La prima grande rivoluzione (1)
Il passaggio dalle società comunistiche originarie alle società di classe come immagine speculare della transizione futura

Editoriale

Immersi come siamo nel nostro presente facciamo fatica ad immaginare che vi siano state società civilissime senza proprietà, senza classi e senza Stato. A maggior ragione fanno fatica coloro che non avvertono la necessità di analizzare le transizioni rivoluzionarie da una società all'altra, compresa quella futura, dal capitalismo al comunismo. Con questo numero monografico affrontiamo la prima grande transizione per ricavarne indicazioni riguardo alla seconda che sarà.

La storia non è plasmabile al punto da farla rientrare in grandi sistemi lineari, e anche la storiografia accademica si pone il problema dello sviluppo sociale differenziato per aree ed epoche. La preoccupazione di cadere nel "meccanicismo" ha un fondamento scientifico: i rapporti sociali in tutto il corso della storia umana sono troppo complessi per poter tracciare modelli generali ed astratti senza trovare delle invarianze forti. Ma ciò non significa rinunciare, appunto, ai modelli.

Quando ad esempio un famoso archeologo come Gordon Childe, nel 1942, tenta una grande sintesi e delinea una rottura fra caccia-raccolta e agricoltura definendola "rivoluzione neolitica"; quando aggiunge che vi è un'altra rottura che definisce "rivoluzione urbana" e quando specifica che le due rivoluzioni separano lo stadio selvaggio dalla barbarie e questa dalla civiltà, mette certo in opera un potente schema interpretativo, tra l'altro anticipato da Morgan e ripreso da Marx ed Engels. Ma le nuove scoperte archeologiche hanno fatto arretrare di molto, nel tempo, lo stato selvaggio, mentre la "barbarie" delle società "redistributive", cioè comunistiche, si rivela più persistente del previsto e la "rivoluzione urbana" non è affatto sinonimo di "nascita dello Stato". Il problema consiste nel metodo utilizzato per trarre i modelli dalla realtà: per Marx ed Engels l'invarianza nella storia non si trova nelle sequenze temporali ma nelle forme sociali. Vi sono società coltivatrici rimaste allo stadio selvaggio, come gli Yanomami d'oggi, e vi furono antichissime società urbane senza Stato, come i Vallindi. Detto per inciso, alla luce di variabili e invarianti crolla tutta la teoria "idraulica" per spiegare il "dispotismo asiatico" che, a questo punto, si rivela come un semplice modo di dire esemplificativo.

La sequenza di Childe non è di per sé sbagliata, ma risente di ciò che si diceva all'inizio: siamo influenzati dal presente e tendiamo a vedere la storia dal punto di vista eurocentrico. Quando pensiamo alla nascita dello Stato abbiamo in mente Atene e non ci sfiora il pensiero che, a quell'epoca, la città-Stato greca era un niente in confronto, ad esempio, alla società cinese. Quando pensiamo ad un vasto "impero" abbiamo in mente quello effimero di Alessandro o quello espansivo di Roma, e solo con fatica ricordiamo che c'è stato un plurisecolare e stabilissimo "impero barbarico" mongolo grande quanto l'Asia intera. E ci è difficile immaginare in che modo potesse una società comunistica come quella degli Incas amministrare perfettamente un immenso territorio senza Stato, senza scrittura, senza denaro e persino senza gli strumenti produttivi più semplici come gli animali da soma e la ruota.

Sono proprio le civiltà senza Stato, senza proprietà privata e senza legge del valore che invece ci interessano sommamente. Quelle che esulano dalla visione eurocentrica che eternizza solo il risultato finale — e anche non troppo riuscito dal punto di vista della felicità umana — di un percorso millenario in gran parte comunistico. Quelle che ci dimostrano che è possibile un altissimo livello di armonica organizzazione della società, e che l'archeologia ci mostra meglio di qualsiasi discorso, aprendoci spiragli nell'orizzonte della transizione che stiamo vivendo.

La prima grande rivoluzione

"Quando la proprietà era soltanto un rapporto cosciente con le condizioni di produzione considerate dal singolo come sue proprie, per cui l'esistenza del produttore si presentava nelle condizioni oggettive che gli appartenevano, quest'esistenza si realizzava soltanto attraverso la produzione stessa. Ma è chiaro che tali condizioni si modificarono. Lo scopo di tutte le comunità era la conservazione, ossia la riproduzione degli individui che le costituivano come proprietari, cioè secondo il loro modo oggettivo di esistenza, che costituiva al tempo stesso il rapporto tra di loro e quindi l'intera comunità. Questa riproduzione fu necessariamente nuova produzione e perciò distruzione della vecchia forma. Così la preservazione della vecchia comunità comportò la distruzione delle condizioni sulle quali essa si fondava, e queste si rovesciarono nel loro contrario. Nell'atto della riproduzione sociale mutarono non solo le condizioni oggettive, mutarono anche i produttori".

Marx, Grundrisse, "Forme che precedono la produzione capitalistica", Quaderno quinto. Sottolineature nell'originale.

"L'economia borghese offre la chiave per quelle antiche, ma non nel modo degli economisti i quali dissolvono tutte le differenze storiche e vedono in ogni forma sociale quella borghese. L'ultima forma sociale considera le precedenti come tappe per giungere a sé stessa e poiché la forma moderna non è in grado di criticarsi, allora le concepisce sempre in modo unilaterale".

Marx, Per la critica dell'economia politica, "Introduzione" del 1857.

Come abbiamo visto in Struttura frattale delle rivoluzioni, pubblicato sul numero precedente di questa rivista, la periodizzazione delle forme sociali che si succedono può essere concepita in diversi modi a seconda del contesto in cui si sta operando. Marx ad esempio lavorò anche sull'ipotesi di due sole grandi epoche: la preistoria e la storia dell'uomo. La prima coincide con la società "naturale" nella quale impera la necessità, cioè il caos deterministico e comprende il capitalismo; la seconda coincide con la società umana, cosciente, progettuale, in armonia con la natura, nella quale regna la libertà. Vi sarebbe allora una sola rottura rivoluzionaria: quella al culmine della preistoria umana, cioè quella anticapitalistica. A venire, ma già matura da più di un secolo.

Un'altra periodizzazione, più aderente alle singole forme sociali, è descritta dallo stesso Marx, in Per la critica dell'economia politica, come successione di comunismo primitivo, società self-sustaining o cosiddetta asiatica, società schiavistica antica, feudale, capitalistica, fino al comunismo sviluppato. Le rotture rivoluzionarie sarebbero allora cinque: la rivoluzione neolitica, l'estinzione della forma "asiatica" pura (che però sopravviverà spuria in diverse versioni ed epoche), l'avvento della società cristiano-feudale, la rivoluzione borghese e quella proletaria-comunista.

La nostra corrente aggiunse alle periodizzazioni di Marx, fatte comunque proprie, quella che vede la società umana suddivisa in tre grandi epoche: preistoria comunistica, insieme delle società divise in classi, comunismo sviluppato. In tal caso le rotture rivoluzionarie sono soltanto due: transizione alle società di classe e transizione al comunismo sviluppato. In questo schema il partito comunista non è concepito come partito fra altri partiti ma come rappresentante storico del ponte millenario che collega il comunismo primitivo a quello sviluppato attraverso la parentesi intermedia. Qui ci occuperemo specificamente di una delle due grandi basi su cui poggia l'arcata del ponte, parleremo cioè della prima grande transizione della storia umana, quella dal comunismo primitivo alle società divise in classi.

