo stritoli in un mare di ingranaggi fatti di luoghi comuni e di idiozie propalate a bella posta per gli ingenui. Certamente si può ridere, ma il dato tangibile è che un libro su buoni sentimenti e messaggi mistici, scritto talmente male che nessuno aveva voluto pubblicare, da qualche anno è di gran lunga in cima a tutte le classifiche di vendita. Il marxista non ride, legge curioso e si chiede perché.

La borghesia fagocita tutto e lo trasforma in suo vantaggio. Da questo punto di vista è la classe che ha più esperienza nella storia, è versatile. Democrazia o Budda, Fascismo o Cristo, New Age o Confucio, esoterismo o Celestino, ha adottato tutto, purché sia tranquillizzato il cosiddetto utente, angosciato dal lavoro, dalla famiglia, dal denaro (o meglio dalla sua mancanza) e da un'esistenza senza senso. E l'angoscia moderna, la depressione è malattia da ospedale (36).

Napoleone aveva continuato la sua marcia sulla spinta della rivoluzione borghese, senza andare per il sottile se sul percorso si trovavano preti e conventi con i loro beni (confiscati). Era per la Chiesa uno di quei pochi Anticristo che essa combatté nella sua storia millenaria. Eppure uno dei pilastri del suo potere fu proprio la Chiesa, e questa ben presto lo accettò come se rappresentasse il volere dello Spirito Santo. Mistica e materialismo volgare, illuminismo e ciarlatanesimo, pragmatismo e idealismo, con la borghesia vano a braccetto. Ci sarà di nuovo da ridere se riuscirà a spedire una missione con equipaggio verso Marte, con corollario di inni alle grandi conquiste dell'umanità tutta, incensi all'eternità del capitale e avvicinamenti agli alloggi di Dio (e speriamo che non ci siano di nuovo defezioni nei nostri ranghi già così ridotti). Da una parte c'è quello che abbiamo chiamato "rigurgito di illuminismo" tutte le volte che ci si è trovati di fronte a quello che la borghesia stessa pretende di trattare come freddo fatto scientifico; dall'altra emerge l'irrazionalismo più bieco e sbracato.

Tutto questo irrazionalismo potrebbe essere un'arma a doppio taglio. Se è vero che la borghesia utilizza benissimo anche l'irrazionale, la mistica e tutto ciò che gli uomini possono inventare per drogarsi, è anche vero che l'irrazionale stesso non deve in nessun modo contaminare il mondo della produzione, campo di applicazione della razionalità scientifica. Il razionalissimo mondo integrato di cui i borghesi vanno tanto fieri non è per nulla possente, è, al contrario, fragile e indifeso. Non saprebbe come rispondere di fronte ad una perdita di controllo. E sappiamo che il controllo è direttamente legato a un equilibrio fra scienza dell'organizzazione e ciò che ne deriva come sottoprodotto, cioè l'irrazionalità di cui stiamo parlando.

La perdita di certezza da parte della borghesia è un fatto storico: sono lontani i tempi in cui Laplace lanciava il proclama rivoluzionario della scienza borghese sulla base della rivoluzione meccanica e sociale; oggi è altamente sociale solo il mondo della produzione, mentre fuori prendono piede le teorie del dubbio, l'esistenzialismo, il nichilismo, la frenesia da parte dell'individuo di risolvere da sé problemi irrisolvibili. Non c'è miglior nemico del Capitale che il Capitale stesso. La battuta è di Marx, non nostra. Di come il partito della rivoluzione può sfruttare queste condizioni, abbiamo già parlato.

Lector in fabula

Domanda: E' come dire che il capitalismo non è più in grado di scrivere le sue proprie fiabe, e forse nemmeno di trasformare quelle antiche secondo la comprensibilità del vivere moderno, come fece notare Propp...

Risposta: E' curioso come questo argomento - diciamo sovrastrutturale - abbia catturato l'attenzione dei compagni. Comunque la fiaba non può che avere un substrato materiale. Nessuno inventa nulla. Anche quando si favoleggia si è ben legati alla realtà materiale che si seguita a vivere. E' però in qualche modo, la fiaba, sempre trasposizione ideale e, per conseguenza, critica; essa non può avvalersi di strumenti scientifici nell'indagine della realtà, perciò diremo che è un anelito a un mondo migliore. Solo che, mancando di strumenti teorici, più che guardare in avanti ha la tendenza a guardare all'indietro, cioè a rielaborare il passato, a idealizzarlo, a renderlo aulico.

La prima rivoluzione nazionale, di cui si conservi traccia scritta, fu quella degli Ebrei, capaci di ribellarsi al Faraone e attraversare il Mar Rosso: il racconto che ne scaturì non rappresenta storia ma mito di una Terra Promessa. Tutte le rivoluzioni vanno verso la Terra Promessa. Ma quel tempo è passato per sempre. Anche se si scrive sempre di più, com'è ovvio nel mondo della produzione di merce-romanzo, oggi non si favoleggia come un tempo di rivoluzioni e nemmeno si trascrive piccola sapienza popolare, forse perché non c'è più. La fiaba moderna è ben rappresentata dalle rovinose atmosfere di Blade Runner, dalle macerie e dai deserti industriali che troviamo nei libri di Gibson, dalle società disfatte descritte in quelli di Ballard. Sono magari odissee di struttura classica, ma sono trasformate negli incubi di un futuro che il borghese non riesce ad immaginare diverso dal suo presente (il suo Bronx, le sue favelas, la sua casbah). E il lettore sottoscrive, trovando sé stesso nella favola moderna (37).

Il marxismo è davvero scienza umana perché è capace di non demolire solamente ma di valutare tutto il percorso della conoscenza umana come un lungo, interminato ponte. Ciascuna arcata di questo ponte è, in tutti i casi, essenziale. Quando cioè la conoscenza si sia dimostrata veramente sovvertitrice di canoni già dati, ormai sclerotizzati, anche se a proporla fosse un santo, per noi è scienza di quel tempo. Sant'Agostino fu, a suo modo, uno scienziato; la sua concezione è, per l'epoca, eminentemente rivoluzionaria. Un San Tommaso che compie il tentativo, iniziato da Anselmo, di sposare fede e ragione, è un rivoluzionario.

Oggi la scrittura fantastica paradossalmente non è più fantastica, ma è la descrizione, solo un po' colorita, di ciò che esiste, cioè la dimostrazione che il capitalismo sopravvive a sé stesso come uno zombie.

Attività immediata: taccia l'impulso velleitario

Domanda: Si è accennato, durante l'esposizione, all'attività sindacale. Diciamo che essa è uno degli elementi dell'attività generale, descritta con la parola "tutto". Forse è necessario precisare il significato del passo citato e contenuto nelle Tesi della Sinistra.