Va da sé che lo studio di questa prima, grande transizione ci darà indicazioni preziose sui caratteri e le modalità della seconda, che è il passaggio dalle società classiste al comunismo sviluppato. Ogni transizione comporta degli invarianti: tutte sono annunciate da anticipazioni della società che nasce e tutte trasportano in quest'ultima dei residui della società che muore. In ogni caso la nuova società adopera i caratteri di quella vecchia per imporsi e tramutarsi nel suo contrario, come dice Marx nella fondamentale citazione con cui abbiamo aperto questo lavoro e nella quale egli stesso sottolinea i passi salienti. Vedremo quindi come le società protostoriche avessero perfezionato — ieri — gli strumenti di organizzazione che diventeranno Stato nelle società classiste; e come l'ultima società classista porti — oggi — alle estreme conseguenze lo Stato stesso, condizione oltre la quale potrà esserci soltanto un contro-Stato che porterà sé stesso all'estinzione (Marx, Critica al programma di Gotha: l'uomo, prima al servizio dello Stato, sarà in grado di porre lo Stato al proprio servizio, dopo di che lo Stato avrà esaurito ogni sua ragione di esistere). La seconda citazione riportata in apertura è altrettanto fondamentale: come vedremo, è estremamente difficile strapparsi di dosso le categorie borghesi attraverso le quali siamo stati abituati a interpretare le società antiche. Non siamo più in grado di farlo con i contenuti simbolici di un quadro rinascimentale, figuriamoci se sappiamo leggere quelli di un ciclo pittorico rupestre paleolitico. Non abbiamo più neanche il linguaggio necessario. Tuttavia, sulla base delle sole rilevanze archeologiche alla luce della teoria dei modi di produzione (perciò rifiutando il romanzo borghese chiamato per adesso Storia), tenteremo di spezzare il vincolo interpretativo attuale e di mostrare non solo che "la storia delle comunità primitive è ancora tutta da scrivere", ma che "la loro vitalità era incomparabilmente più grande di quella delle società semitiche, greche, romane, ecc. e necessariamente di quella delle moderne società capitalistiche" (Marx ad Engels, dopo avergli raccomandato la lettura di Morgan, 1880). Esattamente, vitalità superiore anche rispetto a quel modo di produzione in cui la forza produttiva sociale ha raggiunto vette incredibili, ponendo le fondamenta per il salto a una nuova comunità, non più primitiva ma sviluppatissima, non più "naturale" ma cosciente: ossia in grado di realizzare quel rovesciamento della prassi che finora ha riguardato solo programmi limitati a oggetti, per quanto grandi come una piramide o un missile lunare, e solo in maniera molto trascurabile l'intera rete sociale. Con ciò riproponiamo anche la nostra critica al primitivismo, che accomuna paradossalmente le sinistrorse utopie New age e le epiche fascisteggianti della Tradizione perduta.

Caratteri invarianti delle transizioni

Nelle prossime pagine cercheremo di mostrare che:

1) se il comunismo è "il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente", la rivoluzione è il movimento materiale incessante, lungo tutta la storia umana, per giungere dal comunismo primitivo al comunismo sviluppato. L'analogia è con la rivoluzione di un pianeta intorno al Sole, poiché tale movimento è punteggiato di eventi sociali acuti, rotture, salti di fase che normalmente vengono chiamati anch'essi "rivoluzione" ma che in realtà sono esiti catastrofici discontinui dovuti ad accumuli continui di potenziale, cui seguono nuovi assetti sociali. Ognuno di questi singoli esiti è diversissimo, ma presenta caratteri invarianti per quanto riguarda il rivolgimento permanente di forme sociali date (movimenti anti-forma), il loro superamento e anche le modalità che gli uomini sono costretti ad adottare.

2) Le categorie dominanti entro la società presente, quali famiglia, proprietà, valore, mercato, profitto, interesse, denaro, azienda, ecc. sono categorie relative ad essa e non hanno corrispondenti neppure nelle passate società di classe, anche quando la denominazione era la stessa. Ma quel che più conta è che la nostra specie ne ha fatto a meno per milioni di anni e ne farà a meno per i milioni a venire.

3) Come tutti i sistemi naturali, la società umana è soggetta a processi evolutivi e degenerativi, in generale a trasformazioni. Se però nei passaggi da uno stadio all'altro ritroviamo le già ricordate invarianze, allora ci sarà possibile applicare criteri scientifici di conoscenza. Senza invarianza sarebbe impensabile non solo capire la dinamica di un sistema complesso ma persino il semplice calcolo dell'area di un triangolo, la cui formula è sempre uguale per gli infiniti possibili triangoli.

4) Quando si cerca una dinamica nel passato dei fenomeni, individuando delle serie o successioni, è quasi sempre per capire che cosa succederà nel futuro. Scientificamente non bisogna escludere a priori nessuna ipotesi realistica, ma l'insieme delle determinazioni ha portato storicamente alla comparsa, a partire da Marx ed Engels, di una teoria dell'evoluzione sociale basata sulle leggi dello sviluppo in natura. È una teoria materialistica del divenire umano e non ha niente di finalistico.

Tratteremo dunque l'unica grande rivoluzione dell'umanità come una giganteca struttura frattale al cui interno, secondo criteri di autosomiglianza, emergono rivoluzioni parziali ed eventi catastrofici ai loro confini. Queste rivoluzioni parziali sono ingrandimenti di parti contenute nell'intera struttura e le assomigliano, come l'intera struttura assomiglia ai suoi particolari. Ai confini di ogni particolare abbiamo sempre situazioni instabili tipiche delle transizioni di fase, cioè il bisogno di nuove rivoluzioni parziali, suscitato dall'impossibilità di mantenere vecchi e parziali equilibri mentre ne emergono di nuovi, a loro volta parziali, quindi transitori. Per una esposizione approfondita della Struttura frattale delle rivoluzioni rimandiamo all'articolo citato, basti qui qualche accenno per agevolare l'accesso ai concetti principali là esposti e affrontare la prima grande transizione che rappresenta il nocciolo del presente lavoro.

Collocazione frattale delle transizioni

A differenza della geometria euclidea, fondata su misure di altezza, larghezza e profondità che non possono cogliere l'essenza di forme complesse, la geometria frattale considera proprio queste forme in quanto tali, tenendo conto della dimensione apparente dovuta alla distanza del punto di osservazione. Se nel mondo euclideo forma e dimensione cambiano a seconda della distanza dell'osservatore dall'oggetto osservato, nel mondo frattale questo effetto si combina con la comparsa di forme simili l'una all'altra a qualsiasi scala. L'irregolarità del mondo reale mostra una regolarità insospettata: un fiocco di neve visto con una lente presenta le stesse regolarità di un suo particolare visto al microscopio; un broccolo nel suo insieme presenta regolarità confrontabili in ogni sua parte; la fogliolina di una felce assomiglia alla felce intera e così via. Tenendo presente queste sintetiche premesse, semplificando al massimo, la grande rivoluzione della nostra specie può essere schematizzata come in figura 1. Il tratto a rappresenta il comunismo primitivo (alcuni milioni di anni); il tratto b rappresenta il periodo delle società classiste (alcune migliaia di anni); il tratto c rappresenta il comunismo sviluppato (altri milioni di anni). Come abbiamo visto in dettaglio nell'articolo citato, da cui peraltro ricaviamo le illustrazioni, il tratto b copre un periodo insignificante rispetto ai tratti a e c; ma quello che più ci interessa adesso è il considerare l'intero tratto b come una transizione fra due tipi di comunismo.

Tripartizione generale della storia umana

Di conseguenza assume importanza enorme la lettura delle ricerche di Marx sulla progressiva perdita di identità (alienazione) del produttore rispetto al suo prodotto e ai suoi mezzi di produzione. Essa è avvenuta nella transizione di fase dal tratto a al tratto b, cioè nel passaggio dalle società comunistiche a quelle classiste, dalla proprietà in quanto sinonimo di caratteristica o qualità di un rapporto uomo-terra, cioè uomo-natura (vedi la citazione di Marx all'inizio), alla comparsa della proprietà privata, delle classi e dello Stato in quanto privazione della precedente proprietà in quanto qualità. Per rendere evidente il passaggio da comunismo a comunismo attraverso la transizione proprietaria classista occorre zoomare la dimensione frattale della tripartizione e mostrare un'altra tripartizione all'interno delle società di classe: b1, b2 e b3, rispettivamente società schiavistica antica, feudalesimo e capitalismo. La qualità comune (invarianza) delle suddivisioni entro l'intero tratto b è la proprietà privata come privazione di una qualità. Non vi sono qualità comuni fra il tratto a e il tratto b o fra quello b e quello c; solo fra a e c l'invarianza è totale, nonostante lo sviluppo intermedio della scienza, della tecnologia e della forza produttiva sociale.

Tripartizione delle società di classe nella tripartizione generale

Soffermiamoci un momento sulla figura 2. A parte l'evidenza dei salti catastrofici dovuti di volta in volta alla liberazione della forza produttiva sociale dalle pastoie di una sovrastruttura diventata freno insopportabile, le due linee separatrici verticali tratteggiate rappresentano un'altra evidenza, cioè le due grandi transizioni entro la tripartizione generale, una avvenuta, l'altra a venire. Il nostro scopo è quello di ricavare indicazioni dalla prima grande transizione per prevedere i caratteri della seconda, e di conseguenza verificare se la teoria soggiacente, da Marx in poi, ha dato risposte scientificamente razionali rispetto al divenire, o se non ha fatto altro che affiancare alla irrazionale corrente pratica immediatista una teoria politica fra le tante.

Da questo punto di vista ci aiuta un'altra invarianza (il lettore attento avrà già notato la potenza degli schemi rispetto all'affabulazione politicantesca): le illustrazioni sono le stesse dell'articolo sulla struttura frattale delle rivoluzioni, ma è notevole il collegamento con gli schemi utilizzati in altri lavori della nostra corrente. Ad esempio il tratto b con la tripartizione delle società di classe è del tutto analogo a uno schema elaborato dalla Sinistra Comunista nel 1951, e l'intera grande ripartizione è riconducibile a uno schema, quello dell'arco millenario citato, tratteggiato dalla stessa Sinistra nel 1965 (pubblicati entrambi in Partito e classe, 1972 e In difesa del programma comunista, 1970). C'è dunque perfetta continuità e corrispondenza nonostante l'utilizzo in contesti assai diversi.

Transizioni di fase e sovrapposizioni

Storicamente, l'abbiamo visto, le variazioni sono continue e le soluzioni sociali discontinue. Tuttavia la discontinuità segna solo il passaggio catastrofico da una forma sociale all'altra, mentre la continuità del cambiamento evolutivo provoca la sovrapposizione degli ambienti sociali. Ad esempio, entro la tripartizione b delle società classiste vi è certamente passaggio sfumato tra la forma schiavistica e quella feudale con il venir meno della funzione dello schiavo già nel V secolo, mentre la forma germanica trasformava i resti dell'impero, opera poi completata dai Longobardi. E vi è anche sovrapposizione nel passaggio tra la forma feudale e quella capitalistica, dato che esse convissero per secoli fino al compimento dell'accumulazione primaria e alla rottura definitiva rappresentata dalle contemporanee rivoluzioni americana e francese.

Sovrapposizione delle grandi forme sociali

Le sovrapposizioni si possono raffigurare in diversi modi. In figura 3 abbiamo utilizzato un semplice schema di insiemi scurendo le parti sovrapposte. Nel caso specifico — passaggio dal comunismo primitivo a quello sviluppato — la sovrapposizione di sinistra indica la transizione alla proprietà privata e allo Stato ("rivoluzione neolitica" e proto-urbanizzazione), quella di destra la transizione "al suo contrario", secondo le parole di Marx (emergenza del partito rivoluzionario e dittatura del proletariato). In entrambi i casi abbiamo la presenza contemporanea di forme sopravvissute ma in via di estinzione e di forme anticipate che annunciano la società nuova.

Un unico schema di sovrapposizione per le fasi di tre insiemi

In figura 4 abbiamo un unico diagramma per mostrare fasi diverse. Esso può riproporre la già vista grande tripartizione storica comunismo-proprietà-comunismo, la tripartizione intermedia di classe, o quella del comunismo primitivo. In questo diagramma è però evidenziata nel tempo (asse orizzontale) la sopravvivenza delle antiche forme entro quelle nuove e la nascita di quelle nuove entro quelle antiche mentre procede l'ascesa della forza produttiva sociale (asse verticale). Alla frattura netta verticale nel passaggio di fase del diagramma precedente (figura 2, tratto b) abbiamo sostituito i classici andamenti dei sistemi biologici ed economici: inizio con andamento esponenziale, punto di flesso, proseguimento asintotico fino all'avvento della società nuova che affonda le proprie radici già in quella antica. Questa sostituzione grafica è utile per evidenziare come il passaggio da una forma sociale a quella successiva avvenga sempre con una rottura rivoluzionaria provocata dallo spezzarsi dell'equilibrio della vecchia forma ad opera della nuova che ha incominciato a svilupparsi al suo interno (il processo che Lenin paragona all'involucro non più corrispondente al suo contenuto). Diciamo di passaggio, per il lettore esigente, che il diagramma della figura 4 è un ibrido fra la classica rappresentazione cartesiana e uno schema di fasi, non essendo quantificabile il valore (sull'asse verticale) della forza produttiva della società, dato prettamente qualitativo.

A partire dal grande oggetto frattale di figura 1 possiamo zoomare sul tratto a del comunismo primitivo per analizzare i suoi sottoinsiemi o fasi rivoluzionarie. E, come nella figura 4, possiamo del tutto legittimamente cambiare le denominazioni dei singoli tratti a una figura identica. Ad esempio il tratto a1 rappresenterebbe una comunità tribale (caccia e raccolta); il tratto a2 una comunità proto-urbana (agricoltura); il tratto a3 una comunità urbana proto-statale (ceramica e metallurgia). Ma allo stesso titolo potremmo operare una suddivisione ulteriore del tratto a1 fra — poniamo — industria litica, industria ossea e industria lignea, dato che grosso modo queste definizioni si adattano a fasi di livello inferiore.