Risposta: Le Tesi rispondevano, come sempre, ad una esigenza di chiarezza all'interno del partito. Prima di tutto perché c'era un partito, ma questa non è la cosa più importante, dato che esso aveva ben poche possibilità di azione. E' invece fondamentale tener presente che in una situazione storicamente sfavorevole, quale è quella presa in considerazione dalle Tesi, in ogni organizzazione o gruppo di uomini si incomincia a discutere sulla "questione" tale o sulla "questione" talaltra. Curiosamente le questioni nascono quando la storia non le pone, mentre quando le pone l'umanità invece di discuterne si lancia alla loro soluzione.

Non esiste la possibilità di compilare un bignamino delle cose da fare o da non fare. Come abbiamo detto in una nostra Lettera, solo chi non sa cosa fare pone la domanda Che fare? Lenin rispondeva ad altri, lui sapeva benissimo cosa fare.

Certo, la parola "tutto" va delimitata, ma il contesto in cui furono scritte le Tesi ci indica che la delimitazione va cercata più nelle possibilità reali, nei rapporti di forza, che non in uno statuto interno che dica: questo sì, questo no, questo forse. Probabilmente è proprio nel campo sindacale che si vede meglio come un buon militante non abbia altri limiti che quelli dei rapporti di forza: egli dovrebbe, se può, organizzare assemblee, scioperi, manifestazioni, gruppi sindacali su obiettivi specifici e generali, gruppi comunisti, fare a botte con i sindacalisti (succede), conquistare maggioranze locali e generali, conquistare addirittura l'intera organizzazione sindacale o costituirne una nuova se è il caso. In genere non può, ma il limite non è voluto da lui o da una regola statutaria. Oltretutto in una regola non possono essere inseriti elementi imprevisti. Che fa allora il militante in questione? Telefona in sede? Chiede consulto ai capi?

Ovviamente il processo che ha portato il sindacato ad essere quello che è non è reversibile, quindi non possiamo far girare indietro la storia e ritornare ad un sindacato come fu per esempio la vecchia Confederazione di D'Aragona negli anni '20. Il sindacato ce lo teniamo corporativo e fascista così com'è, a meno di non dimostrare che si prende Lenin per quello che ci piace e lo si dimentica per quello che non ci fa comodo. Se c'è una cosa chiara in Lenin è che bisogna lavorare in qualunque sindacato. La Sinistra ha solo aggiunto: a meno che non sia statutariamente proibito ai comunisti di fare attività, non sia praticamente impossibile starci, o non sia una emanazione fittizia dello Stato. E anche in quel caso, se fossero precluse tutte le altre strade, Lenin dice che si lavora clandestinamente. Grande scandalo.

Noi abbiamo sempre fatto attività nei sindacati così com'erano e d'altra parte abbiamo anche seguito con interesse tutte le attività "alternative" che la terribile situazione a volte impone agli operai di cercare. Ci si potrebbe chiedere a che serve l'attività sindacale in sindacati di tal fatta. La domanda è oziosa perché può essere bloccata da un'altra simile: dove svolgere l'attività, allora? si "crea" un altro sindacato? Sciocchezze, perché chi ha la forza di creare un altro sindacato ha anche la forza di prendersi, a cazzotti, quello che c'è. Un principio fondamentale è quello di non disperdere mai le forze, il sindacato non è il partito e la sua omogeneità di classe non è da confondere con l'omogeneità politica dei comunisti. Anzi, questo fu un errore tragico nella storia del movimento operaio. E' una follia teorizzare sindacati di soli comunisti: il partito che ci sta a fare?

Come sempre, anche in questo caso diciamo che la forma non ha importanza, l'importante è che organismi proletari continuino ad esistere. Non è affatto impossibile fare attività sindacale oggi, come hanno dimostrato i nostri gruppi di fabbrica, a volte promotori di lotte non trascurabili. E' difficile, soprattutto per il seguito che possono avere le nostre posizioni, ma non impossibile. Da questo punto di vista è assolutamente istruttiva l'esperienza degli operai polacchi. La genesi di Solidarnosc è da manuale e bisognerà scriverne un opuscolo che serva da guida. Non importa com'è andata a finire, non poteva essere diversamente, ma è carico d'insegnamenti il modo in cui si è sviluppata la lotta e poi la sostituzione dell'organismo sindacale (statale) sclerotico preesistente con un sindacato di massa con milioni e milioni di iscritti. E questo con un colpo di Stato che pendeva come una spada di Damocle e le truppe russe alle porte.

In Russia durante la rivoluzione i sindacati non ebbero una funzione rilevante. Può darsi che gli organismi immediati in Occidente nascano con altre caratteristiche. Può darsi. Ma non ha nessuna importanza: quel che importa è che ci siano e che al loro interno ci siano i comunisti, possibilmente alla direzione.

Per quanto riguarda il resto dell'attività, la parola "tutto" è legata alla natura della nostra teoria. Come dice Marx nel Manifesto, i comunisti non si distinguono per delle idee ma per il fatto di rispecchiare il futuro del movimento. Tutto, vuol dire tutto ciò che non è in contrasto con la teoria marxista, ma in particolar modo ciò che può rappresentare una demolizione di barriere verso il futuro o, che è lo stesso, uno strumento per la sua affermazione, anche nei rapporti quotidiani tra gli individui, nel contesto generale di cui parla la Sinistra quando sottolinea la citata necessità di un ambiente comunista e ferocemente antiborghese.

La legge dell'Ufficio Complicazione Affari Semplici

Domanda: Purtroppo la situazione non è così semplice come sembra emergere da questo incontro. Vi sono masse di milioni di uomini colpite dalla crisi attuale provocata dai rapporti imperialistici; vi sono qui da noi operai che si auto-organizzano a partire da un rifiuto della politica sindacale corrente; vi sono situazioni in cui non si può fare come se tutto fosse chiaro, perché la società è complessa e pone dei problemi difficili da capire e da risolvere. D'altra parte la Sinistra ha ribadito nei suoi testi un percorso molto classico per la ripresa della lotta di classe, come per esempio in Partito rivoluzionario e azione economica del 1951, e qualcuno potrebbe capire, ascoltandovi, che quell'impostazione non è più valida. Vi sono oltretutto diversi gruppi che si richiamano alla Sinistra Comunista e che intendono diversamente da voi le questioni qui affrontate. Come vedete la complessità di questi problemi?

Risposta: Uno dei problemi più difficili che ci troviamo di fronte quando discutiamo è quello di rendere chiaro il concetto che una società come quella capitalistica non si complica con il passare del tempo, ma si semplifica. Il capitalismo ha sollevato un mucchio di problemi sulla sua strada, mentre cresceva. Mercanti, fabbricanti e banchieri hanno affinato i loro strumenti, sono nati il mercato mondiale e la finanza globale, le colonie, la guerra commerciale e quella imperialistica, guerreggiata. E' vero che il capitalismo si è dato strumenti sempre più complessi, come nel caso del sistema del credito e della finanza, e di qui possono scaturire alcuni effetti come la crisi attuale; ma da quando ha raggiunto il suo vertice, il capitalismo non fa che semplificare i rapporti generali. Non è vero che le cose si complicano. Non lasciamoci influenzare dagli effetti del capitale globale, badiamo alla sua essenziale struttura e vedremo che esso si avvicina sempre più agli schemi astratti di Marx (38).

Se noi proviamo ad analizzare alcuni aspetti della società borghese nella sua dinamica storica, vediamo che la semplificazione dei rapporti è più importante della complicazione di certi aspetti secondari. Il colonialismo, per esempio, era una molla essenziale per l'accumulazione storica del Capitale, ma è morto, non c'è più. E quel che è più interessante è il fatto che esso è scomparso più per l'effetto del Capitale stesso che per le guerre d'indipendenza. La Sinistra ha sottolineato come gli Stati Uniti abbiano rappresentato, in tutta la loro storia, una vera e propria macchina di demolizione anticoloniale contro la Spagna, la Francia e l'Inghilterra. E quindi per i comunisti non esiste più una "questione coloniale", è finalmente cessata una volta per tutte la causa prima dell'antica diatriba che ha impegnato i nostri compagni fino al secondo dopoguerra.

Finita l'epoca coloniale, vediamo che le borghesie nazionali sono cresciute più per l'afflusso di capitali esteri che per virtù rivoluzionaria propria e in tutto il mondo non esiste più una borghesia che debba ancora passare attraverso la sua rivoluzione nazionale. Perciò non esiste più, almeno in senso classico, neppure una questione nazionale. Essa è stata sostituita dagli interessi specifici di popolazioni ed etnie che, oppresse od opprimenti, vivono numerosissime su molte aree del globo, ma sempre più costrette a combattersi fra loro piuttosto che contro i grandi centri imperialistici. Esse sono quindi soggette a una balcanizzazione regionale generalizzata che suscita problemi non assimilabili al vecchio nazionalismo e trattabile, nella maggior parte dei casi, come Engels trattò il problema degli slavi.

Anche a proposito delle masse contadine povere del pianeta, che secondo tesi opportunistiche sarebbero soggette ad una sorta di neocolonialismo, abbiamo qualcosa da ridire. Se è vero che l'agricoltura mondiale, avendo perso ogni autonomia, è controllabile direttamente dai grandi centri capitalistici e dagli stati tramite la semplice manovra sui sussidi, se non esiste più un'agricoltura senza sostegno statale, è anche vero che non esiste più una "questione contadina" neppure nei paesi con la popolazione a maggioranza contadina. Infatti la struttura del ciclo alimentare e delle fibre è completamente soggetta all'industria, alla finanza e ora anche alla produzione in pochi punti del globo di sementi e capi di bestiame dovuti all'ingegneria genetica. L'agricoltura di sussistenza è stata ovunque sostituita dall'agricoltura di scambio. La marxista "questione agraria" che nella Russia del 1917 era anche "questione contadina" non ha più nulla a che fare con la povertà del contadiname non ancora espropriato. Noi comunisti, come dice la Sinistra, non dobbiamo essere indifferenti verso le eventuali potenzialità sovvertitrici di strati sociali diversi dal proletariato, anche se fossero autentiche rimanenze di barbarie all'interno della civiltà, perché potrebbero diventare "uno dei proiettili della rivoluzione che la deve sommergere" (39). Ma la stessa Sinistra ci invita a non fermarci a questa considerazione anti-indifferentista: quello di risolvere problemi arretrati è un compito che il proletariato eredita dalla borghesia inconseguente, come dice Lenin (Due tattiche), e tali problemi si risolvono nella e per mezzo della rivoluzione proletaria, non certo riconoscendo validità, in Russia e quindi tantomeno oggi, alle rivoluzioni borghesi. Altrimenti prendiamo Lenin e tutta la Sinistra e li buttiamo nel cestino.

Più in generale, a proposito di "oppressione" e "sfruttamento" delle masse povere, non è marxista accampare il "diritto" allo sfruttamento nazionale delle risorse agrarie o sotterranee ai soli popoli autoctoni, come se si dovesse riconoscere ad essi il diritto alla proprietà. Anche in questo caso la questione è più semplice di come la pongono i democratici anti-imperialisti di maniera: nel Filo Patria economica? del '51 si afferma chiaro chiaro: "Che la nazionalizzazione iraniana del petrolio significhi vincolo al profitto ed extraprofitto capitalista britannico, e conquista per il benessere dei poveri lavoratori del petrolio o dei poveri contadini servi della gleba e pastori vaganti persiani, ecco l'immensa menzogna che l'analisi marxista deve sventare. Per essa è fatto utile e rivoluzionario che chi sa, può ed è attrezzato a estrarre e sfruttare tecnicamente petrolio si installi oltre i mari ove il petrolio si scoprirà, ed il suo diritto deriva come tutti i diritti da forza e da risorse produttive ed economiche, ma non vale meno del pronipote di Artaserse o del primo ministro dello Scià, o del romantico pastore errante nell'Asia" (40). Sarebbe stato cioè fatto utile e rivoluzionario che L'Iraq avesse potuto non solo tenersi il Kuwait, ma prendersi anche l'Arabia Saudita, oppure che, visto che non simpatizziamo per nessuna borghesia, gli Stati Uniti invadessero tutta la zona e trasformassero la Mecca in una qualsiasi piazza San Pietro con turisti, cartoline, Coca Cola e tutto il resto. Sono esempi di fantasia, certo, ma ci servono come didattica marxista per uscire dal luogo comune che ci abbinerebbe a democratici, pacifisti e opportunisti in genere. Del resto si sa che Bordiga aveva scandalizzato tutti auspicando la vittoria dei nazisti nella Seconda Guerra Mondiale, come fatto utile e rivoluzionario.

E anche a proposito della subordinazione economica di paesi deboli, specialmente del Terzo Mondo, alle centrali imperialistiche, si deve precisare che è cessata per sempre la separazione fra capitale industriale e capitale finanziario e che la struttura dei prestiti internazionali è un normalissimo rapporto capitalistico simile in tutto a quello esistente all'interno dei singoli paesi. Oggi i maggiori capitalisti devono far ricorso in prima persona a strumenti finanziari creati all'interno delle loro imprese, mentre i piccoli, che non ci riescono, sono impiccati dalle banche o vengono espropriati dai grandi. Inoltre la centralizzazione ha sostituito la concentrazione, per cui grandi centri di controllo economico si stabiliscono su più settori produttivi; la vecchia suddivisione capitalistica per sfere produttive viene a cadere e l'unificazione del Capitale in poche mani è più evidente che mai. Più ancora è stata cancellata la vecchia dispersione dei piccoli capitali singoli inutilizzabili per la loro inconsistenza: oggi enormi concentrazioni di capitali un tempo dispersi sono possibili tramite la raccolta capillare dei fondi d'investimento, pensionistici, assistenziali, assicurativi. Questi capitali si investono ormai in tempo reale e indipendentemente dai territori nazionali, quindi è superata anche per questa via la presunta soggezione neocolonialista, cioè da parte di nazioni, dato che un qualsiasi grande gruppo industriale o finanziario può muovere capitali pari al prodotto lordo di venti o trenta paesi poveri. E' curioso notare che dello stesso fenomeno si lamentano, per esempio, anche settori all'interno dei paesi capitalistici avanzati (vedi Bossi, la Lega e le rivendicazioni autonomistiche regionali) (41).