Autosomiglianza fra grande curva storica e curve parziali delle forme sociali

Con la figura 5 sovrapponiamo sia i balzi da una fase (forma sociale) all'altra, sia le curve di evoluzione continua entro le fasi, sia la grande curva storica verso l'equilibrio della società futura. In uno schema così semplificato c'è ovviamente poca aderenza alla "molteplicità del reale": vi furono civiltà antichissime già urbane ma ancora pre-ceramiche e pre-metallurgiche (Caral, III millennio a.C.), e vi furono civiltà più recenti non ancora urbane ma già metallurgiche (Benin, fino al XVIII secolo d.C.). Di fatto, però, è proprio l'estrema astrazione che ci permette di individuare all'interno delle transizioni l'invarianza che andiamo cercando. Avremo comunque il modo di abbassare il livello di astrazione per analizzare da vicino modelli concreti scelti fra quelli di una realtà ricchissima e diversificata.

Processo di umanizzazione attraverso il lavoro

L'inizio e la durata del tratto a1 è tuttora oggetto di studi e ipotesi. È certo che i primi strumenti litici sicuramente artefatti risalgono a 3 o 4 milioni di anni fa, ma non vi sono tracce così antiche di organizzazione sociale. Alcuni paleoantropologi sostengono di aver trovato in Africa le prove di attività sociale riguardo allo stanziamento, ai manufatti e al trattamento del cibo risalenti almeno a due milioni di anni fa. Dunque prima della formazione del genere Homo, per un paio di milioni di anni, i discendenti dei primati, ancora allo stadio di australopitechi evoluti, ad andatura eretta, erano già capaci di utilizzare strumenti prodotti e non semplicemente raccolti.

Quasi due milioni di anni fa, a quanto sembra, questi ominidi vivevano in capanne (ciò è certo in almeno due siti, in Tanzania e in Etiopia) ed erano sicuramente dediti ad attività produttive non immediate. Infatti sono stati trovati insediamenti con abbondanti resti di animali macellati e di strumentazione primitiva accumulata e non gettata dopo l'uso (Olduvai, Africa, chopper, ciottoli di fiume, con relative schegge asportate), la qual cosa riconduce alla fabbricazione, all'uso e alla conservazione di utensili in relazione ai pasti. Ma dal nostro punto di vista è ancora più importante il ritrovamento di accampamenti con strati di chopper e schegge, di cui alcune ritoccate, senza resti di macellazione (Valle dell'Omo, Africa). Una parte di questi utensili presentava tracce di usura sui taglienti, segno che erano stati utilizzati in loco per produrre qualcosa. Il fatto che il suolo presentasse un grande ammassamento di pietre scheggiate miste a pietre vergini evidentemente trasportate da altri luoghi, fa supporre una produzione sia di attrezzi che di altri oggetti (di legno? di pelle? di fibra?) per un uso differito. In due siti, uno in Tanzania e l'altro in Algeria, sono stati trovati utensili dello stesso periodo, di uso sconosciuto, a forma approssimativamente sferica (bolas), ricavati con la tecnica della picchiettatura, la cui particolare abbondanza, non collegabile ad alcuna attività riscontrata in loco, fa pensare a una produzione e distribuzione di utensili, una specie di "fabbrica" ancestrale.

Sassi scheggiati o bifacciali più evoluti (chopping tools) si accompagnano sempre a schegge-utensile usate come raschiatoi, bulini, coltelli. L'ambiguità nucleo-scheggia o matrice-strumento (qual è lo strumento e qual è lo scarto?) si riproporrà centinaia di migliaia di anni dopo, a partire da circa 700.000 anni fa fino agli eleganti bifacciali del tardo paleolitico. In alcuni (rari) siti africani risalenti a 1,5 milioni di anni fa, oltre alla strumentazione e ai resti di animali macellati, sono stati trovati anche resti umani e, in uno di essi, ossa di ominidi a stadio diverso di evoluzione anche se contemporanei; cosa che ha fatto supporre una relazione fra l'attività produttiva e l'emergenza violenta di un tipo di ominide sull'altro, meno attrezzato dal punto di vista di detta attività. Un po' come sarebbe successo con la convivenza, molto più tardi, tra il neandertaliano e il nostro diretto antenato cro-magnon, oggi classificati sapiens entrambi.

Per noi che colleghiamo il comportamento sociale della nostra specie all'inizio della produzione e riproduzione materiale, gli strati archeologici in quanto tali presentano un estremo interesse perché lasciano poco spazio alle elucubrazioni ideologiche. Essi provano che l'evoluzione è avvenuta anche per mezzo del lavoro svolto in comunità abbastanza stabili. L'esistenza nella savana di insediamenti che risalgono a due milioni di anni fa, con capanne connesse all'industria litica è la prima prova certa di attività sociale e collettiva. La tendenza alla formazione di società tribali che producono e distribuiscono è dunque più antica di quanto si supponesse non troppi anni or sono. E se fossero confermate le ipotesi sull'uso del fuoco da parte degli ominidi di 1,5 milioni di anni fa (un solo ritrovamento in Kenya per una data così antica) avremmo un orizzonte sociale e produttivo molto avanzato già prima della comparsa del genere Homo. Quando nel neolitico, un paio di milioni di anni dopo l'età del chopper africano, nacquero i primi agglomerati proto-urbani con case, laboratori e magazzini comuni, gli uomini non fecero che utilizzare e portare alle estreme conseguenze una lunga tradizione di condizioni produttive abbinate a embrioni di divisione tecnica e sociale del lavoro in ambiente completamente comunistico.

La parte del tratto a1 in cui compare la nostra specie, che si è data il nome poco modesto di Homo sapiens sapiens, è già caratterizzata fin dal suo inizio da un'industria litica e ossea molto raffinata, con sicure corrispondenze in quella di materiali più deperibili e quindi non giunti fino a noi. Resti di capanne e ripari attrezzati sotto roccia lasciano intuire l'organizzazione in villaggi, mentre le inumazioni, singole e a volte multiple, mostrano l'esistenza di rituali complessi con l'uso di materiali non facilmente reperibili, come i coloranti. Dunque uomini già come noi in tutto e per tutto, che si dedicavano ancora alla caccia e alla raccolta, avevano una struttura sociale che comportava forme di culto affiancate ai manifesti segni di produzione collettiva. Le rappresentazioni simboliche oggi classificate come "arte", dalle "veneri" di pietra o di osso alle pitture rupestri, sono esteticamente stupefacenti ai nostri occhi. L'epoca che stiamo considerando è durata qualche decina di migliaia di anni e al suo inizio era sicuramente ancora sulla scena anche il ramo neandertaliano del genere Homo. Difficile stabilire il termine di a1 e l'inizio di a2, soprattutto a causa dei differenti gradi di sviluppo nelle varie aree geostoriche; ma, accogliendo i dati archeologici per quelle di più antico sviluppo, sul nostro grafico possiamo stabilire il passaggio a circa 10.000 anni fa, corrispondenti alla comparsa dell'agricoltura e dell'allevamento in Medio Oriente e nella Valle del'Indo.

La nostra specie e il suo divenire

Il tratto a1 si perde ovviamente nella proverbiale notte dei tempi. In Africa, dov'è nato, l'uomo si trova a confronto con una fauna ben più attrezzata di lui nella lotta per l'esistenza. La sua costituzione fisica, il tempo di gestazione della prole, l'intrinseca debolezza rispetto agli animali della sua taglia lo pongono nella necessità di sopperire alla forza con alcuni espedienti tecnici e sociali, semplicemente per non finire mangiato. Naturalmente vi è un effetto di retroazione, dato che l'aumento di questi espedienti tecnici e sociali attutisce il bisogno di attrezzatura corporea. Così, in una continua interazione con l'ambiente, l'uomo si libera man mano della sua essenza "naturale" o, meglio, assume una nuova natura evolvendosi. In tal modo si muove lentamente verso quel rovesciamento della prassi che gli permetterà di interagire in modo massiccio con l'ambiente modificando sempre più la natura stessa e, nello stesso tempo, il proprio modo di essere, soprattutto sociale. Tale processo sfocia nella necessità della produzione per la propria riproduzione, e da questo momento l'evoluzione tecnico-sociale assume un'accelerazione formidabile, che l'evoluzione biologica non riesce ovviamente a seguire, dato che necessita di milioni di anni.

A Marx non interessò analizzare il processo facendo ricorso a una periodizzazione storiografica positivista, che oltre tutto si sarebbe tradotta in molteplici storiografie, una per ogni differenziato ambito geostorico; impedendo, tanto per fare un esempio, di trovare invarianze fondamentali fra gli antichi Egizi d'Africa, gli Incas d'America o i Vallindi d'Asia, società a migliaia di chilometri e di anni l'una dall'altra. A Marx interessò dimostrare il progressivo liberarsi dell'uomo dalla sua "proprietà" originaria, intesa come usufrutto comune dell'ambiente da parte del nucleo sociale via via in evoluzione. La sua periodizzazione fu dunque una cronologia astratta che invece del calendario utilizzò lo sviluppo delle diverse forme sociali. Nelle Forme che precedono la produzione capitalistica vi è dunque una "cronologia" speciale atta a porre indietro di millenni anche forme attuali, che in realtà non precedono affatto il capitalismo ma gli sono contemporanee. Marx partì dagli albori della umanizzazione dell'uomo attraverso la produzione soprattutto per studiare il divenire del Capitale, per capire la completa parabola di quest'ultimo, quella che lo condurrà (lo sta conducendo) alla completa autonomizzazione e quindi alla nuova transizione.

Con Engels, nell'Ideologia tedesca, egli delineò, contro il filosofare della frase, cioè a suon di concetti figliati dal pensiero, il processo materiale della produzione e riproduzione degli uomini. I quali hanno bisogno di mangiare, bere, abitare, vestirsi, riscaldarsi, viaggiare, ecc. Per fare ciò, al di là delle altissime pensate, essi devono prima di tutto produrre gli strumenti all'uopo necessari, strumenti che a loro volta sono prodotti come mezzi di produzione. La storia è dunque, molto semplicemente, storia della produzione materiale della vita e soprattutto del modo di produrre di una comunità umana, grande o piccola che sia, ovunque sia e in qualunque tempo viva rispetto al suddetto calendario.

Abbiamo visto che le origini coprono un periodo evolutivo non ancora ben chiarito, nel quale i vari passaggi, dall'australopiteco all'uomo attuale, presentano lacune imponenti. Tuttavia le evidenze archeologiche ci mostrano una notevole invarianza di "industrie" trovate, a partire dall'Africa, nei luoghi più lontani tra loro. E ciò vale per ogni aspetto della produzione materiale, delle tipologie d'insediamento, delle ritualità nel consumare cibo e presumibilmente per la genesi del linguaggio. Sembra davvero straordinario il fatto che dall'Africa alla Cina, dall'Europa all'America, l'uomo sia passato attraverso le stesse manifestazioni produttive in epoche diversissime, come se determinazioni fortissime l'avessero obbligato a passare dal chopper all'amigdala, dal propulsore di giavellotto all'arco e alla fionda, a dipingere quasi ovunque figure sulla roccia, a seppellire i morti con ornamenti e oggetti d'uso quotidiano, a procurarsi vegetali con la semplice raccolta e carne con la caccia organizzata, a barattare materie prime con i vicini, come attestano, ovunque, le qualità della selce, dell'ossidiana e dell'ocra, nonché delle conchiglie e altri oggetti che attestano provenienze lontane rispetto ai luoghi di ritrovamento.

La produzione di strumenti è abbondante fin dai periodi più antichi, la caccia e la raccolta procurano cibo più che a sufficienza, il tempo a disposizione è quello che serve per vivere, senza distinzione, ovviamente, fra tempo di lavoro e tempo libero; per centinaia di migliaia di anni si può parlare esclusivamente di produzione per la riproduzione della comunità. Tuttavia, nonostante i lunghissimi tempi, la produzione e le tecniche si affinano e con esse incomincia a cambiare la società in un processo analogo in tutto il mondo. Ai citati oggetti da caccia e da guerra come il propulsore da giavellotto, il boomerang, la fionda e l'arco si affiancano altri oggetti che completano la produzione per soddisfare bisogni quotidiani utilizzando materiali nuovi come coloranti e fibre vegetali intrecciate, pietre, ossi e conchiglie per ornamenti, dei quali cresce l'uso mentre avviene la separazione fra il linguaggio "analogico", cioè non articolato e prevalentemente gestuale, qualitativo, e il linguaggio "digitale", cioè parlato, nozionale, quantitativo (cioè la differenza tra un sorriso e la parola "sorriso"). Si fa strada, infine, la prima divisione sociale del lavoro oltre a quella di origine fisiologica tra maschi e femmine. Insomma, la preistoria umana non fu per nulla somigliante a quell'oleografia che ancora rappresenta scimmioni nudi e pelosi intenti a rozze attività sullo sfondo di caverne.

Tutta la storia della nostra specie si fonda sullo sviluppo delle forze produttive, dei rapporti di proprietà e delle sovrastrutture sociali e ideologiche derivate. Si tratta di elementi concatenati, che ovviamente interagiscono tra di loro, per cui allo sviluppo dell'uno segue lo sviluppo o perlomeno la modificazione dell'altro. Questo concatenarsi stabilisce il grado di maturità di una struttura sociale entro la "cronologia astratta" di cui abbiamo parlato, e quindi anche del grado di vitalità dei gruppi sociali in evoluzione verso la formazione delle classi e infine dello Stato.

Ricerche paleontologiche hanno rivelato che le amigdale paleolitiche non erano semplici attrezzi ma strumenti di una qualche forma di linguaggio, la cui fabbricazione incideva sulla produzione del linguaggio stesso anche attraverso lo sviluppo di aree del cervello dedicate. Allo stesso modo, come già intuì Engels, le grandi costruzioni monumentali, incomprensibili per l'uomo borghese, potrebbero essere state, come l'amigdala, uno strumento per sviluppare linguaggio e cervello sociali. Tutte le società umane hanno subìto un'evoluzione analoga a quella dell'amigdala-linguaggio. Leroi-Gourhan nel descrivere l'industria paleolitica scrive:

"Al culmine della sua evoluzione, l'amigdala è diventata una mandorla di selce, spessa ma ben equilibrata, il cui profilo in sezione mostra una asimmetria derivante dalle due serie di gesti usati per la preparazione iniziale. Se si asportano pezzi lunghi partendo dalle estremità si ottiene il distacco di schegge di forma regolare, utilizzate esse stesse come coltelli. A questo punto, l'amigdala diventa materia prima per le schegge; cessa quindi di essere un utensile su nucleo per diventare nucleo. L'asimmetria nello spessore si accentua e via via esso si trasforma in una massa da cui ricavare schegge di forma predeterminata. Si verifica una evoluzione per assestamento, e durante un periodo di circa centomila anni, il nucleo stereotipato consente l'estrazione di tre o quattro tipi di schegge, ovali, oblunghe, triangolari" (Il gesto e la parola).