Non bisogna interpretare la complessità dovuta alle normative legali e burocratiche dei vari paesi come una negazione dell'effettiva semplificazione dei rapporti capitalistici. Il fascismo ha per esempio semplificato il rapporto fra lo Stato e l'economia. E con le politiche derivate dagli schemi keynesiani post-bellici tale rapporto continua a semplificarsi, come dimostrano le varie "manovre", che fanno leva sui parametri elementari di formazione e ripartizione del plusvalore. Di conseguenza è scomparsa completamente l'autonomia dell'industria, schiacciata fra la finanza, cui essa stessa ha dovuto ricorrere fondando le proprie banche interne, e le politiche statali. Tale fenomeno ha assunto forme sovranazionali, con la nascita di superpotenti organismi mondiali come il FMI, la BCI (Banca mondiale), il WTO (organizzazione mondiale per il commercio). Ma in questo modo è scomparsa anche ogni autonomia statale, compresa quella degli stati più grandi e potenti. Il Giappone deve badare alle leggi imposte dai "mercati" come lo deve fare l'Indonesia o qualsiasi altro paese, e gli stessi Stati Uniti non sono più in grado di dominare come un tempo l'intera politica economica mondiale.

Ma oltre alle grandi questioni, si semplificano anche problemi che interessano la classe nei suoi rapporti quotidiani con il Capitale. Per esempio, il problema della "difesa del posto di lavoro", nell'epoca in cui la borghesia scodella un best seller intitolato La fine del lavoro, è diventato un non-senso palese. Non vedevamo l'ora, dice Bordiga, che le macchine liberassero gli uomini dal lavoro coatto. Si semplifica persino la composizione di classe, quando vediamo che diminuisce il numero dei capitalisti, aumenta il numero dei salariati produttivi e improduttivi, si acuisce l'impotenza delle mezze classi, tartassate dalla minor disponibilità, per esse, di plusvalore nella società. Si potrebbe continuare, ma crediamo che siano sufficienti questi pochi punti per dimostrare che il mondo capitalistico si semplifica, anche se di primo acchito sembra il contrario per via della grande complessità delle relazioni e dei controlli burocratici di organismi e stati. Tutto ciò ha risvolti anche nella politica di tutti i giorni e l'abbiamo dimostrato prima attraverso l'esempio delle campagne di denuncia sollecitate da Lenin. In Russia condizioni arretrate costringevano la propaganda e l'azione ad assumere compiti ancora democratici. Oggi, a parte il fatto che Lenin è chiarissimo sulla democrazia, nessun compito borghese può essere assunto dai comunisti, a meno che non si tratti di risolvere problemi arretrati nel corso delle rivoluzione proletaria, mai prima. Questo è il concetto di "rivoluzione doppia".

Se oggi non è ancora tanto agevole dire che potenzialmente il capitalismo non esiste più senza suscitare perplessità, è però ormai inutile spiegare che in Russia non c'è socialismo ma capitalismo, lo sanno tutti, e tutti sono ormai disposti a riconoscere che neanche nel passato c'era socialismo; al massimo si intestardiscono sulla parola comunismo come fatto politico totalitario e antidemocratico. Eppure abbiamo passato quasi mezzo secolo a gridare nel deserto che la Russia non era socialista ma capitalista. Non importa, la barriera è caduta. Marx lo dice che la rivoluzione innalza barriere al solo fine di poterle distruggere e avanzare. Noi stessi a volte constatiamo che abbiamo bisogno di ostacoli per poter andare avanti, migliorare il lavoro. Trotzky usa l'immagine della rivoluzione che rincula per poter balzare meglio e così via. Tutto ciò spiana il terreno, semplifica l'accesso ai temi della rivoluzione e del comunismo, non lo complica affatto, basta saperlo vedere. Che esistano "tragicomiche conquiste" (Marx) ormai superate per noi è evidente e c'è da sperare che sia evidente per tutti un giorno. Non si tratta solo della grande scossa capitalistica imposta dallo stalinismo alla Russia: vi sono frasi di Lenin che, estratte dal contesto "geostorico" come dice la Sinistra, farebbero ridere i polli dal punto di vista della purezza marxista. Ma non si tratta di criticare Lenin né di vagheggiare una purezza antimaterialistica, il trascorrere delle epoche è un fatto, non un'opinione.

Per quanto riguarda la nostra aderenza al testo citato nella domanda ribadiamo che essa è totale. E' uno dei testi che conosciamo quasi a memoria perché ci è servito più volte nella polemica. In pochi punti vi è delineata la dinamica storica che conduce alla situazione attuale e vi si dimostra di conseguenza quale sia la soluzione per uscirne. Tale soluzione non è altro che il proseguimento della dinamica precedente. Si dice, per esempio, che anche il fascismo ha contribuito, in quanto "realizzatore dialettico delle vecchie istanze riformiste", a semplificare la situazione, a sgombrare il campo proletario dal riformismo. Chi fa il riformista oggi è direttamente nel campo "fascista". E il fascismo ha anche contribuito a semplificare il campo sindacale: lo Stato si è impadronito dello strumento per eccellenza della lotta immediata proletaria, cioè il sindacato, fino ad inquadrarlo "nelle articolazioni del potere borghese di classe". Pensiamo ad un De Matté - dovrebbe essere il nome del nuovo capo delle Ferrovie - che accusa il sindacato di aver gestito troppi licenziamenti indiscriminati con la passata direzione. Pensiamo a Cofferati, capo del più potente sindacato italiano, che non sa più cosa fare per rendere "competitivo" il costo del lavoro in Italia, come se fosse il capo dell'ufficio esteri della Confindustria. E Cofferati lo sa che "rendere competitivo" il salario italiano significa confrontarlo con quello di Seul, di Singapore, di Sao Paulo. L'acquisizione del sindacato da parte dei poteri statali sembrerebbe il massimo della sconfitta per il proletariato, perché l'associazionismo di tipo sindacale è "stadio indispensabile per ogni movimento rivoluzionario diretto dal partito comunista" e, caduto nelle mani del nemico, ci è sottratto. Molti a questo punto ne traggono conclusioni logiche ma non dialettiche. La dialettica storica ci insegna, dalla vecchia talpa in poi, che la rivoluzione diventa radicale quando deve vincere un nemico sempre più potente e dal potere sempre più concentrato, quindi la lotta per le associazioni di tipo immediato diventerà l'elemento decisivo della rivoluzione proprio perché adesso esse sono sottratte al proletariato. Come abbiamo già detto, la Polonia insegna.