Dal nucleo si ricava lo strumento che in quanto tale diventa esso stesso nucleo da cui trarre strumenti. A parte l'evidente richiamo alla dimensione frattale, il riferimento immediato è alla citazione di Marx posta all'inizio di questo articolo, che vale la pena riprendere:

"La preservazione della vecchia comunità comportò la distruzione delle condizioni sulle quali essa si fondava e queste si rovesciarono nel loro contrario. Nell'atto della riproduzione sociale mutarono non solo le condizioni oggettive, mutarono anche i produttori".

Il nucleo diventa strumento e viceversa. Ognuno "il suo contrario". Dal punto di vista scientifico non vi è nulla che si oppone all'individuazione di questa invarianza oggettiva, che Engels avrebbe volentieri adoperato come esempio nel suo Dialettica della natura. Di fronte all'uomo paleolitico che tiene in una mano un informe pezzo di selce, nell'altra un percussore di osso e in testa il risultato che vuole ottenere, noi vediamo l'amigdala in quanto strumento da liberare dalla massa di pietra (nucleo), la stessa amigdala che, estratta dalla pietra, diventa prima nucleo e poi di nuovo strumento dopo aver prodotto schegge-coltelli. Tripla negazione della negazione. A costo di evocare un ragionamento michelangiolesco ante litteram, affermiamo che il preteso scimmione paleolitico, oltre a essere un fine conoscitore della natura, era anche progettista: come Michelangelo vedeva l'opera finita emergere dalla materia marmorea, egli vedeva l'amigdala e tutte le sue conseguenze entro la materia silicea e nel suo cervello era stampato il programma per ottenerla insieme alle schegge-coltelli. Forma unica e plurima, linguaggio condiviso da tutti gli uomini per centomila anni.

Verso l'aumento della complessità sociale

Oggi 694 milioni di uomini stanno usando Internet, cioè si stanno evolvendo con "amigdale" complesse come i computer, molto più interattivi di un pezzo di selce, collegati in una immensa rete neuronica artificiale. Si sta sviluppando un linguaggio planetario, di cui non siamo ancora consapevoli ma che certo non impiegherà un milione di anni per consolidarsi e centomila per perfezionarsi nella dialettica nucleo-strumento-nucleo. È evidente che tale sviluppo della forza produttiva sociale e del cervello comune conseguente è gravido di conseguenze. L'unità di misura temporale non è più 104 anni ma qualche generazione. E uno studio che sia appena un pochino slegato dall'accademia borghese rivela il potenziale rivoluzionario della transizione che matura. Potrebbe sembrare assurdo, visionario, il mettere a confronto le antichissime comunità di villaggio con la società contemporanea, che è un sistema complesso di relazioni più tra capitali che tra uomini. Ma la natura sociale dell'uomo non è cambiata di molto. La spinta alla rete comune di relazioni è intrinseca al paleantropo come all'uomo odierno. Questo essere "difettevole" non può che ricorrere alla produzione sociale, collettiva, cooperativa.

Abbiamo visto che la comparsa dell'uomo odierno, circa 30.000 anni fa, risale grosso modo all'ultimo tratto di a1 del nostro frattale di orientamento. Siccome il rapporto individuo-società varia in funzione dell'evoluzione delle strutture tecnico-economiche, ecco che lo sviluppo delle tecniche consente al corpo sociale di aumentare l'approvvigionamento di cibo e di conseguenza comporta l'aumento della popolazione (densità sul territorio). La prima conseguenza è stata probabilmente la migrazione, fatto reale dimostrato sia dai reperti archeologici che dall'analisi del Dna umano. La seconda è stato l'utilizzo razionale e intensivo delle risorse in uno stesso territorio per mezzo delle tecniche produttive. In questo secondo processo si innesca lo sviluppo sempre più complesso dei sistemi sociali e l'ineluttabilità del succedersi delle rispettive forme, fino a configurare un'evoluzione di tipo biologico delle infrastrutture (urbanesimo, comunicazione, trasporto, ecc.) e della sovrastruttura (gerarchia, ideologia, controllo):

"Bisognerebbe tentare una vera e propria biologia della tecnica, considerare il corpo sociale come un essere indipendente dal corpo zoologico, animato dall'uomo ma atto ad accumulare una tale somma di effetti imprevedibili che la sua struttura intima supera di molto i mezzi di apprendimento degli individui. Questo smisurato corpo sociale è il risultato di una evoluzione graduale paragonabile e sincronizzabile con quella del cervello." (Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola).

È nel corso di questa evoluzione che avvengono separazioni multiple. L'uomo si separa apparentemente dalla natura (apparentemente, perché in realtà è la natura che agisce con l'uomo che ne fa parte); si separa dai suoi mezzi di produzione (prima fra tutti la terra); si separa dall'ambiente artificiale che egli stesso ha costruito e che adesso si evolve autonomamente in modo molto più veloce che non l'organismo biologico; si separa dal proprio prodotto, perché poco per volta si amplia la contraddizione fra produzione sociale e appropriazione privata.

Il processo è lento ma non si ferma mai, anche se intere comunità scompaiono e i loro resti rimangono sepolti per millenni. L'aggregazione degli individui in comunità sempre più numerose produce la forma urbana che è prefigurata dai villaggi stabili con abitazioni raggruppate, infrastrutture e spesso fortificazioni. L'evoluzione tecno-economica dell'Homo sapiens sapiens che viveva organizzato in comunità di villaggio non ancora del tutto stanziali, costrette a spostarsi periodicamente, ora riguarda una comunità che si fissa su di un territorio, il quale, essendo sempre lo stesso, accumula strutture, infrastrutture, conoscenza e nuovi rapporti fra gli individui. Il gruppo primitivo mobile si spostava secondo il ritmo con cui si presentavano le risorse, sfruttava il territorio entro un determinato ciclo e ne ricominciava uno nuovo altrove. Ciò implicava un'identità del gruppo umano con vasti territori percorsi periodicamente e quindi conosciuti, sui quali venivano a fissarsi rotte di migrazione o semplice transumanza dietro ai branchi o alle mandrie di animali da cibo.

Ora, una volta che la comunità è fissata in un luogo, è necessario che essa "antropizzi" il territorio circostante stimolando tecniche, processi e capacità di programmazione della propria esistenza. Si stabilisce quindi un rapporto più o meno equilibrato fra la massa alimentare prodotta dal territorio, la sua superficie e il numero degli individui che lo abitano. Ogni variazione dall'equilibrio, che sia surplus o carenza, viene compensata da movimenti di scambio attraverso i percorsi segnati nei secoli o millenni precedenti, diventati piste, carovaniere o, più tardi, strade. La "densità alimentare" interviene infatti come fattore immediatamente limitativo del numero dei consumatori, dato che la superficie territoriale è data, quindi l'antropizzazione è un fenomeno a retroazione positiva, si amplifica man mano che procede, fino a incontrare limiti fisici. Di qui lo sviluppo precocissimo della guerra tra le comunità stanziali o fra queste e le comunità ancora mobili; ma soprattutto la comunità sviluppa il bisogno di conoscere sé stessa e le proprie risorse in rapporto al territorio e alle altre comunità, di darsi insomma centralizzazione, controllo e capacità di previsione.