Ecco perché non è corretto esaltare le difficoltà anche solo dal punto di vista della "complicazione" del quadro capitalistico, compresa la tragedia delle condizioni proletarie attuali. Nel testo citato è scritto a chiare lettere: è normale e previsto che in certi periodi storici i proletari non siano soltanto coloro che hanno da perdere le loro catene ma che siano resi "esitanti ed anche opportunisti al momento della lotta sindacale, dello sciopero e della rivolta". Tutti sanno che Marx non era per nulla tenero con la classe operaia inglese della sua epoca che, in quanto a opportunismo, era già maestra. Eppure oggi è pieno di sedicenti comunisti che rincorrono (o costituiscono addirittura) fantomatici gruppi operai i quali non fanno altro che riprodurre i vecchi luoghi comuni dell'opportunismo più o meno sindacale. Sono tutti pronti a giurare su Lenin, ma non ne imparano mai l'insegnamento principale: i comunisti lavorano per elevare gli operai a livello del partito comunista, mai per abbassare sé stessi al livello degli operai, che è quello, al massimo, tradeunionista.

Veniamo ora all'altra parte della domanda, quella sui gruppi che si richiamano alla Sinistra. Alcuni di noi vengono da quell'ambiente e quindi lo conoscono bene. Altri, i più giovani, non l'hanno mai conosciuto. Non ci siamo mai posti il compito di criticare quei gruppi, che del resto ben raramente si occupano di noi. Abbiamo buoni rapporti con alcuni singoli compagni, ammiriamo la loro tenacia e capacità di resistenza tra mille difficoltà, ma con le organizzazioni in quanto tali non abbiamo nulla a che fare e ci sembra che la cosa sia reciproca. Va bene così.

Noi cerchiamo di non fingere di avere un partito, un'organizzazione e il famigerato "legame con le masse", soprattutto cerchiamo di non prendere per i fondelli nessuno. Noi non lavoriamo... "facendo finta che". Prendiamo dal patrimonio della Sinistra, ma non fingiamo certamente che quella corrente sia ancora viva attraverso i nostri poveri corpiciattoli. La Sinistra è esistita per sessant'anni ma adesso non c'è più, lo si registri una volta per tutte, per favore. Ci siamo posti il problema della dinamica e dell'irreversibilità del divenire comunistico e ne abbiamo fatto un po' il perno del nostro lavoro. Non ce lo siamo inventato, questo problema, ma l'abbiamo preso direttamente da Marx. Siccome riteniamo che Marx abbia anche dato la soluzione, vediamo che alla fine il problema non è un problema. Non sono giochi di parole e proviamo a capirci su questa benedetta dinamica. Nel giro di mezzo secolo ci sono state tre Internazionali, una diversa dall'altra in situazioni completamente diverse. La Sinistra ha insistito su questa diversità collegandola ad una dinamica storica. Per non farla tanto lunga (ne abbiamo parlato in molte delle nostre Lettere) anche le Internazionali dimostrano non tanto tre momenti distinti, discreti, separati, ma la dinamica del divenire del partito unico mondiale.

Questo partito non c'è ancora. Il partito della prossima rivoluzione, dice la Sinistra, non può essere come la Lega dei Comunisti, non può essere come le tre Internazionali fallite, non può essere in nessun modo che ricordi qualche categoria presa in prestito dalla ideologia (democrazia) e dall'organizzazione (centralismo democratico) borghese. Se la borghesia ha potuto fondare i propri partiti sul modello di quelli delle Internazionali, vuol dire che da allora tale modello è per sempre sottratto alla possibilità di adozione da parte comunista. Chiaro?

Il partito come lo intende la Sinistra Comunista è fondato sull'organicità del lavoro e dei rapporti interni, sul flusso a doppia direzione di conoscenza e ordini. I rapporti con l'esterno sono una conseguenza. La sua capacità di dirigere (non fare!) la rivoluzione pure. D'altra parte neppure il partito si "fa" ma si dirige. Nel testo citato si elencano tre condizioni essenziali per la vittoria rivoluzionaria: 1) un ampio proletariato; 2) un grande movimento di organizzazioni immediate; 3) un saldo partito comunista. Queste condizioni devono essere realizzate "ognuna e tutte", perché è solo dalla utile combinazione di esse che può scaturire la vittoria. E di nuovo si riassume la dinamica dalla quale si deduce tale specie di principio. Bordiga ha lavorato tutta la vita per questo obiettivo cercando di saldarlo alla indispensabile organicità del lavoro. Qualcuno potrebbe dire che, visti i risultati, era un obiettivo fasullo, una sua fantasia. Non discutiamo su questa interpretazione.

Ma quel che ci distingue, lo crediamo fermamente, è il fatto che la "fissazione" di Bordiga ha riscontro nelle leggi della natura, ne è una conseguenza, e perciò spazza via ogni altra interpretazione di partito basata invece sull'azione e sulla volontà degli uomini. Non sta neppure a noi spiegarlo, dato che è scritto in tutte le salse nei testi della Sinistra. Forse un ritorno alle origini può chiarire qualcosa a chi volesse, per sfizio suo, comparare il modo di lavorare dei vari gruppetti. Ci sono i testi classici, ci sono quelli attuali, ci sono gli atteggiamenti nel lavoro; faccia il raffronto e ne tragga le conseguenze.

La rivoluzione non è questione di forma

Domanda: Oggi sembra scontato che la forma sindacale classica abbia fatto il suo tempo, lo confermate in questa riunione. Ma quale altra forma è prevedibile possa scaturire da un futuro scontro di classe?

Risposta: E' strano che le domande seguite ad una riunione sul comunismo come forza motrice del prossimo futuro siano scivolate in buona parte verso il tema sindacale, nonostante il richiamo iniziale a non... divagare. Per quanto sia normale l'impulso ad occuparsi del primo ostacolo che si trova sulla via della rivoluzione, dobbiamo rilevare che essa non marcia a tappe e i problemi che pone non si possono separare.

Venendo alla domanda, crediamo che oggi si possa rispondere agevolmente alla prima metà e con molta cautela alla seconda. Che il sindacato sia diventato un elemento della struttura capitalistica è chiaro anche ai più sprovveduti: entrare in una sede sindacale è come entrare in una succursale del ministero del lavoro o comunque in qualche "ufficio pubblico"; ci sono gli sportelli, le code, le scartoffie, i timbri, i funzionari scortesi e le segretarie annoiate. Se ogni nuova forma deve necessariamente passare attraverso l'abbandono o la distruzione della vecchia, come si può cancellare il sindacato attuale per passare a qualche altra manifestazione di attività immediata?

Ogni nuova forma deve passare necessariamente attraverso la distruzione o almeno l'abbandono di quella vecchia. Quest'ultima deve cessare le sue funzioni, ma oggi la cosa più tremenda che ci tocca osservare è che essa si riproduce attraverso coloro che la criticano, che dicono di volerla superare. Ogni sindacatino che nasce non è che la fotocopia di quelli che ci sono e fanno a gara per somigliare a tanti uffici con sportelli, scartoffie ecc. Incominceremo a vedere un cambiamento quando, invece che uffici, vedremo nascere degli strumenti di lotta. Le attuali organizzazioni devono produrre al loro interno le forze distruttrici di sé stesse o essere semplicemente abbandonate a favore di organismi alternativi.

Ma abbiamo visto che gli organismi alternativi non sono quelli nati negli ultimi tempi in reazione alla triplice. Essi devono fare il loro percorso fino alla fine. L'operaio deve rimanere completamente solo di fronte al padrone per sentirsi nella necessità di organizzarsi ex novo o incominciare a distribuire botte da orbi. E i nuovi organismi, non più accecati dalla tradizione delle lotte articolate, degli scioperi a singhiozzo, delle trattative interminabili, della democrazia pestifera tramite rappresentanze fasulle, sapranno utilizzare al meglio sia la potenza della massa in piazza che le meravigliose possibilità di azione disponibili nella civiltà sistemica, possente ma fragile, organizzata ma tendente al caos per un nonnulla.

Ricordiamo le istruttive magagne dei grandi sistemi ben descritte da Roberto Vacca nel suo Medioevo prossimo venturo e immaginiamo che cosa potrebbe fare un ben centralizzato organismo di lotta che indichi ai propri sei milioni di iscritti (è il numero degli iscritti oggi alla Triplice) di accendere contemporaneamente dodici milioni tra forni e scaldabagni. A parte gli scaldabagni, in generale questa società è vissuta per lungo tempo in una relativa pace sociale ed è totalmente vulnerabile a qualsiasi forma di lotta non concordata in anticipo con le "parti sociali".

Sbaglia chi dice che la forma sindacale è morta: è morta la sua vecchia espressione, quella che durò fino all'inizio della fase attuale che risale a una trentina d'anni fa. Non possiamo anticipare le nuove caratteristiche della forma che verrà, ma siamo perfettamente sicuri che nella struttura sistemica della produzione moderna, l'organizzazione proletaria avrà in mano armi devastanti come mai ha avuto nella sua storia.

Roma, 14 giugno 1998

Un nostro volantino in occasione dei bombardamenti anglo-americani sull'Iraq

La guerra del Golfo continua... ma quando è cominciata?

Noi non siamo affatto d'accordo con quanto si va affermando da varie parti sulla strana guerra condotta dagli Stati Uniti contro l'Iraq.

La storia di una "Guerra del Golfo" può essere scritta in diversi modi a seconda degli interessi in gioco, ma dal punto di vista marxista si può tener conto di tali interessi solo per una analisi, non certo per uno schieramento. Nella cronaca di questi giorni si fa normalmente riferimento a due Guerre del Golfo: quella lunghissima e poco ricordata fra Iraq e Iran, e quella che vide la coalizione internazionale attaccare l'Iraq dopo il suo tentativo di annessione del Kuwait; questa in corso sarebbe la terza. Ma la questione non è così semplice, poiché investe tutto il Medio Oriente, ovvero un'area con problemi diversi a seconda dei paesi, ma strettamente connessi e inseparabili.

Dal tempo dell'espansione dell'Egitto Antico fino alle due Guerre Mondiali e al travagliato ultimo dopoguerra, da quasi quattromila anni quel cruciale territorio rappresenta il campo su cui si danno battaglia forze decisive. Se vogliamo andare alla radice materiale degli scontri odierni su quello scacchiere geopolitico, la storia marxista di una Guerra del Golfo deve almeno comprendere la caduta dell'Impero Ottomano, la Prima Guerra Mondiale e le scorribande filo-inglesi delle truppe nazionaliste arabe comandate da Lawrence d'Arabia e, soprattutto, il cambio della guardia tra il colonialismo classico e l'imperialismo americano moderno.

A partire dal periodo a cavallo dei due secoli fino alla Seconda guerra Mondiale, l'antico problema sfociò in un intreccio di scontri fra gli imperialismi coloniali europei su quel territorio, fra questi e l'Impero Ottomano e, in seguito, fra tutti e l'Egitto di Mehemet Alì che, dopo una serie di fulminanti conquiste con uno Stato e un esercito organizzati modernamente alla francese, inglobò un'area immensa, comprendente il Sudan, il Mar Rosso, l'Arabia con i luoghi santi dell'Islam, Creta, spingendosi fino ad occupare e pretendere la Palestina, la Siria e la Giordania. Sarebbe stato un vantaggio immenso per la rivoluzione in quell'area, ma le potenze imperialistiche non permisero l'unificazione di un territorio vasto quasi quanto l'Europa intera. Nell'ultimo mezzo secolo, infine, il tramonto delle potenze coloniali inglese e francese, messe a tacere soprattutto dall'esuberanza economica e militare degli Stati Uniti, ha lasciato a questi ultimi il controllo dell'intero scenario.

Di fatto, però, nonostante l'artificiosissima rete di frontiere tracciate dal vecchio imperialismo e sfruttata al meglio da quello nuovo, le antiche determinanti di guerra non sono scomparse, anzi, si sono acuite a causa di un fattore nuovo di enorme importanza: il petrolio. Questa essenziale fonte di energia, che sta alla base dell'accumulazione capitalistica dei maggiori paesi, esaspera le antiche determinazioni oscillanti fra il separatismo nazionale borghese e l'espansionismo unificatore arabo-islamico. La presenza di almeno quattro paesi importanti (Turchia, Iran, Iraq ed Egitto) come popolazione e storia, tendenti ognuno all'egemonia dell'area, spiega anche le difficoltà di balcanizzazione classica, cioè la difficoltà di assecondare dall'esterno in modo permanente le spinte interne alla divisione.

L'importanza del petrolio è presto dimostrata: il consumo annuale mondiale assomma a circa 15 miliardi di barili di grezzo, concentrato quasi totalmente in pochi paesi ad alta industrializzazione. E' chiaro che in questi paesi ogni variazione, anche solo di un paio di dollari al barile, influisce pesantemente sull'anticipo di capitale per la produzione. Tenendo conto degli effetti moltiplicatori nel processo di distribuzione e raffinazione, si calcola che un aumento del genere possa far diminuire fino a un punto percentuale il prodotto interno lordo di un paese sviluppato e senza petrolio (in assenza ovviamente di contromisure). Inoltre, tramite i prezzi petroliferi, c'è un obiettivo trasferimento di capitali dai paesi senza petrolio (specie da Germania, Giappone, Francia e Italia) verso i paesi petroliferi rentiers, e da questi al sistema finanziario anglo-americano, che ne amministra le rendite. Siccome l'Inghilterra e gli Stati Uniti commercializzano a diversi livelli la quasi totalità del petrolio mondiale tramite gigantesche società, che sono private ma rappresentano interessi strategici nazionali, ecco che il vantaggio di questi due paesi contro lo svantaggio degli altri è una formidabile arma per la concorrenza, specie in un'epoca dove la crescita economica si misura in pochi punti percentuali all'anno.