Così l'intreccio delle relazioni sociali, che in origine è strettamente collegato al rapporto territorio-cibo ed è fondato solo sulla differenza fisiologica tra maschio e femmina, si evolve soprattutto grazie allo sviluppo produttivo. Fra i primati, e quindi presumibilmente fra i nostri antenati australopitechi più antichi, la ricerca del cibo è individuale e non presenta tracce di specializzazione sessuale. Anche fra gli animali carnivori, maschi e femmine si dedicano in egual misura alla caccia e, anzi, presso alcune specie come il leone, sono le femmine che, nella caccia in branco, uccidono la preda spaventata dai ruggiti dei maschi. Nel processo di ominazione, invece, i rapporti tecnico-economici dell'uomo e della donna si fanno man mano strettamente complementari, specialistici, fino a prefigurare la divisione tecnica e sociale del lavoro che diventerà la caratteristica peculiare delle civiltà, a partire da quelle proto-urbane del tardo neolitico. In tutti i gruppi umani "primitivi" studiati dagli antropologi è presente questa caratteristica anche se, per cause contingenti, possono verificarsi delle "deroghe", e tutti i componenti di una comunità si dedicano in pari modo al raggiungimento dell'obbiettivo. Quindi caccia e raccolta come divisione del lavoro fra i sessi, ma con eccezioni che l'evolversi della produzione e della complessità sociale tendono a vanificare o rafforzare a seconda del modo di produzione; fino a configurare, non solo nella nostra epoca, una "questione femminile".

Nel suo Origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, Engels riassume le conoscenze dell'epoca e annota che quando la densità di popolazione è mediamente molto bassa ma le singole comunità sono concentrate sul territorio dove risiedono più o meno stabilmente, si formano del tutto naturalmente gruppi umani composti anche di centinaia di individui, per lo più uniti da legami di parentela. Quindi l'amministrazione della vita sociale è ancora di tipo comunistico naturale, garantita dall'isolamento, dato che il territorio immediatamente circostante è riserva di cibo cacciato e raccolto, mentre quello più lontano è la terra di nessuno che separa le varie comunità. Ma ben presto sui percorsi usati per la caccia e la raccolta avvengono anche scambi di oggetti e di individui fino a che in alcuni luoghi, forse dove i percorsi s'intrecciano, vengono lasciati segni, memorizzati passaggi, auspicati eventi, come nelle grotte "affrescate" o più tardi nei sistemi megalitici come a Stonehenge.

Per decine di millenni il formarsi di una rete di relazioni, di insediamenti, di scambi e di percorsi che si intersecano in nodi condivisi, non riesce a intaccare l'essere comune (Gemeinwesen) che fa della tribù un organismo vivente esteso. E non sarà cancellato del tutto il ricordo del comunismo neppure quando la complessità sociale produrrà delle comunità-metropoli vastissime, le cui stratificazioni sociali si manifesteranno con forme urbane differenziate e monumenti autocelebrativi delle proto-classi. Addirittura questo ricordo persiste ancora oggi, coincidendo meravigliosamente con anticipazioni del comunismo futuro.

La divisione tecnica del lavoro non basta a demolire l'essere comune originario e quindi può essere considerata un parametro invariante della storia umana attraverso ogni stadio frattale dei nostri schemi. Anzi, la differenza di capacità individuali è esaltata da Marx: se in quanto individui aggiogati al Capitale ci scambiamo denaro, nessuno di noi ha qualcosa in più, a meno di non variare la quantità, mentre se ci scambiamo la nostra differente conoscenza e capacità di lavoro in quanto individui umani, ognuno di noi avrà sia la propria che quella dell'altro (cfr. Appunti su Mill, 1843). Quando nelle prime grandi civiltà storiche, come ad esempio quella egizia, la divisione tecnica si abbinerà alla divisione sociale del lavoro, non vi sarà subito una vera e propria divisione in classi, perché gli individui potranno liberamente muoversi verso l'alto e verso il basso entro la scala sociale, e rimarrà prevalente la funzione del proprio operato piuttosto che la posizione della propria persona. Un movimento possibile solo se la società intera conserva il ricordo di quella precedente, dove vi erano solo funzioni entro la comunità e non gerarchie che ne inquadrassero i membri.

Abbiamo visto che lungo tutto il paleolitico (da 2 milioni a 10.000 anni fa) troviamo insediamenti che provano un'attività produttiva sociale e una primordiale divisione tecnica del lavoro. Vi sono depositi d'industria litica come se vi fossero luoghi dedicati alla produzione in serie di utensili. In alcuni siti a cielo aperto dei deserti nordafricani ci s'imbatte in quantità altrimenti inspiegabili di manufatti scheggiati e raggruppati. Gli specialisti riescono a distinguere le tipologie degli utensili anche quando sono assai simili, e con ciò provano che se gli uomini si muovono verso i materiali (depositi di selce ecc) a maggior ragione i materiali muovono al seguito degli uomini. Infatti il gruppo primitivo elementare non è concepibile perpetuamente isolato se non in casi eccezionali, come certe migrazioni marittime senza ritorno, verso isole. Di regola, ogni gruppo si integra in un quadro più ampio, composto da parecchi altri gruppi con i quali pratica scambi su diversi piani, a partire da quello tra persone di sesso diverso. È sicuramente praticato il dono, e il baratto riguarda per lo più le eccedenze reciproche. Insomma, la preistoria comunistica umana è molto meno primitiva di quanto si immagini normalmente. Nella comunità di villaggio, dove non vi sono mestieri, specializzazione, divisione sociale del lavoro, classi e valore, vige per milioni di anni il principio, oggi di ostica digestione, "da ognuno secondo le proprie possibilità, a ognuno secondo i propri bisogni". All'apice di questo percorso esplode la prima grande transizione. Con l'agricoltura e l'allevamento si incomincia a produrre surplus, si fa più evidente la divisione tecnica del lavoro, compare l'autonomizzazione delle funzioni, s'intensifica lo scambio in maniera mai vista prima e si impone il bisogno di amministrazione e controllo della produzione sociale. I rapporti comunistici non scompaiono, anzi, servono da trampolino per la nuova forma la quale, ad un certo punto, "si trasforma nel contrario" di quella precedente. Quel "certo punto" arriva molto tardi, e il principio comunistico della società "redistributiva" non viene subito cancellato.