Ma proprio gli inesorabili meccanismi dell'imperialismo (che è solo capitalismo nella sua forma matura e non qualcosa di diverso) ci obbligano, come comunisti, a distinguerci rispetto agli svariati commenti troppo in sintonia con il trattamento virtuale moderno della guerra vista in televisione. Dobbiamo dunque parlare di petrolio in modo del tutto contro corrente, cioè senza dimenticare che esso è un elemento strategico dell'economia mondiale, ma non è l'unico elemento della situazione, perché la sua importanza si innesca sui fatti sociali che scaturiscono dall'intera storia mediorientale.

La reiterata Guerra del Golfo non è compatibile con la banale e abusata osservazione sugli interessi petroliferi trattati alla stregua di affari tra ladri, o alla stregua di un qualche "diritto" alla proprietà, nazionale o popolare che sia. Non ci possiamo neppure mettere sul piano del diritto borghese e discutere su quale sia l'aggressore o l'aggredito, dato che nella teoria marxista queste categorie morali non esistono. La teoria dell'aggressione per il petrolio, poi, è ancora più risibile. Gli idrocarburi combustibili, come qualsiasi altro prodotto della terra, hanno valore solo in relazione al loro utilizzo. Finché rimangono sotto i magri cespugli brucati dalle pecore dei pastori, essi non valgono niente. Il diritto al loro sfruttamento è il diritto dell'industria, perché la rendita petrolifera, secondo la legge economica marxista, non è altro che plusvalore ripartito nella società, e tale plusvalore nasce solo dallo sfruttamento del lavoro proletario nella produzione.

Il diritto al petrolio e al gas da parte di chi li possiede ma non li usa vale dunque contro il diritto di chi non li possiede ma sviluppa l'industria che li usa. Il semplice possessore li deve alienare in cambio di una quantità di denaro non certo stabilita da lui ma dal mercato. E quando anche il semplice possessore incominciasse un giorno ad usare gas e petrolio per conto suo, minacciando il diritto all'esistenza di chi non ne ha, la questione non cambierebbe di una virgola: quando c'è diritto contro diritto, dicono da sempre i marxisti per demolire lo stesso concetto di diritto, allora entra in gioco la forza.

Quando negli anni '50, in quell'area, il nazionalista imbelle Mossadeq accampò diritti sul sottosuolo iraniano contro le compagnie inglesi, come comunisti non riconoscemmo nessun valore alle sue argomentazioni. Da borghese incongruente mescolava patria, democrazia, libertà di traffici, proprietà del sottosuolo. Non poteva buttar fuori gli inglesi dalla porta per il semplice motivo che sarebbero rientrati dalla finestra: erano loro che compravano il petrolio, e l'Iran non poteva berselo. Reza Pahlavi non raggiunse risultati migliori con gli americani, ma nel frattempo nasceva un'industria locale, una rete di traffici capitalistici che faceva sparire l'antico pastore. E nei paesi limitrofi, specialmente in Iraq e in Egitto, stava succedendo la stessa cosa. L'industria nuova faceva nascere il proletariato locale e non è un caso che le guerre del Medio Oriente moderno siano state tutte anticipate da grandi agitazioni proletarie.

Allora, la guerra non è tanto una questione di ladri di petrolio arabi o americani, di satrapi orientali, di fanatismi religiosi, di imperialismi cattivi, di impulsi aggressivi, di diritti calpestati, di nazionalità oppresse e così via coi luoghi comuni. E' una questione di sviluppo capitalistico locale che innesca sia la concorrenza fra stati che l'intervento armato dell'imperialismo per evitare il sopravvento di uno degli stati stessi, qualunque esso sia, e fare in modo che esso non diventi una potenza regionale insediata sui campi petroliferi. Ma soprattutto è una questione di lotta di classe.

Agli Stati Uniti non sarebbe importato niente se il Kuwait, che oltretutto non è neppure una nazione, fosse stato invaso da quell'altrettanto non-nazione inoffensiva, reazionaria e ben controllata che è l'Arabia Saudita. Ma essi non potevano permettere che i campi petroliferi fossero invasi invece da un paese come l'Iraq, che ha una borghesia vera, intraprendente e feroce né più né meno di quelle che l'hanno preceduta nella storia, in grado di utilizzare il petrolio per l'ulteriore sviluppo e l'ulteriore potenza della nazione. Un miliardo di islamici, coinvolti nel rivoluzionario sviluppo capitalistico, entrarono in sintonia con l'abile parola d'ordine della borghesia irachena: petrolio per il popolo islamico! Le borghesie vicine tremarono nel vedere le piazze dei loro paesi riempirsi di manifestanti. Avevano mille ragioni per spaventarsi, e inviarono le loro truppe.

Gli americani non sono certo stupidi: sanno bene che con la metà delle riserve mondiali di petrolio sotto i piedi, con una unità di razza, lingua, cultura, religione e storia, gli arabi del Medio Oriente sono una bomba che bisogna tener d'occhio giorno dopo giorno senza mai far avvicinare spolette di nessun genere all'esplosivo. E' invece stupida l'accusa di aggressione, perché ogni parte capitalistica in lotta per il suo spazio vitale non può fare diversamente. Il guaio dell'Iraq e degli altri paesi è che lo spazio vitale americano fa il giro del globo. Ma l'attivismo degli Stati Uniti non servirà a nulla: nel lungo periodo, per loro le guerre come quelle del Medio Oriente sono perse.

La strana Santa Alleanza del '91 funzionò perché nessuno poteva permettersi che, dopo il Kuwait, cadessero sotto controllo iracheno altri territori, com'era del resto possibile. Noi stessi auspicammo l'evolversi di una situazione che potesse permettere il crollo del sistema di sicurezza impiantato dall'imperialismo in quella zona. In quanto marxisti, non siamo sospettabili di simpatia per la borghesia, tantomeno quella irachena, ma sarebbe stato un bel colpo contro la reazione mondiale se i luoghi santi dell'Islam fossero caduti nelle mani di un esercito borghese moderno come ai tempi dell'Egitto di Mehemet Alì. E comunque, piuttosto del finale ibrido che fu inflitto a tutta l'area, sarebbe stato preferibile che gli Stati Uniti avessero invaso tutto il territorio, portando sconquasso nelle millenarie immobilità saudite con l'esuberante forza che avevano catapultato in loco e con la micidiale mercificazione con cui si abbattono tutte le barriere reazionarie antiche.

Per questo disprezzammo sia il pacifismo che l'anti-imperialismo di maniera, resuscitato dai tempi dell'antiamericanismo contro la guerra del Vietnam e ormai fuori fase, così come disprezzammo sempre tutte le manifestazioni contro le guerre che non partissero dal presupposto di rovesciare la borghesia in casa propria. E oggi additiamo al disprezzo soprattutto i pacifisti che, come loro storica abitudine, trovano la giustificazione a tutte le guerre della propria borghesia non appena questa fornisca una "spiegazione" qualsiasi.