Forme comunistiche non più "primitive"

Alla fine del paleolitico inizia la cosiddetta rivoluzione neolitica, che comporta una enorme accelerazione storica rispetto al periodo precedente. Il comunismo originario tende a conservarsi pur attraverso la sua "progressiva negazione", e ciò è dimostrato dai reperti archeologici riguardanti le prime organizzazioni proto-urbane. Siamo nel tratto a2 del nostro frattale sulle forme che precedono le società proprietarie di classe. Il salto è notevolissimo e rivoluzionario: le sparute comunità semi-nomadi di villaggio si trasformano in federazioni e leghe di comunità, ognuna insediata in aree fortemente antropizzate, con abitazioni per le famiglie, luoghi di utilizzo comune, magazzini per l'ammasso del prodotto, edifici che in mancanza d'altra spiegazione oggi vengono chiamati "di culto". Il passaggio da a1 ad a2 è fatto risalire all'affermarsi delle tecniche agricole e a quelle di addomesticamento degli animali. In tale contesto c'è chi teorizza sia avvenuta anche l'auto-domesticazione dell'uomo, fatto che sarebbe all'origine della progressiva disumanizzazione della nostra specie (Marx non è di questo avviso: nei Manoscritti del 1844 afferma che la vera antropologia dell'uomo è l'industria moderna). Ad ogni modo le modalità di questo processo sono ampiamente discusse e le varie teorie su di esso risentono, com'è ovvio, degli effetti dovuti all'ideologia dominante contemporanea (o al tentativo a-scientifico di contestarla). Le ricerche archeologiche e quelle antropologiche presso le popolazioni sopravvissute di cacciatori-raccoglitori, hanno comunque modificato le precedenti concezioni sugli sviluppi economici che hanno originato l'agricoltura e l'allevamento come reazioni a ristrettezze alimentari. In particolare è saltata la concezione del paleolitico visto come un'era di animalesca e costante ricerca di cibo da parte di sotto-uomini incalzati dallo spettro della fame, costretti a contendere alle belve le carcasse delle prede. È invece dimostrato che sia l'ominide che l'uomo paleolitico se la cavavano benissimo, lavoravano poco, mangiavano a sazietà, tanto da avanzare abbondanti resti sui quali si gettavano iene, sciacalli e lupi (di qui, per alcuni, la domesticazione del cane).

Il sorgere di agglomerati proto-urbani non cancella affatto i rapporti comunistici né eleva una barriera fra "città e campagna", anzi, si instaurano rapporti di reciprocità fra cacciatori-raccoglitori e agricoltori urbanizzati. Essi si scambiano alimenti e manufatti, come nella situazione paradigmatica di Caral, area dell'interno peruviano fittamente antropizzata e terrazzata a orti irrigati, dove vi era uno scambio di prodotti agricoli "cittadini" con cacciagione e pescato delle comunità "primitive" della costa (neolitico pre-ceramico locale, prima metà del III millennio a.C., vedi n. 9 di questa rivista). Anche a Mehrgarh, un sito neolitico nella Valle dell'Indo abitato dall'VIII al III millennio a.C., la popolazione si sedentarizza mantenendo caccia e raccolta mentre si sviluppa l'agricoltura. Una simile organicità di rapporti la troviamo in Asia, Medio Oriente ed Egitto, prima che vicendevoli invasioni e guerre preannunciassero altre forme sociali. La comparazione tra realtà lontane non è certo condotta dagli archeologi con i nostri presupposti ma, nonostante tutto, nel loro lavoro si scorgono importanti segni della vitalità del comunismo, che a questo punto non sarebbe nemmeno corretto aggettivare come "primitivo".

Le modalità locali della transizione rivoluzionaria, peraltro riguardanti periodi storici e geografici anche molto lontani tra loro, sono diversissime, ma comportano anche qui alcune invarianze. Nel neolitico si passa dalle comunità più o meno isolate a federazioni di tribù con necropoli e "centri cultuali" comuni, ad aggregazione di tribù residenti in villaggi non troppo distanti, fino alle prime forme urbane attestate abbondantemente dall'archeologia recente (quella classica era più che altro attratta da reperti eclatanti, monumenti e soprattutto tesori), disciplina che, va detto, proprio con le ricerche sulla preistoria ha fatto un salto qualitativo enorme, classificandosi, per quanto possibile oggi, come uno dei rami della conoscenza umana più completi e interdisciplinari (va da sé che all'interno della disciplina c'è chi si occupa solo di denti, di pollini, di ceramiche o di coproliti).

Tratto a2 della figura 5, ulteriormente ripartito

Nel nostro approccio alla "frattalizzazione" della storia, possiamo ora sottoporre all'operazione il tratto a2 per ottenere la figura 6. Il citato esempio di Caral dimostra la sovrapposizione tra il neolitico e la civiltà proto-urbana in un ambiente generale che è ancora quello della preistoria d'America. In tali contesti il materiale emerso dagli scavi è variamente interpretato in base alle convinzioni personali degli archeologi che dirigono i lavori, ma una attenta lettura dei dati nudi e crudi e della documentazione fotografica ci permette di superare questo ostacolo soggettivo. Nel caso specifico avevamo visto che nel contesto preistorico di Caral la missione archeologica attribuiva a quella società caratteri spiccati di classe, fino a configurare una sorta di Stato, mentre in contesti più recenti di due millenni (Chavìn) o addirittura di quattro millenni (Incas) altre missioni archeologiche ammettevano l'esistenza di una forma sociale ancora comunistica.

È chiaro che la definizione delle forme sociali è un problema non facilmente risolvibile sia a causa della sovrapposizione di fasi evolutive delle differenti società, sia a causa dell'enorme differenza spazio-temporale che separa società che differenti non sono. Tra il sorgere della civiltà di Caral e la scomparsa di quella degli Incas passano quattromila anni entro la stessa area geografica, mentre — poniamo — la civiltà dell'antico Egitto e quella della valle dell'Indo sono contemporanee ma in continenti diversi. Tuttavia, nonostante le difficoltà di definizione e classificazione, è possibile unificare le diverse società proto-urbane ancora comunistiche sotto il segno di alcuni fondamentali invarianti:

1) la mancanza di proprietà privata, di scambio contro valore e perciò di ogni forma di denaro;

2) l'unità fra il produttore, il proprio mezzo di lavoro, la terra (l'ambiente) e la propria organizzazione sociale;

3) l'ammasso di tutto il prodotto e la mancanza o la redistribuzione del surplus (oppure la sua dissoluzione in offerte, doni o lavori comunitari);

4) la divisione tecnica del lavoro che, per quanto caratterizzata (contadini, funzionari, sacerdoti, guerrieri o autorità centrali), non è ancora completa divisione sociale;

5) la conseguente stratificazione sociale per funzioni e non per ceti o classi, con elevata mobilità tra le funzioni stesse.

Tali caratteri evoluti del comunismo originario si manterranno, a volte per millenni, fino a diventare forme quasi irriconoscibili e spesso degenerate, come quelle ad esempio che sono state definite impropriamente "asiatiche", sopravvissute fino alla nostra epoca. Rimandiamo lo studio di queste particolari forme a lavori in corso di prossima pubblicazione, ricordando, tra l'altro, che esse furono utilizzate da Marx per comprendere il lungo travaglio della nascente società capitalistica, distruttrice dell'antico essere sociale (Grundrisse, Formen). Qui ci interessa soprattutto mostrare con esempi come, nel succedersi frattale delle forme, persista quella comunistica e, anzi, come sia proprio essa stessa ad essere utilizzata dalle nuove forme per uccidere quelle antiche. Da ciò ne trarremo la conclusione che il processo dovrà continuare fino a che la forma comunistica sviluppata non ucciderà quella capitalistica, chiudendo il ciclo delle società di classe.

Rivista n. 27