Prima c'era il Kuwait, poi il pretesto dell'armamento nucleare, adesso quello dell'armamento chimico e biologico. E chi mai oggi ne fa a meno. Queste sono fesserie per i gonzi da televisione. Mentre si sta bombardando il territorio iracheno, con una tecnica che dimostra come si stia procedendo alla demolizione sistematica dell'infrastruttura industriale e delle comunicazioni per bloccare il processo di accumulazione che l'embargo non era riuscito a bloccare, il contesto già dimostra che le cose sono cambiate in questi anni, che le conseguenze delle precedenti guerre sono gravide di sviluppi incontrollabili. No, non è una guerra fra la superpotenza americana e il presunto piccolo dittatore pazzo da sceneggiato televisivo che hanno creato in studio. Non è Saddam l'aggressore. E nemmeno lo Zio Sam. Nuovi paesi avanzano verso i risultati dell'accumulazione capitalistica e il proletariato si ingrandisce. Il capitalismo americano, paradossalmente, ha ragione nel sentirsi aggredito. Lo sviluppo degli altri capitalismi muove forze borghesi nuove contro forze altrettanto borghesi ma vecchie, e ciò è buono per i rivoluzionari comunisti, perché la forza della rivoluzione proletaria si innesca sia sul terreno del capitalismo fresco, aggressivo, che su quello del capitalismo vecchio, che si difende con violenza inaudita.

Perché ormai è chiaro, dalla ritirata di Saigon del 1975, le guerre americane non sono per nulla aggressive, sono guerre di angosciosa difesa. In quanto tali sono terribili e porranno sempre più l'alternativa: guerra generale o rivoluzione.

18 dicembre 1998

Note

(34) Tesi di Napoli, paragrafo 6.

(35) Questa formulazione ricorda un passo di Mircea Eliade in Trattato di storia delle religioni: "Il mito, quale che sia la sua natura, è sempre un precedente e un esempio, non soltanto rispetto alle azioni dell'uomo, ma anche rispetto alla propria condizione; meglio: il mito è un precedente per i modi del reale in generale. (...) Tutta una serie di miti rivela una struttura del reale inaccessibile all'apprendimento empirico-razionalistico dell'uomo arcaico" (Boringhieri, pag. 431).

(36) Riportiamo, sia a proposito di questa frase che della prima citata esperienza della Chiesa sui mali sociali, una bella risposta di Bordiga a Pio XII: "Anche questa è una formula che deve restare, la vita senza senso. Anche i milioni di operai che seguono come gregge le manifestazioni teatrali e regificate delle organizzazioni opportuniste, ma hanno scordato il fremere della guerreggiata, e sorgente di forza propria, lotta di classe, la potenza della contrapposizione radicale a tutte le forme borghesi del programma rivoluzionario nei suoi taglienti profili, e ribalbettano slogan castrati che puzzano di tutte le ideologie di classi nemiche, vivono, rosicchiando qualche offa che si lascia loro perché si imbevano davanti agli schermi di rimasticate maniere borghesi, vivono, i disgraziati, una vita senza senso" (da Sorda ad alti messaggi la civiltà dei quiz, in Programma comunista n. 1 del 1956, ora in Chiesa e fede, individuo e ragione, classe e teoria, ed. Quad. Int.).

(37) Blade Runner, non c'è bisogno di dirlo, è il film di Ridley Scott su di un plumbeo capitalismo futuro; William Gibson è diventato famoso con Neuromante, primo romanzo di una trilogia sugli estremi limiti della tecnica e della degenerazione capitalistica; J. G. Ballard è un autore di fantascienza che descrive in genere situazioni di putrefazione sociale ed ecologica; Il titolo del paragrafo, Lector in fabula, è un saggio di Umberto Eco (ed. Bombiani) sull'interazione fra racconto e lettore, nel senso che quest'ultimo deforma il racconto secondo ciò che ha già in mente. V. Ja Propp, citato nella domanda, è autore di Morfologia della fiaba e di Le radici storiche dei racconti di fate (entrambi ed. Einaudi). Inoltre, il riferimento alla scienza umana raccolta dalla Chiesa e il suo allarme contro l'irrazionalismo, vanno integrati con un cenno alla nuova enciclica papale, uscita nel frattempo (Fides et ratio, ed. Paoline), che si scaglia contro l'irrazionale, l'eclettismo, il pragmatismo, il nichilismo di quest'epoca, rivendica l'unione fra fede (intuito) e raziocinio e condanna persino la falsa risorsa della democrazia come fondamento delle istituzioni sociali.

(38) Gli schemi di riproduzione di Marx sono di per sé dimostrativi della perdita di energia del sistema capitalistico, visualizzando una dinamica esponenziale, infinita, in un mondo finito. Con un ragionamento al limite, la semplificazione dei rapporti capitalistici dimostra per altra via l'esistenza del comunismo come "movimento reale che elimina lo stato di cose presente": Marx rileva che il valore di una merce qualsiasi non è altro che "gelatina di lavoro umano indifferenziato" (Il Capitale, Libro I, ed. Utet pag. 139) e che quindi sia nelle singole sfere di produzione che nella produzione mondiale, il rapporto di valore ha senso soltanto nella misura in cui l'attuale modo di produzione esalta le differenze fra capitalisti, sfere di produzione, salari ecc., cioè la guerra incessante per l'accaparramento del differenziale di valore. Una produzione di valore mondiale e sempre meno differenziata è quindi, in potenza, una negazione del capitalismo, in quanto la scomparsa delle differenze implica la scomparsa della dinamica stessa di questo particolare modo di produzione. Il limite assoluto della produzione ex novo di valore da ripartire nella società, è dato dal valore della giornata lavorativa, ma il plusvalore (profitto, rendita e reddito delle categorie non produttive) è dato dal valore di questa giornata meno il salario. Una diminuzione della massa del salario sembrerebbe quindi equivalente ad un aumento della massa del plusvalore-profitto, senonché tale diminuzione è ottenuta storicamente attraverso l'estorsione di plusvalore relativo, quindi un aumento della composizione organica del Capitale, una diminuzione degli operai e quindi una diminuzione del saggio di profitto. Sarebbe quindi indispensabile, per la sopravvivenza del capitalismo, la continua formazione e distruzione di settori a bassa composizione organica del Capitale, ma se storicamente, anche a causa della livellatrice concorrenza, la tendenza è quella dell'alta composizione organica, come dice Marx, ecco che la globalizzazione del Capitale, la semplificazione delle sue interne strutture, significa anche la sua potenziale rovina (cfr. il capitolo "L'apparenza della concorrenza", Il Capitale, Libro III pag. 1052).

(39) Pressione "razziale del contadiname, pressione classista dei popoli colorati, ora in Fattori di razza e nazione, ed. Quaderni Internazionalisti.

(40) Ora in Fattori di razza e nazione cit.

(41) Cfr. la nostra Lettera ai compagni n. 38, intitolata Padania e dintorni.

Fine

Lettere ai compagni